Voglio fare volontariato: un dono, una delega, un bisogno, una

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VOLONTARIATO, PERCHÉ ?
«Il fare è cieco senza il sapere e il sapere è sterile senza l'amore.»
(BENEDETTO XVI, Caritas in Veritate, n.
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In questa conversazione, adottando il metodo del vedere-giudicare-agire e con attenzione al momento culturale che stiamo vivendo, cercherò di chiarire cosa s'intenda oggi per «volontariato»,
quali siano le sue possibilità e i suoi limiti e quali gli elementi per un serio discernimento cristiano
in proposito che sia capace di motivare e guidare l'agire del credente.
Che cosa significa «volontariato»? È un termine oggi molto usato, forse talvolta abusato, senza che
se ne colga la reale sostanza. La ricerca di comprendere perché abbia senso e forse sia umanamente
e cristianamente doveroso impegnarsi in quale forma di volontariato richiede invece che se ne chiarisca in qualche modo il significato.
Una prima cosa, in proposito la apprendiamo dall'ascolto del nostro linguaggio, in quanto nominare
è sempre anche un interpretare, un attività di chiarificazione/spiegazione del senso delle cose. «Volontario» (donde «volontariato») nell'uso comune del termine sottende due elementi fondamentali
che concorrono a determinarne il significato. Da un lato indica tutto ciò che si ricollega ad un atto di
volontà. Nel mondo greco volontario è ciò che si compie spontaneamente, in conformità con la propria natura, di buon grado. Nella tradizione ebraico-cristiana, invece, il termine indica ciò che è
compiuto consapevolmente, con una padronanza dei propri atti, anche in contrasto con ciò che è
dettato da desideri, pulsioni e istinti. Ne risulta una trasformazione di significato che si manifesta
nel corso del pensiero e segna la comprensione attuale della cosa. Mentre infatti nel primo caso volontario coincide con naturale, spontaneo e involontario con forzato, nel secondo caso volontario individua la sfera degli atti da me controllati, mentre involontario esprime più precisamente ciò che
sfugge al mio controllo. Dunque il volontario non coincide con la pura spontaneità, né con una pura
consapevolezza «controllabile e calcolabile», ma vive nel gioco non facilmente districabile di spontaneità e consapevolezza. Tale gioco si scioglie considerando l'altro elemento fondamentale, ovvero
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'aspetto del dono e della gratuità nella loro dimensione di trascendenza1 che si traduce in un sentirsi
responsabili per la giustizia e il bene comune che superano la misura dell'individuale e sono l'espressione della fraternità umana.
1. Vedere: la galassia del volontariato
L'analisi linguistica che abbiamo condotto ci ha detto qualcosa di iniziale sul significato di «volontariato», ma da sola non basta. Per approfondire la nostra comprensione di «volontariato» occorre
analizzare anche la vita concreta degli uomini, la loro prassi, e cercare cosa questa ci riveli in proposito.
Fin dai tempi antichi, nell'agire di individui che hanno trovato in se stessi motivazioni per aiutare
chi è in difficoltà, la condizione dell'uomo si è rivelata attraversata da un preciso carattere estroverso e sociale. In alcuni casi questo dipendeva dal gioco dell'interesse (es. l'unione fa la forza opp. dal
bene dell'altro mi viene qualche beneficio), in altri da motivazioni più altruistiche tutte da indagare,
molto più spesso da un misto di ambedue questi elementi.
Nelle società, anche in quelle secolarizzate, che si sono formate a contatto con il cristianesimo, religione del Dio che si fa servo per amore dell’umanità (agape, caritas), queste motivazioni trovano
un fondamento solido e sembrano più innervate nella società che altrove. In questi contesti la parabola evangelica del buon samaritano (Lc. 10,25-37) è da due millenni il simbolo di un tale comportamento di grande generosità etica. Da essa hanno tratto e traggono variamente ispirazione comportamenti non solo di singoli, ma anche di persone in vario modo associate per impegni di solidarietà
interpersonale e di gruppo.
Nell'attuale società pluralistica tutto questo prende sempre più spesso la forma del «mondo dei volontari e dei volontariati», una complessa galassia che si relaziona in vari modi con le istituzioni a
sfondo sociale della società e dello stato.
Il mondo dei volontariati, osservato attentamente, non si presenta come un monolite immodificabile, stabile nelle sue motivazioni e nelle sue attuazioni: gli eventi storici e le trasformazioni sociali e
politiche, insieme con le diversità e discontinuità socio-ambientali, riflettono infatti il loro impatto
sulle forme che la carità sociale viene vi via assumendo.
L’Europa occidentale e, più in generale, il cosiddetto Occidente avanzato, hanno conosciuto, in particolare intorno agli anni Settanta, un autentico soprassalto di movimenti, associazioni e organizza1
Scrive in proposito Benedetto XVI: «La carità nella verità pone l'uomo davanti alla stupefacente esperienza
del dono. La gratuità è presente nella sua vita in molteplici forme, spesso non riconosciute a causa di una visione solo
produttivistica e utilitaristica dell'esistenza. L'essere umano è fatto per il dono, che ne esprime ed attua la dimensione di
trascendenza. Talvolta l'uomo moderno è erroneamente convinto di essere il solo autore di se stesso, della sua vita e
della società. È questa una presunzione, conseguente alla chiusura egoistica in se stessi, che discende – per dirla in
termini di fede – dal peccato delle origini. La sapienza della chiesa ha sempre proposto di tenere presente il peccato
originale anche nell'interpretazione dei fatti sociali e nella costruzione della società. (...) Il dono per sua natura
oltrepassa il merito, la sua regola è l'eccedenza. Esso ci precede nella nostra stessa anima quale segno della presenza di
Dio in noi e della sua attesa dei nostri confronti. La verità, che al pari della carità è dono, è più grande di noi, come
insegna sant'Agostino. Anche la verità di noi stessi, della nostra coscienza personale, ci è prima di tutto “data”. In ogni
processo conoscitivo, in effetti, la verità non è prodotta da noi, ma sempre trovata, o meglio, ricevuta. Essa, come
l'amore, “non nasce dal pensare o dal volere, ma in certo qual modo si impone all'essere umano (Deus caritas est, 3).
