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L’EROE
Ogni epoca ed ogni popolo hanno le loro mitologie; accanto ai loro
“dei”, hanno i loro “eroi”, i loro “miti umani”. Ma gli eroi, a differenza
degli dei, parlano e interpretano l’ordine della natura, del mondo, della
nascita della società e della cultura, incarnandone esemplarmente le
ansie e i conflitti, e si pongono come modelli.
L’eroe nasce o in “adesione” alle istituzioni, alle leggi, alla moralità del
proprio tempo (v. Rolando, paladino di Carlo Magno, che combatte per
la patria, la fede, il proprio re) o, più spesso, in “contrasto” con la
società, in una titanica lotta contro i condizionamenti della natura e
della realtà.
Nelle civiltà mitico-primitive, l’eroe è in lotta soprattutto con gli dei; si
pensi a Prometeo, immagine gloriosa e colpevole che ruba il fuoco alla
divinità per instaurare un nuovo ordine sociale, e che, per questo, è
punito e condannato alla solitudine. La solitudine è infatti una
caratteristica dell’eroe, come dimostra anche l’eroe della tragedia, che
non lotta per fondare un nuovo ordine o una nuova legge; piuttosto
vive drammaticamente le contraddizioni del reale e il suo destino è
predestinato e funesto (v. Adelchi e Catone).
Col passare del tempo si arriva all’eroe del romanzo che non è prima
della legge (come Prometeo) né con la legge (Ulisse, Enea,Orlando,
ecc..),ma al di là di essa. Dotato di spessore psicologico, non pretende
di fondare il mondo, dominarlo, o cambiarlo; ne è solo un prodotto che
può, al massimo, riflettere specularmene i molteplici e conflittuali
aspetti della società a lui contemporanea.
Ogni eroe è caricato dall’autore di valori, di emozioni, di ideologie,
insomma, di una tipologia che lo definisce, all’interno di un orizzonte
che lo limita.
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ULISSE DI OMERO
Nella società omerica, nel complesso, gli uomini hanno una concezione
unitaria di ciò che è buono e cattivo. I Greci, e allo stesso modo i
Troiani, sanno che cosa sia un “uomo buono”, un “anér agathòs”. Per
loro non è dubbio in che cosa consista la “virtù” (arethé), essa
comprende molte cose: nobile origine, qualità fisiche, successo e fama
irreprensibile. L’uomo deve essere coraggioso e aver successo in
guerra, deve essere forte, grande e bello, deve parlare bene in
assemblea e dare consigli ragionevoli, ma deve anche essere ricco e
potente.
Quanto più un uomo possiede queste “virtù”, tanto maggiore è il
prestigio e l’onore di cui gode.
L’Ulisse dell’Iliade e l’Ulisse dell’Odissea non sono uguali per cui non
si potrebbe parlare di un solo Ulisse omerico. E dei due ci ricordiamo
più facilmente quello dell’Odissea, che è poi quello che è servito come
motivo ispiratore agli altri poeti.
L’Iliade fa di Ulisse un uomo veramente completo, dalle proporzioni
armoniche, capace di tutto e pronto ad ogni necessità, che tempera
l’energia irruente, realizzatrice dell’azione, con la sagacia della mente
che sa consigliare, con l’eloquenza delle parole che persuadono e
trascinano.
Nell’Odissea troviamo un Ulisse alquanto diverso, di cui vengono
accentuate alcune qualità. E’ diverso prima di tutto il rapporto fra
l’eroe e la narrazione: nell’Iliade la figura di Ulisse è posta accanto ad
altre e nessuna eccelle veramente, neppure quella di Achille; l’Odissea ,
invece è il poema dell’ “uomo di multiforme ingegno che molto errò” e
tutta la narrazione è incentrata su di lui. Però, sebbene la totalità
umana di Ulisse non venga rinnegata, si insiste di più sulle scaltrezze
del suo ingegno, facendone l’astuto per eccellenza e vi si aggiunge un
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elemento nuovo, quello dell’audacia che è curiosa di vedere, di sapere
tutto, diventando così il primo dei cosiddetti Ulissidi.
Accanto alla nostalgia c’è curiosità di vedere, audacia, spirito
avventuroso, come se
tutto questo ritardasse la conclusione del
ritorno.
La struggente voglia di tornare è una realtà nella psicologia di Ulisse,
ma lo è anche la voglia di andare, il gusto dell’ignoto: due elementi
contrastanti della sua figura umana, che Omero ha unito, quasi ad
indicare le due dimensioni sulle quali è costruito l’uomo.
ENEA: UNA NUOVA TIPOLOGIA DELL’EROE
Enea, che incarna le virtù tipiche del cittadino romano è una figura
nuova nel campo dell'epica antica: egli è un eroe doloroso e infelice,
pronto a compiere fino in fondo il suo dovere, ma quasi contro voglia,
continuamente lacerato da dubbi. incertezze, esitazioni, senza la forza
di opporsi titanicamente al destino e senza la gioia orgogliosa di chi
entusiasticamente
collabora
alla
sua
realizzazione.
Queste
caratteristiche hanno generato molte incomprensioni: tipico di una
certa interpretazione del personaggio di Enea è ad es. questo giudizio
di B. Croce “Enea è un pover'uomo, è l'uomo in amore inferiore
all’amore...”.
In realtà tutti i personaggi dell'Eneide, per essere compresi nella loro
realizzazione artistica, vanno sempre visti in relazione al destino di
Roma ineluttabilmente voluto dal fato e quindi destinato a realizzarsi
indipendentemente dalla volontà, dai sentimenti e dalle sofferenze dei
singoli individui. E' in questa chiave che va vista la figura di Enea: egli
assolve un compito storico che va al di là della sua adesione
sentimentale, dal suo consenso: da qui la sua personalità complessa di
un uomo continuamente combattuto tra il peso di una missione divina
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e i suoi sentimenti individuali. Nel fondo del suo animo non c'è la
fermezza di chi abbagliato dall'ideale corre verso di esso senza curarsi
del sangue che sparge e delle lacrime che si lascia alle spalle, al
contrario c'è il dubbio, la sofferenza e un inconfessabile desidero, di
quiete.
Enea non si sottrae al destino, che ha fatto di lui un eroe: la sua
sottomissione è totale, venata tuttavia da amarezza di dover
continuamente rinunciare ai propri sentimenti. La realizzazione del
destino esige che si spezzi anche il più sacro dei legami affettivi (la
scomparsa della moglie Creusa). In questa dimensione va vista anche
la sua relazione con Didone: ancora una volta affiora drammatica e
terribile la tragedia di un uomo che non è più padrone neppure dei
moti del proprio animo, che è condannato a provare sentimenti di un
comune mortale, ma a cui non è lecito scegliere in base ad essi.
In Enea ritroviamo tutte le virtù che stavano alla base della tradizione:
la “pietas”, la “fides” e soprattutto la “fortitudo” unita alla “patientia”,
cioè la subordinazione totale all'imperativo categorico del destino a cui
va sacrificato ogni sentimento individuale.
Siamo quindi nell'ambito della moralità tradizionale che affonda le sue
radici nella più antica cultura romana celebrata da Cicerone, secondo
cui l'attività del cittadino si giustifica solo se è "utile" per lo stato.
ULISSE DI DANTE
Il motivo che fu sviluppato dai poeti venuti dopo Omero, della figura
così ricca di Ulisse, è lo spirito avventuroso, è la curiosità di nuove
esperienze. Fu sviluppato in modo così forte che l’Ulisse di Dante e dei
moderni è senz’altro diverso da quello dell’Iliade e di quello
dell’Odissea è una accentuazione che ha la sua logica.
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Come si sa la comune cultura del tempo di Dante non si estendeva alla
lingua greca; Dante dunque non aveva letto Omero. La figura di Ulisse
gli giungeva perciò solo attraverso la grande fama di lui sopravvissuta
nel Medioevo. Due erano essenzialmente i suoi caratteri essenziali:
l’astuzia, esplicata soprattutto mediante la sopraffina arte della parola,
e l’inesauribile sete di conoscenza. Concordemente, Cicerone (De fin. V
XVIII 48 ss.), Seneca (De Constantia sapientis, II 2), Orazio (Ep I II 1726) additavano Ulisse come “exemplar” dell’ardore di conoscenza.
Dante accoglie tutte e due le versioni antiche e mette Ulisse nel suo
Inferno, nelle Malebolge, nell’VIII bolgia, senza però descriverci le
sottili arti della sua astuzia, ricordando solo : “l’aguato del caval che fe’
la porta / ond’uscì de’ Romani il gentil seme”. A lui interessa l’altro
Ulisse, quello del “folle volo”.
