Influssi e contaminazioni tra ribalta e pellicola

Influssi e contaminazioni tra
ribalta e pellicola
Influssi e contaminazioni tra
ribalta e pellicola
• Poiché sullo schermo sono ricorrenti le
situazioni in cui il teatro viene a
intersecarsi con il cinema in una
continua comunione di ruoli,
interferenze e risonanze, cercheremo di
tessere un vero e proprio racconto dei
legami che possono instaurarsi tra
queste due arti della rappresentazione.
Influssi e contaminazioni tra
ribalta e pellicola
• La nostra intenzione non è tanto quella di
mettere alla prova una eventuale superiorità
del cinema rispetto al teatro o viceversa,
quanto piuttosto quella di sottolineare
situazioni ricorrenti in cui il loro ambivalente
rapporto, senza duplicare l’una o l’altra forma
di messa in scena, tende a creare un binomio
mediante il quale è possibile investigare la
realtà dei due sistemi di racconto.
Nel segno delle origini: i fratelli
Lumière
• Scrive riferendosi ai Lumière George Sadoul:
“Secondo me i fratelli Lumière avevano
definito in modo esatto il vero campo del
cinema. Bastano il romanzo, il teatro per
l’esplorazione del cuore umano. Il cinema è il
dinamismo della vita, della natura e delle sue
manifestazioni, della folla e del suo agitarsi.
Ne dipende tutto ciò che si afferma col
movimento. Il suo obiettivo si apre sul
mondo”.
Nel segno delle origini: i fratelli
Lumière
• Tuttavia, se a partire dai Lumière, prende vita
uno spettacolo in cui ciò che conta non è più
il valore della mediazione dovuta a un
palcoscenico o a un pennello ma piuttosto il
racconto delle metropoli in cui viviamo, già
“L’innaffiatore innaffiato” dei Lumière è il
primo germe che poi darà vita alle commedie
future raccontate dal cinematografo. E,
anche, è un grimaldello utile per demolire la
distinzione che vede, schematicamente, nei
Lumière i padri del realismo e in Méliès quello
del cinema fantastico.
“L’innaffiatore innaffiato”
fratelli Lumière (1895)
Nel segno delle origini:
George Méliès
• Nelle mani di Méliès il cinematografo diventa
l’equivalente dell’assistente del mago, dando
così vita a metamorfosi che sostituiscono sia i
trucchi prettamente teatrali - basti pensare ai
voli meccanici o alle discese dal cielo - sia i
trucchi fotografici - basti pensare al
meccanismo della sovrimpressione ottenuto
sovrapponendo più immagini in uno stesso
quadro in modo da avere come risultato una
ulteriore più elaborata immagine -.
Nel segno delle origini:
George Méliès
• Tali ideazioni consentono a Méliès
l’invenzione di numerosi giochi di
prestigio o di illusione che nulla hanno
da invidiare all’esempio più classico di
grande magia, ovvero quello della
donna che viene segata in due dal
mago.
Nel segno delle origini:
George Méliès
• Fare ingrandire o rimpicciolire una testa
umana, farla diventare prima enorme e
poi di nuovo piccolissima (“L’uomo con
la testa di Caucciù”, 1901) non equivale
forse a ciò che compie l’illusionista
quando taglia a metà il corpo di una
bella fanciulla chiusa in una scatola?
Nel segno delle origini:
George Méliès
• A sostituire tale scatola - un parallelepipedo
di forma rettangolare, posizionato
orizzontalmente e sufficientemente ampio da
riuscire a contenere il corpo della persona
che vi entra, ma corto al punto da lasciarne
fuori la testa e i piedi - ci pensa lo
spostamento della cinepresa che mossa
avanti o indietro nell’atto della ripresa
permette di ingrandire o rimpicciolire la testa
in questione che nell’”Uomo dalla testa di
caucciù” è quella dello stesso Méliès.
George Méliès “L’uomo dalla
testa di caucciù” (1901)
George Méliès “L’uomo dalla
testa di caucciù” (1901)
George Méliès “L’uomo dalla
testa di caucciù” (1901)
Nel segno delle origini:
George Méliès
• I primi trucchi cinematografici dunque,
funzionano come fossero i magici espedienti
del prestidigitatore e il loro uso è un ulteriore
esempio del connubio che lega fin dalle
origini lo schermo alla scena.
• Infatti, arrestare la ripresa per consentire a
oggetti o persone di sparire o apparire dal
nulla, utilizzare dei mascherini per unificare
spazi diversi o per sdoppiare un personaggio
sono tocchi cinematografici che si
aggiungono al palcoscenico.
