Anno A
ASCENSIONE
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At 1,1-11 - Gesù fu elevato in alto sotto i loro occhi.
Dal Salmo 46 - Rit.: Ascende il Signore tra canti di gioia.
Ef 1,17-23 - Dio ha fatto sedere Cristo alla sua destra nei cieli.
Canto al Vangelo - Alleluia, alleluia. Andate e ammaestrate tutte le nazioni, dice il
Signore. Ecco: io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo. Alleluia.
 Mt 28,16-20 - Il buon pastore offre la vita per le sue pecore.
«Uomini di Galilea, perché state a guardare il cielo? »
«Uomini di Galilea, perché fissate nel cielo lo sguardo? Come lo avete visto salire al cielo,
così il Signore ritornerà. Alleluia».
Con queste parole, piene di nostalgia verso l’alto ma nello stesso tempo invitanti al
realismo che inchioda gli uomini alla terra, si apre la Liturgia della solennità
dell’Ascensione: esse sono riprese dall’inizio del libro degli Atti, come vedremo tra poco.
Sembrano racchiudere in sé come una duplice spinta, che tende fatalmente a lacerare il
cuore dell’uomo: per un verso, un richiamo prepotente al cielo, dove Cristo è asceso nella
gloria e «siede alla destra di Dio» (cf Mc 16,19); per un altro, un rimando, vorrei dire
impietoso, alla nostra situazione di creature legate alla storia e alla pesantezza della vita
di ogni giorno. Probabilmente per dirci che la pur doverosa e appassionata ricerca delle
«cose di lassù» non deve essere, per nessuno di noi, una evasione dalle «cose di
quaggiù» (cf Col 3,2).
La «nostalgia» del cielo
Rimane vero, tuttavia, che il «cielo» costituisce lo sfondo festoso ed entusiasmante di
tutta la Liturgia odierna, dalle orazioni al Salmo responsoriale, al prefazio, fino
naturalmente alle letture bibliche che costituiscono la base di tutto il resto.
Si legga, ad es., l’orazione iniziale: «Esulti di santa gioia la tua Chiesa, Signore, per il
mistero che celebra in questa Liturgia di lode, poiché in Cristo asceso al cielo la nostra
umanità è innalzata accanto a te, e noi, membra del tuo corpo, viviamo nella speranza di
raggiungere il nostro capo nella gloria». Sulla stessa linea si muove il postcommunio, che
accentua ancora di più questa nostalgia celeste: «O Dio onnipotente e misericordioso...
suscita in noi il desiderio della patria eterna, dove Cristo ha innalzato l’uomo accanto a te
nella gloria».
Ancora più vibrante e nello stesso tempo ricco di contenuto teologico è il primo prefazio
della festa odierna: «Il Signore Gesù, re della gloria, vincitore del peccato e della morte,
oggi è salito al di sopra dei cieli tra il coro festoso degli Angeli. Mediatore tra Dio e gli
uomini, Giudice del mondo e Signore dell’universo, non ci ha abbandonati nella povertà
della nostra condizione umana, ma ci ha preceduto nella dimora eterna, per darci la
serena fiducia che dove è lui, capo e primogenito, saremo anche noi, sue membra, uniti
nella stessa gloria».
È chiaro che il «cielo» non rappresenta qui uno spazio geografico, dove Cristo abiterebbe
con il Padre; è solo un «simbolo» per esprimere la sua assunzione nella gloria, il suo
nuovo modo di esistere ormai sciolto dai legami della temporalità e della spazialità, che
però non lo sottrae da una, anche più intima, comunione di vita con noi. Anzi ce lo associa
di più, già fin d’ora: di qui la supplica ardente che «dove è lui» possiamo essere anche noi.
Ascensione “A” - “Omelie per un anno - vol. 1”, Elledici
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La nostalgia del «cielo» perciò è semplicemente la nostalgia di Cristo e della nostra
associazione alla sua vita nella gloria, come ci ricorda meravigliosamente san Paolo nella
seconda lettura. Egli, infatti, prega Dio che «illumini gli occhi della mente» dei suoi
cristiani per «comprendere a quale speranza» il Padre li ha chiamati risuscitando Cristo
dai morti e facendolo «sedere alla sua destra nei cieli» (Ef 1,18-21).
È questo «desiderio» che vuole risvegliare nei nostri cuori la festa dell’Ascensione, non
per farci disertare la terra ma per dirci che la nostra mèta è altrove: ed è proprio per
questo che Gesù «ritornerà» ancora una volta per prenderci con sé, come annunciarono
gli Angeli agli uomini di Galilea secondo il racconto degli Atti.
«Avrete la forza dello Spirito e mi sarete testimoni fino agli estremi confini della
terra»
La prima lettura si può comodamente dividere in due parti: i vv. 1-5 costituiscono il
«prologo» del nuovo libro che Luca intende scrivere a continuazione del suo Vangelo,
riprendendo il racconto proprio là dove lo aveva lasciato, cioè al momento dell’Ascensione
di Cristo al cielo (Lc 24,50-51). A completamento del Vangelo qui si aggiunge che Gesù
«si mostrò ad essi (agli Apostoli) vivo dopo la sua passione, con molte prove, apparendo
loro per quaranta giorni e parlando del regno di Dio» (v. 3).