Lo maggior corno de la fiamma antica
cominciò a crollarsi mormorando
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pur come quella cui vento affatica;
indi la cima qua e là menando,
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come fosse la lingua che parlasse,
gittò voce di fuori, e disse: «Quando
mi diparti' da Circe, che sottrasse
e più d'un anno là presso a Gaeta,
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prima che sì Enea la nomasse,
né dolcezza di figlio, né la pieta
del vecchio padre, né '1 debito amore
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lo qual dovea Penelope far lieta,
vincer potero dentro a me l'ardore
ch'i' ebbi a divenir del mondo esperto,
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e de li vizi umani e del valore;
ma misi me per l'alto mare aperto
sol con un legno e con quella compagna
102
picciola da la qual non fiú diserto.
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L’un lito e l'altro vidi infin la Spagna,
fin nel Morrocco, e l'isola d'i Sardi,
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e l'altre che quel mare intorno bagna.
Io e ' compagni eravam vecchi e tardi
quando venimmo a quella foce stretta
108
dov'Ercule segnò li suoi riguardi
acciò che l'uom più oltre non si metta;
da la man destra mi lasciai Sibilia,
111
da l'altra già m'avea lasciata Setta.
“O frati”, dissi “che per cento milía
perigli siete giunti a l'occidente,
114
a questa tanto picciola vigilia
d'i nostri sensi ch'è dei rimanente
ma misi me per l'alto mare aperto
sol con un legno e con quella compagna
102
picciola da la qual non fiú diserto.
L’un lito e l'altro vidi infin la Spagna,
fin nel Morrocco, e l'isola d'i Sardi,
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e l'altre che quel mare intorno bagna.
Io e ' compagni eravam vecchi e tardi
quando venimmo a quella foce stretta
108
dov'Ercule segnò li suoi riguardi
acciò che l'uom più oltre non si metta;
da la man destra mi lasciai Sibilia,
111
da l'altra già m'avea lasciata Setta.
“O frati”, dissi “che per cento milía
perigli siete giunti a l'occidente,
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a questa tanto picciola vigilia
d'i nostri sensi ch'è dei rimanente
per la distanza, e parvemí alta tanto
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quanto veduta non avea alcuna.
Noi ci allegrammo, e tosto tornò in pianto,
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ché de la nova terra un turbo nacque,
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e percosse del legno il primo canto.
Tre volte il fé girar con tutte l’acque;
la quarta levar la poppa in suso
la prora ire in giù, com’altrui piacque,
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infin che '1 mar fu sovra noi ríchiuso».
Ritornato ad Itaca e trascorso un certo tempo, Ulisse fu ripreso
dall’irrequietezza dell’andare incontro all’ignoto: non riuscirono a
fermarlo in patria né l’amore paterno, né l’amore filiale, e nemmeno
l’amore coniugale. Più forte di tutto fu “l’ardor.. a divenir del mondo
esperto / e degli vizii umani e del valore”; eterna e nobilissima
aspirazione umana di affrontare qualunque pericolo pur di tentare, se
non di riuscire, un’altra impresa che deve schiudere nuovi orizzonti
alla conoscenza umana. E appena “in alto mare aperto”, si trova nel
suo vero elemento nel quale può essere veramente se stesso. Non si
può star tranquilli finchè c’è ancora qualcosa d’ignoto; anche se nel
mondo sono stati posti dei limiti “acciò che l’uom più oltre non si
metta”, non è giusto che ci si debba adattare. E’ tanto poco il tempo che
ci resta ancora da vivere – dice Ulisse ai suoi compagni – che non è il
caso di rinunciare all’esperienza.
La terra è la sorgente inesauribile delle cognizioni umane, trascurare
una possibilità è essere meno uomini.
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ULISSE DI U. FOSCOLO
La storia di Ulisse continua nel tempo. Si arriva così all’Ulisse del
Foscolo.
Né più mai toccherò le sacre sponde
Ove il mio corpo fanciulletto giacque,
Zacinto mia, che te specchi nell'onde
Del greco mar da cui vergine nacque
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Venere, e fea quelle isole feconde
Col suo primo sorriso, onde non tacque
Le tue limpide nubi e le tue fronde
L’inclito verso di colui che l'acque
Cantò fatali, ed il diverso esiglio
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Per cui bello di fama e di sventura
Baciò la sua petrosa Itaca Ulisse.
Tu non altro che il canto avrai del figlio,
O materna mia terra; a noi prescrisse
Il fato illacrimata sepoltura.
Il discorso delle prime tre strofe è perfettamente circolare: il concetto
espresso dal primo verso è ripreso dall’ultimo (per contrasto: Foscolo
non potrà toccare l’isola natale, Ulisse baciò la sua Itaca). La sintassi
così tortuosa appare omologa all’errare dei due eroi, Foscolo e Ulisse; a
sua volta la circolarità della struttura è omologa al ritorno dei due esuli
al punto di partenza (reale per Ulisse, ideale, mediante il “canto”, per
Foscolo).
A questo punto però si profila una contrapposizione tra il poeta e l’eroe
omerico, denunciata dal rapporto di contrasto tra i versi 1 e 11: Foscolo
non toccherà mai più Zante – Ulisse baciò la sua petrosa Itaca: sono
due peregrinazioni volute dal fato, ma con esito diverso: ad Ulisse gli
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dei concessero il ritorno, a Foscolo lo negarono. Si può leggere così il
sonetto secondo un duplice codice, “classico” e “romantico”.
Codice classico: l’eroe classico, positivo, conclude felicemente le
proprie peregrinazioni;
Codice romantico: l’eroe romantico, negativo, non può concludere
felicemente le proprie peregrinazioni.
Sono due concezioni dell’eroe profondamente diverse, l’una propria
dell’antichità classica,, l’altra propria dell’età moderna.
E’ un tema tipicamente romantico quello di un errare senza approdo
che si conclude con la morte in terre lontane e sconosciute. Questi
viaggi errabondi degli eroi letterari sono la proiezione simbolica di una
condizione di smarrimento, di incertezza, di mancata identificazione
con un dato sistema sociale e con i suoi valori.
L’eroe romantico, sentendosi sradicato da una società in cui non si
riconosce, ama rappresentarsi miticamente come un esule, un estraneo
al mondo, condannato a un perenne vagabondare, segnato da
un’arcana maledizione che lo isola dagli altri uomini e lo condanna alla
sconfitta, alla solitudine, all’infelicità.
L’EROE ROMANTICO
L’eroe romantico è un uomo fuori dalla società e dalle sue convenzioni
a cui si contrappone fieramente, che sente intensamente le passioni e
ha un senso vivissimo dell’avventura in cui trovano soddisfazione il
suo desiderio di libertà e il suo sfrenato individualismo.
La tematica dell’eroe incoercibile e ispirato sta al centro del movimento
dello Sturm und Drang in Germania e percorre la vita nonché le opere
di Lord Byron in Inghilterra e ha il suo riflesso in Italia con “Le ultime
lettere di Jacopo Ortis” di Foscolo; alla base dell’etica romantica sta la
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sentenza del filosofo spiritualista Jacobi: “se è impulso è dovere”. La
vita umana è retta dall’ispirazione.
In ogni uomo, in ogni ambiente l’amore diventa sublime, essendo il
sentimento più naturale e più immediato, l’ispirazione amorosa è
quella a cui bisognava dare maggior spazio, essa era mossa da un
sottile gioco di affinità elettive. Ma chi è che incarna l’etica romantica?
L’eroe è quello che ritroviamo nei personaggi byroniani; suoi tratti
sono la passione strabocchevole che lo spinge per mari e per terre
insaziabilmente, la strana maledizione per qualche colpa oscura e il
fascino che proprio da codesta tenebra promana.
Prototipi di eroi romantici si ritrovano anche nell’Ortis e nel Werther.
L’eroe romantico può essere il ribelle solitario che, orgoglioso della sua
superiorità spirituale e della sua forza, sprezzante della mediocrità, si
erge a sfidare ogni autorità, ogni legge, ogni convenzione, ogni limite,
per affermare la sua libertà e la sua individualità d’eccezione
(atteggiamento che viene definito titanismo); oppure può essere la
vittima, colui che proprio dalla sua superiorità è reso diverso
dall’umanità comune, e per questo è incompreso ed escluso, ma non
esprime il suo disdegno in gesti clamorosi di rivolta, bensì isterilisce la
sua vita nei sogni senza mai riuscire a tradurli in azione, ed esprime il
rifiuto con la solitudine, la malinconia, la contemplazione angosciosa
della propria impotenza e della propria sconfitta, il vagheggiamento
della morte, sino all’estremo gesto autodistruttivo del suicidio
(vittimismo). Gli archetipi di queste due figure si possono trovare
subito all’affacciarsi di una sensibilità romantica nella letteratura
europea: il primo nel personaggio del Masnadiere di Schiller (1783), il
secondo nel Werther di Goethe (1774).