poiché dono ricevuto da tutti, la carità nella verità è una forza che costituisce la comunità, unifica gli uomini secondo
modalità in cui non ci sono barriere né confini. La comunità degli uomini può essere costituita da noi stessi, ma non
potrà mai con le sue sole forze essere spinta oltre ogni confine, ossia diventare una comunità veramente universale:
l'unità del genere umano, una comunità fraterna oltre ogni divisione, nasce dalla con-vocazione della parola di DioAmore. Nell'affrontare questa decisiva questione dobbiamo precisare, da un lato, che la logica del dono non esclude la
giustizia e non si giustappone ad essa in un secondo momento e dall'esterno e, dall'altro, che lo sviluppo economico,
sociale e politico ha bisogno, se vuole essere autenticamente umano, di fare spazio al principio di gratuità come
espressione di fraternità» (Caritas in Veritate n. 34).
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zioni solidaristiche di vario genere e segno: si è trattato quasi di una svolta storica della società civile che si è accesa nello stesso periodo in cui decollavano alcuni dei maggiori processi di globalizzazione.
Anche l’Italia ha da questo punto di vista la sua bella storia. Guardando al mondo del volontariato
di casa nostra possiamo notare che nei tre ultimi decenni si sono avute delle svolte e delle differenziazioni interessanti che hanno contrassegnato il passaggio dai “contesti locali” alla “coscienza della
globalizzazione”. Le indichiamo, sommariamente, in tre fasi2.
1. I volontariati organizzati. La prima insorgenza dei volontariati in Italia nell’immediato dopo
guerra si è espressa in forme abbastanza semplici, ottenendo un buon numero di adesioni, specie
giovanili. La crescita vigorosa della quantità di persone e piccoli gruppi disposti a mettere a disposizione una parte del loro tempo libero, senza compenso materiale, per organizzare soprattutto assistenza sociale e sociosanitaria ai bisognosi è partita, in larga parte, dalle basi tradizionali della solidarietà e della beneficenza nelle diocesi e nelle parrocchie. Cui si aggiungono volontari, laici e cattolici, specie donne, in strutture civiche per la prima assistenza socioeconomica (enti comunali di
assistenza (ECA); cooperative di consumo; casse mutue volontarie di operai e artigiani ecc.) 3. Col
tempo il fenomeno si è aperto anche alla tutela dell’ambiente e delle risorse storico-artistiche culturali, all’educazione scolastica non scolare, alla protezione civile, allo sport non agonistico ecc. Senza o con i contributi finanziari del governo nazionale è cresciuto anche il volontariato internazionale, specie a partire da nuove vie di azione e da nuovi sviluppi civili che trovano spesso origine in
centri missionari religiosi.
2. Il volontariato come come attore sociale di partecipazione al welfare state. Il passaggio ad una
seconda fase del volontariato si accompagna in Italia all’introduzione, da parte dei governi e parlamenti, di parti di stato sociale (dalla riforma agraria ai quartieri Ina Casa, dalle nuove garanzie sociosanitarie alle parzialissime riforme scolastiche e ai tentativi di lotta alla disoccupazione). In questo nuovo contesto che si viene formando ai volontariati organizzati cominciano a pervenire via via
dai pubblici poteri sollecitazioni a collaborare col Welfare State. Tali collaborazioni, sviluppate anche sulla base di contratti e convenzioni con l’ente pubblico, hanno ingrossato il volontariato fino a
far apparire una nuova entità che qualcuno, con una certa enfasi, ha chiamato «terzo settore» (terzo
fra stato e mercato). Dall’entrata in vigore della prima riforma sanitaria globale (1978) e di varie
misure di assistenza sociale, sino alle prime leggi sul volontariato, varate nel 1991 e 1992, per non
parlare della seconda riforma sanitaria (1992) il volontariato viene riconosciuto, anche da precise
norme di legge, come attore sociale di partecipazione al Welfare state. Così organizzazioni di volontariato sono state ammesse negli ospedali e in altre strutture sanitarie e sociali, a difesa dei cittadini malati o portatori di handicap. Le esperienze di terzo settore, col crescere dei coinvolgimenti
co-gestionali tra privato e pubblico statale, e più tardi tra privato e fondazioni (bancarie e non), si
sono ampiamente diversificate e complessificate.
3. Il protagonismo gestionale del volontariato e la «democrazia economica». Con il diffondersi, a
partire dagli anni Ottanta, della crisi del welfare state (crisi finanziaria e antiburocratica) sono emerPer approfondire si veda: A. ARDIGÒ, Volontariati e globalizzazione. Dal “privato sociale” ai problemi
dell’etica globale, Bologna 2001, pp. 5-83; CARITAS ITALIANA (cur.), Una carta d’identità del volontariato. Materiali e
percorsi per la ricerca e la formazione, Roma-Fossano 2000, pp. 74-85.
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Uno dei grandi animatori di tale esplosione del volontariato, mons. Giovanni Nervo, ricorda in un recente
saggio che “vent’anni fa si parlava solo di istituzioni pubbliche e di istituzioni private: queste ultime erano in gran parte
opere assistenziali della Chiesa cattolica, che, in una ricerca della Caritas italiana di dieci anni fa, rappresentavano il
75% di tutte le attività assistenziali” (G. NERVO, «Dove va il volontariato?», in Tutti al centro. Volontariato e terzo
settore in un “paese normale”, Roma 1999).