Nel segno delle origini:
George Méliès
• Inoltre, anche nel momento in cui
Méliès inizia a realizzare film costituiti
da più di una inquadratura, l’uomo di
teatro che fin dall’inizio egli era stato
non manca di fare capolino dalla
pellicola.
Nel segno delle origini:
George Méliès
• Guardando film come “Viaggio sulla luna”
(1902), pur l’illusione cinematografica
andando al di là del trucco scenico, quando si
vedono Seleniti e Terrestri inchinarsi verso il
pubblico si assiste a un gesto significativo
che mostra come nonostante tutte le
innovazioni di cui fu autore, Méliès resti
comunque l’uomo di teatro che è sempre
stato.
George Méliès “Viaggio sulla
luna” (1902)
George Méliès “Viaggio sulla
luna” (1902)
I Lumière e Méliès: antitesi
reale o fittizia?
• Certamente Méliès ragiona ancora in termini
prettamente teatrali, sia perché i personaggi
dei suoi film si relazionano con lo spazio
come fossero a teatro - non a caso alla fine di
ogni scena rivolgono al pubblico il loro
inchino -, sia perché, interessato soprattutto
al profilmico, ovvero a quello che viene
collocato davanti alla macchina da presa
prima di riprendere, questo regista privilegia il
lavoro della messa in scena e sembra
preferire il teatro al cinema.
I Lumière e Méliès: antitesi
reale o fittizia?
• Lo stretto legame tra palcoscenico e schermo
non risparmia nemmeno i fratelli Lumière.
• Infatti, mandare gli operatori a riprendere con
il cinematografo, ma senza pellicola, il
passaggio dei borghesi nei luoghi più
frequentati delle diverse città non significa
forse evidenziare la messa in scena teatrale
della vita?
I Lumière e Méliès: antitesi
reale o fittizia?
• Assecondando l’aspirazione dei loro
contemporanei ad autorappresentarsi, i
Lumière originano un vero e proprio
spettacolo perché come sottolinea Sandro
Bernardi:
• “La curiosità e il desiderio di vedersi
rappresentati erano molto alti. Vediamo infatti
che spesso nel cinematografo Lumière i
passanti si mettono effettivamente in posa,
come in certi ritratti, o come davanti alle
macchine fotografiche”.
I Lumière e Méliès: antitesi
reale o fittizia?
• Se dunque, come scrive Antonio Costa, “ogni
film di Méliès deve essere considerato prima
di tutto come destinato a sostituire una
esperienza di prestidigitazione al Teatro
Robert Houdin”, ciò non di meno anche la
simulazione teatrale della vita quotidiana
messa in scena dai Lumière appare in
contrasto con il senso di realtà che spesso si
associa alle loro “vedute”.
L’influenza della tragedia
greca nel teatro di
Shakespeare
• William Shakespeare, pur considerato
un archetipo dai suoi conterranei,
richiama l’antica tragedia ellenica e in
qualche modo la rifonda, diventando
così un interessante termine di
paragone per la nostra indagine e
consentendoci di mettere in relazione
con il cinema due momenti importanti
della storia del teatro.
L’influenza della tragedia
greca nel teatro di
Shakespeare
• La tragedia greca e il teatro di
Shakespeare dunque, atterrando sul
suolo fertile del cinema, trovano terreno
propizio e così la macchina da presa
diventa il mezzo per far sorgere
qualcosa di nuovo a partire dal contatto
con l’anfiteatro classico, o con il
palcoscenico del teatro moderno.
L’influenza della tragedia
greca nel teatro di
Shakespeare
• Senza voler mettere in discussione né il
pregio del teatro greco né quello di
Shakespeare, cercheremo di mostrare come
l’incontro tra due generi e sensibilità - ovvero
quella degli antichi e del Bardo con quella dei
cineasti (nel nostro caso Lubitsch, Welles,
Pasolini, Bene e Allen) venga reso proficuo
dalla forza di reazione e dalla capacità di
resistenza che caratterizza la settima arte.
L’influenza della tragedia
greca nel teatro di
Shakespeare
• Attraverso la settima arte, Eschilo,
Sofocle, Euripide e il Bardo più famoso
d’Inghilterra calano improvvisamente
nel quotidiano: da essi scaturisce una
generazione di omologhi di celluloide
che, pur cercando di eluderlo,
continueranno a essere sepolti dal loro
tragico destino.
L’influenza della tragedia
greca nel teatro di
Shakespeare
• Nelle mani di Lubitsch, Welles, Pasolini,
Bene e Allen, il teatro di Eschilo,
Sofocle, Euripide e del Bardo si fa
specchio: uno specchio che consente di
vedere riflesso in queste pellicole non
solo il mondo rappresentato su quegli
antichi palcoscenici ma anche il nostro.
