Studia Theologica VIII, 2/2010, 42 - 68
Vittorio Possenti
Il mistero d’Israele. J. Maritain e il Concilio Vaticano II
Premessa
Dopo lo svolgimento del Concilio Vaticano II sono fioriti studi che rintracciano
l’influenza di teologi, filosofi, biblisti, liturgisti sulla preparazione, i lavori, i documenti
dell’assise. Tra queste ricerche non sono mancate quelle rivolte a verificare presenza ed
irraggiamento della riflessione maritainiana. Oltre vent’anni fa il tema mi attrasse. Stesi
uno studio su Maritain e il Concilio pubblicato come capitolo del mio volume Una
filosofia per la transizione. Metafisica, persona e politica in J. Maritain (Massimo,
Milano 1984), in cui esaminavo partitamene la coerenza tra gli scritti di Maritain e varie
posizioni del Concilio su temi come la persona umana, la libertà religiosa, il laicato
credente e la sua vocazione alla santità, il significato del mondo, la missione temporale
del cristiano, il pluralismo, la lotta all’antisemitismo. Maritain stesso aveva percepito la
affinità tra le sue posizioni e il Vaticano II, se in Il contadino della Garonna (1966) il
ringraziamento al Concilio che apre il volume, tocca temi che sono profondamente
presenti nella sua opera. Sull’antisemitismo la sua condanna è esplicita:
“l’antisemitismo è un’aberrazione anticristiana” (1). L’otto dicembre 1965
l’ecclesiastico che, ascoltando il discorso di Paolo VI alla chiusura del Concilio,
esclamò forse con rammarico: “è la vittoria di Maritain!”, finiva per riconoscerne
l’influsso.
A distanza di molti anni dallo studio del 1984 potrei aggiungere qualcosa al quadro
allora tratteggiato, che si riferiva specialmente alla Gaudium et spes, Dignitatis
humanae e Apostolicam actuositatem, senza però cambiamenti significativi. Dal lato
delle aggiunte due annotazioni sono consigliabili, concernenti i rapporti tra il papa
Paolo VI e Maritain, e che si inscrivono nella vicenda conciliare e postconciliare. Si
tratta di aspetti poco noti o completamente ignoti nel 1984.
1) Paolo VI consultò il filosofo francese tanto durante i lavori dell’assise, quanto
successivamente. Il 27 dicembre 1964 due inviati del papa, Jean Guitton e Mons.
Pasquale Macchi, segretario di Paolo VI, incontrarono a Tolosa il filosofo cui
sottomisero una serie di questioni da discutere nell’ultima fase del Concilio. Maritain
rispose indirizzando a Paolo VI nel marzo 1965 quattro memorandum su: la verità; la
libertà religiosa; l’apostolato dei laici; la preghiera comune e privata, la lingua volgare e
i testi sacri. I quattro scritti sono pubblicati nel vol. XVI delle Oeuvres complètes. Un
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lavoro documentario sarebbe necessario per rintracciare eventuali influssi del
memorandum sulla libertà religiosa sulla dichiarazione Dignitatis humanae, allora
sottoposta a numerose revisioni e infine approvata nell’autunno del 1965.
2) Anche dopo il Concilio il Pontefice guardò a Maritain, che in quegli anni portava nel
cuore e nella preghiera le difficoltà della Chiesa nella crisi postconciliare e in specie le
preoccupazioni del papa. Gli storici più attenti riconoscono che tra il 1967 e il 1968 si
situa una svolta nel pontificato montiniano, di cui è segno l'indizione (22 febbraio 1968)
dell'anno della fede con l'esortazione apostolica Petrum et Paulum Apostolos, nel
ricordo del martirio a Roma 1900 anni prima dei due apostoli. Al termine dell'anno della
fede Paolo VI pronunziò in Piazza San Pietro (30 giugno 1968) una solenne professione
di fede, il Credo del Popolo di Dio, per "attestare il nostro incrollabile proposito di
fedeltà al Deposito della fede". Pochi tra i cattolici di allora colsero l'intuizione presente
nell'iniziativa paolina e il segnale che intendeva trasmettere: l'attenzione sia al Credo
come al Preambolo fu scarsissima, il testo venne perlopiù considerato "tradizionale"
quando non "arretrato". Circondato da un imponente silenzio e altrettanta indifferenza,
fu presto dimenticato, mentre era segno delle crescenti preoccupazioni del Pontefice
sulle condizioni della fede nella Chiesa.
La gestazione e preparazione del solenne atto del 30-6-68 sono state oggetto di una
approfondita ricerca da parte di Michel Cagin, benedettino di Solesmes. Lo studio, ha
mostrato il ruolo svolto da Maritain (e da Journet) nell’origine e nella elaborazione della
Professione di fede di Paolo VI. Rinviando allo studio di Cagin per una conoscenza più
particolareggiata della vicenda, qui mi limito ad osservare che l’idea secondo cui il papa
Paolo VI avrebbe dovuto redigere e donare alla Chiesa una completa e dettagliata
professione di fede, era venuta alla mente di Maritain nel gennaio 1967, mentre pregava
per il papa e rifletteva sulla crisi entro cui viveva la Chiesa a causa di serie incertezze
sulla fede da parte di correnti postconciliari. Egli aveva comunicato questa idea al card.
Journet, che ne aveva fatto cenno al papa. Nel gennaio 1968 Maritain redige, su
richiesta dell’amico teologo, un progetto di professione di fede, che viene da questi
trasmesso a Paolo VI. Sarà poi all’inizio del luglio 1968 che Maritain, come ogni fedele,
apprenderà che il 30 giugno il papa ha proclamato una professione di fede dove il
filosofo francese ritrova largamente il proprio progetto (2). E’ degno di nota che il
Credo del popolo di Dio di Paolo VI sia espressamente citato nel Catechismo della
Chiesa cattolica (cfr. § 192).
Qualche elemento su singoli temi del Concilio e sul modo con cui Maritain li
considerava si può trovare nella sua corrispondenza con Charles Journet. Di
quest’immensa corrispondenza che si snoda dal 1920 al 1973 (anno della morte del
filosofo), sono stati sinora pubblicati cinque volumi che coprono il periodo dal 1920 al
1964. Nel quinto che si distende dal 1958 al ’64, intervallo più o meno coincidente con
l’annuncio e lo svolgimento di larga parte dei lavori conciliari, non compaiano che rari
cenni al Concilio. La cosa può destare sorpresa. Successivamente Journet sarà creato
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cardinale da Paolo VI ai primi del 1965 e parteciperà attivamente all’ultima sessione
conciliare. E’ perciò probabile che riferimenti al Concilio siano presenti nel sesto ed
ultimo volume che copre gli anni 1965-1973, di abbastanza prossima pubblicazione.
Mi sono orientato per questo contributo sul nodo in ogni senso decisivo di Israele,
ravvisando in esso un nucleo essenziale del Concilio e dell’intera opera di Maritain,
della sua lunga lotta contro l’antisemitismo, per il riconoscimento delle radici giudaiche
del cristianesimo, per lo sviluppo dell’amicizia ebraico-critiana, per la miglior
comprensione dei fondamentali capitoli dell’apostolo Paolo nella lettera ai Romani. Nel
1992 dedicai al tema uno studio dal titolo “Maritain e la ‘questione ebraica’“ (3). Forse
si poteva intendere come un completamento del precedente lavoro su Maritain e il
Concilio, ma soprattutto era una prima tappa di un progetto concepito vent’anni fa, ed
ormai divenuto un sogno irrealizzabile, desiderio di un’epoca lontana: l’intento di
approfondire e ‘restituire’ la concezione di Israele come si è venuta formando nel XX
secolo in specie nel versante russo-ortodosso con Soloviev e Berdjaev, e in quello
cattolico con Maritain, Journet, La Pira, nonché esplorare gli influssi su larga parte di
questi autori di Bloy col suo Le salut par les Juifs. Riprendo adesso lo scritto del 1992,
integrandolo e aggiornandolo.
