Diocesi Piacenza-Bobbio Ufficio Stampa: Servizio documentazione Collegio Padri Oblati Missionari di Rho (MI) Esercizi spirituali per sacerdoti “Il discepolato” Seconda Meditazione Mons. Luciano Monari, Vescovo 26 agosto 2002 Premessa. Don Moioli ci ricorda che il Regno è concretamente dato e presente in Gesù Cristo Nella prima meditazione dicevamo che per il discepolo l’assoluto è il Regno di Dio. La domanda successiva e inevitabile è: dove in concreto il Regno di Dio si fa presente nella storia? Dove lo incontra nella vita dell’uomo? Dove gli manifesta le sue esigenze? Don Giovanni Moioli risponde con quella risposta, che per il cristiano è evidentemente decisiva: in Cristo. Scrive così: “Il Regno è concretamente dato e presente in Gesù Cristo. Il Regno è dov’è Gesù. Il Regno viene dove viene Gesù. Il Regno si dà e si manifesta dove Gesù si manifesta e si esprime. I miracoli, le parole, il comportamento, la carità e l’abbandono di Gesù alla volontà di Dio, tutto questo esprime chi è Dio per l’uomo, e chi è l’uomo per Dio, cioè esprime l’avvenimento del Regno di Dio. In termini più esistenziali questo significa che il Regno di Dio – che è l’assoluto dell’uomo, che è Gesù Cristo – permette al discepolo di dire in una maniera assolutamente giustificata a Gesù Cristo: tu sei la verità, tu sei la salvezza, tu sei l’alleanza. Permette di capire la parola di Gesù Cristo: «Io sono la via, la verità, la vita»”. Don Moioli aggiunge: “Si capisce allora come tutto si relativizzi; è come se ai discepoli gli ripetesse: tutto si relativizza a te perché l’assoluto dell’uomo non ha tempo. Relativizzare non vuole dire che le cose sono senza senso, sono vuote, sono nulla, ma soltanto che l’uomo non è in nessun’altra cosa. C’è uno spazio di libertà di fronte a tutto ciò che non è l’assoluto dell’uomo. Non c’è svalutazione di nulla ma soltanto l’affermazione di una libertà: io sono più grande di tutte le cose, perché non posso essere in nessuna di queste cose perché posso essere soltanto in Gesù Cristo”. 1. Il Vangelo afferma che Gesù è il Regno di Dio Credo siano parole significative che vorrei verificare nel testo del Vangelo. Che Gesù sia il Regno di Dio significa innanzitutto una cosa in fondo abbastanza semplice, e cioè che Gesù è un pezzetto del nostro mondo dove: comanda Dio, la volontà di Dio è conosciuta e compiuta, c’è una sintonia tra il comportamento umano e il disegno di Dio. Allora, non c’è dubbio che la regalità di Dio, la sovranità di Dio, si manifesta esattamente in Lui, in Gesù che dice: «Mio cibo è fare la volontà di colui che mi ha mandato e portare a compimento la sua opera» (Gv 4,34). «Le parole che io vi dico, non le dico da me; ma il Padre che è con me compie le sue opere» (Gv 14,10b). E così via… 1 1.1. L’onnipotenza del Padre si manifesta in Gesù proprio perché Gesù è obbediente a Lui È significativo che quegli autori del Nuovo Testamento, che hanno una cristologia la più elevata possibile come Giovanni e la Lettera agi Ebrei, uniscono questa cristologia elevata con il senso profondissimo dell’obbedienza di Gesù al Padre. Le due cose per Giovanni sono strettamente congiunte. Nel cap. 5°, dopo “la guarigione del paralitico della piscina”, Gesù parla del suo rapporto con il Padre così: «(…) il Figlio da sé non può fare nulla se non ciò che vede fare dal Padre; quello che egli fa, anche il Figlio lo fa. [20]Il Padre infatti ama il Figlio, gli manifesta tutto quello che fa e gli manifesterà opere ancora più grandi di queste, e voi ne resterete meravigliati. [21]Come il Padre risuscita i morti e dà la vita, così anche il Figlio dà la vita a chi vuole» (Gv 5, 19-21). Allora, sottomissione piena senza