L’influenza della tragedia
greca nel teatro di
Shakespeare
• Le emozioni tragiche della pietà e del terrore
appartengono a ogni tempo, ed è dunque
attraverso i riflessi di cui pulsano questi film
che si possono ben mescolare fra loro i codici
spaziali e temporali della scena e quelli dello
schermo, per ritrovare così una stupefacente
sintonia tra i due linguaggi, che pure restano
fenomeni diversissimi.
La macchina da presa come il
fool shakespeariano
• La macchina da presa che non vuole
risparmiare il rituale del teatro in favore dello
schermo (a volte con sarcasmo altre con
crudeltà), viene quasi a fare le veci del fool
shakespeariano ovvero quel buffone che,
commentatore degli intrighi scenici, non solo
partecipa alle azioni ma anche, allo stesso
tempo, ne rimane estraneo, e proprio per
questo, come la macchina da presa che nel
film racconta, è più vicino al pubblico che alla
trama.
La macchina da presa come il
fool shakespeariano
• Se con Jan Kott definiamo “buffone colui che
pur frequentando la buona società, non ne fa
parte e le dice delle impertinenze; colui che
mette in dubbio tutto ciò che passa per
ovvio”, ecco che gli uomini di Shakespeare o
quelli della tragedia classica nel momento in
cui sono soggetti alla forza esercitata su di
loro dalla cinepresa, mediando tra il divino e
l’umano diventano figure comiche.
La macchina da presa come il
fool shakespeariano
• Questo accade perché, non essendo le
caratteristiche tipiche degli uomini raccontati
dal teatro greco o dal dramma elisabettiano,
in nessun caso patrimonio della loro
coscienza ma solo del drammaturgo o del
regista inventore della situazione e
dell’azione, gli eroi del palcoscenico non
sanno mai di essere tragici o comici ed è
quindi il cinema a svelare loro l’ambivalenza
che li caratterizza.
Il personaggio di Jago da
Shakespeare al cinema
• Jago, l’attendente di Otello, cambia di segno
a seconda del suo muoversi o, meglio,
essere mosso dal teatro piuttosto che dal
cinema.
• Infatti, l’attendente del Moro, sul palcosenico
è capace di ingannare tutti ma, nelle mani di
Welles, Pasolini e Bene cambia di segno
diventando un uomo normale, ordinariamente
scontento.
Il personaggio di Jago da
Shakespeare al cinema
• Il cinema sceglie di esibire fin da subito
gli effetti delle azioni di Jago, e così
facendo sottolinea il suo
comportamento come qualcosa di
completamente arbitrario, come puro
atto di scelta.
Il personaggio di Jago da
Shakespeare al cinema
• Orson Welles apre il suo “Otello” mostrando
già nella prima sequenza i due cadaveri del
Moro e di Desdemona.
• Carmelo Bene man mano che la narrazione
procede sbianca il volto di Otello per tingere
di contro il viso del suo attendente con il nero
della colpa.
• Lo Jago di Pasolini interpretato da Totò, è un
burattino dalla faccia verde che, riflettendo
sui significati dell’esistenza umana, trasforma
l’attendente di Otello in un novello Amleto.
Orson Welles “Otello” (1952): i
funerali di Otello
Orson Welles “Otello” (1952):
il corteo funebre di
Desdemona
Orson Welles “Otello” (1952):
Jago in gabbia
Carmelo Bene “Otello” (1979)
Pier Paolo Pasolini “Che cosa
sono le nuvole?” (1968)
Il personaggio di Jago da
Shakespeare al cinema
• Pasolini, regalando a Jago la giusta
consapevolezza di se stesso, si oppone
all’assunto secondo cui, ed è proprio questa
la grande tragedia delle tragedie di
Shakespeare, i grandi protagonisti creati dal
Bardo non imparano mai nulla e così
facendo, avvalora la nostra scelta di
considerare adattamento shakespeariano
anche “Vogliamo vivere!” (1942), di Ernst
Lubitsch.
“Amleto” dal teatro al cinema
secondo Lubitsch
• Infatti, così come Pasolini si è servito di Otello
e di Jago, Lubitsch utilizza a sua volta il
personaggio di Amleto per cambiare di segno
il valore della tragedia di cui quest’ultimo è il
protagonista e dirottare la poesia dei suoi
monologhi - in particolare il celebre “Essere o
non essere” - verso una presa di coscienza
che avviene in un travolgente, irresistibile
incrocio continuo tra realtà e palcoscenico.
“Amleto” dal teatro al cinema
secondo Lubitsch
• In “Vogliamo vivere!” di Ernst Lubitsch, due,
ossia quella parola che racchiude in sé le
unità autonome di cinema e teatro, è la
chiave che consente la giusta lettura del film.