Il rapporto con le religioni non cristiane e in specie l’ebraismo
Con la Dichiarazione Nostra aetate sulle religioni non cristiane Il Concilio Vaticano II
ha segnato una svolta, in particolar modo nei rapporti con il popolo ebraico e l’essenza
religiosa dell’ebraismo. I commentatori non mancano di rilevare questa kehre
fondamentale che per quanto concerne l’ebraismo pone termine a tanti secoli di
antisemitismo cristiano. La Dichiarazione espone il legame della Chiesa con la stirpe di
Abramo, presenta il Cristo come riconciliatore degli Ebrei e dei Gentili, mette in
evidenza il patrimonio comuni a ebrei e cristiani, riconduce la morte di Cristo ai peccati
di tutti gli uomini, per cui falsa e illegittima è l’accusa di deicidio addossata agli ebrei,
deplora ogni forma di persecuzione contro gli ebrei e di antisemitismo, auspica lo
sviluppo del dialogo ebraico-cristiano fondato su stima e mutua conoscenza.
La svolta iniziata dal Concilio troverà in Giovanni Paolo II un promotore e un
continuatore con atti e gesti quali la visita alla sinagoga romana (13 aprile 1986), quella
a Gerusalemme e al muro del pianto (26 marzo 2000), il riconoscimento delle colpe dei
cristiani nell’anno del grande giubileo e la relativa richiesta di perdono. Della visita alla
sinagoga scrisse: “Ma un’esperienza del tutto eccezionale fu per me, senza dubbio, la
visita alla sinagoga romana. …Durante quella visita memorabile, definii gli ebrei come
fratelli maggiori nella fede. Sono parole che riassumono in realtà quanto ha detto il
Concilio, e ciò che non può non essere una profonda convinzione della Chiesa” (4).
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Nella Bolla di indizione dell’anno santo del 2000 Incarnationis mysterium (29
novembre 1998) il pontefice chiedeva di avviare nella Chiesa la purificazione della
memoria, il riconoscimento di colpa e la domanda di perdono entro un quadro che
naturalmente includeva i rapporti con l’ebraismo e la questione dell’antisemitismo
cristiano. Successivamente nell’anno 2000 la Commissione teologica internazionale
pubblicò il documento Memoria e riconciliazione: la Chiesa e le colpe del passato, in
cui una sezione, sia pure breve, è dedicata al rapporto tra cristiani ed ebrei, “che esige
un particolare esame di coscienza”. Il paragrafo in questione cita largamente Noi
ricordiamo: una riflessione sulla Shoah (16 marzo 1998), documento preparato dalla
Commissione per i rapporti religiosi con l’ebraismo.
Utile sarebbe una ricerca per mostrare se ci fu una ‘presenza’ di Maritain in questi
documenti e forse prima ancora in Giovanni Paolo II. I testi maritainiani pertinenti,
ossia Il mistero d’Israele (1965) e La Chiesa del Cristo (1970, in specie il capitolo “L’
iniqua sorte riservata agli Ebrei nella cristianità” che esprime già nel titolo il contenuto),
circolano ormai da circa trent’anni. Il primo volume in cui il filosofo ha raccolto i propri
scritti su Israele (Le mystère d’Israël, 1965, nuova ed. ampliata Desclée de Brouwer,
Paris 1990. Il testo del 1965 è inserito nel volume XII delle Oeuvres complètes), è
d’altronde composto di venti sezioni di varia ampiezza che vanno dal 1926 al 1972, e in
misura predominante appartengono al periodo 1937-’47. Si tratterebbe appunto di
stabilire le modalità della circolazione e il loro reale irraggiamento.
Per restituire il senso della lunga meditazione del filosofo francese sull’ebraismo,
occorre avvertire che essa si svolge su due temi centrali: lo scavo sul mistero d’Israele,
nascosto in Dio, mistero di elezione e di velamento, che si può sciogliere solo sul piano
teologale della storia della salvezza; la lotta contro l’antisemitismo di ogni genere,
compreso quello cristiano. Da un lato l’accento cade sul mistero, dall’altro
sull’antisemitismo. Adottando il termine ‘mistero’ come titolo per la raccolta di suoi
scritti su Israele, invece del titolo ‘L’impossibile antisemitismo’ che era stato scelto per
un saggio del 1937 poi inserito in Il mistero d’Israele, Maritain rivela il suo
atteggiamento fondamentale (5). L’antisemitismo, legato certo anche alla situazione di
minoranze etniche e culturali in determinati contesti, è in misura prevalente un
problema; Israele, la sua adozione ed elezione, è soprattutto un mistero, qualcosa che va
indagato a livello teologale. Nell’insieme non sembra possibile ricondurre l'impegno di
Maritain solo ad una pur indispensabile lotta contro l'antisemitismo, quanto piuttosto ad
un approfondimento sul significato d'Israele nella storia della salvezza e in quella
temporale. Siamo dunque collocati sul piano religioso-teologico, a partire dalla parola
di Dio. Il filosofo ha detto e ridetto che “la questione ebraica è prima di tutto (non dico
esclusivamente) un mistero d’ordine teologico” (6).
Senso e sviluppo della meditazione di Maritain
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Forse noi dobbiamo ancora comprendere più profondamente il significato di
Gerusalemme, d’Israele e dell'ebraismo in ordine sia al cammino della Chiesa e del
regno di Dio, sia alla vicenda della storia universale. Sul secondo aspetto alcune parole
del Card. Martini mi paiono illuminanti: "Questa è un'intuizione culturale molto forte
che ancor oggi la Chiesa non ha approfondito sufficientemente e che ancora grava come
ipoteca sulla coscienza europea: l'incapacità a comprendere qual è il reale significato di
Israele nella storia del mondo, quale parte necessaria è riservata a questo popolo nello
sviluppo dell'umanità" (7). Esse idealmente possono venire ricollegate ad
un’indicazione di N. Berdjaev: "Nel destino del popolo ebraico io vedo il punto di
intersezione, l'incontro più violento dei destini celeste e terreno. Perciò la filosofia del
destino terreno dell'uomo può essere fatta incominciare dalla filosofia della storia
ebraica e del destino del popolo ebraico. Bisogna cercare qui l'asse della storia
universale: durante tutto il corso della storia mondiale si risolve il tema impostato nel
destino del popolo ebraico" (8). Affrontando il problema ebraico dobbiamo superare la
pretesa sufficienza del metodo illuministico nello studiare la storia, ed entrare
nell'ambito di un pensiero religioso e di una teologia della storia, perché questa inizia e
termina in Dio. Non sembra possibile cogliere in tutta la sua latitudine il problema di
Israele situandoci solo sul piano "naturale" delle vicende sociali, culturali e politiche.
