Verona, Cattedrale - Progetto Culturale

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Verona, Cattedrale
1 settembre 2006
Novena: “Madonna del Popolo”
Tema: “Benedetto il frutto del tuo grembo”
Saluto con filiale devozione il Vescovo, Padre Flavio Roberto Carraro, maestro
e testimone nella fede del Signore Gesù Cristo Risorto e guida della santa Chiesa che
vive in Verona.
Desidero anche esprimere al carissimo Mons. Antonio Finardi, parroco
intelligente e raffinato di questa Cattedrale, un sentimento di profondo apprezzamento
per l’indovinata iniziativa di rendere protagonisti, durante i giorni la Novena della
Madonna del Popolo, gli Sportivi veronesi, affidando loro una serata di “gala” nel
segno della fede nel “Benedetto frutto del grembo”, Gesù Cristo “speranza del mondo”,
riconosciuto, contemplato e amato nella prospettiva della preparazione spirituale del IV
Convegno Ecclesiale Nazionale di Verona (16-20 ottobre 2006).
La singolarità dell’odierna celebrazione sta nel fatto che rivela come gli
“sportivi” non siano estranei alla vita della Chiesa, quasi fossero ai margini di un
“mondo” che non sentono proprio, ma vivano, intensamente partecipi e spiritualmente
coinvolti, la loro appartenenza alla Chiesa e sono grati di essere stati qui convocati a
rendere omaggio alla Vergine Maria, Madonna del Popolo.
1. Per una speranza viva
L’incipit della Prima lettera di Pietro pone al centro della scena storica il
disegno salvifico di “Dio e Padre del Signore nostro Gesù Cristo”. Pietro proclama, con
un afflato di pura fede e di intenso stupore spirituale, la sublimità di Dio “benedetto” e
insieme la sua mirabile paternità rispetto al Figlio Gesù Cristo. La parola che trabocca
dal cuore di Pietro diventa una vera confessione di fede, colma di lode e di sconfinata
ammirazione.
L’apostolo espone le ragioni di così grande “benedizione”. Esse consistono nel
fatto che i cristiani sono stati generati, a motivo e a causa della resurrezione di Gesù, ad
una nuova vita, inimmaginabile dalla mente umana, che li trasfigura nella vita stessa di
Dio.
Questa vita che è stata loro donata non appartiene tuttavia a questo mondo. Non
è la promessa di una particolare longevità; non è la prospettiva di un successo
economico o di carriera luminosa; non riguarda ciò che sogna comunemente l’uomo
terreno. E’ il dono di una vita che oltrepassa i confini dell’orizzonte sperimentale e
sensibile. E’ la condivisione della stessa vita divina.
Nella sua lettera l’apostolo dunque mira a bene altro. Apre gli occhi dei suoi
interlocutori alla conoscenza e alla consapevolezza del mistero centrale della salvezza,
che a loro è stata offerta e trasmessa: cioè sul fatto di essere stati oggetto amoroso della
“misericordia” di Dio, quale potente e creatrice azione di Dio. Non si tratta dunque di
un semplice atto di benevolenza da parte di Dio, ma della manifestazione nel Figlio
della sua arcana volontà, quella di comunicare la propria vita, sottraendo la vita umana
alla distruzione della morte.
Tale evento si presenta tanto impensabile e strepitoso alla considerazione umana
da essere solo e unicamente dono di un Dio che, carico di un amore strabocchevole per
l’umanità, lo ha reso possibile mediante l’esperienza della resurrezione dai morti da
parte di Gesù Cristo. Così ciò che sembrava impossibile diventa possibile; ciò che
sembrava un sogno illusorio diventa realtà; ciò che sembrava elocubrazione fantasiosa
diventa fatto costatabile e appetibile.
L’apostolo pare estasiato di fronte a questo evento e, con insospettata sicurezza,
scrive a conforto dei cristiani come in Dio la decisione della salvezza è presa, anzi è
attuata proprio in forza dell’obbedienza sacrificale del Figlio e dell’evento della
resurrezione, totalmente e definitivamente vincente sul vincolo implacabile e
inesorabile della morte. Con la resurrezione del Figlio, la parola decisiva di Dio crea
una situazione radicalmente nuova: l’uomo in Gesù diventa lui stesso vincitore della
morte, operando su di lui la potenza liberatrice di Dio.