• L’autore tedesco è ben attento al continuo
dialogo che viene a instaurarsi tra queste due
arti, che traggono l’una dall’altra gli elementi
utili al proprio progresso.
“Amleto” dal teatro al cinema
secondo Lubitsch
• Tuttavia, alla resa dei conti, il cineasta
riconoscerà al cinema - utilizzando
anche le enormi possibilità offerte dalle
combinazioni tra campo e fuori campo un certo grado di supremazia nei
confronti del teatro.
“Amleto” dal teatro al cinema
secondo Lubitsch
• In “To Be Or Not To Be”, sfruttando i poteri
della cinepresa, Lubitsch si rivela un corifeo
singolare.
• Infatti se nella tragedia greca tale figura
aveva il compito di esibirsi autonomamente,
ribadendo o ampliando quanto detto dai
coreuti, il regista tedesco, usando la
macchina da presa come il maestro del coro
le battute, interloquisce con schermo e
scena.
“Amleto” dal teatro al cinema
secondo Lubitsch
• Si tratta di una interlocuzione che dà
vita a uno strappo mediante il quale
ognuna delle due unità acquista
autonomia e nello stesso tempo
dipendenza proprio attraverso il labirinto
rappresentato dalla dimensione
partecipativa con cui Lubitsch coinvolge
queste due arti della rappresentazione.
“Amleto” dal teatro al cinema
secondo Lubitsch
• Nelle mani di Lubitsch la settima arte
reinventa lo spettacolo teatrale in cui la
ribalta intersecandosi con il cinema e
sbilanciandosi in favore di quest’ultimo,
trasforma “Vogliamo vivere!” nel
racconto di un palcoscenico che sembra
aver “perso la pazienza”.
“Amleto” dal teatro al cinema
secondo Lubitsch
• Infatti, studiando alcune delle principali
variazioni con cui questo film tesse il
suo elogio dell’arte cinematografica, ci
accorgiamo subito che attuando la
transcodificazione del linguaggio del
teatro, “Vogliamo vivere!” il più delle
volte lo banalizza e lo trasforma senza
alcuna soggezione.
“Amleto” dal teatro al cinema
secondo Lubitsch
• E’ una trasformazione che parte proprio
da quel “To Be Or Not To Be” del titolo
originale per cui Shakespeare, ricordato
con la battuta più famosa di Amleto,
diventa l’elemento attraverso il quale il
corifeo Lubitsch rifunzionalizza il
palcoscenico in favore del cinema.
“Amleto” dal teatro al cinema
secondo Lubitsch
• “Essere o non essere” infatti, è battuta che,
diventando intrinsecamente insignificante,
risuona comica sia quando la pausa troppo
lunga che Joseph Tura nei panni di Amleto si
prende prima di iniziare a declamare il
famoso monologo, sembra al suggeritore un
momento di amnesia, sia quando dà il via
libera all’incontro amoroso tra Maria Tura e il
suo amante il quale sa di poterla raggiungere
in camerino appena sente Amleto
pronunciarla.
Lubitsch “To Be Or Not To Be”
(1942): il monologo di Amleto
“Otello” dal teatro al cinema
secondo Pasolini
• Come “Vogliamo vivere!” di Lubitsch va
in cortocircuito a favore del cinema, così
Pasolini in “Che cosa sono le nuvole?”
non solo ripensa il ruolo di Jago ma,
anche, nel momento in cui un Caronte
melodioso trasporta le salme dei
burattini in una discarica abusiva all’aria
aperta, Pasolini offre loro una rinascita.
“Otello” dal teatro al cinema
secondo Pasolini
• Infatti, condotti nella discarica dei rifiuti
sulle parole di una canzone che
richiama la storia di “Otello” - ed è la
stessa che all’inizio del film aveva
accolto la marionetta del Moro appena
venuta al mondo -, morti come burattini,
Jago e Otello escono dallo spazio del
teatro per entrare in quello del mondo e
del cinema.
“Otello” dal teatro al cinema
secondo Pasolini
• Otello, riverso tra i rifiuti, vede per la
prima volta il cielo, le nuvole, vede la
bellezza del reale che lo specchio della
finzione teatrale gli teneva nascosta.
• Non si sa alla fine che cosa siano le
nuvole, ed è la macchina da presa a
rivelarle nella loro bellezza.
“Otello” dal teatro al cinema
secondo Pasolini
• Essere gettati fuori dal teatro per Jago e
Otello significa essere estromessi dalla
finzione del palcoscenico a favore di
una rinascita che li libera dalla
condizione di burattini e li fa tornare a
essere, attraverso il cinema,
rispettivamente Totò e Ninetto Davoli,
dischiudendo per loro il mondo della
vita.