È evidente l’intenzione di Luca di dare fondamento alla fede nella risurrezione del
Signore: «per quaranta giorni» gli Apostoli lo hanno potuto ancora «vedere» e
«ascoltare»! Il di più lo farà lo Spirito Santo, che essi dovranno attendere in
Gerusalemme, secondo la «promessa» che Gesù aveva loro ripetutamente fatto (vv.
4-5).
La seconda parte (vv. 6-11) riprende il tema dell’Ascensione, arricchendolo di alcuni
particolari e collegandolo anche più strettamente con la venuta dello Spirito, che sarà,
oltre che il dono, il «prolungamento» stesso di Cristo.
Proprio per questo non c’è da pensare a un immediato «ristabilimento» del «regno di
Israele» (v. 6), come pensavano piuttosto ingenuamente gli Apostoli. Esso «si
ristabilirà», invece, per tutto l’arco di tempo che va dall’Ascensione fino al ritorno glorioso
di Cristo. È la forza dello Spirito che farà fiorire e maturare i germi del regno, con la
cooperazione e la testimonianza evangelizzatrice degli Apostoli: «Non spetta a voi
conoscere i tempi e i momenti che il Padre ha riservato alla sua scelta, ma avrete la forza
dello Spirito Santo che scenderà su di voi e mi sarete testimoni a Gerusalemme, in tutta
la Giudea e la Samaria e fino agli estremi confini della terra» (vv. 7-8).
L’Ascensione, pertanto, se per un verso è la fine di una esperienza, per l’altro è l’inizio di
una avventura ancora più grande per la Chiesa, che proprio adesso sta per nascere.
È quanto ci viene detto nei versetti conclusivi: «Detto questo, fu elevato in alto sotto i loro
occhi e una nube lo sottrasse al loro sguardo. E poiché essi stavano fissando il cielo
mentre egli se ne andava, ecco due uomini in bianche vesti si presentarono a loro e
dissero: “Uomini di Galilea, perché state a guardare il cielo? Questo Gesù, che è stato di
tra voi assunto fino al cielo, tornerà un giorno allo stesso modo in cui lo avete visto andare
in cielo”» (vv. 9-11).
Anche presso la tomba vuota, alle donne, che erano accorse per ungere il corpo del
Signore, appaiono, nel racconto di Luca (24,4) «due uomini in vesti sfolgoranti». Sono il
segno della presenza di Dio, che opera interventi decisivi nel piano della storia della
salvezza. Così come la «nube», che sottrae Gesù all’occhio dei suoi discepoli, non è da
intendere come qualcosa che ce lo sottragga davvero, quanto come il simbolo di una
particolare manifestazione salvifica di Dio in Cristo. Infatti la «nube» fa normalmente
parte del quadro delle teofanie sia dell’Antico1 che del Nuovo Testamento.2 Inoltre,
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Cf Es 13,22.
Ascensione “A” - “Omelie per un anno - vol. 1”, Elledici
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secondo la descrizione di Daniele (7,13), essa è anche il contrassegno e il preannuncio
della «parusia» del Signore.3
Egli «tornerà allo stesso modo in cui lo avete visto andare in cielo»
L’Ascensione perciò si pone, nella intenzione di Luca, come un fatto carico di irruenza
escatologica: essa, in un certo senso, «anticipa» le ultime cose, trascinando gli uomini e
la loro storia in questo movimento di ritorno a Dio, che adesso si realizza nel Cristo come
«primizia» (cf 1 Cor 15,20) dell’umanità intera. È in questa luce che diventano trasparenti
le parole degli Angeli: «Questo Gesù, che è stato di tra voi assunto fino al cielo, tornerà un
giorno allo stesso modo in cui lo avete visto andare in cielo» (v. 11).
Il confronto qui stabilito («allo stesso modo») non è sul piano delle verosimiglianze
esterne, ma su quello delle realtà oggettive: come il Cristo gloriosamente sale al cielo,
così ritornerà per affermare la sua «signoria» universale e per «ricapitolare» in sé tutta la
storia. Non un distacco dunque, il suo, ma il pegno del suo ritorno; non un’assenza dai
suoi, ma la promessa di una presenza anche più efficace e più consolante nella operatività
feconda dello Spirito.
«Mi è stato dato ogni potere in cielo e in terra»
È quanto ricaviamo anche dal Vangelo di Matteo, che non ci descrive l’Ascensione di Gesù
al cielo con immagini visive ma ce ne dà l’equivalente teologico nel potente, anche se
scarno, quadro conclusivo del suo racconto (28,16-20).
Anche qui, come nel libro degli Atti, abbiamo l’ultimo incontro di Gesù con i suoi Apostoli.