Dai due atteggiamenti di base nasce una serie di figure mitiche,
particolarmente care al gusto romantico. In primo luogo il nobile
fuorilegge che, spinto dalla sua sete di infinita libertà e grandezza,
calpesta le leggi umane e si erge a sfidare Dio stesso, compiendo
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terribili delitti, e per questo è destinato ad essere gravato dal peso di
un’oscura maledizione.
Sul versante opposto, quello del vittimismo, si colloca la figura
dell’esule, l’uomo senza radici, che un destino avverso o la malvagità
degli uomini o un’inquietudine senza nome spingono a vagare senza
sosta lontano dalla patria.
Sono tutte, sia le immaginarie che le reali, figure di uomini sradicati e
fieri della loro alienazione il cui itinerario spirituale conduce ad una
coscienza sempre più sdegnosa e amara dello sradicamento.
IL RIBELLE DI BYRON
The romantic hero introduced by Byron is a mysterious man: there is a
secret in his past, some horrible sin, a fatal mistake, something
unforgivable. He is an outcast: everybody can feel the presence of a
shade in his past, but nobody knows what is really hidden behind the
veil of time, and the romantic hero never unveils his secret. His past is
wrapped in mystery as in a royal cloak; he is solitary, silent,
inaccessible. He is under the shade if damnation and ruin and he is
ruthless to himself as well as to everyone else- He cannot give
forgiveness and never asks for mercy, abandoned as is by God and
Men alike. He regrets nothing, never does he repent; in spite of his
hopeless life he would change nothing in his past. He is wild and
rough in his manners but he is of noble birth; his face is hard and
impenetrable but beautiful. His power of fascination is as strong as
strange: no woman can resist him, while men either give him
friendship or extreme hostility. Destiny runs after him and he becomes
destiny for anyone he meets.
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Dissomigliante da gli antichi eroi
Ch'eran démoni a l'opre, angeli al volto,
265 Poco il sembiante di Corrado avea
Che notevol paresse, ancor che l'arco
De le sue nere sopracciglia un guardo
Adombrasse di foco.
Unlike the heroes of each ancient race,
Demons in act, but Gods at least in face,
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ln Conrad's form seems little to admire,
Though his dark eyebrow shades a glance of fire.
The motif of rebellion was shared by other poets, notably Shelley: both
poets were inspired by the myth of Prometheus, the Titan who
challenged Jupiter and stole fire mankind and is also considered the
symbol of the power of human reason.
THE BYRONIC HERO
Manfred is the supreme example of the “Byronic hero”: proud and
independent, living as a perpetual exile, unable to conform to society,
and considering himself different from other men, living by his own
values. Byron’s innovation is that Manfred, unlike Faust, rejects the
offer of a pact with the devil. He does this not because he chooses
heaven instead but because he is totally autonomous; the Romantic
hero can do without God and the devil.
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ADELCHI: EROE-VITTIMA
Un forte dissidio interiore caratterizza Adelchi: egli aspira alla gloria,
conquistata in imprese magnanime, ed è costretto invece dai disegni
politici del padre ad assalire gli indifesi territori della Chiesa,
trasformandosi in un ladrone.
Il contrasto si apre tra un’anima privilegiata, nobile e pura, e la realtà
della politica, in cui domina solo l’interesse e la legge della forza.
Questo contrasto esprime il pessimismo cristiano della visione di
Manzoni, che vede la storia umana, in conseguenza della caduta,
condannata ad una degradazione non riscattabile. In essa gli individui
che aspirano ai valori più alti non possono trovar posto e ne sono
irrimediabilmente espulsi.
Questo conflitto tra aspirazioni ideali e realtà colloca il personaggio di
Adelchi in un clima decisamente romantico: romantico è anche il
fascino che circonda l’inevitabile sconfitta dell’eroe, condannato alla
sofferenza a all’infelicità proprio dal suo privilegio spirituale.
Si tratta di un tipo di eroe negativo che ha le sue radici negli eroi tragici
alfieriani, in Werther, in Jacopo Ortis, ma a differenza di tanti altri eroi
romantici, Adelchi non è un ribelle. Non si erge a sfidare il potere
tirannico del padre (come farebbe un “eroe di libertà” alfieriano), non
si oppone attivamente alla realtà degradata della politica e della ragion
di stato con gesti clamorosi di rivolta, con slancio generoso e titanico,
eroico proprio per la consapevolezza dell’ineluttabile fallimento del
suo gesto. Il suo rifiuto del negativo si isterilisce nel chiuso
dell’interiorità, nella pura contemplazione della propria sconfitta e
della degradazione delle proprie aspirazioni, della propria vita che si
trascina oscura, senza scopo, senza possibilità di scelta, del proprio
animo che progressivamente si inaridisce. Il senso della sua vita
sprecata si compendia nell’immagine del seme che, caduto in un
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terreno sterile, non può sviluppare la sua potenziale fecondità ed è
portato via dal vento.
Piuttosto che alla categoria degli eroi ribelli, Adelchi appartiene a
quella degli eroi vittime.
A questo tipo di eroi non si prospetta altra alternativa che la morte. E
così è anche per Adelchi, ma in una variante cristiana, ben diversa da
quella del Werther e Jacopo Ortis: la morte è il riscatto in un’altra
dimensione, immune dalla degradazione dell’esistenza storica. Il
conflitto romantico ideale- reale, nella prospettiva religiosa di
Manzoni, si risolve sul piano dell’eterno. Se l’eroe non è fatto per la
brutalità del reale, può trovare la sua vera patria nell’altra vita.
Il cuore spingerebbe Adelchi ad “alte e nobili cose”, mentre la
“fortuna” lo condanna “ad inique”, cosicché egli è costretto a trascinare
una vita “oscura, senza scopo”. Questa contrapposizione frontale fra
ideale e reale, questo bisogno di gloria che cozza contro l’iniquità e
l’opacità della situazione concreta in cui l’eroe si trova ad agire, sono
temi altamente romantici. Come romantico è il destino che ad Adelchi
indica Anfrido: “Soffri, e sii grande”.
ANFRIDO
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Alto infelice!
reale amico! il tuo fedel t'ammira,
e ti compiange. Toglierti la tua
splendida cura non poss'io, ma posso
teco sentirla almeno. Al cor d'Adelchi
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dir che d’omaggi, di potenza e d'oro
sia contento, il poss’io? dargli la pace
de' vili, il posso? e lo vorrei, potendo?
-Soffri e sii grande: il tuo destino è questo,
finor: soffri, ma spera: il tuo gran corso
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comincia appena; e chi sa dir, quei tempi,
quali opre il cielo ti prepara? il cielo
che re ti fece, ed un tal cor ti diede.
Adelchi è alieno alla logica e alla meccanica del potere, ma sperimenta
su di sé l’appartenenza ad una stirpe di oppressori che hanno fatto
della violenza la loro legge, una legge che scatta anche contro di lui,
facendone un oppresso. Adelchi è un eroe solitario e lucido, una specie
di intellettuale isolato che guarda spregiudicatamente la violenza della
società dominata dal potere, dalla feroce logica della ragion di stato,
dalla violenza legalizzata. Egli contesta quel tipo di società pur
lasciandosi coinvolgere; la sua analisi poi è tutta legata alla tensione
religiosa ed esistenziale, per cui alla condanna della società si aggiunge
quella della vita. Adelchi rivela così la sua fuga idealistica e romantica
verso la tangente esistenziale e metafisico–provvidenzialistica, la
rassegnazione stanca di fronte ad una lotta che non ha alternative se
non nella morte pacificata della salvezza divina: “O Re dei re…l’anima
stanca accogli”.
L’EROE-VINTO DEL VERGA
All’eroe vittima di Adelchi segue quello che potremmo definire con
un’audace contrapposizione l’eroe–vinto del Verga, che trova la sua
maggiore espressione in Padron ‘Ntoni, silenzioso eroe del dovere,
eroe dell’onore domestico, del lavoro e della fedeltà, è il custode tenace
di queste leggi invisibili della casa; egli è un semplice pescatore, ma si
drizza, davanti alla nostra fantasia, rude e triste, nell’austerità e
naturale grandezza della sua anima all’antica.
L’eroismo di padron ‘Ntoni è rozzo, istintivo, poggiato su due o tre
massime, respirate fin dalla nascita e che non si possono discutere. Ha
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fatto un debito con zio Crocifisso: deve pagarlo. Ha perduto la casa del
Nespolo: deve riscattarla. La famiglia minaccia di disperdersi: bisogna
ricostituirla.
Egli personifica un modo di vivere, quello dell’ “ostrica” e della
“formica”,
una
concezione
dello
stato,
quello
patriarcale
e
preindustriale, una serie conseguente di valori: la famiglia, il lavoro,
l’onestà, l’integrità morale; rappresenta un’ideologia, quella della
società contadina, arcaica, conservatrice, chiusa nella sua secolare
immobilità, senza nessuna prospettiva di trasformazione e di
progresso.