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si anche nel mondo del volontariato stimoli a ricercare apporti innovativi al superamento della crisi,
soprattutto nel senso di fornire più umanizzazione e più partecipazione degli utenti alla gestione dell’assistenza pubblica. Donde anche la propensione a ottenere maggiori spazi interstiziali di autonomia nella stessa collaborazione con agenzie ed enti nazionali o locali dello stato sociale. È emersa
così, progressivamente, l’aspirazione a un protagonismo gestionale del volontariato, che dovrebbe
coniugare insieme solidarietà e management aziendale. Si ha allora la propensione di una parte dei
volontariati a diventare imprese sociali non profit. In tale contesto negli anni novanta da diverse
parti si è cominciato a prospettare un volontariato moderno come non profit e dentro il libero mercato, in particolare per servizio alle persone dei minori e dei disabili. Ciò per cercare con creatività
gestionali, pur nel solidarismo, di andare oltre i limiti di subalternità allo stato sociale e alle mediazioni politico-partitiche spesso a questo connesse e a volte inconcludenti. Al contempo sono maturate innovazioni normative, volte a introdurre agevolazioni, anche fiscali, a favore di attività senza
scopo di lucro, ma senza vincoli di pura gratuità del volontariato. Per queste vie il mondo del privato sociale (specie il mondo delle cooperative sociali) si è aperto a sperimentazioni di nuova imprenditorialità, cariche di suggestioni e speranze. E questo ha reso piuttosto critici verso il modello di
terzo settore. Ma di recente è emersa anche la critica, ancorché piuttosto timida, all'eccessiva dipendenza del volontariato non profit dal mercato e dagli ambivalenti processi di globalizzazione4. In
realtà si tratta di una questione alquanto complicata, rispetto alla quale risultano istruttive le seguenti osservazioni di Benedetto XVI, svolte alla luce della crisi economica che stiamo vivendo: «La
vita economica deve essere compresa come una realtà a più dimensioni: in tutte, in diversa misura e
con modalità specifiche, deve essere presente l'aspetto di reciprocità fraterna. Nell'epoca della
globalizzazione l'attività economica non può prescindere dalla gratuità, che dissemina e alimenta la
solidarietà e la responsabilità per la giustizia e il bene comune nei suoi vari soggetti e attori. Si
tratta, in definitiva, di una forma concreta e profonda di democrazia economica. La solidarietà è
anzitutto sentirsi tutti responsabili di tutti, quindi non può essere delegata solo allo stato. Mentre ieri si
poteva ritenere che prima bisognasse perseguire la giustizia e che la gratuità intervenisse dopo come un
completamento, oggi bisogna dire che senza la gratuità non si riesce a realizzare nemmeno la giustizia. Serve
pertanto un mercato nel quale possano liberamente operare, in condizioni di pari opportunità, imprese che
perseguono fini istituzionali diversi. Accanto all'impresa privata orientata al profitto, e ai vari tipi di impresa
pubblica, devono potersi radicare ed esprimere quelle organizzazioni produttive che perseguono fini
mutualistici e sociali. E dal loro reciproco confronto sul mercato ci si può attendere una sorta di ibridazione
dei comportamenti d'impresa e dunque un'attenzione sensibile alla civilizzazione dell'economia. Carità nella
verità, in questo caso, significa che bisogna dare forma e organizzazione a quelle iniziative economiche che,
pur senza negare il profitto, intendono andare oltre la logica dello scambio degli equivalenti e del profitto
fine a se stesso»5.
2. Giudicare: criteri per un autentico discernimento cristiano
Non possiamo qui soffermarci sull’importante discussione a proposito della globalizzazione, discussione
accesa e tuttora in atto. Ma vale la pena affermare la necessità di un giudizio realistico e lucido su questo fenomeno non
opzionale. Per comodità (consapevole di operare una semplificazione) riporto il giudizio di Ardigò (o.c. p. 19) che mi
sembra condivisibile: “La globalizzazione è, nel suo insieme, lo stadio più avanzato (tecnologico, commerciale e
industriale) della civiltà materiale, tramite la diffusione dei progressi delle tecnoscienze, degli scambi in internet
economico-finanziari e commerciali. Sarebbe del tutto velleitario ed erroneo considerarla come la quintessenza del
negativo contro cui lottare. E tuttavia gli aspetti negativi della globalizzazione sono quanto mai visibili non solo
nell’atroce aumento delle diseguaglianze di redditi e di opportunità sociosanitarie nel mondo e nei singoli Paesi, ma
anche nei crescenti squilibri politici di potere. I ritardi più gravi riguardano la politica democratica e l’etica globale,
donde la sperequazione della dignità umana nel mondo. Tra le prime autorità del mondo contemporaneo a sottolineare
questi tratti di sofferta ambivalenza nella globalizzazione, è da menzionare Giovanni Paolo II, nella lettera enciclica
Centesimus annus del 1991”.
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Caritas in Veritate, 38. Al numero 46 viene ripresa la questione del profit – non profit e si parla di un'area intermedia tra le
due tipologie di imprese.
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In questa conversazione ci poniamo dal punto di vista del cristiano che si confronta col fenomeno
del volontariato sentendosi interpellato/chiamato da esso. Perciò ci chiediamo: i cristiani come
orienteranno le loro scelte di fronte al complesso e polivalente fenomeno dei volontariati? Come
imposteranno la loro libera azione e il loro consapevole impegno?
Questo interrogativo ci spinge a una ricerca che richiede di lasciar emergere le motivazioni, i bisogni e i valori soggettivi al volontariato che fioriscono nella coscienza personale per confrontarle con
il Vangelo e la coscienza ecclesiale; con le chiamate che ci vengono dalla vita degli uomini che vivono con noi il mondo in cui abitiamo; con ciò che più profondamente alberga nella coscienza personale stessa.
L' interrogativo, così istruito, apre a un vero e proprio «discernimento» attraverso il quale la coscienza personale e collettiva, disponendosi all’ascolto dell’altro da sé, purifica e rinnova le proprie
motivazioni e il proprio agire di modo che l'autenticità dell'impegno che si sceglie sia radicata in un
motivo più grande di quello – pur legittimo e significativo - della ricerca del proprio benessere.
a. La chiamata del Vangelo: eros e agape
Colui che vive la fede cristiana è anzitutto in ascolto del Vangelo di Gesù per plasmare su di esso la
forma della propria vita. E gli è sufficiente scorrere le pagine del Nuovo Testamento (ma lo stesso si
può dire, in generale per l’intera Bibbia), per accorgersi che il nucleo profondo che sorregge e struttura le molte relazioni di cui è costituita l’esistenza degli uomini è costituito dall’ amore per Dio e
per il prossimo. Tenuto conto che da tutta la Bibbia traspare come Dio «ama e questo suo amore
può essere qualificato senz'altro come eros, che tuttavia è anche e totalmente agape»6 sembrano opportune alcune sottolineature che ne mettano in luce la qualità.