La riflessione maritianiana sull’ebraismo si distende lungo l'intero arco della sua vita,
con spunti che iniziano nel 1905, prima dunque del battesimo ricevuto a 24 anni nel
1906 (9), che toccano il culmine nel periodo dell'antisemitismo scoperto e sanguinoso
(1937-1945), e che durano sino all'ultima opera pubblicata da Maritain vivente nel
1970: La Chiesa del Cristo, appena ricordata (10). Si può fondatamente ipotizzare che
egli abbia incontrato la questione ebraica conoscendo e poi sposando Raïssa
Oumançoff, un'ebrea russa condotta bambina dai suoi genitori a Parigi per sottrarsi ai
pogroms di colà, nonché in virtù della lettura nel 1905 di Le salut par les Juifs, l'opera
di L. Bloy che dischiuse a Maritain come in una rivelazione l'insegnamento di San
Paolo su Israele, trasmesso nell'epistola ai Romani. La dottrina dell'apostolo, sulla quale
esistono interpretazioni diverse che impegnano gli esegeti, rimase sino alla fine la luce
fondamentale attorno a cui si venne tessendo la meditazione del filosofo francese su Israele (11). Questa può essere riassunta in quattro assi principali:
1. chiarimento dell'essenza spirituale dell'antisemitismo come un fenomeno in ultima
istanza cristofobico (in merito Maritain si ricollega alla penetrante intuizione dello
scrittore ebraico Maurice Samuel, su cui tra poco), che rinvia ad una profonda
solidarietà spirituale tra Israele e cristianesimo. "Odiare gli Ebrei e odiare i cristiani
proviene da uno stesso fondo, da uno stesso rifiuto da parte del mondo che non vuole
essere ferito né dalle ferite di Adamo, né dalle ferite del Messia, né dal popolo di Israele
nel suo movimento nel tempo, né dalla Croce di Gesù per la vita eterna" (p. 84s.);
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2. significato religioso del destino del popolo ebraico, per cui Israele rimane popolo di
Dio e in certo modo un "corpo mistico", nonostante il rifiuto del Messia. Per
argomentare quest'ultimo asserto, Maritain osserva che per formarsi qualche idea del
mistero d'Israele è necessario ricorrere ad una sorta di analogia capovolta con la Chiesa,
per cui "il corpo mistico d'Israele è una Chiesa precipitata... E' una Chiesa infedele e
ripudiata... ripudiata come Chiesa, non come popolo. E sempre attesa dallo Sposo che
non ha cessato di amarla" (p. 40). Esiste perciò un’analogia tra Chiesa e Sinagoga, alla
luce dell'insegnamento di S. Paolo sulla reintegrazione finale di Israele, quando i due
popoli di Dio, quello di Israele e quello della Chiesa, infine ne formeranno uno solo.
Nel frattempo, la Sinagoga è una Chiesa bendata e rovesciata, ma sempre depositaria
della promessa di Dio e dell'alleanza: "Dio ha sempre davanti agli occhi ciò che è
all'origine della loro [degli Ebrei] attesa ostinata del Messia già venuto: il suo amore
tradito e oltraggiato dalla casa d'Israele, quando egli ha inviato suo Figlio e
Gerusalemme non ha conosciuto il tempo della sua visita. Chi oserebbe dire che in lui
l'amore abbia ceduto il posto alla sete di vendetta e di riprovazione? Sarebbe una
bestemmia. 'Dio non ha rigettato il suo popolo' (Rm, 11, 1-2); 'Essi sono sempre amati a
causa dei loro padri' (Rm, 11, 28)" (12).
3. significato di Israele per il mondo, ossia senso della sua vocazione temporale nella
storia, in cui Israele appare come una sorta di "corpo mistico temporale" disperso tra le
nazioni che stimola ed attiva la loro vita: “La passione d’Israele non è, come quella
della Chiesa, una passione corredentrice che compie quello che manca ai dolori del
Salvatore. E’ una passione sofferta per la stimolazione e l’emancipazione della vita
temporale del mondo” (p. 43).
4. significato per la storia del mondo di due eventi di grande portata e quasi
contemporanei: il ritorno di una porzione degli Ebrei nella terra di Canaan (con la
conseguente fondazione dello Stato di Israele, 1948), quella terra promessa un tempo da
Dio ad Abramo e alla sua discendenza; la celebrazione del Concilio Vaticano II, 196265. Pur collocati su piani diversi, essi segnano per l’autore una sorta di riorientamento
della storia del mondo (cfr. p. 291).
L'antisemitismo
"E' difficile non essere colpiti dalla straordinaria bassezza dei grandi temi generali della
propaganda antisemita" (p. 30). Questa dichiarazione fa da sfondo alla delineazione
delle tre principali forme di antisemitismo (e specialmente alle ultime due):
l'antisemitismo religioso nelle sue varianti cristiana, mussulmana e in certo modo
perfino ebraica, potendosi configurare anche un antisemitismo ebraico (non di rado a
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base atea); quello economico-sociologico, sviluppatosi in varie parti d’Europa e legato
al possesso di cospicui capitali da parte degli ebrei e al loro massiccio accesso alle
professioni; quello razzista. Sono soprattutto la prima e la terza forma ad essere
considerate e combattute da Maritain.
Quanto all'antisemitismo cristiano esso è definito come un oltraggio al figlio di Dio
(ebreo secondo la carne) e come un'alterazione patologica della coscienza cristiana (cfr
p. 60), a cui ha messo termine in linea di diritto il Concilio Vaticano II con la
Dichiarazione Nostra Aetate. Questa dice l'essenziale e corrisponde a voti tante volte
espressi da Maritain: far conoscere l'insegnamento di S. Paolo su Israele, per lo più
scandalosamente ignorato; rivedere e affinare assai il vocabolario dei "Gentili" su
Israele; non presentare gli ebrei come rigettati da Dio o come maledetti; mettere in luce
il patrimonio spirituale comune a cristiani e ad ebrei; rifiutare le manifestazioni
dell'antisemitismo da qualsiasi parte provengano; togliere di mezzo come ingiustificata
e teologicamente falsa la dizione di "razza o popolo deicida". Alla domanda su chi ha
messo a morte il Cristo, occorre rispondere che ogni uomo col suo peccato lo
crocifigge: la tradizione cristiana ha sempre applicato al Cristo i versetti profetici di
Isaia sul servo sofferente di Jahvé, agnello innocente condotto al macello per espiare i
peccati di molti. Nel Credo o simbolo niceno quale espressione fondamentale ed
originaria della fede cristiana, la morte di Gesù, qui propter nos homines et propter
nostram salutem descendit de caelis...sub Pontio Pilato passus, non è in alcun modo
attribuita ai Giudei. Nostra Aetate spiega: "E se autorità ebraiche con i propri seguaci si
sono adoperate per la morte di Cristo, tuttavia quanto è stato commesso durante la sua
Passione non può essere imputato né indistintamente a tutti gli Ebrei allora viventi, né
agli Ebrei del nostro tempo" (13).
L’antisemitismo cristiano non si esaurisce nel colpire l’avversario; esso inquina e
corrompe l’anima del credente. “Ma c’è qualcosa che il furore antisemita ferisce e
corrompe irrimediabilmente, ed è la coscienza cristiana. La disperazione di coloro che si
sono dati la morte perché l’ingiustizia trionfava, è l’immagine di qualcosa di più
terribile: la corruzione dell’anima umana, e l’abisso di perversione in cui rischiano di
gettare la razza umana…Non è solo perché cessi l’iniquità che pesa su degli innocenti, è
anche per la sua salvezza e la guarigione del mondo che la coscienza cristiana deve
liberarsi dalla lebbra razzista e antisemita” (p. 226s, lettera alla conferenza di
Seelisberg, 1947). In sostanza l'antisemitismo cristiano è una perversione del
cristianesimo, possibile solo se gli occhi della fede si offuscano e Israele viene
considerato non un mistero da contemplare in atteggiamento di ascolto e apertura alla
Parola di Dio, ma una razza nemica e maledetta da Dio. L'antisemitismo è una falsa fuga
in avanti, che non risolve alcunché e che "svia gli uomini dalle cause reali dei loro mali"
(p. 72).
Al di là di una classificazione sociologica delle sue varie forme, il vero problema sta
nel domandarsi se l’antisemitismo in ultima istanza non si riconduca ad una radice
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comune, che renda ragione dell'odio scatenato verso il popolo israelita, che divampa
implacabile ammantandosi di tanti pretesti. Per Maritain la risposta non è dubbia: "Se il
mondo odia gli Ebrei, è perché sente che essi gli saranno sempre sovrannaturalmente
estranei; è perché esso detesta la loro passione dell'assoluto e l'insopportabile stimolo
che questa gli infligge" (p. 84). Alla base più riposta dell'antisemitismo si annidano
forse una paura ed un odio teologici, di cui il filosofo francese ritenne di trovare una
conferma in un pensiero di uno scrittore ebraico, Maurice Samuel [The Great Hatred,
New York, Knopf 1940]: "Non comprenderemo mai l'immensa e folle portata
dell'antisemitismo che a condizione di trasporne i termini. E' del Cristo che i nazifascisti hanno paura; è nella sua onnipotenza che essi credono; è Lui che sono
follemente decisi ad annientare. Ma le parole stesse Cristo e cristianesimo sono troppo
pesanti e l'abitudine di rispettarle troppo profondamente radicata da secoli. E' dunque
per loro necessario dirigere il loro attacco su coloro che sono responsabili della nascita
e dell'espansione del cristianesimo. Devono sputare sugli Ebrei in quanto hanno messo a
morte il Cristo (as Christ-killers), perché sono ossessionati dal desiderio di sputare sugli
Ebrei in quanto hanno dato Cristo al mondo (as Christ-givers)" (p. 23).
