Studia Theologica VIII, 2/2010, 42 - 68 Vittorio Possenti Il mistero d’Israele. J. Maritain e il Concilio Vaticano II Premessa Dopo lo svolgimento del Concilio Vaticano II sono fioriti studi che rintracciano l’influenza di teologi, filosofi, biblisti, liturgisti sulla preparazione, i lavori, i documenti dell’assise. Tra queste ricerche non sono mancate quelle rivolte a verificare presenza ed irraggiamento della riflessione maritainiana. Oltre vent’anni fa il tema mi attrasse. Stesi uno studio su Maritain e il Concilio pubblicato come capitolo del mio volume Una filosofia per la transizione. Metafisica, persona e politica in J. Maritain (Massimo, Milano 1984), in cui esaminavo partitamene la coerenza tra gli scritti di Maritain e varie posizioni del Concilio su temi come la persona umana, la libertà religiosa, il laicato credente e la sua vocazione alla santità, il significato del mondo, la missione temporale del cristiano, il pluralismo, la lotta all’antisemitismo. Maritain stesso aveva percepito la affinità tra le sue posizioni e il Vaticano II, se in Il contadino della Garonna (1966) il ringraziamento al Concilio che apre il volume, tocca temi che sono profondamente presenti nella sua opera. Sull’antisemitismo la sua condanna è esplicita: “l’antisemitismo è un’aberrazione anticristiana” (1). L’otto dicembre 1965 l’ecclesiastico che, ascoltando il discorso di Paolo VI alla chiusura del Concilio, esclamò forse con rammarico: “è la vittoria di Maritain!”, finiva per riconoscerne l’influsso. A distanza di molti anni dallo studio del 1984 potrei aggiungere qualcosa al quadro allora tratteggiato, che si riferiva specialmente alla Gaudium et spes, Dignitatis humanae e Apostolicam actuositatem, senza però cambiamenti significativi. Dal lato delle aggiunte due annotazioni sono consigliabili, concernenti i rapporti tra il papa Paolo VI e Maritain, e che si inscrivono nella vicenda conciliare e postconciliare. Si tratta di aspetti poco noti o completamente ignoti nel 1984. 1) Paolo VI consultò il filosofo francese tanto durante i lavori dell’assise, quanto successivamente. Il 27 dicembre 1964 due inviati del papa, Jean Guitton e Mons. Pasquale Macchi, segretario di Paolo VI, incontrarono a Tolosa il filosofo cui sottomisero una serie di questioni da discutere nell’ultima fase del Concilio. Maritain rispose indirizzando a Paolo VI nel marzo 1965 quattro memorandum su: la verità; la libertà religiosa; l’apostolato dei laici; la preghiera comune e privata, la lingua volgare e i testi sacri. I quattro scritti sono pubblicati nel vol. XVI delle Oeuvres complètes. Un 42 lavoro documentario sarebbe necessario per rintracciare eventuali influssi del memorandum sulla libertà religiosa sulla dichiarazione Dignitatis humanae, allora sottoposta a numerose revisioni e infine approvata nell’autunno del 1965. 2) Anche dopo il Concilio il Pontefice guardò a Maritain, che in quegli anni portava nel cuore e nella preghiera le difficoltà della Chiesa nella crisi postconciliare e in specie le preoccupazioni del papa. Gli storici più attenti riconoscono che tra il 1967 e il 1968 si situa una svolta nel pontificato montiniano, di cui è segno l'indizione (22 febbraio 1968) dell'anno della fede con l'esortazione apostolica Petrum et Paulum Apostolos, nel ricordo del martirio a Roma 1900 anni prima dei due apostoli. Al termine dell'anno della fede Paolo VI pronunziò in Piazza San Pietro (30 giugno 1968) una solenne professione di fede, il Credo del Popolo di Dio, per "attestare il nostro incrollabile proposito di fedeltà al Deposito della fede". Pochi tra i cattolici di allora colsero l'intuizione presente nell'iniziativa paolina e il segnale che intendeva trasmettere: l'attenzione sia al Credo come al Preambolo fu scarsissima, il testo venne perlopiù considerato "tradizionale" quando non "arretrato". Circondato da un imponente silenzio e altrettanta indifferenza, fu presto dimenticato, mentre era segno delle crescenti preoccupazioni del Pontefice sulle condizioni della fede nella Chiesa. La gestazione e preparazione del solenne atto del 30-6-68 sono state oggetto di una approfondita ricerca da parte di Michel Cagin, benedettino di Solesmes. Lo studio, ha mostrato il ruolo svolto da Maritain (e da Journet) nell’origine e nella elaborazione della Professione di fede di Paolo VI. Rinviando allo studio di Cagin per una conoscenza più particolareggiata della vicenda, qui mi limito ad osservare che l’idea secondo cui il papa Paolo VI avrebbe dovuto redigere e donare alla Chiesa una completa e dettagliata professione di fede, era venuta alla mente di Maritain nel gennaio 1967, mentre pregava per il papa e rifletteva sulla crisi entro cui viveva la Chiesa a causa di serie incertezze sulla fede da parte di correnti postconciliari. Egli aveva comunicato questa idea al card. Journet, che ne aveva fatto cenno al papa. Nel gennaio 1968 Maritain redige, su richiesta dell’amico teologo, un progetto di professione di fede, che viene da questi trasmesso a Paolo VI. Sarà poi all’inizio del luglio 1968 che Maritain, come ogni fedele, apprenderà che il 30 giugno il papa ha proclamato una professione di fede dove il filosofo francese ritrova largamente il proprio progetto (2). E’ degno di nota che il Credo del popolo di Dio di Paolo VI sia espressamente citato nel Catechismo della Chiesa cattolica (cfr. § 192). Qualche elemento su singoli temi del Concilio e sul modo con cui Maritain li considerava si può trovare nella sua corrispondenza con Charles Journet. Di quest’immensa corrispondenza che si snoda dal 1920 al 1973 (anno della morte del filosofo), sono stati sinora pubblicati cinque volumi che coprono il periodo dal 1920 al 1964. Nel quinto che si distende dal 1958 al ’64, intervallo più o meno coincidente con l’annuncio e lo svolgimento di larga parte dei lavori conciliari, non compaiano che rari cenni al Concilio. La cosa può destare sorpresa. Successivamente Journet sarà creato 43 cardinale da Paolo VI ai primi del 1965 e parteciperà attivamente all’ultima sessione conciliare. E’ perciò probabile che riferimenti al Concilio siano presenti nel sesto ed ultimo volume che copre gli anni 1965-1973, di abbastanza prossima pubblicazione. Mi sono orientato per questo contributo sul nodo in ogni senso decisivo di Israele, ravvisando in esso un nucleo essenziale del Concilio e dell’intera opera di Maritain, della sua lunga lotta contro l’antisemitismo, per il riconoscimento delle radici giudaiche del cristianesimo, per lo sviluppo dell’amicizia ebraico-critiana, per la miglior comprensione dei fondamentali capitoli dell’apostolo Paolo nella lettera ai Romani. Nel 1992 dedicai al tema uno studio dal titolo “Maritain e la ‘questione ebraica’“ (3). Forse si poteva intendere come un completamento del precedente lavoro su Maritain e il Concilio, ma soprattutto era una prima tappa di un progetto concepito vent’anni fa, ed ormai divenuto un sogno irrealizzabile, desiderio di un’epoca lontana: l’intento di approfondire e ‘restituire’ la concezione di Israele come si è venuta formando nel XX secolo in specie nel versante russo-ortodosso con Soloviev e Berdjaev, e in quello cattolico con Maritain, Journet, La Pira, nonché esplorare gli influssi su larga parte di questi autori di Bloy col suo Le salut par les Juifs. Riprendo adesso lo scritto del 1992, integrandolo e aggiornandolo. Il rapporto con le religioni non cristiane e in specie l’ebraismo Con la Dichiarazione Nostra aetate sulle religioni non cristiane Il Concilio Vaticano II ha segnato una svolta, in particolar modo nei rapporti con il popolo ebraico e l’essenza religiosa dell’ebraismo. I commentatori non mancano di rilevare questa kehre fondamentale che per quanto concerne l’ebraismo pone termine a tanti secoli di antisemitismo cristiano. La Dichiarazione espone il legame della Chiesa con la stirpe di Abramo, presenta il Cristo come riconciliatore degli Ebrei e dei Gentili, mette in evidenza il patrimonio comuni a ebrei e cristiani, riconduce la morte di Cristo ai peccati di tutti gli uomini, per cui falsa e illegittima è l’accusa di deicidio addossata agli ebrei, deplora ogni forma di persecuzione contro gli ebrei e di antisemitismo, auspica lo sviluppo del dialogo ebraico-cristiano fondato su stima e mutua conoscenza. La svolta iniziata dal Concilio troverà in Giovanni Paolo II un promotore e un continuatore con atti e gesti quali la visita alla sinagoga romana (13 aprile 1986), quella a Gerusalemme e al muro del pianto (26 marzo 2000), il riconoscimento delle colpe dei cristiani nell’anno del grande giubileo e la relativa richiesta di perdono. Della visita alla sinagoga scrisse: “Ma un’esperienza del tutto eccezionale fu per me, senza dubbio, la visita alla sinagoga romana. …Durante quella visita memorabile, definii gli ebrei come fratelli maggiori nella fede. Sono parole che riassumono in realtà quanto ha detto il Concilio, e ciò che non può non essere una profonda convinzione della Chiesa” (4). 