- Il comando evangelico dell’amore al prossimo non si comprende da solo, isolandolo, ma se lo si
mantiene all’interno di una rete di riferimenti essenziali di cui vive: l'amore evangelico non è un
amore qualunque, ma è amore verso Dio e verso il prossimo, nella comunità cristiana e verso il
mondo, nella reciprocità e nella gratuità, in obbedienza alla Legge/Comandamento e in esercizio
della Libertà dello Spirito, come virtù e come servizio7. Tutto questo sta o cade insieme.
- Una particolare sfaccettatura dell’amore al prossimo – molto cara a Gesù di Nazareth - è l’amore
al povero. Prendersi a carico il povero, l’oppresso, il ferito, il piccolo, lo straniero, gli orfani e le vedove è un comando che attraversa tutta la Scrittura. Si legge in Geremia (22,16). “Prendere in mano
la causa dell’ umiliato e del povero: non è questo conoscere me? Oracolo del Signore. E Gesù ha
fatto proprie le parole del profeta: ha difeso la causa degli ultimi, li ha frequentati e prediletti, ed è
morto come uno di loro. E di questo le comunità dei discepoli si sono sempre ricordate. Si pensi alla
parabola del buon samaritano. Ciò nonostante bisogna registrare anche l’insistenza con la quale il
Nuovo Testamento parla della fraternità all’interno della comunità cristiana, dell’amore reciproco
tra i fratelli di fede. L’attenzione al povero e allo straniero non è tutto l’amore del prossimo.
- La carità evangelica che è finta se non si traduce in pratiche di vita non si identifica però con l’
«attività» caritativa, né col dire, né con l’agire, né col donare se stesso, né con la missione. È piuttosto qualcosa che sottostà a tutte queste cose, le precede e le accompagna come radice e sorgente vitale, ma non vi si confonde. Si pensi a 1Gv. 4,7-15 e a 1Cor. 13. La carità un modo di essere prima
che un modo di fare o meglio un indissolubile connubio di essere e fare8.
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BENEDETTO XVI, Deus caritas est, n. 9.
Per approfondire si veda il bell’articolo di B. MAGGIONI, “L’amore del prossimo nel Nuovo Testamento”, in:
AA.VV., La carità e la chiesa. Virtù e ministero, Glossa, Milano 1993, pp. 32-59.
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8
Per entrare nel senso di queste affermazioni si vedano i pensieri di R. Voillaume nel suo piccolo, semplice e
prezioso testo: Come io ho amato voi, Cittadella, Assisi 1974.
5
- Dai testi del Nuovo testamento non appare, almeno direttamente, che la carità sia funzionale alla
missione (nel senso di volgersi all’altro, al lontano, per annunciare, convertire, aggregare). I gesti di
carità fanno certamente parte dei «doveri» del missionario e del testimone: cacciare i demoni, guarire i malati. Ma non sono finalizzati alla missione: valgono anzitutto per se stessi. Si ama l’uomo,
ogni uomo, per lui stesso mostrandogli in questo l’amore che Dio ha per lui. L’unica cosa seria è
che l’amore cristiano sia una trasparenza – chiara e credibile – dell’amore di Dio. Altrimenti detto:
la chiesa si impegna nella carità perché questa è la sua verità.
- «Gli uni gli altri», espressione che ricorre con una certa frequenza nell'insegnamento degli apostoli, dice la direzione della carità, lasciandone intravedere la tensione alla reciprocità. Ma non ne
costituisce la misura, che è sempre quel «come Cristo vi ha amati» e quel «come te stesso» ove traspare il superamento verso un amore totale, universale, gratuito. In questo senso la reciprocità dell’amore cristiano non poggia sulla parità, né, tanto meno, su di un mercantile do ut des (fosse anche
in termini di gratificazione-riconoscimento).
b. La chiamata dell’altro: rispetto, giustizia, prossimità
Tutti siamo confrontati a un’attualità segnata dall’ ethos tardo-postmoderno rappresentato da una
sensibilità pervasiva emergente dai modi di vivere che tocca e provoca da vicino anche i credenti in
Cristo.
Secondo il tratto dominante di questa sensibilità la «persona» si riduce a «individuo» e questo a un
fascio di interessi e di bisogni che deve lasciarsi aperta la porta per il più ampio spettro di possibilità di scelta. Qualcuno ha giustamente parlato, in proposito, di un nuovo individualismo diverso da
quello di altre epoche anche vicine9. Un individualismo, per così dire, di corta gittata, tutto centrato
sulla ricerca di gratificazioni personali sul piano emotivo ed affettivo (benessere psicofisico) e conseguentemente caratterizzato dalla deresponsabilizzazione del singolo. .
L'antidoto a questa situazione (cioè al rischio che tutti noi corriamo di essere addomesticati da questo nuovo individualismo) consiste nella capacità di recuperare il senso dell’ «alterità» dell’altro,
dell’altra persona, come «chiamata» che suscita rispetto, responsabilità e libertà. Levinas lo ha ben
evidenziato. Anche qui proponiamo alcune osservazione che ci permettono di approfondire.
- Ogni persona contiene una fecondità ed è segnata dall’unicità e irripetibilità del suo essere e della
sua condizione, che la rende altra, differente, da ogni altro. Ciò risulta particolarmente evidente in
una società pluralista e tendenzialmente multiculturale come quella in cui ormai viviamo.L’altro,
ogni altro, mi è anzitutto straniero. Contro la tentazione a proiettare se stessi nell’altro o a voler far
diventare l’altro un altro-me-stesso, si tratta anzitutto di essere capaci di accettare la sfida dell’alterità altrui da rispettare, da accogliere, da ospitare, da promuovere, ascoltandola profondamente e lasciandola essere se stessa. Una sfida tanto più difficile, quanto più l’altro - il diverso da me - è percepito da me anzitutto come un pericolo, una minaccia, qualcuno che mi mette in questione, che mi
mostra i miei limiti, che disarma la mia volontà di onnipotenza: il passaggio dalla diversità vissuta
come ostacolo alla convivialità delle differenze non è né scontato, né semplice.