Su questo prodigioso e meraviglioso evento si fonda la parola di “speranza”
cristiana. Una “speranza viva” la chiama l’apostolo. Cioè non deperibile nella
corruzione della morte, non destinata al fallimento come le parole di speranza umana,
ma alla sopravvivenza dell’essere umano vivente per sempre, perché radicata e fondata
sul “Vivente”, fonte e principio di vita eterna. Il Cristo vivente è dunque la nostra
speranza viva. Perciò siamo destinati ad una “speranza viva”, perché rigenerati, ricreati,
dal Signore della vita.
Il distintivo indistruttibile di questa “speranza” è che essa non viene sottoposta
alla vanità, alla volubilità, alla caducità, al finire delle cose umane; non viene negata
dalla paura, che tanto ci prende. E’ Dio stesso che si impegna, con tutta la potenza del
suo amore, ad essere per noi fedeltà e sicurezza, stabilità e rigore, costituendosi
“custode” irreprensibile della nostra vita.
A noi è richiesta la sola condizione della fede. Ed è, in ultima istanza, proprio la
fede che sostiene e certifica la speranza, nel modo che fede e speranza si richiamano a
vicenda, condizionandosi reciprocamente al fine di ammettere l’uomo nell’evento della
salvezza, prossima a venire. In noi la speranza è viva perché la fede è viva!
2. Dio è fedele. Il disegno di salvezza si adempie
Come Dio sia fedele al suo disegno di salvezza per noi, è di nuovo visibile nella
fede di autentici testimoni che il brano del Vangelo proclamato ci presenta. La Chiesa
chiama il piccolo evento, narrato dal Vangelo dell’infanzia di Luca (cc. 1-2), “mistero
della Visitazione” (cfr. Lc 1,39-45).
Protagoniste sulla scena, composta non casualmente “in regione montana”,
appaiono due donne, due madri, Maria e Elisabetta. Entrambe sono sconosciute
dall’opinione pubblica importante, entrambe sono definite “piene di Spirito Santo”,
entrambe sono state scelte a svolgere un ruolo nella storia della salvezza, del tutto
imprevisto e del tutto meraviglioso.
Esse appartengono al popolo dei poveri, dei servi di Jahvé. Quel popolo umile e
indifeso “che basa la sua fiducia solo in Dio e non sulla forza dell’uomo, sull’orgoglio e
la presunzione, sull’idolo del denaro” (cfr. Gianfranco Ravasi, Videro il Bambino e sua
Madre, ed. Ancora, Milano, 1984, p. 89), quel popolo che sa leggere negli eventi il
segno della potenza amorosa di Dio che guida al compimento del suo destino storico,
quel popolo che mai dispera anche se colpito da prove cocenti, mai si abbatte anche se
sottoposto a calamità e avversità di ogni genere.
E’ il popolo fedele, che cerca Dio con cuore sincero. Depositario dei segreti di
Dio, conosce le modalità del suo comunicarsi e del suo essere presente e compartecipe
delle vicende umane. E’ il popolo dell’alleanza, istruito da Dio attraverso i profeti e a
lui sottomesso nell’obbedienza della parola e nella fiducia della sua misericordia.
Maria viene da lontano, dalle regioni della “Galilea delle genti” (cfr. Mt 4,15).
E’ portatrice intrepida e insieme timorosa dell’annuncio celeste, annuncio
sconvolgente, quello di essere stata scelta di diventare “madre” del Messia. Una
motivazione segreta e misteriosa la porta verso Elisabetta, un’anziana parente, l’altra
donna in attesa di un altrettanto evento segreto e misterioso.
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Nell’incontro in casa di Elisabetta, la giovane e l’anziana si scoprono nel loro
essere scelte da un disegno arcano, si riconoscono oggetto e soggetto dell’amore di Dio,
si intendono nel profondo di sé, come donne, attraverso un “sensorio” eletto, il
“grembo”, abitato da una presenza vitale, carnale, eppure colma di Spirito Santo.
Così la “visitazione attua l’incontro tra il Precursore del Messia e la Madre del
Messia” (cfr. ivi, p. 87) in una casa di poveri, di semplici, di timorati di Dio, dove la
trascendenza sublime di Dio abbraccia l’immanenza umile dell’uomo, perché Dio
disperde il superbo ed esalta l’umile (cfr. Lc 1,51-52), perché Dio accoglie il grido del
disperato e confonde l’arroganza del gaudente.