Alla radice spirituale ultima di varie forme di antisemitismo sta il risentimento contro il
Vangelo, espresso in forma cristofobica (14), spesso a motivo dell'oscura intuizione di
una segreta solidarietà fra ebraismo e cristianesimo. In pagine notevoli di Genealogia
della morale Nietzsche individua negli ebrei, popolo sacerdotale per eccellenza, coloro
che hanno iniziato e condotto a termine con successo la rivolta degli schiavi nella
morale, riuscendo a rovesciare l'equazione aristocratica per cui buono è soltanto il forte,
il potente, il bello, il crudele, e a sostituirle l'altra per cui solo i poveri, gli impotenti, gli
ultimi, i miserabili, i sofferenti, gli indigenti sono pii e buoni. Il cristianesimo non ha
fatto altro che raccogliere l'eredità della trasvalutazione giudaica ("Sappiamo chi ha
raccolto l'eredità di questa trasvalutazione giudaica").
Ora per Nietzsche dal tronco dell'odio giudaico implacabilmente rivolto contro i
valori aristocratici della forza e della potenza, e particolarmente intenso perché
ineguagliabile nel creare ideali e trasmutare valori, germogliò un amore nuovo, quello
cristiano, non come sua negazione bensì come suo compimento: Gesù di Nazareth è
l'esca più pericolosa lanciata dagli Ebrei al mondo, perché attraverso tale esca hanno
conquistato il mondo e completato la trasvalutazione di tutti i valori e la vittoria degli
schiavi nella morale. "Non ha raggiunto Israele, proprio per la via traversa di questo
«redentore», di questo apparente oppositore e dissolvitore di Israele, la meta estrema
della sua sublime avidità di vendetta? Non rientra nella occulta magia nera di una
veramente grande politica della vendetta... il fatto che Israele stesso ha dovuto negare e
mettere in croce dinanzi a tutto il mondo, come una specie di nemico mortale, il vero
strumento della sua vendetta, affinché «tutto il mondo», cioè, tutti i nemici di Israele,
potesse senza esitazione abboccare a quest'esca. E si saprebbe d'altra parte immaginare,
prendendo le mosse da ogni raffinatezza dello spirito, un'altra esca più pericolosa?
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Qualcosa che potesse eguagliare per forza attrattiva, inebriante, stordente, corruttrice,
quel simbolo della «santa croce», quello spaventoso paradosso di un «Dio in croce»,
quel mistero di un'inconcepibile, ultima, estrema crudeltà e autocrocefissione di Dio per
la salvezza degli uomini?... E' quanto meno certo che sub hoc signo Israele è tornata
sempre a far trionfare sino ad oggi su tutti gli altri ideali, su tutti gli ideali più nobili, la
sua vendetta e la sua trasvalutazione di tutti i valori" (15).
Se nella lettura nicciana Gesù è uno strumento di Israele, uno strumento pienamente e
completamente ebraico per condurre a termine la più eccelsa delle rivoluzioni, la
trasvalutazione di tutti i valori, che altro vuol dire tutto questo se non che egli è il
culmine di Israele? Pochi hanno intravisto (seppure sulla base di una filosofia e di una
morale aberranti) come questo filosofo ateo, anticristiano e antigiudaico, la solidarietà
tra ebraismo e cristianesimo.
Singolari sono pure alcuni passi del giovane Hegel, appartenenti in specie all'opera Lo
spirito del cristianesimo e il suo destino. Chi rifletta sui suoi sprezzanti giudizi verso il
popolo ebraico e la sua fede può trovare più di un semplice antisemitismo, seppure
virulento ed aperto. Vi si può forse anche leggere un attacco indiretto contro il cristianesimo, che si ha timore a colpire frontalmente, e il rigetto di ogni forma di trascendenza,
quasi una paura nei suoi confronti, e di teonomia etica.
La vocazione di Israele e l’insegnamento dell’apostolo Paolo
Israele rimane un mistero di elezione il cui significato non può che essere sciolto sul
piano divino, e perciò meditato alla luce della Scrittura. Ed è su questa verticale che
Israele è inteso da Maritain come una Chiesa infedele, ripudiata come Chiesa, non come
popolo; e sempre attesa ed amata da Dio-Sposo, sempre destinataria delle sue promesse
senza pentimento. "Attraverso tutte le vicissitudini del proprio esilio e della storia del
mondo, Israele resta sempre il popolo di Dio, colpito ma sempre amato a causa dei suoi
padri", sebbene esso non possieda più una missione messianica e salvifica nei confronti
dell'umanità (16). Da Paolo apprendiamo le prerogative del popolo ebraico, cui sono
stati confidati gli oracoli di Dio: porta il nome di Israele, il beneamato da Dio; è figlio
adottivo di Dio; a lui fu manifestata la gloria, la schech^ina; a lui appartengono le
alleanze rinnovate più volte da Dio col suo popolo; a lui la Thora, il culto, le promesse
messianiche, i patriarchi. A lui infine il Cristo nato dalla stirpe di Abramo e dal sangue
di Davide secondo la carne.
E se Israele non ha riconosciuto il Messia venuto nella pienezza dei tempi, e quindi
esso è per Paolo senza scusa per aver misconosciuto la giustizia di Dio, questi non ha
rifiutato il suo popolo, ma la sua caduta è diventata la salvezza delle nazioni, dei
Gentili: "Io domando dunque: Dio avrebbe forse ripudiato il suo popolo? Impossibile!...
Forse inciamparono per cadere per sempre? Certamente no. Ma a causa della loro
caduta la salvezza è giunta ai pagani, per suscitare la loro gelosia. Se pertanto la loro
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caduta è stata la ricchezza del mondo, e il loro fallimento ricchezza dei pagani, che cosa
non sarà la loro partecipazione totale!" (Rm 11,1; 11-12).
Col rifiuto ebraico i Gentili sono stati innestati sull'olivo buono d'Israele, ma proprio
essi che costituivano l'olivo selvatico non possono vantarsene, provenendo la linfa
dall'antica radice ebraica e non da loro stessi: "Se però alcuni rami sono stati tagliati e
tu, essendo oleastro, sei stato innestato al loro posto, diventando così partecipe della
radice e della linfa dell'olivo, non menar tanto vanto contro i rami! Se ti vuoi proprio
vantare, sappi che non sei tu che porti la radice, ma è la radice che porta te... Quanto a
loro, se non persevereranno nell'infedeltà, saranno anch'essi innestati di nuovo!" (Rm
11,17 ss.). L'Apostolo prosegue con una parola che disvela un senso terminale, onde
evitare che i convertiti dal paganesimo trattino la vicenda religiosa e la storia della
salvezza secondo una saggezza umana: "Non voglio infatti che ignoriate, fratelli, questo
mistero, perché non siate presuntuosi: l'indurimento di una parte d'Israele è in atto fino a
che saranno entrate tutte le genti. Allora tutto Israele sarà salvato..." (17).
La reintegrazione di Israele costituirà gloria e splendore del mondo e della Chiesa, e
segno caratteristico di una terza età della storia, cui Maritain assegna un senso diverso
da quello attribuitole da Gioacchino da Fiore (18). In essa reintegrazione di Israele e
fioritura dell'umanesimo integrale e teocentrico dell'Incarnazione si sosterranno
vicendevolmente.