- Nessun uomo è un isola (Merton). Io divengo veramente me stesso di fronte al Tu che è l’altro,
singolo e società: la mia autocoscienza e la mia libertà sono (in senso forte) solo di fronte ad altri,
nell’accoglienza o nel rifiuto della loro invocazione. Si sente dire spesso, soprattutto grazie agli apporti del pensiero esistenzialista e personalista che ha aiutato gli stessi cristiani a riscoprire un dato
Cfr. G. LIPOVETSKY, L’era del vuoto. Saggi sull’individualismo contemporaneo, Milano 1995. Si tratta di un
individualismo che ha dunque ben poco a che vedere con l’individualismo prima maniera, quello della soggettività
moderna, centrato sulla difesa della libertà e dell’autonomia del soggetto, sulla tolleranza, sul senso del dovere civico e
dello stato (pur variamente interpretato). Questi aspetti sono sviluppati in A. DA RE, “Idea di cultura e crisi della
coscienza morale nella società complessa”, in: AA.VV., Il progetto culturale della chiesa italiana e l’idea di cultura,
Glossa, Milano 2000, pp. 115-121.
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fortemente presente nella stessa Scrittura, che la persona è caratterizzata dalla relazionalità. Ma questa non va intesa sul piano solo psicologico, dove si parte sempre dall’io e dalle sue esigenze: si
tratta piuttosto del riconoscimento metafisico ed etico del fatto che l’io chiuso nell’ateismo solipsistico della sua coscienza non è ancora se stesso, perché esso diviene tale quando si apre al mistero
dell’esistere che lo sovrasta e che gli viene incontro nella chiamata convocante che altri é. L’io che
parte da sé, resta chiuso nella propria immanenza e non è nella piena verità del suo essere: manca
il bersaglio. L’io che muove da altri entra nel terreno del proprio essere autentico. Ciò vale sia per
me, che per l’altro: promuovendo l’altro promuovo lui e me stesso. La relazionalità che caratterizza
la persona dell’io è allora ad un tempo esigenza e atto: non è una vuota possibilità, ma condizione
costituente ogni concreto esistere: io sono (e ogni altro è) – costitutivamente - essere-nel-mondo e
essere-per-altri, nella misura in cui lascio-essere10 se stesso ogni altro prendendomi cura di lui. Esistere è un ek-sistere, un esistere presso l’altro, prendendosi cura di lui (pro-esistenza), affinché lui
sia se stesso nella piena misura della sua dignità di persona umana. Ciò significa che la qualità autenticamente umana della relazione ha sempre la forma del dono e più precisamente, del dono di sé
che lascia essere l’altro. Il che implica una rivalutazione delle virtù che vanno sotto il nome di ospitalità e disponibilità.
- Donare, donarsi significa creare legame. I legami più forti hanno la forma del dono offerto e ricevuto e comportano una capacità corrispondente (bisogna essere capaci di offrire il dono, ma anche
di riceverlo, cosa non banale). Il dono infatti non è una separazione da qualcosa a senso unico, come
fosse la sporgenza di qualcuno che va a riempire la cavità dell’altro. Il dono è sempre una forma di
scambio e di corrispondenza il cui fondamento non è la ricchezza o la povertà: il suo fondamento è
sempre, in vario modo, il riconoscimento della qualità umana dei rapporti umani, per la quale vale
la pena di voler bene e di soffrire, di imporsi dei limiti e di avere il coraggio di superarli, di accettare il rischio della relazione propriamente umana e di onorare i legami che la giustificano. L’esperienza del dono è comunemente considerata difficile da mettere in pratica, ma in se stessa semplice
da concepire e da pensare. Lineare e trasparente insomma. Invece l’esperienza del dono è sempre
anche assai complessa e irrimediabilmente drammatica. Il gioco della consegna di sé e dell’ assoggettamento dell’altro, della reciprocità e della disparità, della riconoscenza e dell’imbarazzo, dell’apertura che rende il donatore irraggiungibile e dell’esuberanza che lo rende soffocante per il donatario, delle continue oscillazioni fra la fiducia e il sospetto, l’entusiasmo e il riconoscimento è interamente iscritto nella logica del dono. tale gioco non sopraggiunge dall’esterno, semplicemente a motivo dell’egoismo e dell’indifferenza. Il dono crea equilibri gratificanti, ma anche penosi. E interrompe la vischiosa abitudine di equivalenze confortevoli e insignificanti. Il dono è tutto questo e altro ancora. non si tratta di ignorare o rimuovere questa ambivalenza, ma di abitarla generosamente,
lottando per neutralizzarla, in vista di una risposta sincera all’attesa chiamante dell’altro.
- Il faccia-a-faccia, incontro nella nudità e perciò nella vulnerabilità, ove l’altro nella sua manifestazione si sottrae alla presa del mio possesso rivelando nella sua imprevedibilità la traccia dell’infinito
in lui è il luogo ove scorgo l’altro come una chiamata che genera la mia responsabilità11. Responsabilità (da respondeo) è infatti risposta alla chiamata dell’invocazione che altri è e che mi chiede di
impegnarmi perché sia resa giustizia alla sua vita. L’altro è uno sguardo che supplica ed esige, che
può supplicare solo perché esige, privo di tutto perché ha diritto a tutto e perché si riconosce donando: questo sguardo è epifania del volto come volto. La nudità del volto è indigenza. Riconoscere
10
Si noti la pregnanza di questa formula, di ascendenza heideggeriana, ma qui intesa oltre Heidegger: non si
tratta di “far essere” e neppure di “promuovere” l’essere di altri (come se noi fossimo i padroni dell’essere altrui, la
sorgente del suo essere e vivere – in un padroneggiamento signorile ove egli ci sarà sempre – magari invisibilmente –
debitore e dipendente), ma di “lasciar essere”, ossia di rendere giustizia a ciò che lui è e ha da essere (e qui è il senso
profondo di essere “servi inutili”, che non contraggono alcun diritto o alcun credito perché servono).