riserve, e quindi condivisione altrettanto piena della potenza del Padre. L’onnipotenza del Padre si manifesta in Gesù proprio perché Gesù è obbediente a Lui; questo vuole dire: “il Regno di Dio si fa vicino”, si manifesta in Gesù. 2. La vocazione dei discepoli Credo che quel brano che conosciamo a memoria, ma che dobbiamo tornare a meditare, ci illumina chiaramente sulla vocazione dei discepoli. Siamo nel Vangelo secondo Marco nel cap. 1,15-20, subito dopo i versetti che abbiamo letto nella prima meditazione: «[15]Il tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino; convertitevi e credete al vangelo. [16]Passando lungo il mare della Galilea, vide Simone e Andrea, fratello di Simone, mentre gettavano le reti in mare; erano infatti pescatori. [17] Gesù disse loro: Seguitemi, vi farò diventare pescatori di uomini. [18]E subito, lasciate le reti, lo seguirono. [19]Andando un poco oltre, vide sulla barca anche Giacomo di Zebedeo e Giovanni suo fratello mentre riassettavano le reti. [20]Li chiamò. Ed essi, lasciato il loro padre Zebedeo sulla barca con i garzoni, lo seguirono». Vale chiaramente la pena ricordare la collocazione dell’episodio. Abbiamo detto che siamo esattamente all’inizio dell’attività pubblica di Gesù: ha appena iniziato a proclamare il Vangelo, ha proclamato che la lunga attesa dei profeti si sta compiendo, che Dio si è fatto vicino agli uomini con la forza della sua volontà regale. Quindi, accettate questa sovranità di Dio sulla vostra vita e affidatevi alla forza del Vangelo che vi viene annunciato. Dunque, ora Dio è vicino, non lontano; è attivo e operante, non è un Dio inerte o un Dio così lontano da noi da non intercettare la storia, da non attraversare la vita degli uomini; al contrario attraversa efficacemente la nostra esperienza. 2.1. Il punto di riferimento per il discepolo è la persona di Gesù che cambia le condizioni oggettive in cui l’uomo vive Ebbene, nella chiamata dei primi discepoli si manifesta esattamente la forza attiva del Regno di Dio, la sua capacità invincibile di attrarre l’uomo. Si manifesta in un modo semplicissimo, attraverso il passaggio di Gesù: «[16]Passando lungo il mare di Galilea, vide Simone e Andrea». Gli autori hanno notato che praticamente in tutti i racconti di vocazione, quando Gesù chiama qualcuno, Gesù sta camminando, è in movimento, è dentro ad un itinerario della sua missione, e dentro l’itinerario della sua missione incontra e chiama. Di per sé il fatto è evidentemente banale, non è un discorso affascinante del “discorso della montagna”, o un miracolo sbalorditivo. Semplicemente Gesù passa accanto ad alcune persone sulla riva del lago. Eppure, questo fatto normalissimo, siccome si tratta di Gesù, diventa rivoluzionario, altera tutto l’equilibrio della scena. Ci sono alcuni pescatori che stanno gettando le reti in mare, ci sono altri pescatori che stanno riassettando le reti, sono tutte azioni evidentemente abituali nel lavoro del loro mestiere. Ma il passaggio di Gesù cambia tutto: reti, barca, famiglia, garzoni, che fino a quel momento avevano costituito l’orizzonte di vita di questi pescatori, vengono abbandonati e s’impone prepotente un nuovo centro di attrazione: «venite dietro di me». Notate, sono parole all’imperativo. Gesù non usa delle parole gentili o non fa un invito per attirare delle persone a seguirlo. 