Tutto ciò conferma che Israele è un mistero, "dello stesso ordine del mistero del mondo
e del mistero della Chiesa. Al cuore, come questi, della Redenzione" (p. 24). Un mistero
nel quale continua a realizzarsi anche dopo il non riconoscimento del Messia, ma in
forma diversa, la missione di Israele e del suo "corpo mistico". Secondo Maritain "la
comunione di questo corpo mistico non è la comunione dei santi, è la comunione della
Speranza terrestre. Israele spera appassionatamente, attende, vuole l'avvento di Dio nel
mondo, il regno di Dio quaggiù" (p. 40). Di conseguenza esso svolge un duplice ruolo
nei confronti della storia del mondo e della salvezza del mondo: è un testimone che
conserva il deposito delle Scritture e nello stesso tempo obbedisce ad una vocazione
unica: "Mentre la Chiesa è deputata all'opera del riscatto soprannaturale e
sopratemporale del mondo, Israele è deputata, nell'ordine della storia temporale e delle
sue finalità proprie, ad un'opera d’attivazione terrestre della massa del mondo... esso
stimola il movimento della storia" (p. 43).
L'indistruttibile speranza d’Israele è forza di fermento e di animazione che si estrinseca
in proiezioni intramondane, su cui il filosofo francese si sofferma in specie nella prima
fase della sua riflessione su Israele. Successivamente questo aspetto verrà sfumandosi
per centrarsi sulla missione dei due popoli di Dio, quello dell'Antico Patto e quello di
Cristo, fino a quando essi e le loro croci, la croce di sopravvivenza portata dal popolo
ebraico e la croce di redenzione portata dalla Chiesa, si riconosceranno e formeranno
una sola croce, per offrire la salvezza agli uomini (cfr. p. 292). Ma questo incontro è
remoto: “La croce di sopravvivenza portata dal popolo ebraico e la croce di redenzione
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portata dalla Chiesa sono ancora molto lontane dall’essere pronte a riunirsi” (ivi). Più
tardi, “quando verrà la catastrofe storica da cui sorgerà per un certo tempo un universo
umano rinnovato, quel giorno che sarà come un preludio alla resurrezione dei morti”,
quando le due croci si riconosceranno, “la dialettica della storia avrebbe allora
riconciliato tutte le sue opposizioni, e sboccherebbe nell’unità che il Padre che è nei
cieli ha in vista da tutta l’eternità”, non senza forse che prima della fine dei tempi la
terra fruisca di un momento in cui potrà conoscere la pace come dono dell’Agnello.
Sembra riconoscibile in tale auspicio un richiamo alla posizione del ‘millennio di pace’
del chiliasmo, secondo un’interpretazione del celebre brano di Apocalisse 20.
Basteranno forse questi per percepire che la pagina maritainiana rifiuta
un'interpretazione puramente secolarizzata di Israele e dell'antisemitismo. "Nulla è più
assurdo che tentare di acquietare l'antisemitismo rinunciando al privilegio di essere il
«popolo eletto»... Comunque la nozione di «popolo eletto» è accettabile solo da un
punto di vista religioso e soprannaturale: ecco il guaio per l'Ebreo irreligioso" (19). Non
si può spiegare in termini esclusivamente sociologici ed economici l'antisemitismo,
sebbene nello scritto del 1938 "Gli Ebrei tra le nazioni" Maritain non li escluda
nell'esame circostanziato della condizione degli ebrei in Russia, Germania, Polonia,
Romania, ecc.
Così sbozzato il senso riposto di Israele per la storia della salvezza e per la storia del
mondo, all'interrogativo se la ‘questione ebraica’ sia solubile occorre assegnare risposte
differenziate. Se con tale termine intendiamo che il popolo ebraico abbia un territorio e
uno Stato, la soluzione è possibile ed è anzi già avviata; se intendiamo la fine
dell'antisemitismo, può darsi che tale evento si realizzi, sebbene si possano nutrire
dubbi a motivo della natura polimorfa del fenomeno antisemita. Se abbiamo di mira lo
scioglimento religioso del mistero d’Israele, le parole di Paolo saranno di luce. Se infine
s’intende qualcosa d'analogo allo scioglimento dell'enigma della storia universale e del
suo significato, enigma che può essere risolto soltanto in modo religioso e in Dio, allora
questo può avvenire solo all'interno della storia della salvezza. Secondo Berdjaev "una
soluzione definitiva della questione ebraica è possibile soltanto sul piano escatologico;
e sarà anche la soluzione del destino della storia universale nell'ultimo atto della lotta di
Cristo contro l'Anticristo. Se l'ebraismo non giungerà ad una sua autodefinizione
religiosa non sarà possibile risolvere il compito della storia universale" (20). Con
l'allusione al piano escatologico si deve intendere che la questione ebraica avrà
soluzione solo nel momento in cui la storia terrestre giungerà a compimento? Piuttosto
si può pensare all'escatologia quale inizio dei tempi ultimi della storia della salvezza, a
valle della reintegrazione di cui parla Paolo, e che potrebbe avere una durata non breve
(secondo la Bible de Jérusalem Paolo non afferma che la conversione d'Israele debba
precedere immediatamente la resurrezione generale).
L’ iniqua sorte riservata agli ebrei nella cristianità
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L’ultimo intervento rilevante di Maritain su Israele si colloca nel 1970, tre anni prima
della morte, con la pubblicazione di La Chiesa del Cristo. La persona della Chiesa e il
suo personale, in cui – entro un’ampia ricostruzione storica che tocca le crociate, la
guerra santa, la condanna di Galileo, l’Inquisizione, il rogo di Rouen e il processo a
Giovanna d’Arco – un capitolo è dedicato alla “sorte iniqua riservata agli ebrei nella
cristianità”.
L’autore, oltre a ribadire il rifiuto dell’accusa di deicidio elevata contro gli ebrei e a
motivare nuovamente in base a Paolo che essi non sono stati rigettati da Dio ma ‘messi
in disparte’ nella vicenda della redenzione senza che ciò significhi revoca dell’elezione
e vocazione di Israele -, propone una lettura del sorgere e del crescere
dell’antisemitismo cristiano, del regime del ghetto, delle discriminazioni, delle accuse,
delle persecuzioni contro gli ebrei. Sarebbe improprio riassumere qui frettolosamente
un’analisi che, partendo dall’antichità cristiana attraverso l’alto e basso medioevo, sale
su fino a tempi recenti e approda al Concilio Vaticano II. Il senso di tali pagine si può in
prima battuta ricavare dal titolo loro assegnato.
Il Concilio avanza nella direzione auspicata da Maritain, quella di mettere fine per
sempre all’antisemitismo cristiano, e il filosofo lo riconosce con gratitudine in vari
scritti tra cui Il contadino della Garonna con la frase già citata sull’antisemitismo come
aberrazione. Tuttavia Maritain attendeva qualcosa di più netto dalla Dichiarazione
Nostra aetate: voleva con tutte le sue forze una condanna esplicita dell’antisemitismo
che non ci fu che in parte. Si vedano le sue vivaci reazioni comunicate a Charles Journet
sull'esclusione del verbo damnat (condanna) dalla Dichiarazione, che nella versione
finale approvata dai Padri mutò la redazione precedente in cui il Concilio "condanna e
deplora" l'antisemitismo, mantenendo solo il "deplora" (21).