Tocca ad Elisabetta dare voce all’evento. La sua bocca proclama la
“benedizione” di Maria e del “frutto del suo grembo”. La parola di Elisabetta si fa
rivelazione, anzi “celebrazione e riconoscimento dell’azione di Dio nei poveri e negli
umili” (cfr. ivi, p. 90). Così Elisabetta pone in primo piano la maternità divina di Maria,
tessendo la lode al Cristo veniente e la fede di lei nel disegno sovrano di Dio.
Così la figura di Maria irradia una luce rivelante sul mistero di salvezza,
portando in sé la salvezza. In ragione del suo essere “Madre del Signore”, Maria è la
nuova arca dell’alleanza, cioè il segno sacramentale della presenza fedele, definitiva e
salvifica di Dio nella storia dell’uomo.
Al riguardo, straordinariamente efficace appare una preghiera K. Rahner:
«Vergine santa, vera madre del Verbo eterno venuto nella nostra carne e nel
nostro destino, donna che hai accolto nella tua fede e nel tuo seno benedetto la
nostra universale salvezza, Madre di tutti i redenti, sempre vivente nella vita di Dio,
vicina a noi perché chi è unito a Dio è anche più vicino a noi.
Esprimendo la riconoscenza dei redenti noi celebriamo l’eterna misericordia di
Dio che ti ha redenta. In un istante eterno la tua parola è stata la parola
dell’umanità e il tuo sì, l’amen di tutta la creazione che ha risposto al sì senza
pentimenti di Dio.
In te, Vergine santa che stavi ai piedi della croce del Redentore, l’umanità
redenta, la Chiesa, stava ai piedi della croce del mondo e accoglieva il frutto della
redenzione e della salvezza eterna.
Mostraci colui che è stato consacrato nella grazia da te ricevuta, Gesù il frutto
benedetto del tuo seno, mostraci Gesù ieri, oggi e nell’eternità».
Elisabetta prosegue il suo “cantico” proclamando la “beatitudine” fondamentale
di Maria: “Beata colei che ha creduto all’adempimento delle parole del Signore” (v.
45). Maria è qui la figura tipologica del credente nella Parola del Signore. In un certo
senso si potrebbe dire che se la benedizione dell’inizio (v. 42) esalta la maternità fisica
di Maria, ora la beatitudine esalta la sua maternità spirituale. Il concepimento del bimbo
Gesù è opera dello Spirito Santo e quindi va compreso e accolto nella fede. E’ la
caratteristica della figura di Maria, quella di essere colei che “ascolta la parola di Dio e
la mette in pratica” (Lc 8,21), (cfr. ivi, pp. 91-92).
3. Per uno sport rigenerato
La parola della Lettera di Pietro e il vangelo della Visitazione interpellano anche
l’uomo di sport, sia come atleta che come dirigente, nella sua condizione di “uomo
sportivo”.
Ci domandiamo: Qual’è il senso di questo appello? Come lo sport viene ad
essere chiamato in causa da una parola così “alta” e apparentemente così “lontana”
dalla pratica sportiva? Lo sport ha bisogno di una “salvezza”, di una “speranza”, di una
“visitazione”? Vediamo insieme alcune considerazioni plausibili, tese a rispondere agli
interrogativi posti.
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3.1. Lo sport ha bisogno di “salvezza”. Benedetto XVI, nella lettera (29
novembre 2005) inviata al Card. Severino Poletto in occasione delle Olimpiadi
Invernali Torino 2006, scrive:
“Per i cristiani, il riferimento alla luce rimanda al Verbo incarnato, luce del
mondo che illumina l’uomo in ogni sua dimensione, compresa quella sportiva. Non
vi è nulla di umano, eccetto il peccato, che il Figlio di Dio, incarnandosi, non abbia
valorizzato. Egli ‘ha lavorato con mani d’uomo, ha pensato con mente d’uomo, ha
agito con volontà d’uomo, ha amato con cuore d’uomo’, come, quarant’anni or
sono, ricordava pure il Concilio Vaticano II nella Gaudium et spes (n. 22). Tra le
varie attività umane vi è quella sportiva, che attende, anch’essa, di essere
illuminata da Dio, mediante Cristo, perché i valori che esprime siano purificati ed
elevati sia a livello individuale che collettivo”.
Anche lo sport rivela in sè un profondo anelito alla rigenerazione, alla salvezza.