44 Nella Bolla di indizione dell’anno santo del 2000 Incarnationis mysterium (29 novembre 1998) il pontefice chiedeva di avviare nella Chiesa la purificazione della memoria, il riconoscimento di colpa e la domanda di perdono entro un quadro che naturalmente includeva i rapporti con l’ebraismo e la questione dell’antisemitismo cristiano. Successivamente nell’anno 2000 la Commissione teologica internazionale pubblicò il documento Memoria e riconciliazione: la Chiesa e le colpe del passato, in cui una sezione, sia pure breve, è dedicata al rapporto tra cristiani ed ebrei, “che esige un particolare esame di coscienza”. Il paragrafo in questione cita largamente Noi ricordiamo: una riflessione sulla Shoah (16 marzo 1998), documento preparato dalla Commissione per i rapporti religiosi con l’ebraismo. Utile sarebbe una ricerca per mostrare se ci fu una ‘presenza’ di Maritain in questi documenti e forse prima ancora in Giovanni Paolo II. I testi maritainiani pertinenti, ossia Il mistero d’Israele (1965) e La Chiesa del Cristo (1970, in specie il capitolo “L’ iniqua sorte riservata agli Ebrei nella cristianità” che esprime già nel titolo il contenuto), circolano ormai da circa trent’anni. Il primo volume in cui il filosofo ha raccolto i propri scritti su Israele (Le mystère d’Israël, 1965, nuova ed. ampliata Desclée de Brouwer, Paris 1990. Il testo del 1965 è inserito nel volume XII delle Oeuvres complètes), è d’altronde composto di venti sezioni di varia ampiezza che vanno dal 1926 al 1972, e in misura predominante appartengono al periodo 1937-’47. Si tratterebbe appunto di stabilire le modalità della circolazione e il loro reale irraggiamento. Per restituire il senso della lunga meditazione del filosofo francese sull’ebraismo, occorre avvertire che essa si svolge su due temi centrali: lo scavo sul mistero d’Israele, nascosto in Dio, mistero di elezione e di velamento, che si può sciogliere solo sul piano teologale della storia della salvezza; la lotta contro l’antisemitismo di ogni genere, compreso quello cristiano. Da un lato l’accento cade sul mistero, dall’altro sull’antisemitismo. Adottando il termine ‘mistero’ come titolo per la raccolta di suoi scritti su Israele, invece del titolo ‘L’impossibile antisemitismo’ che era stato scelto per un saggio del 1937 poi inserito in Il mistero d’Israele, Maritain rivela il suo atteggiamento fondamentale (5). L’antisemitismo, legato certo anche alla situazione di minoranze etniche e culturali in determinati contesti, è in misura prevalente un problema; Israele, la sua adozione ed elezione, è soprattutto un mistero, qualcosa che va indagato a livello teologale. Nell’insieme non sembra possibile ricondurre l'impegno di Maritain solo ad una pur indispensabile lotta contro l'antisemitismo, quanto piuttosto ad un approfondimento sul significato d'Israele nella storia della salvezza e in quella temporale. Siamo dunque collocati sul piano religioso-teologico, a partire dalla parola di Dio. Il filosofo ha detto e ridetto che “la questione ebraica è prima di tutto (non dico esclusivamente) un mistero d’ordine teologico” (6). Senso e sviluppo della meditazione di Maritain 45 Forse noi dobbiamo ancora comprendere più profondamente il significato di Gerusalemme, d’Israele e dell'ebraismo in ordine sia al cammino della Chiesa e del regno di Dio, sia alla vicenda della storia universale. Sul secondo aspetto alcune parole del Card. Martini mi paiono illuminanti: "Questa è un'intuizione culturale molto forte che ancor oggi la Chiesa non ha approfondito sufficientemente e che ancora grava come ipoteca sulla coscienza europea: l'incapacità a comprendere qual è il reale significato di Israele nella storia del mondo, quale parte necessaria è riservata a questo popolo nello sviluppo dell'umanità" (7). Esse idealmente possono venire ricollegate ad un’indicazione di N. Berdjaev: "Nel destino del popolo ebraico io vedo il punto di intersezione, l'incontro più violento dei destini celeste e terreno. Perciò la filosofia del destino terreno dell'uomo può essere fatta incominciare dalla filosofia della storia ebraica e del destino del popolo ebraico. Bisogna cercare qui l'asse della storia universale: durante tutto il corso della storia mondiale si risolve il tema impostato nel destino del popolo ebraico" (8). Affrontando il problema ebraico dobbiamo superare la pretesa sufficienza del metodo illuministico nello studiare la storia, ed entrare nell'ambito di un pensiero religioso e di una teologia della storia, perché questa inizia e termina in Dio. Non sembra possibile cogliere in tutta la sua latitudine il problema di Israele situandoci solo sul piano "naturale" delle vicende sociali, culturali e politiche. La riflessione maritianiana sull’ebraismo si distende lungo l'intero arco della sua vita, con spunti che iniziano nel 1905, prima dunque del battesimo ricevuto a 24 anni nel 1906 (9), che toccano il culmine nel periodo dell'antisemitismo scoperto e sanguinoso (1937-1945), e che durano sino all'ultima opera pubblicata da Maritain vivente nel 1970: La Chiesa del Cristo, appena ricordata (10). Si può fondatamente ipotizzare che egli abbia incontrato la questione ebraica conoscendo e poi sposando Raïssa Oumançoff, un'ebrea russa condotta bambina dai suoi genitori a Parigi per sottrarsi ai pogroms di colà, nonché in virtù della lettura nel 1905 di Le salut par les Juifs, l'opera di L. Bloy che dischiuse a Maritain come in una rivelazione l'insegnamento di San Paolo su Israele, trasmesso nell'epistola ai Romani. La dottrina dell'apostolo, sulla quale esistono interpretazioni diverse che impegnano gli esegeti, rimase sino alla fine la luce fondamentale attorno a cui si venne tessendo la meditazione del filosofo francese su Israele (11). Questa può essere riassunta in quattro assi principali: 1. chiarimento dell'essenza spirituale dell'antisemitismo come un fenomeno in ultima istanza cristofobico (in merito Maritain si ricollega alla penetrante intuizione dello scrittore ebraico Maurice Samuel, su cui tra poco), che rinvia ad una profonda solidarietà spirituale tra Israele e cristianesimo. "Odiare gli Ebrei e odiare i cristiani proviene da uno stesso fondo, da uno stesso rifiuto da parte del mondo che non vuole essere ferito né dalle ferite di Adamo, né dalle ferite del Messia, né dal popolo di Israele nel suo movimento nel tempo, né dalla Croce di Gesù per la vita eterna" (p. 84s.); 46 2. significato religioso del destino del popolo ebraico, per cui Israele rimane popolo di Dio e in certo modo un "corpo mistico", nonostante il rifiuto del Messia. Per argomentare quest'ultimo asserto, Maritain osserva che per formarsi qualche idea del mistero d'Israele è necessario ricorrere ad una sorta di analogia capovolta con la Chiesa, per cui "il corpo mistico d'Israele è una Chiesa precipitata... E' una Chiesa infedele e ripudiata... ripudiata come Chiesa, non come popolo. E sempre attesa dallo Sposo che non ha cessato di amarla" (p. 40). Esiste perciò un’analogia tra Chiesa e Sinagoga, alla luce dell'insegnamento di S. Paolo sulla reintegrazione finale di Israele, quando i due popoli di Dio, quello di Israele e quello della Chiesa, infine ne formeranno uno solo. Nel frattempo, la Sinagoga è una Chiesa bendata e rovesciata, ma sempre depositaria della promessa di Dio e dell'alleanza: "Dio ha sempre davanti agli occhi ciò che è all'origine della loro [degli Ebrei] attesa ostinata del Messia già venuto: il suo amore tradito e oltraggiato dalla casa d'Israele, quando egli ha inviato suo Figlio e Gerusalemme non ha conosciuto il tempo della sua visita. Chi oserebbe dire che in lui l'amore abbia ceduto il posto alla sete di vendetta e di riprovazione? Sarebbe una bestemmia. 'Dio non ha rigettato il suo popolo' (Rm, 11, 1-2); 'Essi sono sempre amati a causa dei loro padri' (Rm, 11, 28)" (12). 3. significato di Israele per il mondo, ossia senso della sua vocazione temporale nella storia, in cui Israele appare come una sorta di "corpo mistico temporale" disperso tra le nazioni che stimola ed attiva la loro vita: “La passione d’Israele non è, come quella della Chiesa, una passione corredentrice che compie quello che manca ai dolori del Salvatore. E’ una passione sofferta per la stimolazione e l’emancipazione della vita temporale del mondo” (p. 43). 4. significato per la storia del mondo di due eventi di grande portata e quasi contemporanei: il ritorno di una porzione degli Ebrei nella terra di Canaan (con la conseguente fondazione dello Stato di Israele, 1948), quella terra promessa un tempo da Dio ad Abramo e alla sua discendenza; la celebrazione del Concilio Vaticano II, 196265. Pur collocati su piani diversi, essi segnano per l’autore una sorta di riorientamento della storia del mondo (cfr. p. 291). L'antisemitismo "E' difficile non essere colpiti dalla straordinaria bassezza dei grandi temi generali della propaganda antisemita" (p. 30). Questa dichiarazione fa da sfondo alla delineazione delle tre principali forme di antisemitismo (e specialmente alle ultime due): l'antisemitismo religioso nelle sue varianti cristiana, mussulmana e in certo modo perfino ebraica, potendosi configurare anche un antisemitismo ebraico (non di rado a 47 base atea); quello economico-sociologico, sviluppatosi in varie parti d’Europa e legato al possesso di cospicui capitali da parte degli ebrei e al loro massiccio accesso alle professioni; quello razzista. Sono soprattutto la prima e la terza forma ad essere considerate e combattute da Maritain. Quanto all'antisemitismo cristiano esso è definito come un oltraggio al figlio di Dio (ebreo secondo la carne) e come un'alterazione patologica della coscienza cristiana (cfr p. 60), a cui ha messo termine in linea di diritto il Concilio Vaticano II con la Dichiarazione Nostra Aetate. Questa dice l'essenziale e corrisponde a voti tante volte espressi da Maritain: far conoscere l'insegnamento di S. Paolo su Israele, per lo più scandalosamente ignorato; rivedere e affinare assai il vocabolario dei "Gentili" su Israele; non presentare gli ebrei come rigettati da Dio o come maledetti; mettere in luce il patrimonio spirituale comune a cristiani e ad ebrei; rifiutare le manifestazioni dell'antisemitismo da qualsiasi parte provengano; togliere di mezzo come ingiustificata e teologicamente falsa la dizione di "razza o popolo deicida". Alla domanda su chi ha messo a morte il Cristo, occorre rispondere che ogni uomo col suo peccato lo crocifigge: la tradizione cristiana ha sempre applicato al Cristo i versetti profetici di Isaia sul servo sofferente di Jahvé, agnello innocente condotto al macello per espiare i peccati di molti. Nel Credo o simbolo niceno quale espressione fondamentale ed originaria della fede cristiana, la morte di Gesù, qui propter nos homines et propter nostram salutem descendit de caelis...sub Pontio Pilato passus, non è in alcun modo attribuita ai Giudei. Nostra Aetate spiega: "E se autorità ebraiche con i propri seguaci si sono adoperate per la morte di Cristo, tuttavia quanto è stato commesso durante la sua Passione non può essere