11
E questo un tema caro alla riflessione filosofica di Emmanuel Lévinas. Si può vedere in particolare la sua
opera Totalità e infinito (Jaca Book, Milano 1980) in partic. pp. 203ss..
7
essa significa riconoscere una fame. Riconoscere Altri significa donare. Ma significa donare al maestro, al signore, a chi si avvicina come «voi» in una dimensione di maestosità. Solo nel rispetto e
nella generosità il mondo posseduto da me può essere scoperto da un punto di vista indipendente
dalla posizione egoistica: la presenza dell’altro equivale a una messa in questione del mio indisturbato possesso del mondo.
Nel volto dell’altro mi viene incontro non una qualunque potenza, ma l’infinito della sua trascendenza, che si manifesta nella parola più originaria che egli è: «Non uccidere!». L’impossibilità di
uccidere non ha qui un significato solo negativo: è condizionata positivamente dalla sua relazione
all’infinito e dall’essere a favore di tutto ciò che impedisce la sua morte perché è a favore della vita.
L’infinito si manifesta come volto nella resistenza etica che paralizza il mio potere e si erge dura e
assoluta dal fondo degli occhi senza difesa nella sua nudità e nella sua miseria. La comprensione di
questa nudità e di questa miseria instaura proprio la prossimità dell’altro. Qui l’essere che si rivela
nel volto dell’altro si impone, ma non limita, bensì promuove la mia libertà, facendo nascere la mia
bontà.
- Si comprende così la sacralità dell’altro nella sua epifania e nel suo chiamarci: esso è traccia del
divino nella nostra via, maestoso ed umile ad un tempo.
c. La chiamata del Desiderio che mi costituisce quale nucleo profondo della coscienza.
Si può e si deve dire che ciascuno di noi è ciò che egli desidera. Dimmi cosa o chi desideri e ti dirò
chi sei! E ciò vale anche per capirmi in rapporto al prossimo, ai poveri, all’altro e per capire il mio
rapportarmi a loro.
Ma non è facile riconoscere e decifrare il Desiderio che ci abita e ci anima. Anzitutto per la complessità della coscienza personale, ove pulsioni, bisogni e valori convivono, spesso in modo confliggente e non bene integrato. E poi perché spesso si scambia il Desiderio (agape) disinteressato, che è
l’anima della coscienza, con il bisogno o i bisogni (eros) che pur vivono in essa. Scrive Lèvinas:
“Il Desiderio è una aspirazione animata dal Desiderabile; nasce a partire dal suo "oggetto", è
rivelazione. Invece il bisogno è un vuoto dell'anima, parte dal soggetto.”12 In altri termini, i bisogni
riguardano il piano dell’ “ente”, di ciò che è manipolabile e governabile da noi, ovvero di ciò che
per retti od obliqui sentieri possiamo ottenere e conquistare per colmare ciò che ci manca. Riguarda
il finito, alla mia portata. Il Desiderio ha una mira più lunga, concerne la sfera di ciò che ci
trascende, che è incatturabile e indisponibile, che non può essere conquistato con le sole nostre
manipolazioni perché è infinito. Esso guarda verso l’infinito, perché attratto da lui che mi si fa
incontro facendosi desiderare. E ancora per quanto qui ci riguarda: il bisogno è quando lavoro per
me, quando l’altro è qualcosa che permette a me una maggiore completezza, una qualche
soddisfazione, un benessere che mi è necessario; il desiderio è quando lavoro per l’altro, quando lui
e la qualità umana della sua vita è la mia preoccupazione. Va da sé che bisogno e desiderio non si
escludono necessariamente, ma, attraverso un sapiente lavoro di plasmazione ed educazione della
nostra coscienza essi possono concorrere in una reciproca integrazione.
3. Riplasmare l'agire: per una pedagogia della carità
Il discernimento sfocia in un agire rinnovato aperto e rispettoso, accogliente e oblativo che non si
conquista una volta per tutte, ma viene continuamente rigenerato e giunge progressivamente a maturazione coltivando continuamente alcune attenzioni che richiedono un «lavoro» sulle proprie relazioni.
12
E. LÉVINAS, Totalità e infinito, cit., p. 60 (vedi anche 199-224).
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La prima attenzione consiste nel sapere chi sono io di fronte ai poveri e agli stranieri. Non bisogna
dare per scontata la nostra immediata disponibilità per i poveri. Una certa cultura ingenua che parlava di una naturale disposizione verso i poveri è ormai alle spalle, appartiene a qualche decennio fa.
Per imparare a riconoscere i poveri bisogna anzitutto sostare sulla definizione lucida circa la propria
identità e i propri bisogni. Una prima pedagogia per saper riconoscere i poveri parte dalla recensione dei propri desideri; bisogna chiedersi cosa si desidera veramente; infatti spesso le ambiguità che
seguono circa l'atteggiamento verso i poveri partono proprio da una non chiarezza circa i propri desideri, la propria identità, i propri bisogni, le proprie risorse e i propri limiti. Diversamente mi avvicino al povero in quella forma ingenua e imprecisa che ultimamente fa ricadere i suoi effetti negativi sui poveri stessi.
Queste sono le domande: come mi avvicino a qualcuno che mi sembra povero? Come io, con la mia
storia e la mia attualità, sono in grado di riconoscere qualcuno che è più povero di me? Per far questo è necessario che abbia una comprensione di me stesso e che rifletta sul senso complessivo della
mia vita, su dove sono disposto a impegnarmi, su quello per cui sono disposto a soffrire. Devo riflettere poi sulla mia biografia, sulla mia condizione presente, sul mio stato di vita, sulle mie consolazioni e sulla mie frustrazioni nel tempo che vivo. Il povero interroga tutto il senso della mia vita
con le sue possibilità e i suoi limiti. Primo atto pedagogico per riconoscere i poveri è sapere chi
sono io e come sto nella vita.