Non c’è in padron ‘Ntoni neppure il lontano sospetto che quelle
tragiche condizioni di vita siano anche frutto di ingiustizie, del
dominio di pochi su molti, dello sfruttamento dell’uomo sull’uomo.
Non c’è insomma un minimo di coscienza di classe, anzi la sua visione
del mondo è legata al lavorare e tacere (“bisogna vivere come siamo
nati”); alla fatalistica rassegnazione (“sei quello che è stato tuo padre, e
quello che è stato tuo nonno”); alla paziente soddisfazione del poco.
La sua cultura e le sue norme di comportamento sono attinte dal
passato, dalla saggezza antica, consegnata alla cultura dei proverbi.
Attraverso padron ‘Ntoni, Verga celebra l’epopea della società
contadina di contro alle dissipazioni morali della società urbana, ed
esalta l’ideale dell’ostrica, della famiglia, della vita come ripetizione.
LA COSCIENZA DELLA CRISI
Dopo il 1870 una profonda irrequietudine e insoddisfazione domina in
vari settori dell’opinione pubblica e negli intellettuali più giovani per il
fallimento del Risorgimento. La realtà italiana infatti è ben diversa
dagli eroici ideali accarezzati nel primo Ottocento: il rinnovamento del
paese non è avvenuto, le zone meridionali sono regredite a terra di
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conquista senza alcuna possibilità di sviluppo, la vita politica,
impastoiata nel trasformismo e negli scandali, è incapace di portare
avanti una reale trasformazione. Il decennio giolittiano poi vede il
bruciarsi della utopia socialista nella irresponsabile leggerezza di molti
suoi dirigenti e nella arretratezza delle masse. Infine la prima guerra
mondiale, da troppi invocata nella speranza che qualcosa cambi, lascia
invece le cose come stanno, anzi diffonde una immagine rovinosa della
società borghese ed esaspera la delusione e le irrequietudini che
troveranno poi nel fascismo il punto massimo di coagulo, di
involuzione e di crisi.
PIRANDELLO: CRISI DI IDENTITÀ
Pirandello è il testimone e la coscienza della crisi dell’intellettuale, che
ha perduto la capacità di elaborare valori, forme e modelli di vita, e
anche dell’uomo moderno (crisi storica ed esistenziale insieme).
L’uomo moderno allora, nei panni del personaggio pirandelliano, vive
una “condizione anarchica”, di sconfitta, di impotenza, proprio perché
a lui manca una realtà stabile, definita e leggibile. E’ un uomo preso di
continuo nella dialettica realtà/illusione, vita/forma, e ripete e
raddoppia sempre se stesso alla ricerca di una consistenza, di un
“altro” che mai riesce a raggiungere. L’eroe dall’ “essere a tutto tondo”
si frantuma.
Ne
“Il
fu
Mattia
Pascal”
(1904)
il
personaggio
si
sdoppia
continuamente (Pascal, Meis, fu Pascal), alla ricerca di una identità
perduta. Da un lato la perdita di identità – l’occhio strabico
è già un modo do guardare tangenzialmente la vita – consente al
personaggio di vedere lucidamente i meccanismi della società
borghese, l’assurdità della vita, la crisi dei rapporti sociali, divenendo
un giudice implacabile delle menzogne sociali e creando una dialettica
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continua tra sé e la società. Dall’altro, la vita liberata dalle convenzioni
porta il personaggio alla ricerca ossessiva di una propria identità, di
una propria consistenza, a ridare un volto nuovo alla vecchia coscienza
sconfitta e frantumata. Ma, riguadagnato un presente vergine, sottratto
al quotidiano dominio dell’alienazione, il nuovo Adriano Meis deve
constatare l’ineluttabilità e l’irreversibilità delle convenzioni sociali che
stringono le fila attorno a lui. Il nuovo status si rivela ben presto una
trappola che non gli consente alcuna realizzazione, alcuna possibilità di
esistenza fuori dalle convenzioni: “fuori della legge e fuori di quelle
particolarità, liete o tristi che siano per cui noi siamo noi … non è
possibile vivere”: si avrà così la verifica ironica della propria sconfitta e
il ritorno allo stato di partenza, ma degradato: non più solo una perdita
di identità, ma una “identità sospesa”, e il fu Mattia Pascal non può che
chiudersi con questa battuta: “io non saprei proprio dire ch’io mi sia”.
E’ questo l’ “homo tragicus” caratterizzato dunque dallo scacco e da
una impossibile identificazione, drammaticamente sdoppiato tra il
ruolo fisso che la vita gli impone e il flusso tumultuoso della vita che
urge e preme, tra il bisogno di una dimensione certa per sé e per gli
altri e la disgregazione della persona, la sua relativizzazione in tanti
altri da sé (“Uno, nessuno, centomila”, è il titolo significativo di un
altro famoso romanzo pirandelliano). L’esistere allora è una condizione
di derisoria instabilità, di discontinuità della vita interiore, in un gioco
assurdo di apparenze che sono realtà e di realtà che sono apparenze, il
tutto all’interno di una società non più credibile nelle sue verità
oggettive, nella non tenuta dei suoi valori e delle sue convinzioni.
L’”homo tragicus”, è evidente, riflette la profonda crisi esistenziale
dell’uomo moderno.
Gli aspetti che più propriamente caratterizzano il nuovo clima
decadente di fine secolo potrebbero così schematizzarsi: sulla base di
un comune irrazionalismo, del rifiuto della realtà e della fuga verso un
“altrove” ideale e fantastico, l’età romantica si segnalava per il suo
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slancio entusiastico, per l’anelito all’infinita espansione dell’io, per le
forme di ribellione eroica e titanica, che rivelavano una energia
spirituale; il Decadentismo è invece contrassegnato da un senso di
stanchezza, estenuazione, languore, smarrimento, da un presentimento
di fine e di sfacelo, che inibisce ogni slancio energico e induce a
ripiegarsi nell’analisi inerte della propria “malattia” e debolezza (ma
già nel Romanticismo erano presenti atteggiamenti vittimistici, una
compiaciuta contemplazione della propria inutilità e sterilità, stati di
cupa malinconia che inducevano a vagheggiare voluttuosamente la
morte e producevano impulsi autodistruttivi e nichilistici).
Ne discendono alcuni corollari: la letteratura del Romanticismo aveva
ambizioni costruttive; il “languore” decadente impedisce ormai queste
ambizioni smisurate. Ne deriva ancora che se lo slancio verso l’ideale
consentiva agli scrittori romantici forme di impegno (magari solo
negativo, attraverso la rivolta), la trattazione dei grandi problemi, la
fiducia di poter incidere in qualche modo sulla realtà, l’artista
decadente rifiuta invece ogni impegno, afferma il principio della poesia
pura, non contaminata da interessi pratici, morali o politici. A queste
tendenze sembra fare eccezione l’opera dannunziana della fase
superomistica, che presenta ancora una forte tensione ideale, uno
slancio energico, ambizioni costruttive, una forma di impegno e una
volontà di plasmare la realtà esterna: di conseguenza il superomismo
dannunziano appare quasi come una variante esasperatamente
irrazionalistica del titanismo romantico. Ma lo slancio energico non è
che un tentativo di mascherare l’estenuata debolezza dell’anima
dannunziana, l’attrazione morbosa del disfacimento e della morte.
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NIETZSCHE:
LA FILOSOFIA DÀ UNA NUOVA DIMENSIONE ALL’UOMO
Il pensiero di Nietzsche si muove, con una forte carica aggressiva e
agonistica, contro gli aspetti emergenti della società del suo tempo. E’
una critica feroce e senza ipocrisie che condanna i miti del progresso, la
filosofia positiva, le leggi della razionalità, il conformismo dei costumi
e dei principi democratici–egualitari che tutto appiattiscono, dalla
personalità individuale alla creatività. Per Nietzsche
la ragione
scientifica è ingannevole e livellatrice, e la morale cristiana – con i suoi
concetti di amore del prossimo, di pietà, di speranze ultraterrene, di
fratellanza universale, di sacrificio di sé – ha reso schiavi gli uomini.
Di contro a questo spirito di rinuncia, Nietzsche proclama la morte di
Dio e contrappone, con un autentico rovesciamento di valori, lo spirito
dionisiaco che, invece, è l’esaltazione entusiastica ed orgiastica della
vita. Dioniso, nel mondo greco era infatti simbolo di ebbrezza e gioia di
vivere; un dio che amava cantare, ridere e danzare nelle feste
primaverili, una forza prorompente e feconda nella sua inconsulta
frenesia vitale.