Su questi aspetti il filosofo francese ritrova un suo antico tentativo, parzialmente
fallito: quello di ottenere da Pio XII dopo la fine della seconda guerra mondiale una
chiara e netta condanna dell’antisemitismo. Infatti anche dopo il 1945 egli proseguì la
sua azione in vari modi, prendendo partito dalle condizioni in cui venne a trovarsi, tra
cui quella di ambasciatore di Francia presso la S. Sede, che gli consentiva di osservare
da vicino lo svolgimento del governo della Chiesa. Arrivato in Vaticano, il problema
ebraico rimane ai vertici della sua preoccupazione, secondo quanto riassume uno
studioso dei rapporti tra Paolo VI e il filosofo: "Dopo l'orribile sventura che ha colpito
il popolo d'Israele, egli [Maritain] auspicherebbe che la Chiesa mediante la voce del
Papa faccia intendere la propria voce e condanni solennemente l'antisemitismo. Si apre
su ciò con Mons. Montini in una lunga lettera del 12 luglio 1946: "un tale atto avrebbe
un'importanza straordinaria, e per preservare le anime e la coscienza cristiana da un
pericolo spirituale sempre minaccioso, e per toccare il cuore di molti israeliti, e per
preparare nelle profondità della storia la grande riconciliazione che l'Apostolo ha
annunciato e a cui la Chiesa non ha mai cessato d'aspirare". Ricevendolo quattro giorni
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dopo, il papa [Pio XII] lo rinvia al discorso che egli aveva pronunciato davanti ad un
gruppo di deportati ebrei liberati dai campi di concentramento nel novembre 1945 (16
luglio 1946). In agosto Maritain può notare con soddisfazione un passaggio di una allocuzione a dei delegati arabi, in cui Pio XII ricorda che ha condannato nel passato "le
persecuzioni che un fanatismo antisemita scatena contro il popolo ebraico" (allocuzione
del 3 agosto 1946). Malgrado tutti i propri sforzi per sensibilizzare la S. Sede attraverso
Mons. Montini (soprattutto al momento della conferenza di Seelisberg del luglio 1947,
di cui informa quest'ultimo) non otterrà altro dal papa. "Egli non vuole trattare il mistero
d'Israele", annota, quasi disperato, nel suo diario dopo una nuova udienza del papa con
dei rappresentanti ebrei (9 febbraio 1948). Al momento del suo ultimo incontro con
Montini prima di lasciare Roma, questi gli promette che il cambiamento della liturgia
del Venerdì Santo in cui si parla della "perfidia" del popolo deicida era in cammino (3
giugno 1948). La modifica, poi, a cui gli ebrei saranno molto sensibili, non interverrà
che con Giovanni XXIII" (22).
In ogni caso Maritain interpreta il Concilio e Nostra aetate come un liberazione: “Oggi
siamo finalmente del tutto liberati dall’idea di popolo-deicida e dell’odio ‘cristiano’
verso il popolo ebreo. L’antisemitismo religioso che per molto tempo ha contaminato la
cristianità è decisamente scomparso” (p. 280). Per l’autore l’amore di Dio per la Chiesa
e quello per il popolo ebreo non sono due amori diversi: “è lo stesso e unico amore,
perché nell’eterna visione divina Israele e la Chiesa sono un solo e unico popolo di Dio,
come si vedrà negli ultimi tempi della storia umana, il giorno, - non meno splendente di
una ‘resurrezione dai morti’ – in cui i rami d’Israele, i ‘rami naturali’, saranno di nuovo
innestati sul ‘proprio olivo’ ”, la cui radice è santa ed è ebrea (p. 287s).
Il ritorno in Palestina, il sionismo e lo Stato di Israele
1) Sul ritorno di una porzione del popolo ebraico nella Terra Promessa e la nascita
dello Stato d’Israele Maritain si è espresso in un Post-scriptum del 1964 a Il mistero
d’Israele e in alcune pagine de La Chiesa del Cristo, secondo posizioni che leggono
quell'evento come un riorientamento della storia (23). In questi testi emerge una
valutazione positiva del movimento sionista, già presente nel 1937: “Chiamato forse a
diventare un giorno il centro animatore di tutta la giudaicità dispersa, il sionismo ha ai
nostri occhi un’importanza storica di primo piano” (p. 58), e confermata nel 1943 in un
intervento in cui il sionismo è inteso in rapporto alla creazione di un territorio di rifugio
o un focolare nazionale per gli ebrei. Ma in tali due interventi non compare ancora
l’idea che il sionismo sia destinato a far nascere uno Stato ebraico in Palestina (24).
Nelle pagine del Post-scriptum e di La Chiesa del Cristo l’attribuzione della terra di
Canaan al popolo ebraico, e il significato dello Stato d'Israele spiccano ormai per
importanza e diventano centrali. L’affermazione che fa da perno è il pieno diritto del
popolo di Israele alla terra di Canaan, diritto basato sull'assegnazione operata per
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sempre da Dio: "il popolo di Israele è l'unico popolo al mondo al quale una terra, la
terra di Canaan, è stata data dal vero Dio, il Dio unico e trascendente, creatore
dell'Universo e del genere umano. E ciò che Dio ha dato una volta è dato per sempre"
(25). La destinazione della Terra Promessa alle tribù d'Israele da parte di Dio è stata più
volte reiterata: ad Abramo (Genesi, 12, 7; 13, 15; 15, 18; 17, 8); ad Isacco (ivi, 26, 3); a
Giacobbe-Israele (ivi, 28, 13; 35, 12); a Mosè (Esodo, 6, 8). Nel primo riferimento si
legge: "Yahvé apparve ad Abramo e disse: alla tua discendenza io darò questo paese" e
la Bible de Jérusalem commenta: "Dono della Terra Santa". Tornando nella Terra
promessa dopo duemila anni gli ebrei sono secondo Maritain tornati a casa loro, in
quella casa promessa da Dio ai discendenti di Abramo e di Mosè, e di cui oggi
riprendono possesso per continuare ad esistere come popolo unito dopo la Shoah, dopo
il fallimento del regime del ghetto e di quello dell’assimilazione.
L’attribuzione divina alle tribù d’Israele della terra di Canaan non fa dell’attuale Stato
d’Israele uno Stato di diritto divino? Tale fu l’obiezione subito sollevata da alcuni,
respinta però dall’autore. Uno Stato teocratico-politico di diritto divino vi fu un tempo,
ma terminò definitivamente e senza possibilità di rinascita duemila anni fa con la
distruzione del tempio da parte dei Romani e la diaspora. Maritain distingue dunque il
diritto, concesso da Dio al popolo ebraico sulla terra di Canaan, dallo Stato d'Israele:
quest'ultimo è uno Stato come ogni altro, ossia un'entità temporale e secolare, soggetta
al diritto internazionale, di modo che l'appartenenza spirituale al popolo che il Dio di
Abramo e di Mosè si è riservato si distingue esplicitamente dall'appartenenza temporale
ad un popolo che forma un dato Stato (26).
Con la nascita dello Stato di Israele, entra in una fase nuova la situazione di Israele
nel mondo: essa è come bipolare o differenziata tra la diaspora in mezzo alle nazioni da
un lato, e dall'altro l'unità politica del popolo israeliano, che dovrebbe cominciare a
realizzare nel tempo la speranza di Israele. Ora, se agli ebrei della diaspora va
riconosciuta uguaglianza assoluta di diritti e di opportunità negli Stati di cui sono
membri, essi devono mantenere la loro identità spirituale di ebrei membri del popolo di
Dio. Ciò significa che il filosofo della storia deve considerare ormai una doppia
tensione, di ben diverso senso, nella storia: quella tragica fra Israele e il mondo, e quella
nuova e fraterna tra lo Stato ebraico della Terrasanta e la popolazione ebraica della
diaspora. Va cioè prendendo corpo con la nascita dello Stato di Israele una certa
disgiunzione tra giudaicità spirituale - sparsa in tutto il mondo - e giudaicità temporale
concentrata in uno Stato, mentre in Gerusalemme una e duplice (Gerusalemme testa del
popolo di Dio, e Gerusalemme testa della nazione ebraica) si concentra la speranza di
tutto Israele: "L'appartenenza spirituale al popolo che il Dio di Abramo e di Mosè si è
riservato appare come differenziantesi esplicitamente ormai dall'appartenenza temporale
a un popolo occupante un dato territorio e formante un dato Stato" (p. 249). Tale Stato,
analogamente allo schema di Stato democratico, secolare o profano, ma autenticamente
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cristiano nell'ispirazione, dovrebbe caratterizzarsi come democratico, secolare o
profano, ma autenticamente ebraico nell'ispirazione.