Pasolini “Che cosa sono le
nuvole?” (1968): Otello e Jago
tra i rifiuti
Pasolini “Che cosa sono le
nuvole?” (1968): la m.d.p.
rivela le nuvole
Allen “La dea dell’amore”
(1995)
• Woody Allen affida “La dea dell’amore”
a una struttura che si collega in maniera
piuttosto evidente alla tradizione della
tragedia classica con tanto di coro e di
personaggi che incarnano,
attualizzandoli o meno caratteri
dell’antichità quali i celebri Cassandra e
Tiresia o ancora la figura del deus ex
machina.
Allen “La dea dell’amore”
(1995): il coro greco
Allen “La dea dell’amore”
(1995): Tiresia
L’arte dell’attore sul
palcoscenico e in pellicola
• Usando come esempio il mestiere dell’attore,
mostreremo che il teatro e il cinema, se
osservati attraverso una lente - rappresentata
nel nostro caso appunto dall’interprete - che
non voglia dare vita a una guerra intestina tra
questi due linguaggi, mettono in realtà in
evidenza tra loro dei rapporti sapienti e ironici
in grado di tessere insieme, per dirla con
Roland Barthes, “Frammenti di un discorso
amoroso”.
L’arte dell’attore sul
palcoscenico e in pellicola
• I film che analizzeremo per mettere in
relazione l’interprete di teatro con quello
cinematografico ci raccontano proprio di
attrici che non separandosi mai dal
personaggio che interpretano,
nemmeno quando sono fuori scena,
trasformano il loro ruolo nella sostanza
di se stesse e diventano così credibili
nonostante le esagerazioni.
L’arte dell’attore sul
palcoscenico e in pellicola
• Sarà allora il ruolo - ovvero la
caratterizzazione di ogni singolo
personaggio che di volta in volta l’attore
o l’attrice interpretano - il segno da cui
partire per mettere in prospettiva il
rapporto che lega lo schermo alla
scena.
L’arte dell’attore sul
palcoscenico e in pellicola
• Eva Harrington in “Eva contro Eva” (1950) di
Mankiewitz, nello stesso anno Norma
Desmond protagonista di “Viale del tramonto”
di Billy Wilder, Fedora nel film omonimo
(1978) sempre di Billy Wilder, o le
interpretazioni offerte da Michel Piccoli in
“Ritorno a casa” (2000) di De Oliveira e in
“Habemus papam” (2011) di Moretti,
renderanno palpabile il piacere con cui
cinema e teatro si specchiano l’uno nella
lingua dell’altro.
L’arte dell’attore sul
palcoscenico e in pellicola
• Ognuna di queste due arti, infatti,
sfruttando la padronanza dei propri
mezzi (la voce e il gesto che
caratterizzano gli attori teatrali, i
movimenti di macchina con cui il cinema
racconta le sue storie) tonifica di riflesso
anche l’altra forma di espressione.
“Eva contro Eva” e “Viale del
tramonto” a confronto
• In Eva Harrington riconosciamo lo stesso
arrivismo e la stessa frenesia di appagare il
desiderio di successo che si leggono negli
occhi di Norma Desmond.
• Le accomuna la fiamma dell’ambizione, la
voglia di essere sommerse dalla fama che
secondo entrambe le dive è l’unico aspetto
davvero importante del mondo dello
spettacolo.
“Eva contro Eva” e “Viale del
tramonto” a confronto
• Tuttavia, mentre “Eva contro Eva”
intrappola nel teatro il personaggio del
ruolo eponimo tessendogli intorno una
ragnatela di parole - questo è il modo in
cui Mankiewicz esorcizza il cinema -,
Wilder nel suo film depista verso il
palcoscenico usando la chiave del
grottesco.
“Eva contro Eva” e “Viale del
tramonto” a confronto
• Entrambi i film, pur dello stesso anno,
dipingono due dive molto diverse. Infatti se
osserviamo come Gloria Swanson nei panni
di Norma Desmond e Bette Devis in quelli di
Margo Channing si relazionano con gli oggetti
che le circondano, noteremo immediatamente
delle differenze.
• Per Norma Desmond essi sono semplici
elementi della scenografia che non servono
mai a fare progredire l’azione. Funzionano
così persino i grandi occhiali neri dietro cui la
diva si nasconde.
“Eva contro Eva” e “Viale del
tramonto” a confronto
• La Margo Channing di Bette Davis
utilizza gli oggetti in continuazione e
così, le creme e gli accessori di cui si
serve nel suo camerino per il trucco,
sembrano quasi erigerle intorno una
barriera protettiva.