Di contro all’esaltazione dello spirito Nietzsche esalta il terrestre e il
corporeo, di contro alla rinuncia esalta le virtù della vita: la fierezza, la
gioia, la salute, l’amore sessuale, l’inimicizia e la guerra, la
venerazione, la volontà di potenza…
Nella fase più tarda del pensiero nietzschiano emerge con prepotenza
la figura del superuomo, espressione ed incarnazione della volontà di
potenza. Superuomo è colui che vince in sé tutte le repressioni morali e
sociali, colui che tenta di superare le angustie esistenziali, le
contraddizioni e le lacerazioni in cui è costretto da tutta una tradizione
di pensiero idealistico e cristiano. Il pensiero occidentale ha prodotto
queste lacerazioni sopravvalutando l’anima considerata falsamente
l’entità stabile e incorruttibile e svalutando il corpo. L’opposizione tra
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corpo e anima, essendo espressione dell’eterno conflitto tra Male e
Bene, cui misteriosamente tutta la creazione soggiace, è insanabile.
Per superare queste laceranti scissioni, il superuomo si radica nella
terra rifiutando ogni giustificazione della vita che non venga dalla vita
stessa. La sua comparsa è contemporanea all’annuncio della morte di
Dio. Questa morte lo libera da una presenza invadente e ossessiva, gli
restituisce una libertà e una creatività che un cosmo di valori già fissati
gli negava. Egli vive il presente nella piena adesione all’esistenza
corporea, senza che questo gli venga più sottratto da un evanescente
futuro ultramondano. La vita deve essere vissuta come se fosse
immune dalla minaccia della morte.
Negli anni tra Otto e Novecento si assiste ad una straordinaria
diffusione in tutti i campi della cultura – in quello filosofico, ma
soprattutto in quello letterario e politico – di temi ricavati dall’opera di
Nietzsche. Colui che più contribuì a propagandare in Italia il pensiero
del filosofo tedesco e il mito del superuomo fu indubbiamente Gabriele
D’Annunzio. Le tesi nietzschiane, però, furono semplificate e
deformate, superficialmente falsificate in base ad un erroneo concetto
di volontà di potenza. Il mito del superuomo “che, nella violenta e
radicale critica nietzschiana ai vari aspetti della civiltà moderna,
rappresentava una sorta di utopia, di trascendenza dell’uomo stesso, in
Italia veniva interpretato come esaltazione dell’individuo superiore che
vive nella storia, capace di liberarsi dalle catene della morale
convenzionale, elevandosi sulla folla dei mediocri.
L’antinaturalismo di Nietzsche, la sua critica degli ideali borghesi del
vivere comodo, il suo richiamo al valore dei fattori alogici e arazionali
dell’individuo che concorrono alla formazione della volontà di
potenza, fermentarono così nella cultura italiana, combinandosi con
altri elementi culturali e politici , e si trasformarono in proposte
politiche concrete: si andò diffondendo infatti molto rapidamente la
convinzione che la funzione di motore della
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storia e della società spetti alle minoranze capaci di porsi “al di là del
bene e del male” e di affermare la loro volontà di potenza
strumentalizzando la carica emotiva e passionale delle masse.
Il superuomo deformato e strumentalizzato a fini scopertamente
politici servì anche da sostegno ideologico al totalitarismo nazista e
fascista.
IL SUPERUOMO DI D’ANNUNZIO
L’ideologia superomistica, che trova la sua esposizione programmatica
ne “Le Vergini delle rocce” (1896) e nel “Fuoco” (1900), presenta alcune
caratteristiche fondamentali.
Al di sopra della plebe, avvinta alle sue mediocrità, si leva il
superuomo che coltiva il culto della forza, la volontà di affermazione e
di dominio, il disprezzo del pericolo e l’amore per il rischio , la
violenza e la guerra. Collegata con la forza, “è l’esuberanza sensuale, il
libero disfrenarsi dei diritti della carne e della natura umana, e accanto
ad essi si pone – senza contraddizione – il culto della bellezza, valore
che pochi sono in grado di comprendere e di creare, linea
discriminante degli eletti dalla plebe” (C. Salinari).
E’ quella del superuomo una concezione aristocratica del mondo che
porta al conseguente disprezzo della plebe, del mondo prosaico
dell’uguaglianza
democratica,
della
politica
come
ordinaria
amministrazione ,del regime parlamentare.
Totalmente negativo è il giudizio sull’Italia post-unitaria; occorrono
energie nuove che la sollevino dal fango, in grado di realizzare una
missione di potenza e di grandezza.
Infine, la polemica contro la volgarità della nuova borghesia
dell’industria, del commercio, della prima speculazione edilizia e, con
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essa, la polemica contro i principi di libertà e di uguaglianza introdotti
dalla rivoluzione borghese.
L’INETTO DI SVEVO
Al
superuomo
dannunziano
si
contrappone,
come
già
nel
Romanticismo, la vittima, che ora diventa l’inetto sveviano, l’uomo che
ha perduto, come già in Pirandello, la sua identità.
Alfonso, protagonista del primo romanzo di Svevo, inaugura un tipo
di personaggio “inetto” che ritornerà regolarmente, attraverso varie
incarnazioni,
nei
libri
successivi
di
Svevo.
L’inettitudine
è
sostanzialmente una debolezza, un’insicurezza psicologica, che rende
l’eroe “incapace alla vita”.
In Svevo si sfalda l’immagine di uomo quale era stata proposta dalla
borghesia ottocentesca nella fase della sua ascesa, l’individuo, libero,
attivo, energico, capace di crearsi il suo mondo con la sua iniziativa e la
sua volontà. L’inetto piccolo borghese, vittima di un processo di
declassazione da una condizione agiata, è proprio il campione
esemplare di questa crisi. Svevo non si limita solo a ritrarre una
condizione psicologica, sa anche individuare acutamente le radici
sociali di quella debolezza e di quella impotenza dinanzi alla vita:
Alfonso di “Una vita” è un piccolo borghese declassato da una
condizione originariamente più elevata, ed è un intellettuale, ancora
legato ad un tipo di cultura esclusivamente umanistica. Il combinarsi
di questi due fattori sociali lo rende un “diverso” nella solida società
borghese triestina, i cui unici valori riconosciuti sono il profitto, la
produttività,
l’energia
nella
realizzazione
pratica
Alfonso
è
dolorosamente afflitto, quasi paralizzato dalla sua diversità, che è
sentita come inferiorità. L’impotenza sociale diviene impotenza
psicologica: Alfonso non riesce più a coincidere con un’immagine virile
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piena, forte e sicura, quale quella imposta dalla società borghese
ottocentesca, che ha il culto dell’individuo energico e dominatore. Ma,
pur sentendo la sua inferiorità, Alfonso ha bisogno di crearsi una realtà
compensatoria: la cultura umanistica e la vocazione letteraria, che lo
rendono inadatto alla durezza della lotta per la vita nella società
capitalistica, si trasformano ai suoi occhi in un motivo di orgoglio, nel
segno
distintivo
di
un
privilegio
spirituale:
Così
il
grigio
impiegatuccio, il provinciale timido, goffo, scontroso, chiuso nella sua
solitudine, incapace di stabilire relazioni con gli altri, nei suoi “sogni da
megalomane” si costruisce una maschera fittizia, un’immagine di sé
consolatoria, che lo risarcisce dalle frustrazioni reali.
Accanto a questo tipo di “eroe” c’è la figura dell’esteta, consacrata dal
Des Esseintes di Huysmans, dall’Andrea Sperelli di D’Annunzio, Dal
Dorian Gray di Wilde. E’ l’artista che vuol trasformare la sua vita in
opera d’arte, sostituendo alle leggi morali le leggi del bello e andando
costantemente alla ricerca di sensazioni squisite e piaceri raffinati,
modellati sull’esempio delle grandi opere poetiche, pittoriche o
musicali del passato. L’esteta ha orrore della vita comune, della
volgarità borghese, di una società dominata dall’interesse materiale e
dal profitto, dall’egualitarismo democratico, e si isola in una sdegnosa
solitudine, circondato solo dalla bellezza e dall’arte. Il presente per lui
è il trionfo della bruttezza e dello squallore, ciò che è bello ed eletto
può essere collocato solo nel passato, in età di suprema raffinatezza
come quella greca o quella rinascimentale.
I due tipi hanno una matrice comune, il rifiuto della normalità
borghese, e di conseguenza si possono distinguere solo in astratto; nel
concreto i loro tratti spesso si confondono, dando origine a figure
ibride: il “maledetto” ha anch’egli il culto mistico dell’arte, ed esalta il
male per il suo valore estetico, per la sua sublime e orrida bellezza;
viceversa anche l’esteta rifiuta le norme morali e le convenzioni, e nella
sua assoluta amoralità può con indifferenza giungere a commettere il
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male, a compiere crudeltà e delitti, può compiacersi di sprofondare nel
vizio (ne sono un esempio proprio i citati Des Esseintes, Andrea
Sperelli, Dorian Gray).
L’inetto è escluso dalla vita, che pulsa intorno a lui e a cui egli non sa
partecipare per mancanza di energie vitali, per una sottile malattia che
corrode la sua volontà. Può solo rifugiarsi nelle sue fantasie,
compensatrici di una realtà frustrante, vagheggiando in sterminati
sogni l’azione da cui è escluso. Vorrebbe provare forti passioni, ma si
sente inaridito, isterilito, impotente. Più che vivere, si osserva vivere.