imputato né indistintamente a tutti gli Ebrei allora viventi, né agli Ebrei del nostro tempo" (13). L’antisemitismo cristiano non si esaurisce nel colpire l’avversario; esso inquina e corrompe l’anima del credente. “Ma c’è qualcosa che il furore antisemita ferisce e corrompe irrimediabilmente, ed è la coscienza cristiana. La disperazione di coloro che si sono dati la morte perché l’ingiustizia trionfava, è l’immagine di qualcosa di più terribile: la corruzione dell’anima umana, e l’abisso di perversione in cui rischiano di gettare la razza umana…Non è solo perché cessi l’iniquità che pesa su degli innocenti, è anche per la sua salvezza e la guarigione del mondo che la coscienza cristiana deve liberarsi dalla lebbra razzista e antisemita” (p. 226s, lettera alla conferenza di Seelisberg, 1947). In sostanza l'antisemitismo cristiano è una perversione del cristianesimo, possibile solo se gli occhi della fede si offuscano e Israele viene considerato non un mistero da contemplare in atteggiamento di ascolto e apertura alla Parola di Dio, ma una razza nemica e maledetta da Dio. L'antisemitismo è una falsa fuga in avanti, che non risolve alcunché e che "svia gli uomini dalle cause reali dei loro mali" (p. 72). Al di là di una classificazione sociologica delle sue varie forme, il vero problema sta nel domandarsi se l’antisemitismo in ultima istanza non si riconduca ad una radice 48 comune, che renda ragione dell'odio scatenato verso il popolo israelita, che divampa implacabile ammantandosi di tanti pretesti. Per Maritain la risposta non è dubbia: "Se il mondo odia gli Ebrei, è perché sente che essi gli saranno sempre sovrannaturalmente estranei; è perché esso detesta la loro passione dell'assoluto e l'insopportabile stimolo che questa gli infligge" (p. 84). Alla base più riposta dell'antisemitismo si annidano forse una paura ed un odio teologici, di cui il filosofo francese ritenne di trovare una conferma in un pensiero di uno scrittore ebraico, Maurice Samuel [The Great Hatred, New York, Knopf 1940]: "Non comprenderemo mai l'immensa e folle portata dell'antisemitismo che a condizione di trasporne i termini. E' del Cristo che i nazifascisti hanno paura; è nella sua onnipotenza che essi credono; è Lui che sono follemente decisi ad annientare. Ma le parole stesse Cristo e cristianesimo sono troppo pesanti e l'abitudine di rispettarle troppo profondamente radicata da secoli. E' dunque per loro necessario dirigere il loro attacco su coloro che sono responsabili della nascita e dell'espansione del cristianesimo. Devono sputare sugli Ebrei in quanto hanno messo a morte il Cristo (as Christ-killers), perché sono ossessionati dal desiderio di sputare sugli Ebrei in quanto hanno dato Cristo al mondo (as Christ-givers)" (p. 23). Alla radice spirituale ultima di varie forme di antisemitismo sta il risentimento contro il Vangelo, espresso in forma cristofobica (14), spesso a motivo dell'oscura intuizione di una segreta solidarietà fra ebraismo e cristianesimo. In pagine notevoli di Genealogia della morale Nietzsche individua negli ebrei, popolo sacerdotale per eccellenza, coloro che hanno iniziato e condotto a termine con successo la rivolta degli schiavi nella morale, riuscendo a rovesciare l'equazione aristocratica per cui buono è soltanto il forte, il potente, il bello, il crudele, e a sostituirle l'altra per cui solo i poveri, gli impotenti, gli ultimi, i miserabili, i sofferenti, gli indigenti sono pii e buoni. Il cristianesimo non ha fatto altro che raccogliere l'eredità della trasvalutazione giudaica ("Sappiamo chi ha raccolto l'eredità di questa trasvalutazione giudaica"). Ora per Nietzsche dal tronco dell'odio giudaico implacabilmente rivolto contro i valori aristocratici della forza e della potenza, e particolarmente intenso perché ineguagliabile nel creare ideali e trasmutare valori, germogliò un amore nuovo, quello cristiano, non come sua negazione bensì come suo compimento: Gesù di Nazareth è l'esca più pericolosa lanciata dagli Ebrei al mondo, perché attraverso tale esca hanno conquistato il mondo e completato la trasvalutazione di tutti i valori e la vittoria degli schiavi nella morale. "Non ha raggiunto Israele, proprio per la via traversa di questo «redentore», di questo apparente oppositore e dissolvitore di Israele, la meta estrema della sua sublime avidità di vendetta? Non rientra nella occulta magia nera di una veramente grande politica della vendetta... il fatto che Israele stesso ha dovuto negare e mettere in croce dinanzi a tutto il mondo, come una specie di nemico mortale, il vero strumento della sua vendetta, affinché «tutto il mondo», cioè, tutti i nemici di Israele, potesse senza esitazione abboccare a quest'esca. E si saprebbe d'altra parte immaginare, prendendo le mosse da ogni raffinatezza dello spirito, un'altra esca più pericolosa? 49 Qualcosa che potesse eguagliare per forza attrattiva, inebriante, stordente, corruttrice, quel simbolo della «santa croce», quello spaventoso paradosso di un «Dio in croce», quel mistero di un'inconcepibile, ultima, estrema crudeltà e autocrocefissione di Dio per la salvezza degli uomini?... E' quanto meno certo che sub hoc signo Israele è tornata sempre a far trionfare sino ad oggi su tutti gli altri ideali, su tutti gli ideali più nobili, la sua vendetta e la sua trasvalutazione di tutti i valori" (15). Se nella lettura nicciana Gesù è uno strumento di Israele, uno strumento pienamente e completamente ebraico per condurre a termine la più eccelsa delle rivoluzioni, la trasvalutazione di tutti i valori, che altro vuol dire tutto questo se non che egli è il culmine di Israele? Pochi hanno intravisto (seppure sulla base di una filosofia e di una morale aberranti) come questo filosofo ateo, anticristiano e antigiudaico, la solidarietà tra ebraismo e cristianesimo. Singolari sono pure alcuni passi del giovane Hegel, appartenenti in specie all'opera Lo spirito del cristianesimo e il suo destino. Chi rifletta sui suoi sprezzanti giudizi verso il popolo ebraico e la sua fede può trovare più di un semplice antisemitismo, seppure virulento ed aperto. Vi si può forse anche leggere un attacco indiretto contro il cristianesimo, che si ha timore a colpire frontalmente, e il rigetto di ogni forma di trascendenza, quasi una paura nei suoi confronti, e di teonomia etica. La vocazione di Israele e l’insegnamento dell’apostolo Paolo Israele rimane un mistero di elezione il cui significato non può che essere sciolto sul piano divino, e perciò meditato alla luce della Scrittura. Ed è su questa verticale che Israele è inteso da Maritain come una Chiesa infedele, ripudiata come Chiesa, non come popolo; e sempre attesa ed amata da Dio-Sposo, sempre destinataria delle sue promesse senza pentimento. "Attraverso tutte le vicissitudini del proprio esilio e della storia del mondo, Israele resta sempre il popolo di Dio, colpito ma sempre amato a causa dei suoi padri", sebbene esso non possieda più una missione messianica e salvifica nei confronti dell'umanità (16). Da Paolo apprendiamo le prerogative del popolo ebraico, cui sono stati confidati gli oracoli di Dio: porta il nome di Israele, il beneamato da Dio; è figlio adottivo di Dio; a lui fu manifestata la gloria, la schech^ina; a lui appartengono le alleanze rinnovate più volte da Dio col suo popolo; a lui la Thora, il culto, le promesse messianiche, i patriarchi. A lui infine il Cristo nato dalla stirpe di Abramo e dal sangue di Davide secondo la carne. E se Israele non ha riconosciuto il Messia venuto nella pienezza dei tempi, e quindi esso è per Paolo senza scusa per aver misconosciuto la giustizia di Dio, questi non ha rifiutato il suo popolo, ma la sua caduta è diventata la salvezza delle nazioni, dei Gentili: "Io domando dunque: Dio avrebbe forse ripudiato il suo popolo? Impossibile!... Forse inciamparono per cadere per sempre? Certamente no. Ma a causa della loro caduta la salvezza è giunta ai pagani, per suscitare la loro gelosia. Se pertanto la loro 50 caduta è stata la ricchezza del mondo, e il loro fallimento ricchezza dei pagani, che cosa non sarà la loro partecipazione totale!" (Rm 11,1; 11-12). Col rifiuto ebraico i Gentili sono stati innestati sull'olivo buono d'Israele, ma proprio essi che costituivano l'olivo selvatico non possono vantarsene, provenendo la linfa dall'antica radice ebraica e non da loro stessi: "Se però alcuni rami sono stati tagliati e tu, essendo oleastro, sei stato innestato al loro posto, diventando così partecipe della radice e della linfa dell'olivo, non menar tanto vanto contro i rami! Se ti vuoi proprio vantare, sappi che non sei tu che porti la radice, ma è la radice che porta te... Quanto a loro, se non persevereranno nell'infedeltà, saranno anch'essi innestati di nuovo!" (Rm 11,17 ss.). L'Apostolo prosegue con una parola che disvela un senso terminale, onde evitare che i convertiti dal paganesimo trattino la vicenda religiosa e la storia della salvezza secondo una saggezza umana: "Non voglio infatti che ignoriate, fratelli, questo mistero, perché non siate presuntuosi: l'indurimento di una parte d'Israele è in atto fino a che saranno entrate tutte le genti. Allora tutto Israele sarà salvato..." (17). La reintegrazione di Israele costituirà gloria e splendore del mondo e della Chiesa, e segno caratteristico di una terza età della storia, cui Maritain assegna un senso diverso da quello attribuitole da Gioacchino da Fiore (18). In essa reintegrazione di Israele e fioritura dell'umanesimo integrale e teocentrico dell'Incarnazione si sosterranno vicendevolmente. Tutto ciò conferma che Israele è un mistero, "dello stesso ordine del mistero del mondo e del mistero della Chiesa. Al cuore, come questi, della Redenzione" (p. 24). Un mistero nel quale continua a realizzarsi anche dopo il non riconoscimento del Messia, ma in forma diversa, la missione di Israele e del suo "corpo mistico". Secondo Maritain "la comunione di questo corpo mistico non è la comunione dei santi, è la comunione della Speranza terrestre. Israele spera