“Eva contro Eva” e “Viale del
tramonto” a confronto
• Gloria Swanson, naturalmente anche perché
attrice del cinema muto, usando gli oggetti
sfrutta esclusivamente la mimica del volto e i
movimenti del corpo e delle braccia. Così
facendo sembra pensare più al palcoscenico
che non alla macchina da presa.
• Bette Davis, invece, usando gli oggetti nella
sua interpretazione sembra farlo soprattutto
per favorire l’occhio della cinepresa.
“Eva contro Eva” e “Viale del
tramonto” a confronto
• Se dunque Bette Davis pare non potere
recitare senza oggetti - è il suo modo di
creare una distanza tra sé e il
personaggio che interpreta -, Gloria
Swanson, al contrario, quando è
costretta a utilizzarli tende a trasformarli
nel centro verso cui converge
l’attenzione di chi sta guardando.
“Eva contro Eva” e “Viale del
tramonto” a confronto
• Billy Wilder fa muovere Norma Desmond
pensandola su di un palcoscenico vuoto, in
cui a far percepire l’oggetto è soltanto il gioco
mimico dell’attrice. Ed è un gioco che, nel
momento in cui cade nei cliché ovvero in un
codice di recitazione e nella consuetudine,
rivela - per esempio nel modo in cui alzando
le braccia quasi al cielo esprime la sua
disperazione - l’impronta della consumata
attrice da palcoscenico.
“Eva contro Eva” e “Viale del
tramonto” a confronto
• La Margo Channing di Bette Davis funziona
in modo diverso, quasi al contrario. Infatti
l’attrice, pur non manifestando - mai con
l’enfasi dei cliché - le diverse espressioni del
suo personaggio limitandosi ad accostarle
l’una all’altra, permette tuttavia allo spettatore
di scorgere la stessa ridda di emozioni che
egli rileva nella recitazione della Swanson.
“Eva contro Eva” e “Viale del
tramonto” a confronto
• Si ritrova tuttavia, sia nel modo di essere
attrice della protagonista di “Viale del
tramonto”, sia nella Margo Channing di Bette
Davis per “Eva contro Eva”, la messa in
pratica delle regole che sempre sottostanno a
ogni buona interpretazione teatrale; ed ecco
perché tanto il film di Wilder che quello di
Mankiewicz rivelano un corto circuito
interessante tra l’arte del cinema e quella del
teatro.
“Eva contro Eva” Mankiewicz
(1950)
“Eva contro Eva” Mankiewicz
(1950)
“Eva contro Eva” Mankiewicz
(1950)
“Viale del tramonto” Wilder
(1950)
“Viale del tramonto” Wilder
(1950)
“Viale del tramonto” Wilder
(1950)
“Fedora” Wilder (1978)
• Appena Barry Detweiler, interpretato da
William Holden, afferma che il funerale
di Fedora: “Non sembrava un funerale,
sembrava una prima”, la storia della
grande attrice del cinema raccontata da
Wilder viene a porsi sotto il segno del
teatro. Infatti Fedora, sfruttando il
suicidio della figlia, mette in scena il suo
funerale.
“Fedora” Wilder (1978)
• E’ proprio scegliendo per Fedora un grande
rito da palcoscenico che Wilder, opponendosi
alla tivù che annuncia il suicidio della sua
protagonista, difende con il teatro il suo
amore per il cinema classico, un cinema
lontano anni luce per esempio da quello di
Jean-Luc Godard, che nell’inverno del 1970,
facendo inorridere Wilder, si era dichiarato
pronto a girare un film senza copione.
“Fedora” Wilder (1978)
• Fedora trasformando la figlia nella copia
di se stessa cambia di segno il
desiderio della fama imperitura:
costruendo un mostro assai simile alla
figura di Frankenstein, compie un
peccato mortale che, costringendo
Antonia, la figlia di Fedora, a vestire
sempre il ruolo della madre, è gravido di
conseguenze tragiche.
“Fedora” Wilder (1978)
• In “Fedora” il valore del travestimento di
Antonia è messo in risalto anche dalla
scelta registica di farle indossare dei
guanti bianchi con cui la giovane deve
coprirsi le mani. Infatti, se le operazioni
di chirurgia estetica subite al volto le
hanno “regalato” l’età della madre, le
mani, se mostrate nude e ancora molto
giovani, svelerebbero l’inganno.
“Fedora” Wilder (1978)
• In “Fedora” non compare mai un vero
palcoscenico, e tuttavia il segno del
teatro non manca infatti Billy Wilder
come già in “Viale del tramonto”,
considerando il corpo come luogo di
una perdita di identità e giocando con
l’aspetto della protagonista, tesse anche
con questo film un elogio del teatro.