Ed è proprio la sua qualità di intellettuale, con l’eccesso del pensiero, il
continuo osservarsi e studiarsi, a raggelare i suoi sentimenti, a bloccare
l’azione,
ad
isolarlo
dalla
vita
che
scorre
fuori
e
lontano,
irraggiungibile. L’ipertrofia della vita interiore diventa una forma di
ossessione, viene a costituire una dimensione alternativa, parallela alla
realtà vera, nella quale l’eroe si chiude interamente, perdendo i contatti
con il mondo esterno, talora sprofondando in una lucida follia.
L’EROE-SCIENZIATO: FARADAY
LA FIGURA DI FARADAY:
"Sono sicuro di avere incontrato molte persone che sarebbero potute
diventare buoni e validi cultori di scienza, e che si sono guadagnate
una grande fama: ma la fama e il guadagno era ciò che essi stessi
avevano sempre cercato di ottenere - la ricompensa della lode del
mondo. Per questi tipi è sempre presente un'ombra di gelosia o di
rimpianto e non riesco a immaginare come un uomo possa fare delle
scoperte nutrendo sentimenti del genere” (disse Faraday).
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Infaticabile ...
"Non ho mai avuto uno studente o allievo sotto di me che mi aiutasse
negli esperimenti, ma ho sempre preparato ed eseguito le esperienze
con le mie mani, lavorando e pensando allo stesso tempo.”
Abile artigiano...
Mentre Faraday lavorava come apprendista in una libreria, si dedicava
con passione alla costruzione di apparecchi scientifici.
Grande divulgatore...
Non fu solo un genio, ma anche uno dei grandi divulgatori scientifici e
la "Lezione di Natale per bambini" del 1826 è custodita ancora oggi
nella sede della “Royal Society” a Londra. Furono quasi una ventina le
lezioni di questo tipo tenute da Faraday, e l'attuale banconota da 20
sterline lo mostra in una di queste occasioni. La sua lezione più famosa
trattava della "Storia naturale di una candela".
Grande scienziato...
Scientificamente parlando, Faraday fu un autodidatta. La sua
formazione culturale poté così compiersi senza subire i pesanti
condizionamenti di una rigida tradizione scientifica che nelle Scuole e
nelle Accademie inglesi era cresciuta all'ombra di un ossequioso
rispetto del credo newtoniano. Faraday elaborò un suo originalissimo
metodo di ricerca nel quale, da una parte, viene bandito l'uso di ogni
strumento matematico quale criterio rigoroso di deduzione, a partire
da assunzioni generali, di leggi sottoponibili al controllo sperimentale,
dall'altra, è l'attività di laboratorio, sorretta da un’eccezionale abilità
nel riprodurre la moltitudine di situazioni concrete entro le quali può
essere esaminato un dato fenomeno, a guidare direttamente la scelta
tra le varie ipotesi teoriche che su di esso possono essere fatte.
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La fisica di Faraday fu risolutamente antinewtoniana, nel senso che egli
si rifiutò di aderire a quei programmi di ricerca che vedevano nella
riduzione alle leggi della meccanica l'unica forma di spiegazione
scientifica. In particolare, egli fu sempre fermamente convinto che i
due pilastri del pensiero di Newton - il dualismo materia-forza e il
concetto di azione a distanza - erano divenuti del tutto insufficienti,
anzi costituissero dei veri e propri ostacoli alla comprensione di una
realtà fisica arricchitasi di nuove determinazioni, grazie all'eccezionale
sviluppo della fisica sperimentale attorno al 1800.
Faraday analizzò, nel 1821, l’azione scoperta da Oersted, che vedeva un
“conflitto elettrico” agire attorno all’asse del filo. Servendosi di un
apparato che consente di far ruotare in modo continuo sia un filo
percorso da corrente attorno a un polo magnetico sia un polo attorno al
filo, egli sostenne che il magnete e gli effetti magnetici vanno
considerati indipendenti e mise a punto l'idea che lo spazio è solcato da
linee di forza magnetiche curve.
A partire dalla scoperta del carattere non centrale, ma circolare, delle
forze magnetiche attorno al filo, tutta la successiva ricerca di Faraday si
concentrò
nell’individuazione
di
un
esperimento
cruciale
che
mostrasse in termini ultimativi l'insostenibilità dell'idea che in natura
operassero azioni istantanee a distanza. Ma, per poter affermare che
l'azione tra corpi distanti si trasmette nel tempo tra una e l'altra del
campo e che in ogni punto la direzione di quell'azione è indicata dalle
linee di forza, non era sufficiente demolire la fisica amperiana alla luce
dell'evidenza sperimentale, piuttosto occorreva dare una nuova base
concettuale all'intera teoria.
Quale doveva essere la struttura del
mezzo perché esso divenisse la sede di un complesso sistema di forze
la cui distribuzione dipendesse dai corpi presenti al suo interno? Era
ancora difendibile un’immagine atomistica della materia una volta che
gli atomi non fossero più identificabili con centri di forze newtoniane,
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in altre parole come era possibile conciliare la discretezza della materia
con l'apparente continuità del campo?
Nel corso degli anni '20, sviluppando una analogia con l'effetto di
trasmissione dell'elettricità attraverso una soluzione elettrolitica,
Faraday sostenne l'ipotesi della natura particellare del mezzo e
considerò
le
linee
di
forza
come
entità
immaginarie
che
rappresentavano la distribuzione delle particelle del mezzo per effetto
della polarizzazione.
Tra il 1831 e il 1837 Faraday ottenne due importanti risultati
sperimentali che fecero compiere alla teoria di campo una decisiva
evoluzione. La scoperta dell'induzione elettromagnetica mostrava la
convertibilità del magnetismo nell'elettricità, cioè esattamente l'effetto
opposto a quello trovato da Oersted un decennio prima. È possibile
produrre un flusso di corrente elettrica qualora si muova un
conduttore all'interno del campo magnetico; la corrente prodotta
dipenderà dalle linee di forza intercettate dal conduttore stesso. La
seconda scoperta permetteva di affermare che, anche nel caso ben noto
dell'induzione elettrostatica, le forze elettriche si trasmettono lungo
linee curve.
Sul piano concettuale Faraday traeva da questi esperimenti due
importanti conseguenze. Da una parte, si doveva supporre che il filo
posto all'interno del campo magnetico si trovasse in uno stato speciale,
che Faraday indicava come «stato elettrotonico», e che la corrente fosse
nient'altro che il cambiamento di questo stato prodotto dalle forze
magnetiche. Dall'altra, andava riformulata l'ipotesi atomistica della
materia e abbandonata l'immagine di un mezzo che esplica la propria
funzione attraverso la polarizzazione delle particelle in esso presenti.
Solo così si evitava di riproporre a livello microscopico le azioni a
distanza e si poteva superare il paradosso di assegnare al mezzo le
proprietà di un isolante e di un conduttore a seconda che esso si
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venisse a trovare rispettivamente negli spazi intermolecolari di
sostanze isolanti o conduttrici.
In una serie di memorie pubblicate tra il 1846 e il 1857, Faraday riuscì a
elaborare la più generale e la più coerente formulazione della teoria di
campo assegnando un'autonoma esistenza fisica alle linee di forza,
concependo la materia come una forza diffusa su tutto lo spazio e
tentando di ricomprendere all'interno della concezione delle linee di
forza le stesse azioni gravitazionali. Anche se molti erano ancora gli
interrogativi che Faraday lasciava in eredità alla ricerca futura, egli
riuscì a portare a termine il suo progetto di eliminazione del dualismo
materia-forza dalla scienza fisica. Particolarmente ricca di stimoli si
sarebbe rivelata la posizione che Faraday assunse nei confronti del
problema dell'etere al quale i fisici matematici erano ricorsi per
spiegare la propagazione delle onde luminose attraverso lo spazio. Se
la materia è continua in tutto lo spazio e se gli atomi vanno visti come
punti geometrici da cui si diramano sistemi di forze, l'etere, così diceva
Faraday, diveniva un inutile duplicato della materia. Fu proprio lo
sviluppo di questa visione che permise a Maxwell di scoprire la natura
elettromagnetica della luce.
L'opera di Faraday è raccolta nelle “Experimental researches in
electricity” e nel “Diary” che costituiscono una delle testimonianze più
vive del lavoro dello scienziato. Leggendo quelle pagine è possibile
ancora oggi seguire Faraday nel suo laboratorio mentre interroga la
natura
e
seguendo
il
filo
dei
suoi
ragionamenti,
in
esse
scrupolosamente annotati, si vedono allargarsi i confini della
conoscenza con una meravigliosa sintesi di pensiero teorico e di attività
pratica.
