L’epistola fittizia come genere letterario • 1527, Giovanni Antonio Tagliente, Componimento di parlamenti e Opera amorosa, che insegna a componer lettere e a rispondere a persone d’amor ferite • 1539, Niccolò Franco, Il Petrarchista [Ercole Giovannini, Li due petrarchisti, 1623] • 1547-1556, Andrea Calmo, Lettere I-IV • 1574, Francesco Sansovino, Lettere amorose di diversi uomini illustri Ludovico Dolce • 1557, Dialogo della pittura, intitolato l’Aretino Interlocutori: Pietro Aretino e Giovan Francesco Fabrini L. Dolce, Dialogo della pittura, 1557 «Il pittore è intento a imitar per via di linee e di colori, o sia in un piano di tavola o di muro o di tela, tutto quello che si dimostra all’occhio. […] Ma gli occhi sono principalmente le fenestre dell’animo [Cic. Tusc. disp. 1,46] et in questi può il pittore isprimere acconciamente ogni passione: come l’allegrezze, il dolore, l’ire, le teme, le speranze et i desideri». Cfr. Petr. R.v.f., 76, v. 11: «e ’l cor negli occhi e ne la fronte ho scritto»; 222, vv. 12-14: «Ma spesso ne la fronte il cor si legge: / sì vedemmo oscurar l’alta bellezza, / e tutti rugiadosi li occhi suoi». Raffaello, Ritratto di giovane (Pietro Bembo?), Budapest, Fine Arts Museum, 1503 c. L. Dolce, Dialogo della pittura, 1557 (II) Dico che nell’uomo nasce generalmente il giudicio dalla pratica e dalla esperienza delle cose. E non essendo alcuna cosa più famigliare e domestica all’uomo, di quello ch’è l’uomo, ne seguita che ciascun uomo sia atto a far giudicio di quello che egli vede ogni giorno, cioè della bellezza e della bruttezza di qualunque uomo; perciòche, non procedendo la bellezza da altro, che da una convenevole proporzione che comunemente ha il corpo umano, e particolarmente tra sé ogni membro, et il contrario derivando da sproporzione: essendo il giudicio sottoposto all’occhio, chi è colui che non conosca il bello dal brutto? Niunio per certo, se non è in tutto privo d’occhi e d’intelletto. L. Dolce, Dialogo della pittura, 1557 (III) Tenete pur fermo che in tutti è posto naturalmente un certo gusto del bene e del male, e così del bello e del brutto, in modo ch’e’ lo conoscono; e si trovano molti che, senza lettere, giudicano rettamente sopra i poemi e le altre cose scritte: anzi, la moltitudine è quella che dà comunemente il grido e la riputazione a poeti, ad oratori, a comici, a musici et anco, e molto più a pittori. Onde fu detto da Cicerone [De orat. III 197; Orator 183] che, essendo così gran differenza dai dotti agl’ignoranti, era pochissima nel giudicare. L. Dolce, Dialogo della pittura, 1557 (IV) Deve adunque il pittore procacciar non solo d’imitar, ma di superar la natura. Dico superar la natura in una parte; ché nel resto è miracoloso, non pur se vi arriva, ma quando vi si avvicina. Questo è in dimostrar col mezzo dell’arte in un corpo solo tutta quella perfezzion di bellezza che la natura non suol dimostrare a pena in mille; perché non si trova un corpo umano così perfettamente bello, che non gli manchi alcuna parte. Onde abbiamo l’esempio di Zeusi, che, avendo a dipingere Elena nel tempio de’ Crotoniati, elesse di vedere ignude cinque fanciulle, e, togliendo quelle parti di bello dall’una, che mancavano all’altra, ridusse la sua Elena a tanta perfezzione, che ancora ne resta viva la fama. Il che può anco servire per ammonizione alla temerità di coloro che fanno tutte le lor cose di pratica. A. Condivi, Vita di Michelangelo (1553) Egli non solamente ha amata la bellezza humana, ma universamente ogni cosa bella, un bel cavallo, un bel cane, un bel paese, una bella pianta, una bella montagna, una bella selva, et ogni sito et cosa bella et rara nel suo genere, ammirandole con maraviglioso affetto, così il bello dalla natura scegliendo, come l’api raccolgano il mel da’ fiori, servendosene poi nelle sue opere. Il che sempre han fatto tutti quelli, che nella pittura hanno havuto qualche grido. Quel anticho Maestro per far una Venere, non si contentò di vedere una sola vergine, che ne volse contemplare molte, et prendendo da ciaschuna la più bella et più compita parte, servirsene nella sua Venere. Et invero chi si pensa, senza questa via (con la qual si può acquistar quella vera teorica) pervenire in quest’arte a qualche grado, di gran lunga s’inganna. L. Dolce su Michelangelo, nella lettera a Gasparo Ballini: «Tutte le figure ch’egli fa sono grandi, terribili e spaventose» Michelangelo Buonarroti, Sibilla cumana, Cappella Sistina, affreschi della volta, 1508-12 L. Dolce, Lettera a Gasparo Ballini, 1559 Intorno alle proporzioni de’ corpi (in che consiste tutto il sommo dell’arte) Rafaello ha sempre usato una cotale temperatezza, che niuna cosa vi si desidera; percioché egli non pecca in troppa sveltezza, né d’altra parte sono le sue figure nane, né grosse, né troppo carnose; così non hanno del secco, né del meschino; e, che è principal lode del dipintore, in tutte si vede diligenza et amore come di padre. Tutto è bene inteso, tutto ben considerato, e si gira per li suoi termini. Non dipingeva a caso, o per pratica, ma sempre con molto studio; et aveva due fini, l’uno d’imitar la bella maniera delle statue antiche, e l’altro di contender con la natura, in modo che, veggendo le cose dal vivo, dava loro più bella forma, ricercando nelle sue opere una perfezzione intera che non si truova nel vivo; perciòche la natura non porge a un corpo solo tutte le sue bellezze, e mendicarle in molti è difficile, ridurle poi insieme in una figura, che non discordino, è quasi del tutto impossibile. Il che è da credere che facesse anticamente Fidia, Apelle e gli altri famosi; e ne abbiamo in più luoghi il testimonio di Cicerone [De inv. II 1, 1]. E se Zeusi nel formar della sua Elena si ebbe a servire delle cinque fanciulle, chi dubita ch’egli non v’aggiungesse molte parti d’eccellenza che in quelle non si trovavano?