I preti “Fidei donum”
Don Olivo Dragoni Direttore del CMD di Lodi
Io vengo a dire qualche parola in una Diocesi dove so che la tensione missionaria,
anche nel senso di cui stiamo parlando ora, partendo dai “Fidei Donum”, scambio fra le
Chiese, testimonianze, piccoli gruppi missionari… Tutto questo è molto ricco ed è da
vecchia data che voi masticate quanto stiamo dicendo questa mattina. Non mi fermo
quindi a delineare una storia rapida dei preti “Fidei donum”; meriterebbe anche per le
tante sfaccettature, ma non è possibile; d’altronde voi avete già un palato sensibile a
questo tipo di argomenti.
Faccio qualche osservazione invece di tipo “personale”, il che significa anche
“opzionale”: se quel che dico non vi pare valido, lasciatelo cadere perché sono
solamente sollecitazioni che mi vengono soprattutto dell’esperienza avuta nei 17 anni di
visite frequenti ai preti italiani “Fidei donum”. In quei tempi erano circa ottocento i preti
diocesani impegnati in America Latina; ho sempre dato la preferenza i missionari
“abbandonati”, non sostenuti cioè da nessuno. Quando cominciai il mio lavoro c’erano
sette dittature in America Latina ed essere prete in quelle nazioni era anche
“pericoloso”.
Tornando in Italia andavo a trovare i rispettivi Vescovi in un clima di
collaborazione. Ricordo di essere venuto a Novara tante volte.
I sacerdoti “Fidei donum” sono dono della fede fatto ad altre Chiese. È un dono
che parte dalla fede, in ordine a comunicare la fede, un dono fatto ad altre comunità
cristiane. Lo scambio avvenuto tra la sponda italiana, 1913, e le sponde dell’America
Latina e dell’Asia, anche se per l’Asia il discorso sarebbe più difficoltoso. Infatti io
sono sempre stato perplesso sull’invio di preti “Fidei donum” nell’Asia. Negli anni ’80
si era al massimo della presenza numerica; in quel momento esce l’Enciclica “Posquam
apostoli” della quale si conosce molto poco: infatti è fallita. Era il 25 marzo del 1980: il
Papa con la Congregazione dei Vescovi invitava ad uno scambio anche fra le Diocesi
italiane, in quanto vi era una forte sperequazione fra le varie Diocesi a riguardo del
clero. Si pensava infatti fosse giusto aiutare non solo le Diocesi lontane, sia per lo
spazio che per la cultura, ma anche quelle italiane. Questa Enciclica è caduta totalmente
nel vuoto. Ricordo infatti che la CEI aveva costituito un’apposita commissione, di cui
anch’io facevo parte; sono state fatte tre riunioni e poi tutto è finito. Sarebbe
interessante chiedersi perché: forse si riteneva più facile andare in America Latina
piuttosto che spostarsi a Volterra, per esempio.
L’altro fatto di rilievo è l’inversione di marcia che sta avvenendo con l’arrivo di
preti stranieri in Italia. Si tratta di un numero ormai notevole. Molti di loro, circa
ottocento, sono già inseriti nel sistema economico del Clero italiano. Ed è una tendenza
che pare non cessi. Che cosa implica questo fatto? Ci si prepara a riceverli? Quali
attenzione occorre avere nei loro confronti, in spirito di comunione fra le Chiese.
All’inizio, quando si inviavano preti in America Latina, si era spinti più dalla
necessità della scarsità del clero in quelle Diocesi. Più tardi si parlò e si teorizzò anche
lo “scambio fra le Chiese”. La teologia della “comunione” del Concilio ci ha molto
aiutato in questo. Se però voi parlate con i preti tornati dalla missione vi accorgerete che
questo “scambio” non è avvenuto: siamo andati ad aiutare, in parte siamo tornati, alcuni
si sono fermati là; questo scambio tra le Chiese però, al di là di un aiuto economico o
1
della preghiera, non è avvenuto. Non si è verificato infatti uno “scambio di esperienze
missionarie”.
Al loro ritorno spesso li abbiamo ascoltati con attenzione – e a volte con un po’ di
diffidenza –. Abbiamo anche detto loro: “Quello che là hai fatto è stato un bene, ma
tornando qui devi dimenticare tutto”. I missionari ritornati hanno quindi chiuso la
valigia e sono tornati a fare cose in cui credevano o non credevano. Qualcuno si è
“rincantucciato”; altri invece si sono rimboccati le maniche. Domandiamoci quindi: è
vero che questo scambio fra le Chiese non è avvenuto?