2 Dà un comando e sorprendentemente è accolto: «[18]E subito, lasciate le reti, lo seguirono». Cos’è questo? Il Regno di Dio! Passa Dio con tutta la sua forza di attrazione, strappa il Regno di Dio alle abitudini del passato, offre un nuovo punto di riferimento, una nuova speranza. Questo punto di riferimento è in concreto la persona di Gesù. È ancora significativo, lo notano tutti i commentatori, che manchi qualsiasi presupposto; nella vita dei pescatori non c’è, non è raccontata la preparazione di questo “momento”; che fossero alla ricerca di qualche cosa, che avessero visto o incontrato Gesù, questo è possibilissimo dal punto di vista storico (anzi è forse probabile), ma è significativo che non viene raccontato niente di questo; cioè tutto quello che stava prima non è un presupposto necessario, l’unico presupposto necessario è “il passaggio di Gesù”. Questa peculiare mancanza di presupposti la si trova qui e ancora più chiara sempre nel Vangelo di Marco nel cap. 2,13-14, dov’è narrata la vocazione di Levi. Lì addirittura Levi è al banco della gabella, quindi sta facendo un mestiere impuro, è in una condizione di irregolarità dal punto di vista della religiosità di Israele. Eppure, anche in quel caso, tutto avviene con il comando di Gesù: «Seguimi. Egli, alzatosi, lo seguì». Punto e basta! Per dire che, come sottolineavo, la forza di questo Regno di Dio e la sua creatività crea la risposta stessa dell’uomo, cambia, modifica, le condizioni oggettive in cui l’uomo vive. 3. Il confronto tra la vocazione dei discepoli di Gesù e quella di Abramo Provo a fare un confronto tra il nostro racconto di vocazione e quella di Abramo che è una delle vocazioni più grandi dell’Antico Testamento. Dal punto d vista letterario il confronto bisognerebbe farlo con quella di Eliseo, che è chiamato da Elia e per alcuni aspetti ha delle somiglianze con la nostra. Ma a me, più che le somiglianze, interessano le differenze; allora prendo la vocazione di Abramo al cap. 12,1-4a della Genesi: «[1]Il Signore disse ad Abram: Vattene dalla tua terra, dalla tua patria e dalla casa di tuo padre, verso la terra che io ti indicherò.[2]Farò di te un grande popolo e ti benedirò, renderò grande il tuo nome e diventerai una benedizione. [3]Benedirò coloro che ti benediranno e chi ti oltraggerà io lo maledirò e in te si diranno benedette tutte le famiglie della terra. [4]Allora Abramo partì, come gli aveva ordinato il Signore». Il racconto è stupendo, siamo in uno dei punti chiave della storia della salvezza (anzi in un certo senso incomincia qui la vera e propria storia, anche se in realtà è già cominciata prima). Anche qui, come nel nostro caso, si insiste sulla necessità di un abbandono esigente: «Vattene dalla tua terra – dalla tua parentela – dalla casa di tuo padre». Sono tre termini in progressione che vogliono dire la radicalità del distacco. Poi una triplice promessa, che deve motivare il distacco. Ad Abramo viene promessa una terra – viene promessa una discendenza numerosa – viene promesso un nome grande. Tutto questo sotto la categoria biblica fondamentale di «benedizione», che è il termine fondamentale di quel racconto; Dio benedice Abramo, cioè dilata la vita di Abramo. Tutto questo è una Parola di Dio che è posta davanti ad Abramo e deve strapparlo alle sue abitudini e sicurezze. La promessa di Dio ha un fascino così grande che tutto il resto è lasciato: «Abram partì, come gli aveva detto il Signore». 3.1. L’elemento determinante del discepolo è seguire Gesù Anche nella nostra chiamata dei discepoli si parla di distacco, ma in un’ottica diversa. I discepoli partono non per raggiungere una promessa collocata nel futuro, ma per seguire Gesù. Abramo va verso una terra che non conosce, mentre i discepoli vanno dietro a Gesù che vedono molto bene, sono chiamati a sperimentare una condizione nuova di vita con lui. Le parole, «vi farò diventare 3 pescatori di uomini», non sono evidentemente una promessa, cioè non esprimono un obiettivo futuro che giustifica il