appassionatamente, attende, vuole l'avvento di Dio nel mondo, il regno di Dio quaggiù" (p. 40). Di conseguenza esso svolge un duplice ruolo nei confronti della storia del mondo e della salvezza del mondo: è un testimone che conserva il deposito delle Scritture e nello stesso tempo obbedisce ad una vocazione unica: "Mentre la Chiesa è deputata all'opera del riscatto soprannaturale e sopratemporale del mondo, Israele è deputata, nell'ordine della storia temporale e delle sue finalità proprie, ad un'opera d’attivazione terrestre della massa del mondo... esso stimola il movimento della storia" (p. 43). L'indistruttibile speranza d’Israele è forza di fermento e di animazione che si estrinseca in proiezioni intramondane, su cui il filosofo francese si sofferma in specie nella prima fase della sua riflessione su Israele. Successivamente questo aspetto verrà sfumandosi per centrarsi sulla missione dei due popoli di Dio, quello dell'Antico Patto e quello di Cristo, fino a quando essi e le loro croci, la croce di sopravvivenza portata dal popolo ebraico e la croce di redenzione portata dalla Chiesa, si riconosceranno e formeranno una sola croce, per offrire la salvezza agli uomini (cfr. p. 292). Ma questo incontro è remoto: “La croce di sopravvivenza portata dal popolo ebraico e la croce di redenzione 51 portata dalla Chiesa sono ancora molto lontane dall’essere pronte a riunirsi” (ivi). Più tardi, “quando verrà la catastrofe storica da cui sorgerà per un certo tempo un universo umano rinnovato, quel giorno che sarà come un preludio alla resurrezione dei morti”, quando le due croci si riconosceranno, “la dialettica della storia avrebbe allora riconciliato tutte le sue opposizioni, e sboccherebbe nell’unità che il Padre che è nei cieli ha in vista da tutta l’eternità”, non senza forse che prima della fine dei tempi la terra fruisca di un momento in cui potrà conoscere la pace come dono dell’Agnello. Sembra riconoscibile in tale auspicio un richiamo alla posizione del ‘millennio di pace’ del chiliasmo, secondo un’interpretazione del celebre brano di Apocalisse 20. Basteranno forse questi per percepire che la pagina maritainiana rifiuta un'interpretazione puramente secolarizzata di Israele e dell'antisemitismo. "Nulla è più assurdo che tentare di acquietare l'antisemitismo rinunciando al privilegio di essere il «popolo eletto»... Comunque la nozione di «popolo eletto» è accettabile solo da un punto di vista religioso e soprannaturale: ecco il guaio per l'Ebreo irreligioso" (19). Non si può spiegare in termini esclusivamente sociologici ed economici l'antisemitismo, sebbene nello scritto del 1938 "Gli Ebrei tra le nazioni" Maritain non li escluda nell'esame circostanziato della condizione degli ebrei in Russia, Germania, Polonia, Romania, ecc. Così sbozzato il senso riposto di Israele per la storia della salvezza e per la storia del mondo, all'interrogativo se la ‘questione ebraica’ sia solubile occorre assegnare risposte differenziate. Se con tale termine intendiamo che il popolo ebraico abbia un territorio e uno Stato, la soluzione è possibile ed è anzi già avviata; se intendiamo la fine dell'antisemitismo, può darsi che tale evento si realizzi, sebbene si possano nutrire dubbi a motivo della natura polimorfa del fenomeno antisemita. Se abbiamo di mira lo scioglimento religioso del mistero d’Israele, le parole di Paolo saranno di luce. Se infine s’intende qualcosa d'analogo allo scioglimento dell'enigma della storia universale e del suo significato, enigma che può essere risolto soltanto in modo religioso e in Dio, allora questo può avvenire solo all'interno della storia della salvezza. Secondo Berdjaev "una soluzione definitiva della questione ebraica è possibile soltanto sul piano escatologico; e sarà anche la soluzione del destino della storia universale nell'ultimo atto della lotta di Cristo contro l'Anticristo. Se l'ebraismo non giungerà ad una sua autodefinizione religiosa non sarà possibile risolvere il compito della storia universale" (20). Con l'allusione al piano escatologico si deve intendere che la questione ebraica avrà soluzione solo nel momento in cui la storia terrestre giungerà a compimento? Piuttosto si può pensare all'escatologia quale inizio dei tempi ultimi della storia della salvezza, a valle della reintegrazione di cui parla Paolo, e che potrebbe avere una durata non breve (secondo la Bible de Jérusalem Paolo non afferma che la conversione d'Israele debba precedere immediatamente la resurrezione generale). L’ iniqua sorte riservata agli ebrei nella cristianità 52 L’ultimo intervento rilevante di Maritain su Israele si colloca nel 1970, tre anni prima della morte, con la pubblicazione di La Chiesa del Cristo. La persona della Chiesa e il suo personale, in cui – entro un’ampia ricostruzione storica che tocca le crociate, la guerra santa, la condanna di Galileo, l’Inquisizione, il rogo di Rouen e il processo a Giovanna d’Arco – un capitolo è dedicato alla “sorte iniqua riservata agli ebrei nella cristianità”. L’autore, oltre a ribadire il rifiuto dell’accusa di deicidio elevata contro gli ebrei e a motivare nuovamente in base a Paolo che essi non sono stati rigettati da Dio ma ‘messi in disparte’ nella vicenda della redenzione senza che ciò significhi revoca dell’elezione e vocazione di Israele -, propone una lettura del sorgere e del crescere dell’antisemitismo cristiano, del regime del ghetto, delle discriminazioni, delle accuse, delle persecuzioni contro gli ebrei. Sarebbe improprio riassumere qui frettolosamente un’analisi che, partendo dall’antichità cristiana attraverso l’alto e basso medioevo, sale su fino a tempi recenti e approda al Concilio Vaticano II. Il senso di tali pagine si può in prima battuta ricavare dal titolo loro assegnato. Il Concilio avanza nella direzione auspicata da Maritain, quella di mettere fine per sempre all’antisemitismo cristiano, e il filosofo lo riconosce con gratitudine in vari scritti tra cui Il contadino della Garonna con la frase già citata sull’antisemitismo come aberrazione. Tuttavia Maritain attendeva qualcosa di più netto dalla Dichiarazione Nostra aetate: voleva con tutte le sue forze una condanna esplicita dell’antisemitismo che non ci fu che in parte. Si vedano le sue vivaci reazioni comunicate a Charles Journet sull'esclusione del verbo damnat (condanna) dalla Dichiarazione, che nella versione finale approvata dai Padri mutò la redazione precedente in cui il Concilio "condanna e deplora" l'antisemitismo, mantenendo solo il "deplora" (21). Su questi aspetti il filosofo francese ritrova un suo antico tentativo, parzialmente fallito: quello di ottenere da Pio XII dopo la fine della seconda guerra mondiale una chiara e netta condanna dell’antisemitismo. Infatti anche dopo il 1945 egli proseguì la sua azione in vari modi, prendendo partito dalle condizioni in cui venne a trovarsi, tra cui quella di ambasciatore di Francia presso la S. Sede, che gli consentiva di osservare da vicino lo svolgimento del governo della Chiesa. Arrivato in Vaticano, il problema ebraico rimane ai vertici della sua preoccupazione, secondo quanto riassume uno studioso dei rapporti tra Paolo VI e il filosofo: "Dopo l'orribile sventura che ha colpito il popolo d'Israele, egli [Maritain] auspicherebbe che la Chiesa mediante la voce del Papa faccia intendere la propria voce e condanni solennemente l'antisemitismo. Si apre su ciò con Mons. Montini in una lunga lettera del 12 luglio 1946: "un tale atto avrebbe un'importanza straordinaria, e per preservare le anime e la coscienza cristiana da un pericolo spirituale sempre minaccioso, e per toccare il cuore di molti israeliti, e per preparare nelle profondità della storia la grande riconciliazione che l'Apostolo ha annunciato e a cui la Chiesa non ha mai cessato d'aspirare". Ricevendolo quattro giorni 53 dopo, il papa [Pio XII] lo rinvia al discorso che egli aveva pronunciato davanti ad un gruppo di deportati ebrei liberati dai campi di concentramento nel novembre 1945 (16 luglio 1946). In agosto Maritain può notare con soddisfazione un passaggio di una allocuzione a dei delegati arabi, in cui Pio XII ricorda che ha condannato nel passato "le persecuzioni che un fanatismo antisemita scatena contro il popolo ebraico" (allocuzione del 3 agosto 1946). Malgrado tutti i propri sforzi per sensibilizzare la S. Sede attraverso Mons. Montini (soprattutto al momento della conferenza di Seelisberg del luglio 1947, di cui informa quest'ultimo) non otterrà altro dal papa. "Egli non vuole trattare il mistero d'Israele", annota, quasi disperato, nel suo diario dopo una nuova udienza del papa con dei rappresentanti ebrei (9 febbraio 1948). Al momento del suo ultimo incontro con Montini prima di lasciare Roma, questi gli promette che il cambiamento della liturgia del Venerdì Santo in cui si parla della "perfidia" del popolo deicida era in cammino (3 giugno 1948). La modifica, poi, a cui gli ebrei saranno molto sensibili, non interverrà che con Giovanni XXIII" (22). In ogni caso Maritain interpreta il Concilio e Nostra aetate come un liberazione: “Oggi siamo finalmente del tutto liberati dall’idea di popolo-deicida e dell’odio ‘cristiano’ verso il popolo ebreo. L’antisemitismo religioso che per molto tempo ha contaminato la cristianità è decisamente scomparso” (p. 280). Per l’autore l’amore di Dio per la Chiesa e quello per il popolo ebreo non sono due amori diversi: “è lo stesso e unico amore, perché nell’eterna visione divina Israele e la Chiesa sono un solo e unico popolo di Dio, come si vedrà negli ultimi tempi della storia umana, il giorno, - non meno splendente di una ‘resurrezione dai morti’ – in cui i rami d’Israele, i ‘rami naturali’, saranno di nuovo innestati sul ‘proprio olivo’ ”, la cui radice è santa ed è ebrea (p. 287s). Il ritorno in Palestina, il sionismo e lo Stato di Israele 1) Sul ritorno di una porzione del popolo ebraico nella Terra Promessa e la nascita dello Stato d’Israele Maritain si è espresso in un Post-scriptum del 1964 a Il mistero d’Israele