La seconda attenzione da avere è la convinzione che per «riconoscere» i poveri devo comunicarmi
per intero13. Non posso esibirmi a metà. È necessario che i propri pensieri si uniscano al proprio
corpo e alla propria anima; la dispersione di me, delle mie azioni, dei miei tempi e delle mie fatiche
si deve costituire in unità della mia persona. Un approccio sfilacciato, parziale, semplicemente
estetico non è ammissibile se voglio entrare in sintonia di bene tra me e il povero, ogni tipo di
povertà.
La persona per crescere nella radicalità evangelica deve essere disposta a gestirsi in tutti i suoi linguaggi espressivi: non si ama solo con la mente senza il tempo e il lavoro, non vale la sola commozione se si discute sui propri soldi, così come non si danno soldi senza perderci del proprio in emozioni, fatiche e affetti. Tutto deve richiamare tutto: la casa, il lavoro, i doveri del proprio stato di
vita, il cibo, il vestito, le vacanze, e tante altre cose. Se si vuol riconoscere i poveri bisogna comunicare per intero. L'accostamento al povero per intero non è immediato: luoghi, tempi, spazi, sapori,
odori, miseria culturale, igiene, malattia, volgarità, morte non sono soltanto pensieri di bontà, si
tratta di affetti, corpi, tempi, lacrime, lavoro, veglie, sonno, entusiasmi, paure, scoraggiamenti, ospitalità concrete che mortificano l'organizzazione della mia vita e la configurazione delle mie emozioni. Il desiderio di riconoscere i poveri senza una relazione realistica e personale compiuta per intero
non costruisce. Solo chi perde la sua vita la troverà. L'impresa difficile è il ritrovare intorno a questo
una nuova unità della propria persona che permetta di interagire nei confronti dei poveri con tutto
me stesso e con le esigenze fondamentali del mio stato di vita. Certamente non farò tutto, ma quel
poco o molto che farò lo farò per intero. Senza senso di onnipotenza e senza alibi di assenteismo.
Certamente, se faccio una cosa non ne potrò fare un'altra, tuttavia, per quel che posso, sono sempre
presente per intero nelle mie possibilità e nei miei limiti. Una pedagogia di avvicinamento ai poveri
che non tiene conto dell'unità espressiva di tutta la persona e del suo stato costituito di vita, matrimonio o consacrazione per esempio, potrebbe avere per sé e per altri conseguenze anche molto deleterie. Per questo mi devo domandare con discernimento evangelico di che cosa ho veramente bisogno per vivere, cosa mi manca, cosa mi fa esprimere, cosa metto in mostra di me, cosa nascondo,
di cosa ho paura, perché mi scoraggio, perché mi entusiasmo, perché mi stanco, perché continuo,
13
Circa il senso di questo «riconoscimento» cfr. G.L. BRENA, Identità e relazione. Per un'antropologia
dialogica, Messaggero, Padova 2009, in particolare pp. 59ss..
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nonostante tutto. Sono linguaggi che gli uomini mettono in atto in ogni relazione. Molte cose che
noi diciamo sui poveri non dipendono innanzitutto dai poveri, ma da noi.
Una terza attenzione da avere nel rapporto con i poveri è la buona disposizione a raccogliere e a raccogliersi a qualsiasi punto ci si trovi. Spesso il punto di partenza di questa ricerca e di questa relazione con i poveri non è più uguale per tutti. Si può partire dalla fede o dalla non fede, dalla passione per la storia o dal disgusto, dalla percezione dello scandalo e dal raccapriccio; si può partire da
un itinerario ecclesiale o anche da un'avversione verso la Chiesa. Oggi la ripresa del povero esige di
essere fatta a partire da qualsiasi punto in cui ciascuno si trovi. Il povero può essere veramente luogo di comunione.
Una quarta attenzione per instaurare un autentico rapporto con i poveri, non partendo da noi ma dalla loro realtà e dal loro effettivo bisogno è la capacità di una comunicazione umana autentica. Si
potrebbe dire: essere capaci di autentica carità verso l’altro significa essere capaci di autentica comunicazione con lui. E. Mounier ha descritto in maniera sintetica, anche se un poco semplicistica,
le caratteristiche di questa comunicazione autentica
«La comunicazione si costituisce – scrive Mounier – per una serie di atti originali attraverso cui si
attua la relazione con altri, nei quali peraltro c’è sempre qualcosa che sfugge al più volenteroso
sforzo di comunicazione.
Anzitutto l’uscire da sé. La persona è un esistenza capace di staccarsi da se stessa, di spodestarsi, di
decentrarsi per divenire disponibile agli altri. Per la tradizione personalista (specialmente per quella
cristiana) l’ascesa della rinuncia a se stessi è l’ascesa centrale della vita personale; soltanto colui
che ha prima in tal modo liberato se stesso, può liberare gli altri o il mondo; gli antichi dicevano che
bisogna combattere l’amor proprio; noi oggi diciamo egocentrismo, narcisismo, individualismo.
Quindi comprendere. Cessare di mettermi dal mio punto di vista per mettermi invece dal punto di
vista degli altri; ma non dovrò cercare me stesso in un altro che avrò scelto simile a me, né dovrò
conoscere gli altri attraverso una dottrina generale (il gusto per la psicologia non equivale alla sollecitudine per il prossimo), ma abbracciare la sua singolarità con la mia singolarità in un atto di accettazione e in uno sforzo di fusione. Essere tutto per tutti, senza cessare d’essere e di essere me stesso:
perché c’è un modo di comprendere gli altri che equivale a non amar nulla, a non essere più nulla:
dissoluzione negli altri, non comprensione degli altri.
Poi prendere su di sé, assumere il destino, la sofferenza, la gioia, il dovere degli altri, “sentir male
al proprio petto”.