distacco attuale, sono piuttosto la descrizione dell’avventura che i discepoli iniziano e dovranno svolgere insieme con Gesù. Gesù è un «pescatore di uomini», e i discepoli seguendo Gesù diventano essi stessi «pescatori di uomini», partecipi della sua condizione. Ma questo è l’elemento determinante: stare con Gesù, seguire con Gesù, condividere l’esperienza di Gesù. Quando si legge nel Vangelo di san Giovani al cap. 12,26, «[26]Chi mi vuole servire mi segua, e dove sarò io, là sarà anche il mio servo», viene da chiedersi: dove? In un luogo deserto a pregare? O nella sinagoga per guarire un indemoniato? O sul monte per annunciare la legge del Regno? O nel tempio a discutere con i farisei? O sulla via del calvario per portare la croce? O nella gloria del Padre? Ebbene, sì, in tutti questi luoghi, e anche altrove perché ormai l’importante non è essere qui o lì, l‘importante è essere con Gesù ovunque egli sia, ovunque egli vada. Questo rapporto è così decisivo che ritorna stranamente (è l’unico esempio in quel libro) addirittura nel Libro dell’Apocalisse. Quando vengono descritti «i centoquarantaquattromila redenti dalla terra», si dice che stanno sul “monte con l’Agnello” e «[4]Questi non si sono contaminati con donne, sono infatti vergini e seguono l’Agnello dovunque vada» (Ap 14,3.4). Sono “vergini” da ogni forma di idolatria, sono delle persone che hanno vissuto la loro consacrazione e dedizione al Signore senza diminuzione, senza dividere il cuore; ebbene, la loro esistenza è un «seguire l’Agnello dovunque vada». Sembra quindi che il discepolato abbia una dimensione escatologica, definitiva, non è provvisoria, non è un elemento transitorio di esperienze; è quello stare alla sequela di Gesù che rimane sempre. 4. Il discepolo sta in piedi solo se si muove verso Gesù Si stabilisce così tra i discepoli e Gesù un rapporto che in sintesi assomiglia all’equilibrio dinamico. C’è un equilibrio statico dei corpi il cui centro di gravità cade dentro l’area di base; allora stanno fermi, solidi e tranquilli, nessuno si può muovere. Ma esiste un equilibrio dinamico che si realizza nei corpi in movimento. Dove c’è l’equilibrio dinamico il centro di gravità esce dall’area di base; nonostante questo il corpo non cade perché si muove, e muovendosi si realizza degli equilibri sempre nuovi, in spostamento. Se per ipotesi il movimento fosse bloccato il corpo dovrebbe cadere perché non ha equilibrio in sé; è il movimento che gli dà questo equilibrio. Così è il discepolo. Il discepolo è una persona umana che possiede delle sue qualità – doti, conoscenze, relazioni, riconoscimenti… –, tutto questo è il suo patrimonio personale. Però il centro di gravità della vita del discepolo non cade nello spazio costruito da tutte queste cose. Il discepolo è proiettato fuori di se stesso, oltre se stesso, verso Gesù: “venite dietro di me, e lo seguirono”. Per questo il discepolo trova il suo equilibrio solo camminando, correndo, in modo che il luogo di Gesù diventi la direzione del suo movimento. Solo se il discepolo si muove verso Gesù sta in piedi, altrimenti come discepolo inciampa e cade, perché non è in sé, nelle sue doti, che ha il fondamento della fermezza, della solidità e dell’equilibrio. 