Il significato più notevole della disgiunzione di cui si è detto, andrebbe rintracciato
nel possibile sviluppo di una crisi religiosa nella coscienza d’Israele, verso una
definizione non etnica ma puramente spirituale e universale dell'Israele di Dio. In
questo processo si può pensare che venga via via mutando l'atteggiamento verso Gesù,
soprattutto attraverso comportamenti pratici piuttosto che dottrine, di modo che il
popolo d’Israele, più per quanto farà che per quanto crederà, sarà portato a riconsiderare
e a divenire tributario della Buona Novella (cfr. p. 250).
2) La posizione di Maritain sull’assegnazione perpetua della terra di Canaan al popolo
ebraico e sui rapporti tra Stato d’Israele e palestinesi sollevò varie obiezioni e critiche,
oltre quella vertente sul ‘diritto divino’. Maritain stese questo capitolo nel 1964.
Occorre tener presente la data e anche che l'autore non intese fissare alcun confine
specifico per lo Stato d'Israele. Il cardinal Journet, l’amico di sempre, indirizzò a
Maritain una lettera con varie perplessità (22 ottobre 1965), cui questi rispose due
giorni dopo con un testo in cui precisa e ribadisce le sue posizioni, tra cui l’assunto che
la conquista i parti della Palestina da parte degli ebrei è accaduta contro gli inglesi, “non
contro i popoli circostanti, i quali in tutto questo affare si comportano come aggressori,
contro i quali si difende una piccola comunità di scampati su una piccolissima striscia di
territorio” (Cahiers n. 23, p. 38).
Un anno dopo Journet pubblica in Nova et vetera (octobre-décembre 1966, dunque a
Concilio concluso, pp. 309-315) una nota intitolata L’Etat israélien et les destinées
d’Israël, in cui riprende alcune perplessità in merito al ritorno ebraico nella terra degli
avi. “Esso non vi è tornato senza violenza. Violenza inaudita, indicibile, dapprima
subita da lui….Violenza anche – senza proporzione senza dubbio con la precedente –
che farà subire agli altri…Resta che se era equo che tale popolo senza terra [l’ebraico]
ricevesse una terra, e perfino la sua terra, sarebbe stato giusto e non meno equo che gli
Arabi, musulmani o cristiani, sloggiati, fossero anch’essi rispettati nei loro diritti umani
e non soltanto indennizzati, ma consultati sull’opportunità della transazione” (p. 315).
Pur distinguendosi dall’amico, Journet non giunge a sostenere esplicitamente la
necessità di uno Stato palestinese.
Maritain non muterà le sue posizioni. Riprendendo in La Chiesa del Cristo il tema,
dedica una “Digressione sullo Stato d’Israele” ed il problema arabo-palestinese (aprile
1970), in cui non si fa cenno alla possibilità che nasca uno Stato palestinese posto a
fianco di quello ebraico. Trattando dei diritti dei palestinesi l’autore domanda che lo
Stato d’Israele rispetti i diritti della popolazione araba esistente nel suo territorio, e che
si riconosca “un compenso che ponga rimedio, nel miglior modo possibile, ai danni da
essi subiti non certo per un’aggressione ingiusta, ma per la legittima installazione d’una
nuova unità nazionale e politica nella parte di territorio che fino ad allora i Palestinesi
erano stati soli a popolare” (p. 283, nota). Compenso che per Maritain sarebbe spettato
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alle grandi potenze assicurare. Su queste note si chiude la posizione maritainiana sullo
Stato d’Israele e gli arabi, ormai a tre anni dalla guerra dei sei giorni (1967) e dalle
nuove sofferenze insorte nella regione, di cui furono vittime le due parti e forse in
specie le popolazioni palestinesi.
E’ meritevole d’attenzione che all’incirca negli stessi mesi, ed esattamente nell’agosto
del 1970, dinanzi allo stesso problema G. La Pira procede per una strada diversa. Egli
indirizza due lettere, simili per contenuto, a Yasser Arafat presidente dell’Olp e ad Abba
Eban, ministro degli esteri di Israele. Le lettere suggeriscono ad entrambe le parti la
«tesi triangolare», cioè la necessità di una trattativa triangolare tra Stato d'Israele, Stato
palestinese, Stati arabi. La citazione del secondo, allora inesistente anche nella forma in
divenire dell'Autorità Nazionale Palestinese, fa intendere che per La Pira uno Stato
palestinese doveva essere punto di arrivo della trattativa triangolare, la quale per quanto
concerne l'area geopolitica della Palestina avrebbe dovuto condurre ai due volti storici e
politici della Palestina di Israele (lo Stato ebraico) e della Palestina di Ismaele (lo Stato
palestinese) (27).
Il senso di una ricerca
1) Sul problema d’Israele sembra valere la legge generale che non sia facile per
nessuno parlarne, perché in esso è coinvolto nella maniera più intrinseca il disegno di
Dio sulla storia della salvezza. Allo stesso modo del Patriarca Giacobbe dopo la lotta
con l'Angelo, ogni discorso su Israele è come claudicante e incompiuto: non è tanto
l'espressione ad essere misteriosa, ma l'oggetto. Da ciò non scaturisce solo un appello
alla modestia, quanto piuttosto un invito a cercare di comprenderlo con gli strumenti
idonei: la fede, la preghiera, la meditazione della Parola.
2) Nonostante il persistente attacco, specialmente da parte della destra teologica e
politica, a cui le posizioni di Maritain su Israele si sono trovate esposte (28), vari
elementi fanno ritenere che la sua meditazione sia stata decisiva per la coscienza
cristiana del nostro secolo e per il rinnovamento della Chiesa in ordine alla realtà
ebraica e al mistero di Israele (29). Uno degli esiti più notevoli della sua elaborazione
sta nel richiamo all'originaria solidarietà tra giudaismo e cristianesimo, la cui
percezione si fece in lui progressivamente più intensa (30). E che è dire questo se non
che occorre un nuovo rapporto tra ebrei e cristiani, in cui ciascuno riconsideri più a
fondo le proprie radici, la propria e altrui dignità, nonché il fatto che verosimilmente
ebrei e cristiani avranno da fronteggiare dolori comuni e avversari comuni? (31).
Il valore permanente de Il mistero d'Israele risiede nel tentativo - sorretto da
approfondimento teologico, da un esprit de finesse dell'amore e del cuore e da una
volontà di partecipazione totale e "carnale" alla vicenda ebraica - di delineare una
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teologia cristiana dell'ebraismo, a lungo mancante nella Chiesa. Supposto che un giorno
l'antisemitismo venga meno, non scomparirà l'enigma soprannaturale e temporale di
Israele, le domande che esso suscita a proposito della storia temporale (filosofia della
storia) e della storia della salvezza (teologia della storia). In quanto discorso cristiano
sull'ebraismo, il volume potrebbe utilmente esser posto in dialogo col discorso ebraico
sull'ebraismo di un Buber, di un Rosenzweig, di uno Strauss, ecc. E in effetti non è
marginale l'attenzione suscitata dalla meditazione di Maritain su Israele in ambito
ebraico. Di lui ha detto Tullia Zevi, ex-presidente dell'Unione delle Comunità Ebraiche
Italiane: "Nel rileggere gli scritti raccolti nel volume Le mystère d'Israël, pensavo che a
Maritain appartengono forse le parole più intelligenti, i motivi più profondi per
comprendere e amare Israele che un cristiano possa oggi esprimere. Pensavo che la
definizione di Israele come lievito fra le nazioni del mondo, che costantemente ricorre
nelle pagine di Maritain, è analoga all'immagine che di lui recepiamo come maestro di
vita, di fede e di pensiero fra i cristiani del mondo. La sua è la stessa visione rigenerata
dei rapporti tra cristianesimo ed ebraismo che ha animato le opere e i giorni di Giovanni
XXIII e di Paolo VI e che emerge trasfusa nel documento conciliare Nostra Aetate"
(32).