“Fedora” Wilder (1978)
• E’ un elogio che il regista tesse
attraverso il concetto di doppio. Infatti,
se in alcuni casi il doppio, la maschera
può fungere da protezione, quello che ci
mostra questo film è invece un doppio
perturbante, che riconosce l’inganno
come meccanismo sociale, e proprio
per questo spaventa, nasconde, illude,
e apre così lo spazio del palcoscenico.
“Fedora” Wilder (1978)
• “Fedora” richiama il palcoscenico anche
quando, lavorando sullo sdoppiamento come
chiave di ogni recita, mette in luce come
interpretare un personaggio non sia altro che
imitare, individuando così nella giovane
Antonia una brava attrice che vestendo alla
perfezione il ruolo che incarna, ha imparato a
eguagliare ogni gesto della vecchia madre
ormai sfigurata e costretta su una sedia a
rotelle.
“Fedora” Wilder (1978)
• Il teatro sembra dominare questo film
testamento di Wilder. Tuttavia se pensiamo a
Fedora che cerca della droga fingendo di
acquistare rullini fotografici e a “L’ultimo
valzer” - film che la protagonista prima di
morire sta girando con Michael York,
raccontato da una macchina da presa che si
muove attorno al corpo degli attori -, capiamo
immediatamente che “Fedora” è anche un
film sul cinema.
“Fedora” Wilder (1978)
• Ed è un cinema che - come ci dice Wim
Wenders mostrando la macchina da presa
come un occhio spalancato e solitario che
riprende casualmente quello che succede
durante la sequenza finale di “Lo stato delle
cose” girato, solo quattro anni dopo “Fedora”,
nel 1982 - deve ricominciare da capo, ovvero
deve riconquistare, forse liberandosi del
teatro, la verginità dello sguardo.
“Fedora” Wilder (1978): il
funerale
“Fedora” Wilder (1978): i
guanti bianchi
“Fedora” Wilder (1978): i rullini
fotografici diventano sinonimo
di droga
“Fedora” Wilder (1978):
“L’ultimo valzer”
“Fedora” Wilder (1978):
“L’ultimo valzer”
“Lo stato delle cose” Wenders
1982
Tra schermo scena e realtà:
l’esempio di Michel Piccoli
• Michel Piccoli, come mostrano “Ritorno
a casa” (2001) di Manoel de Oliveira e
“Habemus Papam” (2011) di Nanni
Moretti, si muove a proprio agio sia
sulla ribalta sia all’interno di un set
cinematografico.
• Si tratta però di un gioco di ruoli che
può anche giungere al collasso.
“Ritorno a casa” de Oliveira
(2001)
• In “Ritorno a casa” cinema e teatro
all’inizio paiono simili: il film si apre con
un palcoscenico su cui si recita Ionesco,
e, mostrando Piccoli mentre viene
truccato per sostenere il ruolo che dovrà
interpretare nell’”Ulisse”
cinematografico, evidenzia come il
camerino del cinema sia simile a quello
del teatro.
“Ritorno a casa” de Oliveira
(2001)
• Tuttavia così non è. Infatti, il Gilbert
Valence di Piccoli - e lo scopriremo pur
se la maestria di de Oliveira ci fa vedere
l’effetto del suo recitare solo attraverso
gli occhi del regista interpretato da
Malkovich - è quasi ucciso dalla
ripetitività che caratterizza la settima
arte.
“Ritorno a casa” de Oliveira
(2001)
• Comincia a dimenticare le battute e
viene risucchiato in un vortice di vuoti di
memoria che creano una tensione quasi
palpabile, che cresce man mano e
arriva fino al momento in cui,
personaggio e attore si sovrappongono
nello sguardo smarrito del nipotino del
protagonista.
“Ritorno a casa” de Oliveira
(2001)
• E’ una sovrapposizione che accade
perché Gilbert Valence ritorna a casa
ma non uscendo dal ruolo che vestiva
sul set, non togliendosi la maschera, ci
mostra un uomo improvvisamente
annichilito da un dolore insostenibile e
fino ad allora tenacemente rimosso.
“Ritorno a casa” de Oliveira
(2001)
• Il personaggio che Piccoli dipinge per
de Oliveira nel 2001, finché è sul
palcoscenico sembra “contenuto” dal
ruolo che interpreta e invece quando
deve adattarsi alle esigenze tecniche
del cinema viene a perdere il suo
equilibrio.
“Ritorno a casa” de Oliveira
(2001)
• Il Gilbert Valance incarnato da Piccoli in
ritorno a casa sembra di segno opposto
rispetto al pontefice protagonista di
“Habemus Papam”, prelato al quale lo
stesso Michel Piccoli ha dato vita nel
film di Nanni Moretti uscito nel 2011.