4.1. Il problema dei deboli nella comunità cristiana è risolvibile nel muoversi verso Gesù Nella Lettera ai Romani al cap. 14 san Paolo affronta il problema dei deboli nella comunità cristiana, di quelli che ritengono peccato mangiare carni e quindi vivono da vegetariani con tutta la tensione che può nascere all’interno della comunità; perché quelli che invece sono forti, che hanno una fede immune da queste cose, possono facilmente giudicare e condannare i comportamenti che appaiono ancora adolescenziali o infantili. Paolo risponde a questo problema pratico pratica nella comunità cristiana, dicendo: «[1]Accogliete tra voi chi è debole nella fede, senza discuterne le 4 esitazioni. [2]Uno crede di poter mangiare di tutto, l’altro invece, che è debole, mangia solo legumi. [3] Colui che mangia non disprezzi chi non mangia; chi non mangia, non giudichi male chi mangia, perché Dio lo ha accolto» (Rm 14,1-3). E spiega il fondamento di questo precetto di comportamento da tenere: «[7]Nessuno di noi, infatti, vive per se stesso e nessuno muore per se stesso, [8]perché se noi viviamo, viviamo per il Signore, se noi moriamo, moriamo per il Signore. Sia che viviamo, sia che moriamo, siamo dunque del Signore. [9]Per questo infatti Cristo è morto ed è ritornato alla vita: per essere il Signore dei morti e dei vivi» (Rm 14,7-9). Allora, puoi avere tutte le conoscenze che vuoi, ma le tue conoscenze non sono quelle che ti danno senso e equilibrio di vita; quello che ti dà senso è il tuo muoverti verso Gesù. Allora, fai le cose in questa prospettiva e questo ti porta a non usare le conoscenze per giudicare o condannare altri, ma al contrario ti porterà a ricondurre a Gesù il comportamento anche dei deboli; sono vegetariani, che lo siano per il Signore, è sufficiente quello. 5. La condizione del discepolo C’è un testo in san Paolo che descrive in un modo efficacissimo la condizione sorprendente del discepolo, ed è il cap. 3,4-14 della Lettera ai Filippesi: «Se alcuno ritiene di poter confidare nella carne, io più di lui: [5]circonciso l’ottavo giorno, della stirpe d’Israele, della tribù di Beniamino, ebreo da Ebrei, fariseo quanto alla legge; [6]quanto a zelo, persecutore della Chiesa; irreprensibile quanto alla giustizia che deriva dall’osservanza della legge. [7]Ma quello che poteva essere per me un guadagno, l’ho considerato una perdita a motivo di Cristo. [8]Anzi, tutto ormai io reputo una perdita di fronte alla sublimità della conoscenza di Cristo Gesù, mio Signore, per il quale ho lasciato perdere tutte queste cose e le considero come spazzatura, al fine di guadagnare Cristo [9]e di essere trovato in lui, non con una mia giustizia derivante dalla legge, ma con quella che deriva dalla fede in Cristo, cioè con la giustizia che deriva da Dio, basata sulla fede. [10]E questo perché io possa conoscere lui, la potenza della sua risurrezione, la partecipazione alle sue sofferenze, diventandogli conforme nella morte, [11]con la speranza di giungere alla risurrezione dai morti. [12]Non però che io abbia già conquistato il premio o sia ormai arrivato alla perfezione; solo mi sforzo di correre per conquistarlo, perché anch’io sono stato conquistato da Gesù Cristo. [13]Fratelli, io non ritengo ancora di esservi giunto, questo soltanto so: dimentico del passato e proteso verso il futuro, [14]corro verso la mèta per arrivare al premio che Dio ci chiama a ricevere lassù, in Cristo Gesù». Parafrasi: “Se qualcuno ritiene di avere un patrimonio umano che gli dia sicurezza e vanto, io ce l’ho più ricco ancora”. E Paolo fa l’elenco di tutto quello che dal punto di vista umano e mondano e anche religioso gli può dare sicurezza. Dunque, «[5]circonciso l’ottavo giorno, della stirpe d’Israele, della tribù di Beniamino», quindi appartiene al popolo eletto da Dio, a una delle tribù storiche di questo popolo, e fin dall’inizio è stato legato a Dio dal rapporto di alleanza; la “circoncisione” è l’alleanza di Abramo; dunque da sempre Paolo è dentro l’alleanza di Abramo (cfr. Sir 44,19-20). Dal punto di vista di genealogia esterna conterà poco ma un suo valore ce l’ha è «ebreo da Ebrei». Quindi