e in alcune pagine de La Chiesa del Cristo, secondo posizioni che leggono quell'evento come un riorientamento della storia (23). In questi testi emerge una valutazione positiva del movimento sionista, già presente nel 1937: “Chiamato forse a diventare un giorno il centro animatore di tutta la giudaicità dispersa, il sionismo ha ai nostri occhi un’importanza storica di primo piano” (p. 58), e confermata nel 1943 in un intervento in cui il sionismo è inteso in rapporto alla creazione di un territorio di rifugio o un focolare nazionale per gli ebrei. Ma in tali due interventi non compare ancora l’idea che il sionismo sia destinato a far nascere uno Stato ebraico in Palestina (24). Nelle pagine del Post-scriptum e di La Chiesa del Cristo l’attribuzione della terra di Canaan al popolo ebraico, e il significato dello Stato d'Israele spiccano ormai per importanza e diventano centrali. L’affermazione che fa da perno è il pieno diritto del popolo di Israele alla terra di Canaan, diritto basato sull'assegnazione operata per 54 sempre da Dio: "il popolo di Israele è l'unico popolo al mondo al quale una terra, la terra di Canaan, è stata data dal vero Dio, il Dio unico e trascendente, creatore dell'Universo e del genere umano. E ciò che Dio ha dato una volta è dato per sempre" (25). La destinazione della Terra Promessa alle tribù d'Israele da parte di Dio è stata più volte reiterata: ad Abramo (Genesi, 12, 7; 13, 15; 15, 18; 17, 8); ad Isacco (ivi, 26, 3); a Giacobbe-Israele (ivi, 28, 13; 35, 12); a Mosè (Esodo, 6, 8). Nel primo riferimento si legge: "Yahvé apparve ad Abramo e disse: alla tua discendenza io darò questo paese" e la Bible de Jérusalem commenta: "Dono della Terra Santa". Tornando nella Terra promessa dopo duemila anni gli ebrei sono secondo Maritain tornati a casa loro, in quella casa promessa da Dio ai discendenti di Abramo e di Mosè, e di cui oggi riprendono possesso per continuare ad esistere come popolo unito dopo la Shoah, dopo il fallimento del regime del ghetto e di quello dell’assimilazione. L’attribuzione divina alle tribù d’Israele della terra di Canaan non fa dell’attuale Stato d’Israele uno Stato di diritto divino? Tale fu l’obiezione subito sollevata da alcuni, respinta però dall’autore. Uno Stato teocratico-politico di diritto divino vi fu un tempo, ma terminò definitivamente e senza possibilità di rinascita duemila anni fa con la distruzione del tempio da parte dei Romani e la diaspora. Maritain distingue dunque il diritto, concesso da Dio al popolo ebraico sulla terra di Canaan, dallo Stato d'Israele: quest'ultimo è uno Stato come ogni altro, ossia un'entità temporale e secolare, soggetta al diritto internazionale, di modo che l'appartenenza spirituale al popolo che il Dio di Abramo e di Mosè si è riservato si distingue esplicitamente dall'appartenenza temporale ad un popolo che forma un dato Stato (26). Con la nascita dello Stato di Israele, entra in una fase nuova la situazione di Israele nel mondo: essa è come bipolare o differenziata tra la diaspora in mezzo alle nazioni da un lato, e dall'altro l'unità politica del popolo israeliano, che dovrebbe cominciare a realizzare nel tempo la speranza di Israele. Ora, se agli ebrei della diaspora va riconosciuta uguaglianza assoluta di diritti e di opportunità negli Stati di cui sono membri, essi devono mantenere la loro identità spirituale di ebrei membri del popolo di Dio. Ciò significa che il filosofo della storia deve considerare ormai una doppia tensione, di ben diverso senso, nella storia: quella tragica fra Israele e il mondo, e quella nuova e fraterna tra lo Stato ebraico della Terrasanta e la popolazione ebraica della diaspora. Va cioè prendendo corpo con la nascita dello Stato di Israele una certa disgiunzione tra giudaicità spirituale - sparsa in tutto il mondo - e giudaicità temporale concentrata in uno Stato, mentre in Gerusalemme una e duplice (Gerusalemme testa del popolo di Dio, e Gerusalemme testa della nazione ebraica) si concentra la speranza di tutto Israele: "L'appartenenza spirituale al popolo che il Dio di Abramo e di Mosè si è riservato appare come differenziantesi esplicitamente ormai dall'appartenenza temporale a un popolo occupante un dato territorio e formante un dato Stato" (p. 249). Tale Stato, analogamente allo schema di Stato democratico, secolare o profano, ma autenticamente 55 cristiano nell'ispirazione, dovrebbe caratterizzarsi come democratico, secolare o profano, ma autenticamente ebraico nell'ispirazione. Il significato più notevole della disgiunzione di cui si è detto, andrebbe rintracciato nel possibile sviluppo di una crisi religiosa nella coscienza d’Israele, verso una definizione non etnica ma puramente spirituale e universale dell'Israele di Dio. In questo processo si può pensare che venga via via mutando l'atteggiamento verso Gesù, soprattutto attraverso comportamenti pratici piuttosto che dottrine, di modo che il popolo d’Israele, più per quanto farà che per quanto crederà, sarà portato a riconsiderare e a divenire tributario della Buona Novella (cfr. p. 250). 2) La posizione di Maritain sull’assegnazione perpetua della terra di Canaan al popolo ebraico e sui rapporti tra Stato d’Israele e palestinesi sollevò varie obiezioni e critiche, oltre quella vertente sul ‘diritto divino’. Maritain stese questo capitolo nel 1964. Occorre tener presente la data e anche che l'autore non intese fissare alcun confine specifico per lo Stato d'Israele. Il cardinal Journet, l’amico di sempre, indirizzò a Maritain una lettera con varie perplessità (22 ottobre 1965), cui questi rispose due giorni dopo con un testo in cui precisa e ribadisce le sue posizioni, tra cui l’assunto che la conquista i parti della Palestina da parte degli ebrei è accaduta contro gli inglesi, “non contro i popoli circostanti, i quali in tutto questo affare si comportano come aggressori, contro i quali si difende una piccola comunità di scampati su una piccolissima striscia di territorio” (Cahiers n. 23, p. 38). Un anno dopo Journet pubblica in Nova et vetera (octobre-décembre 1966, dunque a Concilio concluso, pp. 309-315) una nota intitolata L’Etat israélien et les destinées d’Israël, in cui riprende alcune perplessità in merito al ritorno ebraico nella terra degli avi. “Esso non vi è tornato senza violenza. Violenza inaudita, indicibile, dapprima subita da lui….Violenza anche – senza proporzione senza dubbio con la precedente – che farà subire agli altri…Resta che se era equo che tale popolo senza terra [l’ebraico] ricevesse una terra, e perfino la sua terra, sarebbe stato giusto e non meno equo che gli Arabi, musulmani o cristiani, sloggiati, fossero anch’essi rispettati nei loro diritti umani e non soltanto indennizzati, ma consultati sull’opportunità della transazione” (p. 315). Pur distinguendosi dall’amico, Journet non giunge a sostenere esplicitamente la necessità di uno Stato palestinese. Maritain non muterà le sue posizioni. Riprendendo in La Chiesa del Cristo il tema, dedica una “Digressione sullo Stato d’Israele” ed il problema arabo-palestinese (aprile 1970), in cui non si fa cenno alla possibilità che nasca uno Stato palestinese posto a fianco di quello ebraico. Trattando dei diritti dei palestinesi l’autore domanda che lo Stato d’Israele rispetti i diritti della popolazione araba esistente nel suo territorio, e che si riconosca “un compenso che ponga rimedio, nel miglior modo possibile, ai danni da essi subiti non certo per un’aggressione ingiusta, ma per la legittima installazione d’una nuova unità nazionale e politica nella parte di territorio che fino ad allora i Palestinesi erano stati soli a popolare” (p. 283, nota). Compenso che per Maritain sarebbe spettato 56 alle grandi potenze assicurare. Su queste note si chiude la posizione maritainiana sullo Stato d’Israele e gli arabi, ormai a tre anni dalla guerra dei sei giorni (1967) e dalle nuove sofferenze insorte nella regione, di cui furono vittime le due parti e forse in specie le popolazioni palestinesi. E’ meritevole d’attenzione che all’incirca negli stessi mesi, ed esattamente nell’agosto del 1970, dinanzi allo stesso problema G. La Pira procede per una strada diversa. Egli indirizza due lettere, simili per contenuto, a Yasser Arafat presidente dell’Olp e ad Abba Eban, ministro degli esteri di Israele. Le lettere suggeriscono ad entrambe le parti la «tesi triangolare», cioè la necessità di una trattativa triangolare tra Stato d'Israele, Stato palestinese, Stati arabi. La citazione del secondo, allora inesistente anche nella forma in divenire dell'Autorità Nazionale Palestinese, fa intendere che per La Pira uno Stato palestinese doveva essere punto di arrivo della trattativa triangolare, la quale per quanto concerne l'area geopolitica della Palestina avrebbe dovuto condurre ai due volti storici e politici della Palestina di Israele (lo Stato ebraico) e della Palestina di Ismaele (lo Stato palestinese) (27). Il senso di una ricerca 1) Sul problema d’Israele sembra valere la legge generale che non sia facile per nessuno parlarne, perché in esso è coinvolto nella maniera più intrinseca il disegno di Dio sulla storia della salvezza. Allo stesso modo del Patriarca Giacobbe dopo la lotta con l'Angelo, ogni discorso su Israele è come claudicante e incompiuto: non è tanto l'espressione ad essere misteriosa, ma l'oggetto. Da ciò non scaturisce solo un appello alla modestia, quanto piuttosto un invito a cercare di comprenderlo con gli strumenti idonei: la fede, la preghiera, la meditazione della Parola. 