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Brano : Ab urbe condita IV, 32
Autore : Livio
Originale
[32] Cum trepidam civitatem praeconibus per vicos dimissis dictator ad contionem advocatam increpuit quod
animos ex tam leuibus momentis fortunae suspensos gererent ut parua iactura accepta, quae ipsa non
virtute hostium nec ignavia Romani exercitus sed discordia imperatorum accepta sit, Veientem hostem
sexiens victum pertimescant Fidenasque prope saepius captas quam oppugnatas. Eosdem et Romanos et
hostes esse qui per tot saecula fuerint; eosdem animos, easdem corporis vires, eadem arma gerere. Se
quoque eundem dictatorem Mam. Aemilium esse qui antea Veientium Fidenatiumque adiunctis Faliscis ad
Nomentum exercitus fuderit, et magistrum equitum A. Cornelium eundem in acie fore qui priore bello tribunus
militum, Larte Tolumnio rege Veientium in conspectu duorum exercituum occiso, spolia opima Iouis Feretrii
templo intulerit. Proinde memores secum triumphos, secum spolia, secum victoriam esse, cum hostibus
scelus legatorum contra ius gentium interfectorum, caedem in pace Fidenatium colonorum, indutias ruptas,
septimam infelicem defectionem, arma caperent. Simul castra castris coniunxissent, satis confidere nec
sceleratissimis hostibus diuturnum ex ignominia exercitus Romani gaudium fore, et populum Romanum
intellecturum quanto melius de re publica meriti sint qui se dictatorem tertium dixerint quam qui ob ereptum
censurae regnum labem secundae dictaturae suae imposuerint. Votis deinde nuncupatis profectus mille et
quingentos passus citra Fidenas castra locat, dextra montibus, laeua Tiberi amne saeptus. T. Quinctium
Poenum legatum occupare montes iubet occultumque id iugum capere, quod ab tergo hostibus foret. Ipse
postero die cum Etrusci pleni animorum ab pristini diei meliore occasione quam pugna in aciem
processissent, cunctatus parumper dum speculatores referrent Quinctium euasisse in iugum propinquum
arci Fidenarum, signa profert peditumque aciem instructam pleno gradu in hostem inducit; magistro equitum
praecipit ne iniussu pugnam incipiat: se cum opus sit equestri auxilio signum daturum; tum ut memor regiae
pugnae, memor opimi doni Romulique ac Iouis Feretri rem gereret. Legiones impetu ingenti confligunt.
Romanus odio accensus impium Fidenatem, praedonem Veientem, ruptores indutiarum, cruentos legatorum
infanda caede, respersos sanguine colonorum suorum, perfidos socios, imbelles hostes compellans, factis
simul dictisque odium explet.
Traduzione
32 E il dittatore, mandati i banditori in giro per i quartieri, convoc? in assemblea i cittadini smarriti e li
rimprover? di essersi persi d'animo per un cos? lieve mutamento della sorte; per aver subito un piccolo
scacco, oltretutto non dovuto al valore dei nemici o all'ignavia dell'esercito romano, ma alla mancanza di
intesa tra i generali, avevano timore dei Veienti, da loro in passato gi? sconfitti ben sei volte, e di Fidene,
citt? pi? spesso espugnata che assediata. Sia i Romani che i nemici erano gli stessi da molte generazioni:
stesso carattere, stessa forza fisica, stesse armi. E anche lui era lo stesso dittatore Mamerco Emilio che,
poco tempo prima, aveva sbaragliato a Nomento gli eserciti di Veienti e Fidenati, ai quali si erano uniti i
Falisci; come maestro della cavalleria in campo di battaglia ci sarebbe stato quello stesso Aulo Cornelio che
nella guerra precedente, come tribuno militare, aveva ucciso davanti a due eserciti il re dei Veienti Larte
Tolumnio, e ne aveva portato poi le spoglie opime nel tempio di Giove Feretrio. Prendessero quindi le armi,
ricordandosi che dalla parte loro c'erano i trionfi, le spoglie e la vittoria, mentre da quella del nemico l'orrendo
assassinio degli ambasciatori uccisi contro il diritto delle genti, il massacro in tempo di pace dei coloni di
Fidene, la rottura della tregua e la settima ribellione destinata a non avere successo. Non appena i due
eserciti si fossero trovati a contatto, quegli infami nemici non si sarebbero rallegrati a lungo, ne era sicuro,
dell'umiliazione inflitta all'esercito romano e il popolo romano avrebbe capito quanto pi? meritevoli verso la
repubblica fossero quelli che lo avevano nominato dittatore per la terza volta di coloro che avevano bollato di
infamia la sua seconda nomina, perch? aveva tolto potere ai censori. Quindi parte, dopo aver pronunciato
solenni voti agli d?i, e si accampa a un miglio e mezzo da Fidene, protetto dalle alture a destra e dal fiume
Tevere a sinistra. Al suo luogotenente Quinzio Peno ordina di occupare i monti e di prendere posizione su di
un colle situato alle spalle dei nemici e fuori dalla loro vista.Il mattino dopo, quando gli Etruschi avanzarono
in ordine di battaglia, resi euforici dal successo del giorno precedente, dovuto pi? alla fortuna che al valore, il
dittatore temporeggi? fino a quando le vedette gli riferirono che Quinzio aveva raggiunto la sommit? del colle
vicino alla cittadella di Fidene. Allora diede ordine di muoversi, guidando lui stesso a passo di carica la
fanteria in assetto di guerra contro il nemico. Al maestro della cavalleria diede disposizione di combattere
solo al suo comando: quando avesse avuto bisogno dell'intervento della cavalleria avrebbe dato un segnale;
allora s? Aulo Cornelio avrebbe dovuto dimostrare sul campo di non aver dimenticato la vittoria sul re
etrusco, il dono opimo, Romolo e Giove Feretrio! Lo scontro tra le due armate fu tremendo. Infiammati
dall'odio, i Romani chiamano traditori i Fidenati e predoni i Veienti; dicono che sono violatori di tregue,
macchiati del barbaro assassinio degli ambasciatori e con le mani ancora sporche del sangue dei loro stessi
coloni, alleati infidi e nemici imbelli. Cos?, con i fatti e con le parole, saziano il loro odio.
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