Paolo non è un ebreo avventizio, è un ebreo di razza pura, ai quattro quarti di ebraismo. «fariseo quanto alla legge», quindi non solo è ebreo di nascita ma ha scelto all’interno dell’ebraismo la corrente religiosa più impegnata, che si propone un’attività anche oltre quanto sarebbe prescritto. «Fariseo quanto alla legge», tanto da diventare «per zelo, persecutore della Chiesa». La Chiesa l’ha considerata come un pericolo per la tradizione sana di Israele e non è rimasto inerte ma è diventato «persecutore». Addirittura, e questo fa impressione, «irreprensibile quanto alla giustizia che deriva dall’osservanza della legge». Quindi nessuno gli può rimproverare niente perché lui la legge l’ha osservata fin dalla sua giovinezza. 5 Eppure, dice: «quello che poteva essere per me un guadagno, l’ho considerato una perdita a motivo di Gesù Cristo». 5.1. L’immagine più bella dell’esperienza del discepolato secondo il Vangelo è essere conquistato da Gesù Cristo Allora, queste ricchezze certamente sono privilegi, che dal punto di vista umano hanno un valore grande, ma Paolo a tutto questo ha rinunciato. Perché ha rinunciato? Perché gli interessa una cosa diversa, alternativa, che si chiama: “Gesù Cristo”. «[8]Anzi, tutto ormai io reputo una perdita di fronte alla sublimità della conoscenza di Cristo Gesù, mio Signore, per il quale ho lasciato perdere tutte queste cose e le considero come spazzatura, al fine di guadagnare Cristo [9]e di essere trovato in lui, non con una mia giustizia derivante dalla legge, ma con quella che deriva dalla fede in Cristo, cioè con la giustizia che deriva da Dio, basata sulla fede». A parte il testo, che è evidentemente complesso, ma il senso è comprensibilissimo. Dice Paolo: “Quello che m’interessa non è essere giusti, ma essere reso giusto da Cristo. Non è essere grande ma partecipare della grandezza di Cristo, non è essere autonomo ma ricevere da Cristo in dono la grazia e la salvezza. Allora, tutto quello che mi potrebbe spingere ad un’affermazione individuale, io per me con i miei meriti o le mie doti o le mie capacità o i miei privilegi, tutto questo è pericoloso proprio perché rischia di farmi sentire autonomo e non bisognoso di Gesù Cristo. Allora ho rinunciato a tutto, perché la salvezza mi venga come dono di Cristo e non senza di Cristo”. Capite, che questo Cristo è ormai per Paolo l’unico luogo della sua sicurezza, “la mèta unica della sua corsa”. Sulla via di Damasco Paolo è stato raggiunto da Gesù Cristo, Paolo scappava e Cristo lo ha raggiunto, da allora è Paolo che si è messo ad inseguire Gesù Cristo, e tutta la sua vita diventa una corsa verso di Lui, ne è stato conquistato. Credo che non ci sia un’immagine più bella dell’esperienza del discepolato secondo il Vangelo: essere conquistato da Gesù Cristo. 6. Il dono che Gesù fa è di assumersi la responsabilità del cammino che i discepoli percorreranno Chiaramente in quello che abbiamo ricordato si è sottolineato l’impegno che viene chiesto ai discepoli, devono abbandonare tutto: la casa, il lavoro, le relazioni usuali per seguire il Signore; questo è verissimo, è un impegno grande che viene chiesto, però bisognerebbe sottolineare, anzi mettere al primo posto, il dono che ricevono. Perché è vero che i discepoli s’impegnano a seguire Gesù, ma è vero che Gesù s’impegna ad andare davanti ai discepoli, e non è un impegno da meno anzi è un impegno da più. Gesù si assume la responsabilità del cammino che i discepoli percorreranno; che sia cammino di vita e di libertà che conduce alla pienezza dell’esistenza umana, che conduca alla comunione con Dio, questa responsabilità se lo assume Gesù Cristo, perché dona se stesso come guida nel