2) Nonostante il persistente attacco, specialmente da parte della destra teologica e politica, a cui le posizioni di Maritain su Israele si sono trovate esposte (28), vari elementi fanno ritenere che la sua meditazione sia stata decisiva per la coscienza cristiana del nostro secolo e per il rinnovamento della Chiesa in ordine alla realtà ebraica e al mistero di Israele (29). Uno degli esiti più notevoli della sua elaborazione sta nel richiamo all'originaria solidarietà tra giudaismo e cristianesimo, la cui percezione si fece in lui progressivamente più intensa (30). E che è dire questo se non che occorre un nuovo rapporto tra ebrei e cristiani, in cui ciascuno riconsideri più a fondo le proprie radici, la propria e altrui dignità, nonché il fatto che verosimilmente ebrei e cristiani avranno da fronteggiare dolori comuni e avversari comuni? (31). Il valore permanente de Il mistero d'Israele risiede nel tentativo - sorretto da approfondimento teologico, da un esprit de finesse dell'amore e del cuore e da una volontà di partecipazione totale e "carnale" alla vicenda ebraica - di delineare una 57 teologia cristiana dell'ebraismo, a lungo mancante nella Chiesa. Supposto che un giorno l'antisemitismo venga meno, non scomparirà l'enigma soprannaturale e temporale di Israele, le domande che esso suscita a proposito della storia temporale (filosofia della storia) e della storia della salvezza (teologia della storia). In quanto discorso cristiano sull'ebraismo, il volume potrebbe utilmente esser posto in dialogo col discorso ebraico sull'ebraismo di un Buber, di un Rosenzweig, di uno Strauss, ecc. E in effetti non è marginale l'attenzione suscitata dalla meditazione di Maritain su Israele in ambito ebraico. Di lui ha detto Tullia Zevi, ex-presidente dell'Unione delle Comunità Ebraiche Italiane: "Nel rileggere gli scritti raccolti nel volume Le mystère d'Israël, pensavo che a Maritain appartengono forse le parole più intelligenti, i motivi più profondi per comprendere e amare Israele che un cristiano possa oggi esprimere. Pensavo che la definizione di Israele come lievito fra le nazioni del mondo, che costantemente ricorre nelle pagine di Maritain, è analoga all'immagine che di lui recepiamo come maestro di vita, di fede e di pensiero fra i cristiani del mondo. La sua è la stessa visione rigenerata dei rapporti tra cristianesimo ed ebraismo che ha animato le opere e i giorni di Giovanni XXIII e di Paolo VI e che emerge trasfusa nel documento conciliare Nostra Aetate" (32). 3) Dei tre grandi assi della meditazione di Maritain su Israele, ossia il significato teologico del mistero d’Israele, la questione dell’antisemitismo, la ricerca di un miglior rapporto tra cristiani ed ebrei quelli che sono incamminati a soluzione sono il secondo e il terzo. La lotta del pensatore francese contro l’antisemitismo e per un dialogo cristiano-ebraico è stata coronata da successi sebbene in tali campi tutto sia sempre da riprendere. Molti passi avanti sono stati compiuti nella riforma dell’insegnamento cristiano nei confronti d’Israele, come tra i molti aveva chiesto Jules Isaac a Giovanni XXIII nel 1960, e come aveva prima domandato la conferenza internazionale contro l’antisemitismo di Seelisberg (1947) coi suoi dieci punti. La lunga fase della teologia cristiana antigiudaica non può essere superata in soli quarant’anni dalla Nostra aetate, che sembra costituire l’inizio di un nuovo inizio. Sarà compito dei cristiani "conoscere meglio le componenti fondamentali della tradizione religiosa ebraica e apprendere le caratteristiche essenziali con le quali gli ebrei si definiscono nella loro realtà religiosa vissuta" ("Orientamenti e suggerimenti per l'applicazione della dichiarazione conciliare Nostra Aetate, n. 4"), e farla compiutamente finita con l'antisemitismo motivato religiosamente o teologicamente. Meno assestata appare la situazione, travagliata e ardua, di una comprensione cristiana dell’ebraismo che sia accolta dagli ebrei e di una comprensione ebraica del cristianesimo che sia accettabile per i cristiani, mentre riemergono timori ebraici verso un’eventuale ripresa di forme di proselitismo da parte cristiana. Per essere completa l'amicizia ebraico-cristiana ha bisogno che, come i cristiani sono tenuti a rinnovare e approfondire la loro meditazione su Israele, così gli ebrei si domandino quale sia il 58 senso del cristianesimo. Qual è la comprensione ebraica del cristianesimo? La migliore risposta non può che provenire dal popolo di Jahvé sulla scorta di una comprensione religiosa di se stesso, alla luce della Parola di Dio. Non crederei che esista una soluzione illuministica o "liberale" al problema del pluralismo religioso, e meno che mai al mistero di Israele e al mistero della Chiesa: essi non possono essere secolarizzati e posti sullo stesso piano di altre credenze religiose, assegnando a tutte in linea di principio pari valore e pari dignità, ma compresi ad una profondità sempre maggiore sotto la mozione di Dio. Non dovrebbero oggi ebraismo e cristianesimo invitare l'uomo a scoprirsi come essere teomorfo, ad entrare in una più alta sfera di vita, comprendendo i magnalia Dei, onde contrastare il declino della coscienza religiosa dell'Occidente, da cui scaturiscono il nichilismo europeo e il tentativo di dare un senso alla storia in un mondo senza Dio? 4) Nel dialogo cristiano-ebraico la questione della salvezza degli ebrei e dei gentili deve esser nuovamente posta. Osiamo porre alcune domande, rivolte alternativamente ad Israele ed alla Chiesa. Se Israele è (non: è stato) in alleanza con Dio secondo l’antico patto non decaduto, cosa pensare ebraicamente del nuovo patto? Il riconoscimento cristiano dell’esistenza di un’alleanza mai revocata è un passo necessario, che però non chiude il problema del significato del nuovo patto e dei rapporti tra i due patti. Quale ruolo salvifico ha per gli ebrei la passione del Cristo? Salvati attraverso la Torah o attraverso la Croce? E poi: i cristiani si limitano a comprendere il ruolo ebraico solo come quello di testimoni e trasmettitori inconsapevoli di un’alleanza che li supera e li emargina? Come portatori di un dono che è passato ad altri e su cui infine saranno da Dio chiamati a convergere? Come dire la comprensione che la rivelazione neotestamentaria ha di sé senza che ciò suoni offesa all’altro? E come conciliare l’assunto dell’unicità del Cristo per la salvezza e quella della permanenza dell’antica alleanza ebraica? Può la salvezza essere concepita in maniera non cristologica? La missione ad gentes che spinge la Chiesa cattolica verso tutti concerne anche gli ebrei, oppure essi stanno già in un’alleanza salvifica con Dio? Su queste grandi e difficili domande il Concilio non si è soffermato. Nostra aetate non parla della religione ebraica, ma del popolo ebraico, d’Israele, naturalmente citando i capitoli di Paolo nella lettera ai Romani per cui gli ebrei non sono rigettati e le promesse di Dio sono senza pentimento. Con l’avvio a soluzione del problema dell’antisemitismo e antigiudaismo cristiano verrà forse emergendo con nuova intensità il significato religioso e il mistero del nesso tra popolo della Sinagoga e popolo della Chiesa. 59 NOTE (1) Il contadino della Garonna, Morcelliana, Brescia 1969, p. 11. (2) Ho ripreso alcune righe del mio saggio “Presenza di Tommaso d'Aquino in G.B. Montini”, Studium, n. 3, 1999, pp. 365-368. Lo studio di Michel Cagin, presentato al colloquio “Montini, Journet, Maritain: une famille d’esprit”, Molsheim, 4-5 giugno 1999, promosso da: Istituto Paolo VI, Fondation du cardinal Journet, Cercle d’études Jacques et Raïssa Maritain, è ora pubblicato nel volume degli Atti delle giornate di Molsheim (il titolo del volume è quello del colloquio), a cura dell’ Istituto Paolo VI e delle edizioni Studium, Brescia 2000, pp. 44-88. (3) V. Possenti, "Jacques Maritain e la ‘questione ebraica’ ", in Aggiornamenti Sociali, n. 3, marzo 1992, pp. 227-242, pubblicato con lo stesso titolo anche nel volume AA. VV., I cattolici e la lotta all’antisemitismo, a cura di G. Galeazzi, Massimo, Milano 1992, pp. 31-54. Questo volume, che ospitai con gioia nella collana “Scienze umane e filosofia” da me diretta presso la Massimo, venne presentato a Roma il 9 dicembre 1992 presso la libreria Ave in via della Conciliazione. Altri spunti su Maritain e Israele sono nella mia introduzione a J. Maritain, Il mistero d’Israele, nuova ed. ampliata, Massimo, Milano 1992, pp. 5-15, e nell’introduzione a J. Maritain, Questioni di Coscienza, Vita e Pensiero, Milano 1980, pp. 7-35, in specie 1523. (4) Varcare la soglia della speranza, Mondadori, Milano 1994, p. 111. (5) Lo scritto venne dapprima inserito nel volume collettivo Les Juifs (Paris, Plon 1937) e poi in Questions de Conscience (Paris, Desclée de Brouwer, 1938). (6) Le mystère d’Israël, DDB, Paris 1990, p. 121. A questo libro faremo riferimento, salvo indicazione contraria. Successivamente con un saggio introduttivo di P. VidalNaquet è stato pubblicato il volume J. Maritain, L’impossible antisémitisme, DDB, Paris 1994, che include solo il testo con lo stesso titolo del 1937. Sulla questione dell’antisemitismo si veda anche Y. Chevalier, “Jacques Maritain e l’antisemitismo”, in AA. VV., Jacques Maritain: la politica della saggezza, a cura di V. Aucante e R. Papini, Rubbettino, Soveria Mannelli 2005, pp. 157-179. (7) "Avversò ogni ideologia. Una riflessione sulla cultura di Sant'Ignazio", Segnosette, n. 22, 4 giugno 1991, p. 15. Lo stesso autore in un altro articolo osserva: "Dobbiamo... prendere più viva coscienza del rapporto che lega la Chiesa a Israele e del posto che a Israele è affidato nel piano divino di salvezza: si tratta di un compito teologico di 60 primaria importanza", "La Chiesa si interroga sul Vangelo di libertà da offrire all'Europa", Segnosette, n. 45, 3 dicembre 1991, p. 17. Le frasi del Card. Martini disegnano con chiarezza i due compiti aperti dinnanzi alla riflessione cristiana su Israele: il suo significato nella storia del mondo, e quello nella storia della salvezza. La riflessione di Maritain ha contribuito ad aprire piste nuove su entrambi questi aspetti. (8) Il senso della storia, Jaca Book, Milano 1971, p. 74. (9) In un appunto del periodo gennaio-marzo 1906, si legge: "Il grande ostacolo al cristianesimo sono i cristiani. Ecco la spina che mi trafigge. I cristiani hanno abbandonato i poveri - e i poveri tra le nazioni: gli Ebrei - , e la povertà dell'anima: la Ragione autentica. Essi mi fanno orrore... In una situazione