SEMINARIO 7 OTTOBRE 2005, Milano
Intervento Simonetta Fasoli
“Saranno i nuovi docenti a cambiare la scuola o sarà la scuola a cambiare i nuovi docenti?”
Con questa domanda, che ha chiuso la relazione dalla ricercatrice così ricca di stimoli e spunti di
riflessione, vorrei aprire il mio contributo.
Per dire che, nel concordare pienamente sul fatto che essa richiede una risposta di natura politica,
ritengo che ponga con forza la “questione docente”, strettamente correlata, come del resto nelle
intenzioni di questa giornata, alla “questione scuola”. Quali possono essere i punti di riferimento
per porci la questione? Ne indicherò sinteticamente due, soffermandomi in particolare, per
economia e taglio di questo mio intervento, sul secondo. Il primo, comunque, di natura politicoistituzionale, è ineludibile e fa da sfondo all’intera operazione: si tratta dell’istanza di unitarietà
della funzione pubblica dell’istruzione. Infatti, è una delicata composizione di equilibri quella che
esige il disegno istituzionale con la riforma del Titolo V°, ivi compresa l’autonomia delle istituzioni
scolastiche costituzionalmente salvaguardata: in ogni caso, non può risolversi nella parcellizzazione
e nei localismi che confermano vecchie e nuove disparità. Credo che questa istanza sia di assoluto
rilievo, inoltre, riguardo alle questioni dell’accesso, della formazione iniziale, del reclutamento dei
docenti.
Il secondo punto riguarda la possibile ricostituzione di un vero e proprio paradigma dell’essere
docenti, almeno lungo due assi: 1) la professionalità docente e le sue condizioni di esercizio; 2)
la rappresentazione sociale e l’autorappresentazione dei docenti stessi . Sotto questi aspetti, la
ricerca che ci è stata presentata ci offre molti elementi di riflessione. Se dobbiamo tenere insieme i
due versanti appena richiamati, è evidente che una definizione del primo deve essere il frutto di un
ampio, regolato dibattito culturale che veda coinvolti tutti i soggetti, nelle forme di partecipazione e
di rappresentanza che si danno. In una corretta dinamica, questo passaggio deve precedere e non
seguire l’eventuale individuazione dei cosiddetti standard professionali. E’ una delle sostanziali
obiezioni di fondo, oltre a quelle di merito, che opponiamo alle iniziative di questo governo in tema
di “stato giuridico” e di “formazione/accesso all’insegnamento.”
Mi sembra opportuno, poi, entrare nel merito dei contenuti che possono orientare la costruzione di
quel paradigma di cui dicevo, con qualche prospettiva che naturalmente avvia solo un
ragionamento. Anzitutto, rispetto alla complessa, dibattuta questione delle competenze disciplinari
e delle competenze professionalizzanti. Questione, sappiamo, ampiamente presente nel dibattito a
livello europeo, pur con le diverse angolature di sistemi, contesti, tradizioni storico-culturali. Vale
la pena, per quanto riguarda il livello di dibattito in “casa nostra”, sdoganarci da sterili diatribe tra i
sostenitori del disciplinarismo a oltranza e i fautori dell’enfasi sugli aspetti della mediazione
didattica, con i relativi risvolti di tipo organizzativo-gestionale. Per provare a vedere come la
“competenza professionale” si ponga in realtà al punto di snodo e di intreccio tra il sapere
disciplinare e il sapere pedagogico. Per cui, per intenderci, nei contenuti della laurea magistrale
non si tratta tanto di stabilire ”quote percentuali” tra le due dimensioni quanto di esplorare quella
terza dimensione che ho appena indicato, che in buona sostanza riguarda il “come” connettere i
saperi formalizzati delle discipline al processo di insegnamento/apprendimento e alle sue
variabili.
Un ulteriore approccio di merito, con cui mi avvio a concludere, investe i contesti formativi in cui
si predispone una strategia complessiva di sviluppo professionale dei docenti. Sotto questo
aspetto, ancora una volta la ricerca su un “passaggio generazionale” tra docenti si rivela preziosa.
Bisogna investire certamente sui nuovi insegnanti come “naturale” volano di spinte innovative:
ma,attenzione!, il giovane insegnante, non è, in quanto tale””nuovo”…Sappiamo che l’innovatività
sta anche nella padronanza esperta delle “routines”. Sappiamo che generalmente si apprende “per
differenza” e, stando ad accreditate teorie costruttivistiche, riorganizzando le nostre mappe
cognitive attraverso l’integrazione di nuovi elementi. Insomma, si tratta di valorizzare le scuole
come luoghi di formazione e di ricerca, costruire modelli formativi in cui l’apporto degli
insegnanti sia considerato una risorsa. Perché questo non resti una pura intenzione, è necessario
prevedere tempi e spazi di formazione in contesti di lavoro reali e/o verosimili, nei quali la
naturale “asimmetria” tra patrimoni professionali diversamente stratificati nel tempo non si traduca
necessariamente in “ruoli” codificati e prefissati. Penso che correlare le diverse funzioni, contestuali
a “quel” percorso” e a “quella” puntuale situazione formativa, ad un rigido meccanismo di
“carriera” (come prefigura, tra l’altro, lo stato giuridico di proposta governativa) non sia corretto
neanche dal punto di vista metodologico. Non c’è bisogno di burocratizzare e piegare le relazioni
professionali a modelli istituzionali eterodiretti. E’ opportuno, piuttosto, di attivare “comunità di
pratiche” per costruire, ri-costruire i modi dell’agire professionale e mettere a confronto teorie
esplicite e implicite di riferimento. Comunità aperte che diventano “comunità di discorso”, nella
scuola, tra scuole, tra mondo della scuola e mondo della ricerca accademica, per operare in
contesti di lavoro “situati”: sufficientemente aderenti alla pratica quotidiana, sufficientemente
distanziati per permettere lo sviluppo di quel “professionista riflessivo” che meglio rappresenta il
docente e in genere ogni operatore della scuola.
In ultima analisi, stiamo parlando di vere e proprie “comunità di apprendimento”. Perché “se le
scuole vogliono migliorare devono essere comunità di apprendimento per gli insegnanti non
meno che per i loro studenti.” (C. Day, 1999)