momento in cui chiede a loro di seguire lui come discepoli. È in qualche modo un Gesù che si lascia incastrare dai discepoli; i discepoli sono incastrati dal loro rapporto con Gesù, ma anche Gesù è incastrato dal suo rapporto con i discepoli. Alla fine chi pagherà di più è proprio Lui: «se dunque cercate me, lasciate che questi se ne vadano» (Gv 18,8), c’è scritto nel Vangelo di Giovanni; in qualche modo Gesù si pone davanti come difesa del gruppo dei discepoli, e questo fa parte dell’impegno che Gesù si è assunto al momento della vocazione, e deve essere tenuto presente. 6.1. Il discepolo ha bisogno di una guida e di un maestro C’è un altro elemento, che è implicito in quello che abbiamo già detto, ma dobbiamo dire in modo più chiaro. Si potrebbe pensare che il discepolato sia una scelta che la persona compie liberamente quando comprende di avere bisogno di una guida e di un maestro. Succede così, quando uno va all’università e deve fare la tesi sceglie il maestro con cui vuole fare la tesi, e sceglie il maestro da cui vuole ricevere le indicazioni per un cammino di approfondimento, e nell’esperienza di Israele così accadeva per i discepoli. 6 Abbiamo ricordato nella prima meditazione quanto era intricata e complicata la comprensione della legge nella tradizione di Israele, era già diventato un edificio enorme quello che poi andrà a finire in quell’immensa e infinita enciclopedia del Talmud, quindi muoversi dentro a tutta quella tradizione interpretativa era difficilissimo. Proprio per questo chi voleva diventare un esperto aveva bisogno di Dio, si guardava intorno tra tutti coloro che erano maestri, i rabbi, e sceglieva quello di cui voleva diventare discepolo; si metteva alla sua scuola, imparava da lui la legge, imparava la tradizione e l’interpretazione della legge, e iniziava quindi un cammino che doveva portare alla fine a diventare rabbi come il maestro (o magari più del maestro, perché l’ideale è che il discepolo superi il maestro), e soprattutto avere la conoscenza che il maestro gli trasmette. Questa era l’esperienza del discepolato rabbinico. 6.2. Al centro ci sta la persona di Gesù e non l’insegnamento Ebbene, con Gesù le cose stanno in modo diverso. Innanzitutto l’iniziativa è di Gesù, è lui che “passa pian piano”, anzi qualche volta è lui che respinge qualcuno che vorrebbe andare insieme con lui. In ogni modo la logica del discepolato per il Vangelo è quella che c’è nel Vangelo secondo Giovanni: «[16]Non voi avete scelto me, ma io ho scelto voi e vi ho costituiti perché andiate e portiate frutto e il vostro frutto rimanga» (Gv 15,16a). Ma non solo, il discepolo che va dietro a Gesù non pensa di diventare maestro, non ha nessuna voglia o desiderio o prospettiva di diventare lui stesso maestro, di arrivare a sapere le cose così bene da poter fare a meno di Gesù. Al contrario, come dicevo, il discepolato diventa una condizione permanente, la realizzazione del pieno desiderio del discepolo. Vale quella regola (sulla quale torneremo): «Un discepolo non è da più del suo maestro (…) è sufficiente al discepolo essere come il suo maestro» (Mt 10,24.25a). Se ci chiediamo il perché di questa differenza, di questa logica diversa, che c’è nel discepolato di Gesù, veniamo rimandati a quello che dicevamo prima. Nel rapporto tra il discepolo / il rabbi / la legge, il valore assoluto è la legge. Il rabbi conta per la sua conoscenza della legge come esperto, è per la sua capacità di trasmettere questa conoscenza. Il discepolo, è discepolo perché vuole conoscere la legge e va a scuola del rabbi per la legge. Il valore assoluto è la legge. Ma nel rapporto discepolo / Gesù / insegnamento di Gesù, il valore