Io penso invece che questo scambio fra le Chiese “antiche” e quelle “giovani” sia
avvenuto soprattutto sul terreno delle “Istituzioni”.
- Per esempio si è utilizzato nella pastorale italiana il metodo: vedere, giudicare e
agire. Qualche documento ufficiale dei Vescovi infatti ha questo ritmo. Si tratta di
un metodo che viene da altre sponde, non è nostro.
- La scelta preferenziale per i poveri. È vero che ha radici nel Concilio, ma la
sollecitazione, la provocazione e la prima esperienza forte ci viene dalle Chiese. I
Vescovi italiani, nel 1974, faranno esplicita scelta dei poveri, scelta che più volte
ripeteranno.
- La centralità, l’utilizzo della Parola di Dio in seno alle nostre comunità parrocchiali,
la lettura popolare della Bibbia, i centri di ascolto, i gruppi del Vangelo, i tentativi di
dinamizzare l’ascolto del Vangelo per tradurlo poi in esperienze concrete. Tutto
questo è stato sperimentato prima su altre sponde.
- Il delinearsi di un ministero episcopale più immerso “nella gente”.
- La valorizzazione della pietà popolare.
- La valorizzazione dei ministeri laicali.
Mi pare che queste intuizioni avute dai sacerdoti “Fidei donum” nei loro posti di
missione siano servite e servano ancora oggi. Sono trapelate anche nelle nostre
parrocchie attraverso le visite che alcuni gruppi missionari hanno fatto ai loro sacerdoti
oppure dalle visite degli stessi “Fidei donum” alle famiglie, nei loro paesi durante una
vacanza…
Mi pare che l’esperienza dei sacerdoti “Fidei donum” ci debba parlare sì di aiuto
alla scarsità del clero, ma ci deve aiutare anche sul nostro impegno di “preti”; abbiamo
infatti bisogno di un po’ di “cura ricostituente”. Posso testimoniare in prima persona la
mia esperienza; non avevo una “figura giuridica” nel mio essere incaricato dei preti
“Fidei donum”; l’incarico veniva sì dalla CEI, ma senza un “timbro” particolare, non
ero nessuno, mi recavo in terra di missione come amico. Ho potuto però raccogliere in
questi viaggi testimonianze di santità di cui si parla poco. Si tratta di “preti santi”,
impegnati in realtà che avrebbero potuto mettere in crisi anche la fede a volte. Preti che
si interrogavano sul rapporto tra fede, preghiera e impegno anche politico. Il nostro
Pierluigi Mangioni (?) è emblematico. La domanda: “perché tu speri ancora e non ti
uccidi?” è stata rivolta a don Pierluigi in carcere. Tutti i suoi compagni di cella avevano
infatti tentato di suicidarsi; questa esperienza mi è stata raccontata da don Pierluigi in
ospedale, ricoverato per un tumore.
Personalmente ho constatato che chi è riuscito a mettere insieme il pregare
seriamente e a lungo con l’impegno per la gente in situazioni a volte umanamente
disperate è riuscito a farcela su diversi piani della speranza personale e anche della
tenuta ministeriale. Chi invece ha cominciato a pensare che “il pregare seriamente e a
2
lungo” fosse da relegare in uno “spiritualismo italiano” non è riuscito a sopravvivere nel
ministero.
Negli anni ’70, in vista di facili successi si leggeva facilmente il libro dell’Esodo;
in seguito si è iniziato a leggere l’Apocalisse, Giobbe… Era dura! Forse anche noi
dobbiamo leggere più approfonditamente questi libri dalla “speranza lunga” che esigono
una forte parte del tempo data alla preghiera. Se non lo si fa mancherà, anche dal punto
di vista strutturale, uno dei due piloni del ponte.
È giusto fare menzione di tanti preti sconosciuti, naturalmente a parte i martiri
presenti anche tra le file dei “Fidei donum”, preti “persi” nell’esperienza missionaria dei
quali forse mai nessuno parlerà. Tanti ne ho nel cuore. Feci il mio primo viaggio con
l’intenzione di ricercare i preti “che non sono di nessuno”. Sapevo che, terminata la
guerra nel ’45, tanti preti italiani militari erano cappellani dei fascisti. Questa è una
pagina dei preti “Fidei donum” che si racconta poco. A molti di loro si diede un
passaporto “frettoloso” dicendo: “Parti alla svelta e sparisci”. Si recavano da Vescovi
che non conoscevano e che mai avevano richiesto preti. Finirono quasi tutti in
Venezuela o in Argentina. Io li andai a trovare, ormai invecchiati, soli e abbandonati su
tutti e due i fronti. Vi posso testimoniare che lì ci sono storie note solo a Dio, di vero
martirio. Bisogna ricordarlo: questo ci aiuta ad essere attenti a preti che, anche
all’interno del nostro presbiterio, sono a volte ai margini per diversi motivi.