simile, è necessario raddoppiare in sottomissione interiore, in attesa, in amore alla Chiesa", Carnet de Notes, DDB, Bruges 1965, p. 40. Non va neppure dimenticato che ancor prima di incontrare la futura sposa, Maritain fu un ardente "dreyfusardo". (10) Queste pagine, nonché una lettera del 1972 ad André Neher, sono state incluse nella nuova, già citata edizione di Le mystère d'Israël, che così comprende, ad eccezione di alcuni testi minori, l'insieme delle posizioni di Maritain su Israele. Peraltro dopo la sua pubblicazione il n. 23 dei Cahiers Jacques Maritain (octobre 1991) ha offerto nuovi materiali, ad esempio un rapporto di Maritain sul sionismo, indirizzato nel 1925 a Pio XI, una nota sull'antisemitismo per Mons. Montini (1946), il dibattito tra il filosofo e Charles Journet sullo Stato d'Israele e sul significato del dono da parte di Dio della terra di Canaan alle tribù d'Israele, cui faremo riferimento oltre. (11) Sulla decisività della lettura di Le salut par les Juifs (ristampato a proprie spese dai Maritain nel 1906), è bene ascoltare Raïssa Maritain: "Leggemmo questo libro in campagna nel mese di agosto del 1905. Esso ci scoprì San Paolo e quegli straordinari capitoli IX, X e XI dell'epistola ai Romani, da cui Léon Bloy prese il titolo e in cui si incontra l'esegesi del libro Le salut par les Juifs... Léon Bloy era persuaso, ed a giusta ragione, che il suo libro fosse, «a parte l'ispirazione soprannaturale... la testimonianza cristiana più energica e più pressante in favore della stirpe primogenita, dopo l'XI capitolo di San Paolo ai Romani “. Egli lo interpretava come una voce cristiana in difesa di Israele, affermante che non vi sono prescrizioni per le promesse divine. D'altra parte Raïssa osserva che egli "ha provato a lungo l'orrore del medioevo per il popolo ebreo", esprimendolo "in termini talvolta inammissibili" che contaminano con iperboli ed errori Le salut par les Juifs (I grandi amici, Vita e Pensiero, Milano 1956, p. 105 ss., 108 s.). Ma l'essenziale era stato trasmesso, e la lettera ai Romani sarà sempre per Maritain il cardine di ogni sua meditazione su Israele, sebbene egli abbia poi preso le distanze da alcune posizioni di Bloy. Scrivendo nel 1918 ad un amico (il P. Franck del seminario 61 francese in Roma) egli le condensa così: "Oggi, pur mantenendo altrettanto affetto e gratitudine per Léon Bloy, non intraprenderei la ristampa di questo libro la cui oscurità, che mi sembrava un tempo piena di profondità, mi è divenuta, allorché ho conosciuto ciò che è veramente il mistero della fede, profondamente antipatica e di cui io rigetto formalmente certe idee concernenti in particolare un futuro avvento dello Spirito Santo e un futuro compimento della Rivelazione, concetti d'altra parte eccessivamente vaghi e informi, sui quali Bloy stesso non ha mai voluto e non avrebbe mai saputo spiegarsi. E' tuttavia troppo chiaro che non ha mai avuto l'idea assurda di un 'fallimento reale della Redenzione'; ma soltanto di un 'fallimento apparente'" (citato in Jacques Maritain et ses contemporaines, DDB, Paris 1991, p. 31 s). (12) P. 289. Scrive in proposito la Dichiarazione Nostra Aetate: "Come attesta la Sacra Scrittura, Gerusalemme non ha conosciuto il tempo quando è stata visitata; gli Ebrei, in gran parte, non hanno accettato il Vangelo, ed anzi non pochi si sono opposti alla sua diffusione. Tuttavia, secondo l'Apostolo, gli Ebrei, in grazia dei Padri, rimangono ancora carissimi a Dio, i cui doni e la cui vocazione sono senza pentimento" (n. 4). (13) Nostra Aetate, n. 4. Le affermazioni rilevanti della Dichiarazione non sono poche; forse essa avrebbe potuto più apertamente riconoscere, oltre all'abominio dell'olocausto nazista, la lunga serie di colpe e omissioni dell'antisemitismo specificamente cristiano ed esprimere un'umile domanda di perdono. L'antisemitismo viene certo deplorato, senza però un richiamo esplicito alle colpe dei cristiani. Né è semplice curiosità annotare che le incisive parole di Pio XI: "Attraverso il Cristo e nel Cristo, noi siamo la discendenza spirituale di Abramo. L'antisemitismo è inammissibile. Spiritualmente, siamo tutti semiti", pronunciate il 6 settembre 1938 e riferite da varie riviste cattoliche, non furono riportate dall' "Osservatore Romano" e dalla "Civiltà Cattolica". (Cfr. G. Martina, La Chiesa nell'età dell'assolutismo, del liberalismo, del totalitarismo, Morcelliana, Brescia 1970, p. 280, nota 19). In proposito si può aggiungere che Maritain desiderò considerarsi non solo spiritualmente ma anche etnicamente ebreo. Così scrisse nel 1967 ad un ebreo cristiano: "Io sono dei vostri, sì, ebreo per amore (non dico soltanto 'spiritualmente' semita, come è ogni cristiano, ma 'etnicamente' ebreo, legato nella mia carne e nella mia sensibilità alle tribù d'Israele e al loro destino quaggiù)" (Cahiers Jacques Maritain, n. 23, p. 41 s.). E quasi trent'anni prima (dicembre 1938) alla domanda della rivista The Commonweal se Maritain fosse ebreo (per comprenderla occorre osservare che il governo franchista lo aveva accusato di essere un ebreo convertito), il filosofo risponde: "Ahimé! no, non sono ebreo. Me ne dolgo perché è un grande privilegio essere della razza di Gesù Cristo e della Santa Vergine" (Oeuvres complètes, vol. VII, p.1086). B. Lewis osserva: "Oggi vi sono alcuni segni che il virus antisemita che ha infettato la cristianità quasi sin dall'inizio possa essere alla fine sulla via della guarigione; per un 62 triste paradosso, lo stesso profondo odio religioso ha ora assalito il corpo sinora resistente dell'Islam. Può essere che il momento della scelta sia passato e che il virus sia già entrato nel sangue dell'Islam per avvelenarlo per le generazioni del futuro così come la cristianità ne è stata avvelenata per le generazioni del passato", Semiti e antisemiti, Il Mulino, Bologna 1990, p. 292. (14) "L'odio dei nazisti verso gli Ebrei si maschera sotto un'infinità di pretesti, ma nella sua vera natura è un odio soprannaturale, un odio satanico che detesta gli Ebrei perché essi sono il popolo di Dio e hanno dato Cristo al mondo: è il travestimento psicopatologico di una cristofobia” (p. 194). (15) Genealogia della morale, Adelphi, Milano 1988, p. 24; la citazione precedente è a p. 23. (16) p. 153. E anche: "Agli occhi di un cristiano che si ricorda che le promesse di Dio sono senza pentimento, Israele continua con la sua missione sacra: ma nella notte del mondo, che ha preferito a quella di Dio. Gli occhi bendati, la Sinagoga cammina ancora nell'universo dei disegni di Dio" (p. 32). (17) Rm, 11, 25-26. In proposito la Bible de Jérusalem osserva che Paolo ha sempre di mira le due collettività: il blocco del mondo giudaico e l'insieme del mondo pagano. Nostra Aetate insegna: "Con i Profeti e con lo stesso Apostolo [Paolo] la Chiesa attende il giorno che solo Dio conosce in cui tutti i popoli acclameranno il Signore con una sola voce e 'lo serviranno appoggiandosi spalla a spalla' (Sof 3, 9)". (18) Commentando la corsa dei due apostoli Pietro e Giovanni alla tomba del Signore, Tommaso d'Aquino scrive: "I due popoli, il popolo ebreo e quello dei Gentili, sono simbolizzati, alla tomba di Cristo, dai due apostoli. Essi corrono al Cristo simultaneamente attraverso le età: i Gentili mediante la loro legge naturale, gli Ebrei in virtù della loro legge scritta. I Gentili, come Pietro, che arriva secondo al Sepolcro, pervengono più tardi alla conoscenza di Gesù Cristo, ma, come Pietro, entrano per primi. Il popolo ebreo, il primo a conoscere il mistero della Redenzione, sarà l'ultimo convertito alla fede del Cristo... Allora, dice il Vangelo, Giovanni entrò; Israele non deve restare eternamente all'ingresso del Sepolcro. Dopo che Pietro vi sarà entrato, vi penetrerà lui stesso, perché alla fine gli Ebrei, anche essi, saranno raccolti nella fede". In Joan., XVIII, lect. I. (19) Il mistero di Israele, Morcelliana, Brescia 1964, p. 120. Il capitolo da cui traiamo questa citazione ("L'antisemitismo come problema per gli Ebrei") non figura nell'edizione francese del 1990. 63 (20) Il senso della storia, p. 88. Secondo N. Berdjaev il popolo ebraico ha introdotto nella vita terrestre il principio dello "storico" in un modo tale che è impossibile addivenire ad una spiegazione materialista della storia giudaica: essa si oppone senza mezzi termini al materialismo storico. Il filosofo russo ha peraltro colto i forti rinvii tra messianismo socialista e messianismo giudaico: "il messianismo socialista ha radici giudaiche e nel mondo cristiano significa attesa del falso Cristo, attesa dell'anticristo" (p. 89); ha inteso che l'antisemitismo non capisce tutta la portata religiosa della questione ebraica (cfr. p. 90), e compreso l'indissolubile solidarietà tra destino del popolo ebraico e destini della storia cristiana e viceversa (questo è un punto del più alto rilievo, perché in passato i cristiani hanno cercato di espellere come estranea e irrilevante per la storia cristiana la vicenda dell'ebraismo). Rimane comunque singolare e difficilmente spiegabile la mancanza di ricorso esplicito di Berdjaev all'insegnamento di Paolo nella Lettera ai Romani, dal momento che egli intende elaborare una filosofia religiosa della storia, in cui la vicenda religiosa del popolo ebraico è centrale: "Il popolo ebraico respinse il Crocefisso e finì per essere esso stesso crocefisso nel suo destino" (p. 86). (21) Su questo dibattito cfr. Regards sur Israël, Cahiers Jacques Maritain, n. 23, pp. 33-39. (22) Ph. Chenaux, "Paul VI et Maritain", in AA.VV., Jacques Maritain et ses contemporains, p. 332. Il testo della lettera di Maritain a Mons. Montini è ora nei Cahiers Jacques Maritain, n. 23, pp. 31-33. Il filosofo francese ribadisce il “carattere eccezionalmente grave, e in qualche modo soprannaturale, dell’odio di cui Israele è l’oggetto da parte dell’antisemitismo a cui Hitler e Rosenberg hanno dato la più selvaggia forza”; riprende l’idea che l’odio contro il Cristo s’è sviluppato prima di tutto contro il popolo che