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IL CONCETTO DI CAMPO PRIMA DI FARADAY:
Prima dell'intuizione di Faraday le linee che la limatura di ferro
formava quando veniva posto in prossimità di una calamita erano
considerate solamente una curiosità di scarsa importanza per lo studio
dei fenomeni. Inoltre, fino a quel momento, era ancora rimasto irrisolto
un grosso problema che teneva impegnate le menti più brillanti del
tempo: l’azione a distanza.
Il diverbio si poteva affrontare da due diversi punti di vista: ammettere
che un corpo potesse esercitare un'influenza in uno spazio in cui non si
estendeva oppure cercare di rilevare un mezzo interposto ai corpi
attraverso cui reazione si potesse trasmettere.
Attraverso lo studio delle linee di forza Faraday riuscì a dare un
significato fisico allo spazio, che in questo modo assumeva
caratteristiche e proprietà che potevano essere studiate e modificate. In
poche parole definì il concetto di campo.
L'azione a distanza, pur avendo dato fino ad allora risultati notevoli,
era tuttavia difficilmente accettabile dal punto di vista teorico,
ammettere che due corpi distanti si potessero influenzare appariva agli
scienziati una possibilità difficilmente credibile, che suonava ai loro
orecchi come un fenomeno sovrannaturale, al pari della telepatia o di
altre dottrine "magiche". Lo stesso Newton, le cui teorie si basavano
principalmente sull'azione a distanza, inorridiva davanti a una simile
prospettiva:
"Che la gravità debba essere innata, inerente ed essenziale alla materia,
cosicché ogni corpo agisce su ogni altro a distanza attraverso il vuoto senza la
mediazione di niente attraverso cui e per il cui mezzo le loro azioni e forze
possano venire trasmesse dall’uno all'altro, e per me un'assurdità così grande
che io ritengo che nessuna persona che nelle questioni filosofiche sia dotata di
una capace facoltà di pensare possa mai cascarci" (disse Newton).
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Da allora il tentativo di capire cosa fosse realmente il vuoto fu una
delle occupazioni principali dei teorici e degli scienziati, e grazie a
Faraday questo problema venne abilmente risolto, in pratica lo spazio
veniva a coincidere con le linee di forza e poteva quindi essere studiato
matematicamente.
Per avvalorare la tesi secondo cui lo spazio interposto fra due corpi
(calamite o cariche elettriche) abbia delle caratteristiche proprie e possa
essere modificato, Faraday ricorse a diverse prove, fra cui:
Le linee di forza possono essere curvate, e questo non si poteva
spiegare attraverso l'azione a distanza, in particolare nel caso di linee
attorno a un filo percorso da corrente
I fenomeni elettromagnetici possono essere modificati da un mezzo
interposto, e questo dimostra che l'interazione non è indipendente
dallo spazio circostante.
Per il fenomeno dell'induzione: si crea una corrente in una bobina
quando viene mossa una fonte di campo magnetico. Ciò non si spiega
con il solo movimento, ma devono cambiare le condizioni dello spazio
attorno alla bobina.
In particolare quest'ultimo punto stava a cuore a Faraday che a questo
riguardo scrisse:
"Ora tutti questi fatti e altri ancora provano l'esistenza di linee di forza fisiche
sie esterne che interne al magnete... I fenomeni osservati con il filo mobile
portano alla stessa conclusione. Non appena il filo si muove lungo le linee di
forza una corrente elettrica lo percorre o tende a percorrerlo, mentre non c'è
corrente quando il filo è ancora fermo... La semplice azione di moto non può
aver prodotto questa corrente: ci deve essere stata una condizione attorno al
magnete da esso alimentata, nel cui raggio d'azione si trova il filo: e questa
condizione mostra la costituzione fisica delle linee di forza magnetica."
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IL CAMPO SECONDO FARADAY:
Si può osservare facilmente che è possibile descrivere una zona dello
spazio attraverso delle linee. Attraverso l'osservazione delle linee che si
formano ad esempio facendo passare una corrente elettrica attraverso
un sistema costituito da olio di ricino e semolino oppure avvicinando
una calamita a della limatura di ferro, Faraday concluse che quelle
linee non erano solo un fenomeno casuale ma potevano rappresentare
una proprietà fisica dello spazio.
Si dice “campo” quella zona dello spazio modificata dalla presenza di
una fonte che possiede proprietà descrivibili secondo leggi fisiche.
Faraday stabilì per il campo due leggi fondamentali:
le forze sono sempre tangenti alle linee del campo;
la densità delle linee dì forza indica l'intensità della forza;
in questo modo le linee assumono un significato fisico.
ESPERIENZE DI FARADAY SULLE CORRENTI INDOTTE:
Dopo la scoperta di Oersted, nel 1821, che un filo percorso da corrente
elettrica genera un campo magnetico agente con una coppia di forze su
un ago magnetico, si moltiplicarono le ricerche per ottenere correnti
elettriche a mezzo di un campo magnetico; i fisici che intrapresero
questo lavoro si appellavano in sostanza a un principio di simmetria,
spesso invocato nella ricerca scientifica anche se la sua validità non è
da considerarsi di carattere generale.
Fu proprio nel 1831 che l'inglese Michael Faraday scoprì, dopo alcuni
anni di ricerca, un fenomeno particolarmente interessante che doveva
influire in modo determinante sullo sviluppo dell'elettricità e di riflesso
sul nostro modo di vivere. Alla base del fenomeno scoperto da Faraday
vi sono due esperienze:
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Prima esperienza di Faraday: conduttore fermo, campo magnetico variabile
La figura 1 mostra uno schema del dispositivo di Faraday: un anello di
ferro che passa attraverso due bobine A e B.
La bobina A è alimentata da una batteria ed è provvista di un
interruttore, mentre la bobina B fa parte di un circuito in cui è inserito
soltanto uno strumento rilevatore di correnti, particolarmente sensibile,
in genere un milliamperometro o un galvanometro.
Chiudendo l'interruttore I, Faraday osservò che nella bobina B si aveva
per un breve intervallo di tempo un passaggio di corrente; il fenomeno
si ripeteva nell'istante in cui, aprendo l'interruttore I, s'interrompeva il
passaggio della corrente in A. Egli inoltre osservò che il verso della
corrente che circolava in B durante la chiusura del circuito A era
opposto a quello della corrente che si generava nella stessa bobina,
nell'istante in cui s'interrompeva il passaggio della corrente in A.
Lo stesso Faraday scoprì che la presenza del nucleo di ferro non era
essenziale, ma serviva solo a intensificare l'effetto. La corrente prodotta
in B è chiamata corrente indotta e la sua produzione è nota ora come
fenomeno di induzione elettromagnetica.
È
importante
sottolineare
che
la
corrente
indotta
generata
nell'esperimento di Faraday ora descritto dura solo per un intervallo di
tempo molto breve, quando si chiude o si apre il circuito A, mentre
durante il tempo in cui il circuito A rimane chiuso, qualunque sia
l'intensità di corrente che lo attraversa, non si genera in B corrente
indotta.
(fig. 1)
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Seconda esperienza di Faraday: conduttore fermo, magnete in moto
Dopo circa un mese e mezzo Faraday scoprì un altro caso di corrente
indotta molto importante, perché servi a chiarire ancora meglio del
primo le cause dell'induzione elettromagnetica.
Egli si accorse che, avvicinando una calamita a una bobina collegata a
un milliamperometro, si produce una corrente indotta (fig. 2a) che
attraversa la bobina nell'intervallo di tempo in cui il magnete è in
movimento e s'interrompe quando la calamita è ferma.
Se la calamita è allontanata dalla bobina (fig. 2b) il verso della corrente
indotta è l'opposto.
(fig. 2)
Si trova anche (fig. 3), agli effetti del verso della corrente indotta, che
l'avvicinamento del polo Nord della calamita alla bobina equivale
all'allontanamento del polo Sud e, viceversa, il verso della corrente
indotta nella bobina quando si allontana il polo Nord coincide con
quello della corrente che si produce quando si avvicina il polo Sud.
Inoltre gli effetti sono sempre gli stessi, sia che il solenoide resti fisso
rispetto a un sistema di riferimento e il magnete si muova sia che il
magnete rimanga fisso e il solenoide sia in moto. Per la produzione
della corrente indotta è necessario solo che ci sia un moto relativo del
magnete rispetto al solenoide. Eseguendo gli esperimenti in laboratorio
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occorre usare uno strumento di misura a zero centrale, che possa
rilevare correnti elettriche di entrambi i versi nel circuito indotto.
(fig. 3)
Interpretazioni delle esperienze di Faraday
Osserviamo che in entrambi gli esperimenti descritti il circuito indotto,
quello cioè che subisce il fenomeno dell'induzione elettromagnetica, è
immerso in un campo magnetico generato, nel primo esperimento,
dalla bobina A alimentata da una batteria e, nel secondo, dal magnete.