“Ritorno a casa” de Oliveira
(2001)
• Infatti se il protagonista del film di de
Oliveira ogni sera esce da se stesso e
ottiene così un equilibrio che gli
permette d’essere padrone della scena,
il cardinale Melville del film di Moretti nel
momento in cui si rende conto di non
potere più essere contenuto dal proprio
ruolo arriva a una inevitabile e
drammatica rottura.
“Habemus Papam” Moretti
(2011)
• Fin dall’inizio la chiesa raccontata da Moretti
somiglia al teatro: la Cappella Sistina è
completamente ricostruita in studio, di San
Pietro si vede sempre e solo la facciata, quasi
a volere svelare come pura forma una
istituzione che sembrerebbe invece
intoccabile e a volerla denunciare alla stregua
di un’apparenza la cui vocazione, pur
nascosta dietro a una ricchezza barocca,
sembra ormai fallita e semplicemente messa
in scena.
“Habemus Papam” Moretti
(2011)
• Il nuovo papa si sente solo, intrappolato
in un mondo astratto per il quale si trova
a dover vestire un ruolo da cui in realtà
si sente schiacciato.
• E’ a questo punto che ancora una volta,
la tenda del balcone papale rimasto
vuoto diventa un sipario strappato dietro
il quale l’assurdo prende forma.
“Habemus Papam” Moretti
(2011)
• E’ un assurdo che svela dietro a un vecchio
uomo smarrito, agghindato con tutti i broccati
e i ricami atti alla sua parte, la realtà di una
situazione tanto bizzarra quanto probabile.
• Infatti, la fallita “vocazione attoriale” di papa
Melville ci racconta una Chiesa di cui
quest’uomo che Moretti fa vincere in
conclave, rivela le maschere.
“Habemus Papam” Moretti
(2011)
• La sincera astensione del “quasi papa”
interpretato da Michel Piccoli, che rifiuta
l’investitura da parte della scena
pubblica, strappa il copione del teatro
della realtà, avvelenato com’è dalla
competizione, in favore di una recita su
di un vero palcoscenico.
“Habemus Papam” Moretti
(2011)
• E’ un palcoscenico dove l’attore non
muore in quella inerzia che lo avrebbe
definitivamente stroncato se avesse
continuato a indossare la maschera di
papa e invece ritrova il vero senso della
vita nel ripetersi della pièce cechoviana
messa in scena dalla compagnia che ha
scelto di abbracciare nelle vesti di
suggeritore.
“Habemus Papam” Moretti
(2011)
• Passando dal rosso cardinalizio al
bianco papale e, da questo, al cappotto
scuro con cui gira per le vie di Roma,
Michel Piccoli in “Habemus Papam”
segna i passi che ci costringono ad
arrivare ad assistere allo sventolare di
quello che può essere letto come un
sipario su di un palcoscenico vuoto.
“Habemus Papam” Moretti
(2011)
• Il palcoscenico è il balcone papale, un
balcone nero che sembra racchiudere in
sé la stessa insicurezza con cui il corpo
attoriale di Piccoli abbandona la scena
anche nel film di de Oliveira, questa
volta nei panni di Gilbert Valence.
“Ritorno a casa” de Oliveira
(2001): il palcoscenico
“Ritorno a casa” de Oliveira
(2001): il camerino del set
“Habemus Papam” Moretti
(2011)
Bibliografia
• G. Almansi “Tra cinema e teatro”, Marsilio,
Venezia, 1995.
• F. Deriu (a cura di), “Lo schermo e la scena”
Marsilio, Venezia, 1999.
• M. Pellanda “Cinema e teatro. Influssi e
contaminazioni tra ribalta e pellicola”,
Carocci, Roma, 2012.
• S. Pietrini, “Il mondo del teatro nel cinema”,
Bulzoni, Roma, 2007.
Filmografia
• W. Allen, “La dea dell’amore”, 1995.
• E. Lubitsch “Vogliamo vivere”, 1942.
• A. Lumière, L. Lumière, “L’innaffiatore
annaffiato”, 1895.
• L. Mankiewicz, “Eva contro Eva”, 1950.
• G. Méliès, “L’uomo dalla testa di caucciù”,
1901.
• G. Méliès, “Viaggio sulla luna”, 1902.
Filmografia
• N. Moretti, “Habemus Papam”, 2011.
• P.P. Pasolini, “Che cosa sono le
nuvole?”, 1968.
• O. Welles, “Otello”, 1952.
• W. Wenders, “Lo stato delle cose”,
1982.
• B. Wilder, “Viale del tramonto”, 1950.
• B. Wilder, “Fedora”, 1978.