ha dato al mondo Mosè e i profeti e da cui è nato secondo la carne il Cristo. Comprende le ragioni che durante la guerra spinsero Pio XII ad astenersi “di parlare direttamente degli Ebrei e di richiamare direttamente e solennemente l’attenzione dell’universo sul dramma d’iniquità che si svolgeva a loro riguardo”. Ma ora che il nazismo è stato vinto, e le circostanze sono mutate, Maritain chiede che il papa faccia intendere la sua voce. Egli domanda a Pio XII tramite Mons. Montini non soltanto di condannare l'antisemitismo che giudica tutt’altro che spento ed anzi in ripresa, ma di testimoniare della sua compassione verso il popolo di Israele e di richiamare al mondo la dottrina di S. Paolo e gli insegnamenti della fede sul mistero d'Israele (cfr. p. 31s). (23) Cfr. p. 291. Anche G. La Pira ha percepito quasi contemporaneamente la grande novità, tale da costituire un riorientamento nella storia universale, rappresentata dal 64 ritorno di Israele in Palestina. In una lettera alle monache di clausura del 1961 l'allora sindaco di Firenze osserva: "Io resto sempre «stordito», come si dice, quando rifletto pensosamente sopra il mistero storico più evidente d'oggi: il ritorno di Israele in Palestina. E' un «segno dei tempi» di tale gigantesca grandezza da lasciare davvero «storditi» tutti coloro che cercano di scrutarne il valore! Che cosa significa nel piano di Dio?" (Lettere alle claustrali, Vita e Pensiero, Milano 1978, p. 274). Per La Pira vi è una connessione tra la nuova età della Chiesa, che seguirà alla reintegrazione di Israele, e la nuova età del mondo, che avverrà con l'ingresso della terra nella pace e nella fraternità. La nuova età della Chiesa sarà anche nuova età del mondo e viceversa: "Ecco, Madre Reverendissima, il senso ultimo - ci pare! - degli eventi dei nostri tempi: cioè essi confermano ogni giorno, attraverso tanti segni, l'esistenza di questo "comando" di Dio, di questo disegno di Dio: quel comando e quel disegno di cui quasi profeticamente parla Pio XII (primavera storica e estate storica); di cui è segno tanto marcato il Concilio Vaticano II; di cui sono segni così marcati gli eventi politici, tecnici e scientifici (eventi spaziali) di questi ultimi tempi e di questi ultimi giorni: quel comando e quel disegno in cui è disposto, appunto, l'ingresso di tutto Israele - cioè di tutti i popoli della terra: Israele antico e nuovo - nella terra promessa della pace e della fraternità; in cui è disposto, cioè, l'ingresso della storia del mondo in una stagione nuova (di primavera) che avrà per caratteristica essenziale lo sradicamento della guerra e la trasformazione degli strumenti di distruzione in strumenti di edificazione (le spade in aratri: Is 2,1 ss). L'epoca nuova che vedrà gradualmente fiorire nella grazia di Cristo tutti i popoli; che vedrà, cioè, la resurrezione di Israele (Rom 11) e l'ingresso di Ismaele e di tutti i popoli nella comune casa del Signore; che vedrà imbarcati nella barca di Pietro - per la grande "avventura" storica del tempo nuovo - tutti i popoli e tutte le nazioni della terra!" (lettera del 30 settembre 1962, p. 333). (24) Sul focolare palestinese e il sionismo, che non è chiamato a far nascere uno Stato politico, l’intervento del 1943, pubblicato col titolo “In the Scales of Justice” (in United Palestine Appeal Yearbook for 1943, New York) è esplicito: “Io non penso che il sionismo possa apportare una soluzione ai problemi di tutta la massa di Israele, né che rappresenti la fine della Diaspora, ma sono convinto che il sionismo rivesta un’importanza storica di primo piano; il ritorno in Palestina è il preludio della liberazione dall’esilio. Il sionismo è chiamato non a far nascere uno Stato politico alla maniera di quelli dei Gentili (il cui nazionalismo, del resto, non è una benedizione per l’umanità), ma piuttosto a diventare un giorno il centro animatore di tutta la giudaicità dispersa. Ma ciò che importa soprattutto oggi è il rifugio che la Palestina può e deve offrire alle masse dei perseguitati che sono in una terribile disperazione, insieme alla base temporale richiesta per la cultura indipendente, la coscienza e lo spirito del popolo ebraico. E’ da questo punto di vista che tutti i problemi relativi al focolare palestinese devono soprattutto essere considerati oggi”, Oeuvres complètes, vol. XVI, p. 533. 65 Ma già in una lettera dell’autunno del 1925 al P. Hugon, pregato di far avere a Pio XI un rapporto di Maritain sul sionismo, si prevede che quest’ultimo “è destinato a trionfare in Palestina”, a testimonianza che il prosionismo maritainiano fu di antica data. Su questi aspetti cfr. il Cahiers n. 23, più volte citato, che alle pp. 27-33 pubblica la lettera al P. Hugon e il rapporto a Pio XI. (25) Il filosofo francese prosegue così: "La fede cristiana ritiene in effetti che lo Spirito Santo è l'autore principale della Scrittura; e per grande che si possa rendere il ruolo strumentale giocato nella sua redazione dal condizionamento umano - costumi e mentalità di questa o quella epoca - di cui si occupano l'esegesi e la storia, resterà sempre che l'intenzione dell'autore ispirato dallo Spirito Santo non sembra dubbia: il Creatore del cielo e della terra ha donato la Terra Promessa agli Ebrei con un libero decreto della sua volontà" (p. 243 s.). (26) "Temporale e secolare, lo Stato d'Israele lo è in linea di principio e di diritto; non lo sarà veramente, di fatto, che quando sarà riuscito a liberarsi dalle pressioni teocratiche esercitate da una minoranza detta "ortodossa" che, invece di lavorare sul piano religioso alla riscoperta dei valori eterni senza di cui nessuna funzione o missione spirituale è concepibile, si ostina a voler imporre, sul piano politico, un qualche simulacro di Stato sacrale... " (p. 246 s.). "Lo Stato d'Israele, in quanto Stato, non è che uno stato come gli altri", sebbene la sua esistenza sia ritenuta da Maritain cosa giusta e necessaria (cfr. p. 284). Un documento ufficiale della Santa Sede in materia (Ebrei e ebraismo nella Chiesa cattolica, documento del Segretariato per l'unione dei cristiani del 24 giugno 1985) si esprime nei termini seguenti: "Per quanto si riferisce all'esistenza dello Stato d'Israele e alle sue scelte politiche, esse vanno viste in un'ottica che non è di per sé religiosa, ma che si richiama ai principi comuni del diritto internazionale". (27) Ho pubblicato le due lettere nel mio Profili del Novecento. Incontri con Bobbio, Del Noce, Lazzati, La Pira, Maritain, Sturzo, Effatà, Cantalupa 2007, pp. 72-77. (28) Qualche breve notizia in merito si trova nella mia introduzione a J. Maritain, Ragione e ragioni, Vita e Pensiero, Milano 1982. (29) Cfr. ad es. M. Dubois, "J. Maritain e il mistero d'Israele", in AA.VV., Jacques Maritain oggi, a cura di V. Possenti, Vita e Pensiero, Milano 1983, pp. 440-455. E anche la testimonianza di G. Dossetti che, aderente alla Resistenza, legge nel 1943 il saggio "L'impossibile antisemitismo", pubblicato nel volume Questions de conscience (DDB, Paris 1938), considerandosi da allora debitore di Maritain per la lettura del problema ebraico. 66 (30) Mentre l'interpretazione d’Israele per la storia temporale sembra compiutamente assestata già nel 1937, sono riscontrabili ritocchi e approfondimenti sul significato religioso di Israele, che sboccano nell'idea di due popoli di Dio affratellati e riuniti da comuni persecuzioni e comuni dolori (cfr. p. 295 s.). E più intensa diviene la meditazione alla luce della regola di non separare mai il mistero d’Israele e il mistero della Chiesa, perché in un futuro racchiuso nel grembo di Dio i suoi due popoli ne formeranno uno solo. In un breve testo del 1921 "A propos de la question juive" (Comunicazione alla "Semaine des Ecrivains Catholiques", pubblicata poi con completamenti ed aggiornamenti nel 1926 ed ora raccolta nelle Oeuvres complètes, vol. II, pp. 1196-1203, ma non inserita in Le mystère d'Israël), Maritain distingueva due aspetti - uno politicosociale ed uno spirituale-teologico - della questione ebraica, avanzando un giudizio complessivamente severo sul primo, a motivo della presenza di spirito ebraico nella maggior parte dei grandi movimenti rivoluzionari dell'epoca moderna, in cui si esercita una volontà di distruzione. Mentre il filosofo francese esprime la persuasione che non ci si possa attendere un attaccamento reale degli ebrei al bene comune della civiltà occidentale e cristiana, richiede pure che si rifletta senza odio sul problema ebraico, evitando sia di scatenare le passioni popolari, sia di individuare negli ebrei l'unica causa dei mali presenti, come se le infedeltà ben gravi dei cristiani non esistessero. Già si avverte in nuce il principio ermeneutico, ripreso, sviluppato e affinato nel 1937, secondo cui negli ebrei la speranza messianica e la passione per la giustizia assoluta tendono a spostarsi dal piano soprannaturale a quello temporale, operando come fermento di attivazione e di rivoluzione. Quanto all'aspetto spirituale-teologico, esplicito è il ricorso a san Paolo e il memento che i cristiani sono innestati su un tronco ebraico, quello dei profeti, della Vergine, degli apostoli, di Gesù: "Più la questione ebraica diviene politicamente acuta, più è necessario che la maniera con cui trattiamo tale questione sia proporzionata al dramma divino che evoca" (p. 1199). (31) "E' necessario che i cristiani comprendano veramente che Dio non ha rifiutato, ma continua sempre ad amare i figli di Israele, e che è il suo amore che ha permesso tale lunga passione; ed è necessario che gli ebrei comprendano veramente che non è la volontà di potenza ma la carità del Cristo, che anima gli sforzi della Chiesa verso gli uomini" (p. 292). (32) Intervento al convegno "A 50 anni dalla legislazione razziale italiana – Il contributo di Jacques Maritain alla lotta contro l'antisemitismo", promosso dall'Istituto Italiano Maritain, Ancona, 5 aprile 1990, poi in AA. VV., I cattolici e la lotta all’antisemitismo, a cura di G. Galeazzi, Massimo, Milano 1992, p. 17. 67 68