Questa sola circostanza non è però sufficiente; infatti, non si produce
alcuna corrente indotta né nel primo caso, quando la bobina A è
percorsa da corrente durante tutto il tempo in cui il circuito rimane
chiuso, né nel secondo caso, quando magnete e solenoide sono fissi
uno rispetto all'altro.
In entrambe le esperienze le correnti indotte si producono quando il
campo magnetico sulla superficie delimitata dal circuito indotto varia
nel tempo.
Nella prima esperienza, quando si chiude il circuito, la corrente nella
bobina A varia da zero a un valore massimo, determinando una
conseguente variazione del campo magnetico da essa prodotto;
analogamente, quando si apre il circuito, il campo magnetico
diminuisce dal valore massimo a zero.
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Anche nella seconda esperienza, durante il movimento,relativo del
magnete e del solenoide, il campo magnetico cambia valore sui punti
della superficie delimitata da ciascuna spira.
Faraday attribuì la produzione di correnti indotte alla variazione delle
linee di forza del campo magnetico.
Ad ulteriore conferma che, quando un campo magnetico varia, si
genera una corrente indotta in un circuito chiuso immerso nel campo
stesso, si può eseguire l'esperimento rappresentato in figura 4, in cui la
bobina A è alimentata da una batteria in un circuito in cui è inserito
anche un reostato e la bobina B è collegata a un milliamperometro.
Spostando la posizione del cursore sul reostato, varia l'intensità di
corrente che attraversa la bobina A e, di conseguenza, varia anche il
campo magnetico di tale corrente. Il milliamperometro rivela una
corrente indotta nella bobina B, che dura finché si muove il cursore.
(fig. 4)
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ANALISI QUANTITATIVA DELL’INDUZIONE
ELETTROMAGNETICA. LEGGE DI FARADAY-NEUMANN
Osserviamo preliminarmente che, nei casi considerati di produzione di
correnti indotte, si genera nella spira una forza elettromotrice indotta,
uguale alla forza elettromotrice della batteria che dovremmo inserire
nella spira per produrre, in assenza del fenomeno dell'induzione
elettromagnetica, una corrente d'intensità uguale a quella della
corrente indotta.
Per esempio, nella seconda esperienza di Faraday la f.e.m. indotta è
uguale alla f.e.m. della batteria, che dovremmo inserire in serie con la
spira per produrre in essa una corrente d'intensità uguale a quella
prodotta dal moto del magnete.
Calcolo della forza elettromotrice indotta
Per il calcolo della f.e.m. ci riferiamo a un caso particolare, quello del
trascinamento di una spira in campo magnetico. La stessa spira di
figura 5 è ora rappresentata in figura 6 insieme a una sezione del
campo magnetico uniforme prodotto dal magnete.
(fig. 5)
(fig. 6)
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La corrente indotta nella spira in movimento ha il verso indicato in
figura e cessa se fermiamo la spira.
Gli elettroni di conduzione che si trovano nel tratto AB della spira sono
da questa trascinati con la sua stessa velocità v. Indicando con B il
campo magnetico, su ciascun elettrone di carica -e agisce la forza di
Lorentz:
F = -ev Λ B
(a)
diretta da A a B e di modulo e vB.
Osserviamo che le analoghe forze, agenti sugli elettroni di conduzione
dei due tratti BC e AD della spira, sono perpendicolari ai lati della
spira e quindi non producono alcun movimento di elettroni.
Quelli, invece, del lato AB, sotto l'azione della forza espressa dalla (a),
si muovono dal punto A al punto B; nella spira si origina perciò una
corrente indotta avente verso opposto, cioè diretta da B ad A.
In altri termini le cose vanno come se la spira fosse ferma e in essa fosse
inserita una batteria con il polo positivo in A e quello negativo in B.
La forza elettromotrice f della batteria, che è necessario inserire tra A e
B affinché con la spira ferma si abbia una corrente avente la stessa
intensità della corrente indotta nella spira in moto, si chiama forza
elettromotrice indotta.
Poiché la f.e.m. di una pila è definita come rapporto tra il lavoro
compiuto per spostare una carica elettrica da un polo all'altro e la
carica stessa, la f.e.m. indotta è il rapporto tra il lavoro L (L = evBl) e la
carica dell'elettrone.
Si ha cioè:
f = L/e = evBl/e = vBl
(c)
Legge di Faraday-Neumann
Possiamo trovare l'espressione generale della f.e.m. indotta prendendo
in esame il concetto di flusso dell'induzione magnetica B.
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Premettiamo innanzi tutto che il flusso Φ(B) attraverso qualsiasi
superficie avente per contorno una spira si definisce flusso concatenato
con la spira.
Ricordando ora l'espressione del flusso:
Φ(B) = BScosα
si può osservare che si ha una variazione del flusso Φ(B) concatenato
con la spira, durante l'intervallo di tempo in cui la spira è percorsa
dalla corrente indotta. Infatti il flusso Φ(B) varia per variazione di B:
nella prima e nella seconda esperienza di Faraday.
Come controesempio osserviamo che, nel caso del trascinamento di
una spira completamente immersa in un campo magnetico, come
quello di figura 7, non si produce corrente indotta e quindi neanche
f.e.m., perché il flusso Φ(B) concatenato con la spira rimane costante, in
quanto non variano né S né B né α.
(fig. 7)
Il risultato stabilito analizzando i casi particolari considerati di
produzione di corrente indotta può essere generalizzato, come
l'esperienza conferma.
Pertanto, possiamo affermare che, in qualunque circuito immerso in un
campo magnetico, ogni volta che il flusso Φ(B) dell'induzione
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magnetica concatenato con il circuito varia nel tempo, si genera una
forza elettromotrice indotta e perciò una corrente indotta.
Ciò premesso, per esprimere la f.e.m. indotta in funzione della
variazione del flusso di induzione magnetica, ci riferiamo ancora alla
spira di figura 6, osservando che il flusso del vettore B attraverso la
superficie delimitata dalla spira, in un istante generico in cui il tratto
BC di spira immerso nel campo magnetico è x, vale:
Φ = Bxl
(f)
essendo ora la normale alla spira parallela al campo magnetico. Dopo
un intervallo di tempo Δt il flusso diventa:
Φ' = Bl (x - Δx)
(g)
ove Δx = vΔt è lo spazio percorso dalla spira nel tempo Δt.
Il flusso ha perciò subito la variazione:
ΔΦ = Φ'- Φ = -Bl Δx
(h)
Si tenga presente che la variazione di flusso è negativa in quanto,
estraendo la spira dal campo magnetico, diminuisce la porzione di
superficie delimitata dalla spira in cui il campo magnetico è diverso da
zero.
Il rapporto tra la variazione di flusso nell'intervallo Δt di tempo e Δt
risulta:
ΔΦ/Δt = -Bl (Δx/Δt)
(i)
e, poiché Δx/Δt è la velocità v della spira, si ha:
ΔΦ/Δt = -Blv
(l)
Segue pertanto che la f.e.m. data dalla (c), in termini di flusso, può
essere espressa dalla seguente relazione fondamentale:
f = - (ΔΦ/Δt)
(m)
La relazione precedente tra f.e.m. indotta nella spira e variazione del
flusso del vettore B concatenato con la spira è l'espressione matematica
della legge delle correnti indotte di Faraday e fu scoperta dallo
scienziato tedesco Franz Neumann nel 1845; essa è perciò nota come
legge di Faraday-Neumann.
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Inoltre dalla legge di Faraday-Neumann segue che nell'esecuzione
pratica degli esperimenti sulle correnti indotte, per avere correnti di
maggiore intensità è opportuno utilizzare bobine, anziché singole
spire; la variazione di flusso attraverso una bobina è infatti uguale a
quella che si ha attraverso una singola spira della bobina moltiplicata
per il numero delle spire. Per esempio introducendo una calamita, con
la stessa velocità, in bobine con diversi numeri di spire, si trova
sperimentalmente che l'intensità della corrente indotta è direttamente
proporzionale al numero delle spire.
LEGGE DI LENZ
Osserviamo, inoltre, che il segno meno nella legge di FaradayNeumann
determina il verso della corrente indotta, come è stabilito da una legge
scoperta dallo scienziato russo E.C. Lenz nel 1834, nota perciò come
legge di Lenz.
In base a questa legge il verso della corrente indotta è tale da opporsi a
mezzo del campo magnetico da essa prodotto alla causa che ha
determinato la corrente, cioè alla variazione del flusso Φ(B)
concatenato con il circuito considerato.
In termini equivalenti, se, per esempio, la corrente indotta in un
circuito è prodotta da un aumento del flusso Φ(B) concatenato, essa ha
verso tale che il campo magnetico che genera si oppone all'aumento del
flusso. Pertanto, il verso del campo magnetico generato dalla corrente
indotta è opposto al verso del campo magnetico la cui variazione di
flusso ha prodotto la corrente indotta.
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BIBLIOGRAFIA
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