assoluto è Gesù, e non l’insegnamento. L’insegnamento serve, è preziosissimo, in quanto porta a conoscere e ad ubbidire a Gesù. Si legge nel Vangelo secondo Giovanni: «Se rimanete nella mia parola, sarete davvero miei discepoli; 32 conoscerete la verità e la verità vi farà liberi» (Gv 8,31-32). Non dice: “se rimanete nella mia parola, sarete liberi”. Ma dice: «se rimanete nella mia parola, sarete miei discepoli». La Parola diventa strumento per realizzare un rapporto personale con Gesù, ed è nel vivere questo rapporto personale che il discepolo conosce la verità. Quindi “se rimanete nella mia parola sarete miei discepoli, e in quanto miei discepoli allora conoscerete la verità”. “Eredità” vuole dire: non è solo in quello che Gesù dice, ma in tutto ciò che Gesù è. E il discepolo non cerca Gesù per le parole che dice, ma ascolta le parole per incontrare Gesù. Allora, al centro ci sta la persona e non l’insegnamento. 7. L’essenza del cristianesimo è il rapporto personale con Gesù Cristo Quando all’inizio del secolo scorso (XX secolo) era venuta fuori la controversia sull’“essenza del cristianesimo”, su che cos’è il nucleo fondamentale ed essenziale, Harnack Adolf aveva trovato questo nucleo del cristianesimo nell’insegnamento di Gesù che aiutava a riconoscere che Dio è Padre e quindi che tutti gli uomini sono fratelli, nella fraternità e nell’amore fedele a tutti gli altri uomini, riconosciuti come legati a noi; lì per Harnack stava l’essenza del cristianesimo. 7 Ora, in questo c’è qualche cosa di vero, nel senso che siamo veramente dentro ad uno degli insegnamenti fondamentali di Gesù, ma il cristianesimo non è lì. Il cristianesimo è in Gesù. In quel piccolo libretto su “L’essenza del cristianesimo”, che ha scritto Romano Guardini nel ‘38, la sua tesi è propria quella. Uno può diventare buddista anche dimenticando Buddha, basta che non dimentichi gli insegnamenti di Buddha; ma uno non può diventare cristiano dimenticando Gesù e prendendo i suoi insegnamenti, perché il cristianesimo è discepolato, è un andare dietro a Gesù, a quella persona lì concreta. In questo c’è forse l’aspetto più caratteristico, quello che contraddistingue il cristianesimo da altre religioni. Se uno vuole fare il confronto tra cristianesimo e l’Islam, non può fare il confronto tra Gesù e Maometto, deve fare il confronto tra Gesù e il Corano. Quello che per l’islam è il Corano per il cristianesimo è Gesù; è in questa dimensione personale che c’è il tipico, e c’è quello che crea anche difficoltà. Per certi aspetti è scandaloso, e lo ricorda Moioli, che una realtà particolare, com’è Gesù di Nazaret, sia l’assoluto; dal punto di vista storico è evidentemente uno nella storia dell’umanità, ma in realtà per il cristiano è l’assoluto. Questo crea una serie di problemi non piccoli, dal punto di vista teologico, ma su questo non ci sono dubbi, sul fatto che le cose stiano così: il cristianesimo sta o cade con il rapporto personale con Gesù. Esercizi pratici Gli esercizi che vi consiglio di fare sono evidentemente il Vangelo, di pregare il Salmo 15 (16), che usiamo giovedì a Compieta. È la preghiera del Levita che non ha altra ricchezza mondana che il suo rapporto con Dio. Quando la terra d’Israele è stata tirata a sorte tra le diverse tribù, alla tribù di Levi è toccata la parte migliore. Cioè la tribù di Levi è senza terra, ma proprio per questo le è toccata la parte migliore, cioè il rapporto con Dio. Allora, può andare molto bene per noi la preghiera di questo discepolo, il discepolo che pone nel rapporto con Gesù la sua ricchezza fondamentale. * Documento rilevato dalla registrazione, adattato al linguaggio scritto, non rivisto dall’autore. 8