Esso però non avviene in Gerusalemme, ma in Galilea, da dove era risuonato il primo
annuncio evangelico (4,12-17); e per di più su di un «monte», quasi certamente per
richiamare alla memoria l’altro «monte» dal quale aveva lanciato al mondo l’appello
sconvolgente delle «beatitudini» (cc. 5-7). È come un ritornare alle origini e un voler
condensare in questo momento tutto il passato: il Risorto convalida in tal modo la sua
storia precedente e dà nuovo vigore al «discorso della montagna». Non per nulla
l’abbiamo appena sentito dire: «... insegnando loro ad osservare tutto ciò che vi ho
comandato» (v. 20).
Ma al di là dell’inquadratura geografica diversa, che pur pone problemi all’esegeta, ci
interessa il contenuto di questo messaggio ultimo di Cristo, che viene anche chiamato
«mandato missionario», ma è qualcosa di più grande ancora.
Prima di tutto, si noti la maestosa affermazione cristologica iniziale: «Mi è stato dato ogni
potere in cielo e in terra» (v. 18).
Più di una volta Matteo parla del «potere», cioè dell’«autorità» con cui Cristo insegna e
agisce. Così, ad esempio, al termine del discorso della montagna si dirà che la gente era
rimasta stupita, «perché egli insegnava loro come uno che ha autorità e non come i loro
scribi» (7,29). Più tardi, guarendo il paralitico, rivendicherà a sé «il potere di rimettere i
peccati», suscitando di nuovo meraviglia e «timore» nella folla (9,6-7). Quasi al termine
della sua vita, dopo la cacciata dei venditori dal tempio, i sacerdoti e gli anziani gli
chiederanno: «Con quale autorità fai questo? Chi ti ha dato questa autorità?» (21,23).
Adesso Gesù svela da quale sorgente gli derivi la «autorità» che altri gli contestano: gli
deriva da Dio, come dimostra chiaramente la formula passiva («mi è stata data») alla
maniera ebraica.
Ed è un’«autorità» senza limiti né di spazio («in cielo e in terra»), né di tempo («fino alla
fine del mondo»). Anche se precedentemente Gesù l’aveva qualche volta esercitata,
adesso ne è entrato in pieno possesso, perché è collegata con la sua glorificazione
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Cf Lc 9,34-35 e parall.
Cf Mt 24,30; 1 Ts 4,17; Ap 1,7; 14,14-16, ecc.
Ascensione “A” - “Omelie per un anno - vol. 1”, Elledici
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pasquale: la risurrezione infatti, che si perfeziona nell’Ascensione al cielo, colloca per
sempre Gesù «alla destra» del Padre e ne fa il «Signore» del mondo e della storia,
soprattutto della sua Chiesa.
«Andate e ammaestrate tutte le nazioni»
Ed è precisamente in forza di questa «autorità» che egli manda i suoi Apostoli ad
«ammaestrare tutte le nazioni» (v. 19), volendo con ciò indicare l’umanità intera, di fatto
formata da pagani e da giudei. Il verbo reso con l’imperativo: «ammaestrate», in realtà,
secondo il greco, dovrebbe tradursi: «fatevi discepole tutte le nazioni». Il che presuppone
un’immensa moltitudine di genti, che si mettono alla «scuola» di Cristo, diventando suoi
«discepoli» (mathetái), come lo furono i Dodici durante la sua vita terrena.
Non si diventa «discepoli» di Cristo se non fondendosi in comunità con altri. Dietro queste
parole emerge perciò l’immagine grandiosa della Chiesa, concepita come un permanente
«discepolato» di tante persone, unite fra di loro dalla fede nel Cristo risorto.
E accanto alla fede, presupposta dal fatto stesso di diventare «discepoli» del Signore,
vengono designati altri due elementi che specificano anche meglio questo nuovo modo di
appartenere a Cristo: il Battesimo e l’osservanza di tutto quanto egli «ci ha comandato».
Il Battesimo, però, nella prospettiva di Matteo, non è soltanto una «immersione» nel
mistero di Cristo, ma nel mistero trinitario medesimo: infatti l’assunzione di Cristo nella
gloria del Padre inserisce, direi anche fisicamente, l’umanità intera nel cuore stesso di Dio
uno e trino. Mediante il Cristo, risorto e asceso al cielo, la Chiesa si colloca nel mondo
come una realtà di salvezza che, pur inserita nella storia, è risospinta costantemente
verso il suo trascendimento in Dio.
A questo traguardo rimanda ugualmente «l’osservanza» del messaggio di Cristo nella sua
totalità: «... insegnando loro ad osservare tutto ciò che vi ho comandato» (v. 20). Il
Battesimo si dimostra verace nella misura in cui si traduce in uno stile di vita più del cielo
che della terra, in obbedienza alla «parola» di Cristo che risuona perennemente nel suo
Vangelo.
È così che egli, oltre che con la «potenza» della sua vita immortale presso il Padre, è
presente in mezzo a noi «tutti i giorni sino alla fine del mondo» (v. 20): mediante la sua
Chiesa che, con il Battesimo e con l’annuncio del Vangelo, avvia il processo di
trasformazione di tutta la realtà creata verso il definitivo regno di Dio.
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