Come atto umano, anche lo sport subisce il dramma del limite, della debolezza, del
male. E’ continuamente attraversato dalla tentazione, dal porsi contro l’uomo, contro
Dio stesso, se diventa idolo, simulacro di falsi valori, luogo delle illusioni e miraggio
ingannevole. Perciò la parola di salvezza investe lo sport, lo abilita ad essere idoneo
all’incremento e alla perfezione della persona, nello sviluppo integrale della sua intima
e inscindibile unità di corpo, anima e spirito.
Se lo sport non manifesta la bellezza, pura e semplice, della persona significa
che veicola aspetti negativi e tendenzialmente induce situazioni precarie e fuorvianti
rispetto al suo fine. La bellezza dello sport consiste nella rivelazione della potenza che
Dio ha impresso, con atto creatore, nella persona: è la stessa bellezza di Dio che rifulge
nel gesto sportivo, gratuito, fascinoso e geniale. E’ necessario tenere alta la coscienza
della bellezza nello sport perché si elevi il grado di spiritualità, di eticità, di trasparenza.
3.2. Lo sport ha bisogno di “speranza”. La forza della “speranza viva”
attraversa tutta intera la pratica e la vita sportiva, come di un’energia positiva e
gagliarda, capace di rappresentare la tensione al meglio, di sostenere ogni allenamento,
di combattere ogni deviazione possibile, di ridare fiducia e volontà di ripresa, di
incoraggiare attività educative e solidali.
Lo sport può e deve generare speranza in quanto infonde nei giovani un
profondo senso di successo e di riuscita attraverso la disciplina e il sacrificio, la volontà
di poter ribaltare condizioni di subalternità e di disagio attraverso lo sforzo teso a far
emergere il meglio di se stessi, la parte positiva che risiede in ogni giovane, anche
diversamente abile o sfortunato nella vita.
Così la speranza nello sport sviluppa la vita. Ogni vita è dono prezioso e non
negoziabile rispetto ad una prospettiva di successo, ottenuto mediante somministrazioni
farmacologiche estranaturali, mediante inganni e furbizie surrettizie, mediante
scorciatoie che offendono la lealtà, il confronto rispettoso dei valori sportivi. Se la
speranza viva, muore nelle bruttezze dell’illecito, lo sport esce sconfitto e mortifica la
persona: diventa un obbrobrio, una vergogna insopportabile. Non si uccide lo sport,
espropriandolo di una necessaria etica che regola imprescindibilmente la sua pratica.
3.3. Lo sport ha bisogno di una “visitazione”. Il salmo 8 canta la sovranità di
Dio e l’umile grandezza dell’uomo. Non vi è attività umana che riveli Dio e l’uomo
nella loro sublimità e nella loro sperimentabilità: proprio il gesto sportivo, sintesi della
genialità di Dio e dell’uomo, esprime simbolicamente un’intrinseca dipendenza
dell’uomo nei riguardi di Dio e manifesta come si possa visibilmente cogliere il
rapporto tra Dio e la sua splendida immagine riflessa nell’uomo.
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Il brano evangelico della visitazione insegna come Dio attua il suo progetto di
salvezza mediante circostanze e persone ben disposte ad attuarlo, nella semplicità e
nell’obbedienza, nella gioia e nel servizio, secondo un dinamismo misterioso che
muove le persone ad incontrarsi, a comunicare, a riconoscere i segni della presenza di
Dio.
In tal senso lo sport diventa una metafora rivelativa di un progetto di Dio per il
bene dell’uomo, quello di renderlo partecipe di una vicenda di perfezione, di
umanizzazione, di rivelazione. Lo sport come metafora della vita, è un’intuizione di
Paolo VI. Essa si presenta molto incisiva per comprendere il valore educativo e
antropologico dello sport, la sua funzione elevante e culturale, il suo essere fattore di
unità e fraternità, componente della vita civile e universale.
Conclusione
L’acclamazione di fede di Elisabetta “Benedetto il frutto del tuo grembo” ci
invita a fissare continuamente lo sguardo su Gesù, fonte di speranza e principio di vita.
Anche noi lo “benediciamo” come ci insegna l’apostolo Pietro e dalla confessione di
fede riprendiamo il nostro cammino, sotto la stella di Maria.
Mons. Carlo Mazza
Direttore Ufficio Nazionale CEI per la
Pastorale del tempo libero, turismo e sport
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