Durante un corso di Esercizi Spirituali predicati ad Arezzo venne a confessarsi un
prete di circa 65 anni e gli ho detto: “Vengo da Lodi, sono venuto a predicare gli
Esercizi non perché io sia famoso, ma perché conosco un prete della Diocesi”. Lui mi
ha risposto: “Me, non m’invita mai nessuno”, come per dirmi “Io valgo meno”. Davanti
a Dio forse ci vorrebbe un altro occhio. La missione mi ha proprio insegnato altri
metodi di valutazione.
Ci sono poi preti abbandonati perché “ex religiosi” che non hanno ubbidito al
richiamo del Padre Generale che li voleva a casa; loro hanno risposto: “La gente ha
bisogno di me qui e non torno più a casa”. Durante una visita in Perù mi è stato detto
che in montagna c’era un prete italiano. Con la corriera sono salito a 4000 metri e ho
trovato un ex-giuseppino “alcolizzato”, anziano, malato. Sono rimasto con lui un paio di
giorni e alla fine l’ho convinto a tornare a casa. “Non ho più nessuno” mi diceva. “Vieni
– gli ho risposto – ti trovo io un Vescovo che ti accoglie”. Ho chiesto al Vescovo
Ablondi di ospitarlo e lui mi ha proposto di affidargli un piccolo santuario a mezza
collina. Quando i preti di Camerino che si trovavano vicino a lui sono saliti per
imbarcarlo per l’Italia l’hanno trovato morto, sepolto dalla gente del posto.
Un ex-religioso, invece, si era unito ad una donna, aveva avuto sette figli. La gente
gli voleva bene, lo rispettava: guai a toccarlo! Quando è morto c’è stato un “solenne
funerale”. Un altro, sulle isole del Titicaca, lavorava serenamente, da solo.
Occorre aiutare e ringraziare il Signore anche per questi preti “persi” dal punto di
vista della letteratura missionaria.
La storia dei “Fidei donum” può parlare ancora a noi preti in Italia. Siamo tentati a
volte di “privatismo”: “Ho il mio gruppetto, ho la gente che mi segue, in futuro si
arrangeranno i preti che verranno”. Questo non si dice a voce, ma in pratica è così. Si
tende quindi a chiudersi “nel proprio campicello", nel proprio “benessere economico”,
nel senso di “sicurezza”. A volte anche lo spiritualismo è spinto ad un punto tale da
immobilizzare la spinta missionaria.
3
L’esperienza dei “Fidei donum” deve aiutarci anche a scuoterci e inviarci
seriamente come missionari qui in Italia, ma davvero missionari. A volte mi sento dire:
“Ormai è inutile parlare di Fidei donum”. Ormai la missione è qui, non là. Io rispondo:
“Benissimo, fammela vedere, però”. Non si deve quindi dire che la missione è qui, non
là e poi qui non c’è. Domandiamoci: davvero ci spingiamo là dove il Vangelo non è
annunciato? Davvero, nel nostro ministero, è il Vangelo a preoccuparci?
Un tempo, una delle spinte a partire come prete “Fidei donum” era anche la scelta
dei poveri. Si andava sì dove il clero era poco, ma anche dove la povertà era
“strutturale”. La condivisione dei poveri, quindi, diventava una componente della
spiritualità dei preti “Fidei donum” e diventava poi anche una scelta pastorale. La scelta
dei poveri deve pure trasformarsi in aiuto ai preti “Fidei donum” che ora arrivano da
terre povere “verso terre ricche”, quelli che giungono da noi, nelle nostre chiese.
Domandiamoci: non abbiamo forse messo da parte questa scelta dei poveri, scelta
fondamentale per un cristiano, tanto più per un prete? Non si tratta di “strategia”
pastorale, ma di conoscenza di Gesù Cristo: è una scelta “teologale”. È per conoscere il
vero volto di Dio che io devo andare verso i poveri. Non troviamo in noi – e mi riferisco
anche ai preti giovani, senza puntare il dito – di un “imborghesimento” che diventa poi
anche scelta. Andando a pregare nei Seminari, noto a volte che c’è una certa frangia di
chierici fortemente tentata di lasciar perdere questa scelta fondamentale, molto presente
nei “Fidei donum”.
4