Dare. La forza viva dello slancio personale non è rivendicazione (individualismo piccolo-borghese), né lotta all’ultimo sangue (esistenzialismo), ma generosità e gratuità, cioè, al limite, donazione totale senza speranza di ricambio. L’economia della persona è economia di offerta, non di
compensazione o di calcolo. La generosità dissolve l’opacità e annulla la solitudine del soggetto,
anche quando non trova risposta; di fronte alla moltitudine serrata degli istinti, degli interessi, delle
argomentazioni, essa è, nell’esattezza del termine, travolgente. Disarma il rifiuto, offrendo all’altro
un valore senza pari ai suoi occhi, proprio quando egli poteva aspettarsi di venir respinto come un
oggetto indocile, e lo trascina così nella propria orbita: di qui il valore liberatore del perdono e della
fiducia. essa fallisce soltanto di fronte a certe astiosità più misteriose dell’interesse, e che sembrano
dirette contro il disinteresse stesso.
Infine essere fedele. L’avventura della persona è un’avventura continua dalla nascita alla morte; fedeltà alla persona, amore, amicizia sono perfetti soltanto nella continuità: quella continuità che non
è un di più, una ripetizione uniforme come quella della materia o della generalità logica, ma un risorgere continuo. La fedeltà personale è una fedeltà creatrice.
10
In questo senso il rapporto interpersonale positivo è una provocazione reciproca, una vicendevole
fecondazione»14.
In questa pedagogia della carità finalmente trova il suo posto Gesù, presenza concreta del regno di
Dio che si fa vicino. È la questione della carità che invoca la fede. Come la persona generosa nel
suo slancio di solidarietà si incontra con la fede? Anche attraverso la solidarietà umana si ripropone
una ricerca di fede. E’ giusto interrogarsi: come si innesta la fede in un uomo o un giovane d'oggi,
quali sono i passaggi reali, il punto di partenza, il punto di arrivo? Dobbiamo semplicemente descrivere una sorta di solidarietà che accomuna tutti gli uomini e le donne di buona volontà o abbiamo
bisogno del Vangelo? Come si passa da Gesù ai poveri o dai poveri a Gesù?
Nella biografia di molte persone impegnate nella solidarietà, la fede è stata qualcosa che si è perduta o che si è trovata con maggiore vivacità. Assistiamo a entrambe le esperienze. Considerando un
certo invecchiamento delle comunità cristiane dovremmo dire che, crescendo il volontariato e l'impegno per i poveri, la fede non raramente è qualcosa che si è persa. Molti segnali tuttavia manifestano la necessità di una ricerca di fede. Siamo forse una generazione che perde la fede, ma nel contempo è pronta per ritrovarla? La gente che comunemente partecipa all'eucarestia domenicale come
ultimo residuo di vita cristiana sono gli ultimi credenti, o sono i primi di una fede rinnovata? Sono
interrogativi affascinanti che non sfuggono a una pedagogia della carità o semplicemente della solidarietà con i poveri.
Se la carità si alimenta all'amore ricevuto da Dio in Gesù Cristo, se è lo Spirito Santo che lo tiene
vivo, allora è necessario educare alla fede la quale per charitatem operatur, la fede che si manifesta
nella carità.
Per favorire questa introduzione alla fede che opera per mezzo dell'amore è oggi necessario ritornare a un itinerario che privilegia la fede di Gesù. E’ il Credente di Nazareth che a poco a poco è diventato credente passando in mezzo a tutti e facendo del bene: ha guarito i malati, ha dato la vista ai
ciechi, ha accolto i bambini, è andato fino alla fine nella sua dedizione di amore. Anche se la fede di
Gesù non rappresenta la completezza della cristologia, dal punto di vista pedgogico è un punto di
partenza irrinunciabile. Prima ancora della fede in Gesù, la fede di Gesù mi accompagna e mi sostiene, mi rivela come Dio è capace di amare. Una pedagogia per la carità deve passare prevalentemente attraverso la fede di Gesù, che a poco a poco comunica lo spirito della Pasqua, mi introduce
sostanzialmente alla fatica della carità e alla non immediatezza della croce. Dalla fede di Gesù si
passa alla fede dei discepoli, la quale è alimentata dal senso di una grande sproporzione: cos'è questo per tanta gente? (cfr. Gv 6,9).
Oggi ci è possibile meditare su questo punto con maggiore serenità: forse abbiamo avvicinato troppo il concetto di evangelizzazione a senso di onnipotenza; dobbiamo quindi ritornare a vedere criticamente la grandezza e la miseria della res publica cristiana, ovvero rendere conto che, anche se
l'economia e la politica possono ancora ambire ad avere tutto sotto controllo, la fede avrà sempre
questa riserva escatologica incontrollata dentro la quale contemplare la promessa di Dio.
Il ritornare a Gesù introduce a un'esperienza cristiana della solidarietà: alcune persone partendo da
una gestione funzionale e secolarizzata della solidarietà sono arrivate al monastero, ma altre solo
dopo una forte esperienza di preghiera si sono decise per una radicale esperienza di carità.
Perché e in che modo la carità mi conduce a Gesù, e Gesù alla carità? Dalla carità vado a Gesù e da
Gesù alla carità, perché Gesù si è fatto piccolo, è rimasto solo, ha conosciuto il successo e il fallimento, ma ha sempre trattato con amore i peccatori, i poveri, gli umili, le donne, i bambini, i malati.
Gesù è morto. Gesù è risorto. Noi viviamo questo nella speranza e lo viviamo dalla parte della croce. Si può da questo comprendere la percezione dell'incompiutezza della storia, dalla quale l'istanza
escatologica ci fa ritornare verso l'insopprimibile esercizio della carità. Anche dove la proposta po14
E. MOUNIER, Il personalismo, AVE, Roma 1978, pp. 50-51.
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litica rimane insufficiente o si arresta, il cristiano va avanti perché crede che la storia non è l'ultima
parola, e la sua misura non è ancora completa.
In conclusione gli aspetti ricordati ci mettono sul chi va la di fronte al rischio di diventare una persona, una comunità cristiana o un’associazione cristiana di volontariato che vive di molte iniziative,
ma di poche relazioni, una persona/comunità/associazione tutta servizio e poca fraternità umana effettiva. Il servizio concreto è importante, ma dentro una relazione autenticamente rispettosa, ospitale, fraterna.
Roberto Tommasi
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