3) Dei tre grandi assi della meditazione di Maritain su Israele, ossia il significato
teologico del mistero d’Israele, la questione dell’antisemitismo, la ricerca di un miglior
rapporto tra cristiani ed ebrei quelli che sono incamminati a soluzione sono il secondo e
il terzo. La lotta del pensatore francese contro l’antisemitismo e per un dialogo
cristiano-ebraico è stata coronata da successi sebbene in tali campi tutto sia sempre da
riprendere. Molti passi avanti sono stati compiuti nella riforma dell’insegnamento
cristiano nei confronti d’Israele, come tra i molti aveva chiesto Jules Isaac a Giovanni
XXIII nel 1960, e come aveva prima domandato la conferenza internazionale contro
l’antisemitismo di Seelisberg (1947) coi suoi dieci punti. La lunga fase della teologia
cristiana antigiudaica non può essere superata in soli quarant’anni dalla Nostra aetate,
che sembra costituire l’inizio di un nuovo inizio. Sarà compito dei cristiani "conoscere
meglio le componenti fondamentali della tradizione religiosa ebraica e apprendere le
caratteristiche essenziali con le quali gli ebrei si definiscono nella loro realtà religiosa
vissuta" ("Orientamenti e suggerimenti per l'applicazione della dichiarazione conciliare
Nostra Aetate, n. 4"), e farla compiutamente finita con l'antisemitismo motivato
religiosamente o teologicamente.
Meno assestata appare la situazione, travagliata e ardua, di una comprensione cristiana
dell’ebraismo che sia accolta dagli ebrei e di una comprensione ebraica del
cristianesimo che sia accettabile per i cristiani, mentre riemergono timori ebraici verso
un’eventuale ripresa di forme di proselitismo da parte cristiana. Per essere completa
l'amicizia ebraico-cristiana ha bisogno che, come i cristiani sono tenuti a rinnovare e
approfondire la loro meditazione su Israele, così gli ebrei si domandino quale sia il
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senso del cristianesimo. Qual è la comprensione ebraica del cristianesimo? La migliore
risposta non può che provenire dal popolo di Jahvé sulla scorta di una comprensione
religiosa di se stesso, alla luce della Parola di Dio. Non crederei che esista una
soluzione illuministica o "liberale" al problema del pluralismo religioso, e meno che
mai al mistero di Israele e al mistero della Chiesa: essi non possono essere secolarizzati
e posti sullo stesso piano di altre credenze religiose, assegnando a tutte in linea di
principio pari valore e pari dignità, ma compresi ad una profondità sempre maggiore
sotto la mozione di Dio. Non dovrebbero oggi ebraismo e cristianesimo invitare l'uomo
a scoprirsi come essere teomorfo, ad entrare in una più alta sfera di vita, comprendendo
i magnalia Dei, onde contrastare il declino della coscienza religiosa dell'Occidente, da
cui scaturiscono il nichilismo europeo e il tentativo di dare un senso alla storia in un
mondo senza Dio?
4) Nel dialogo cristiano-ebraico la questione della salvezza degli ebrei e dei gentili
deve esser nuovamente posta. Osiamo porre alcune domande, rivolte alternativamente
ad Israele ed alla Chiesa. Se Israele è (non: è stato) in alleanza con Dio secondo l’antico
patto non decaduto, cosa pensare ebraicamente del nuovo patto? Il riconoscimento
cristiano dell’esistenza di un’alleanza mai revocata è un passo necessario, che però non
chiude il problema del significato del nuovo patto e dei rapporti tra i due patti. Quale
ruolo salvifico ha per gli ebrei la passione del Cristo? Salvati attraverso la Torah o
attraverso la Croce?
E poi: i cristiani si limitano a comprendere il ruolo ebraico solo come quello di
testimoni e trasmettitori inconsapevoli di un’alleanza che li supera e li emargina? Come
portatori di un dono che è passato ad altri e su cui infine saranno da Dio chiamati a
convergere? Come dire la comprensione che la rivelazione neotestamentaria ha di sé
senza che ciò suoni offesa all’altro? E come conciliare l’assunto dell’unicità del Cristo
per la salvezza e quella della permanenza dell’antica alleanza ebraica? Può la salvezza
essere concepita in maniera non cristologica? La missione ad gentes che spinge la
Chiesa cattolica verso tutti concerne anche gli ebrei, oppure essi stanno già in
un’alleanza salvifica con Dio?
Su queste grandi e difficili domande il Concilio non si è soffermato. Nostra aetate non
parla della religione ebraica, ma del popolo ebraico, d’Israele, naturalmente citando i
capitoli di Paolo nella lettera ai Romani per cui gli ebrei non sono rigettati e le
promesse di Dio sono senza pentimento.
Con l’avvio a soluzione del problema dell’antisemitismo e antigiudaismo cristiano
verrà forse emergendo con nuova intensità il significato religioso e il mistero del nesso
tra popolo della Sinagoga e popolo della Chiesa.
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NOTE
(1) Il contadino della Garonna, Morcelliana, Brescia 1969, p. 11.
(2) Ho ripreso alcune righe del mio saggio “Presenza di Tommaso d'Aquino in G.B.
Montini”, Studium, n. 3, 1999, pp. 365-368. Lo studio di Michel Cagin, presentato al
colloquio “Montini, Journet, Maritain: une famille d’esprit”, Molsheim, 4-5 giugno
1999, promosso da: Istituto Paolo VI, Fondation du cardinal Journet, Cercle d’études
Jacques et Raïssa Maritain, è ora pubblicato nel volume degli Atti delle giornate di
Molsheim (il titolo del volume è quello del colloquio), a cura dell’ Istituto Paolo VI e
delle edizioni Studium, Brescia 2000, pp. 44-88.
(3) V. Possenti, "Jacques Maritain e la ‘questione ebraica’ ", in Aggiornamenti Sociali,
n. 3, marzo 1992, pp. 227-242, pubblicato con lo stesso titolo anche nel volume AA.
VV., I cattolici e la lotta all’antisemitismo, a cura di G. Galeazzi, Massimo, Milano
1992, pp. 31-54. Questo volume, che ospitai con gioia nella collana “Scienze umane e
filosofia” da me diretta presso la Massimo, venne presentato a Roma il 9 dicembre 1992
presso la libreria Ave in via della Conciliazione.
Altri spunti su Maritain e Israele sono nella mia introduzione a J. Maritain, Il mistero
d’Israele, nuova ed. ampliata, Massimo, Milano 1992, pp. 5-15, e nell’introduzione a J.
Maritain, Questioni di Coscienza, Vita e Pensiero, Milano 1980, pp. 7-35, in specie 1523.
(4) Varcare la soglia della speranza, Mondadori, Milano 1994, p. 111.
(5) Lo scritto venne dapprima inserito nel volume collettivo Les Juifs (Paris, Plon 1937)
e poi in Questions de Conscience (Paris, Desclée de Brouwer, 1938).
(6) Le mystère d’Israël, DDB, Paris 1990, p. 121. A questo libro faremo riferimento,
salvo indicazione contraria. Successivamente con un saggio introduttivo di P. VidalNaquet è stato pubblicato il volume J. Maritain, L’impossible antisémitisme, DDB, Paris
1994, che include solo il testo con lo stesso titolo del 1937. Sulla questione
dell’antisemitismo si veda anche Y. Chevalier, “Jacques Maritain e l’antisemitismo”, in
AA. VV., Jacques Maritain: la politica della saggezza, a cura di V. Aucante e R.
Papini, Rubbettino, Soveria Mannelli 2005, pp. 157-179.
(7) "Avversò ogni ideologia. Una riflessione sulla cultura di Sant'Ignazio", Segnosette,
n. 22, 4 giugno 1991, p. 15. Lo stesso autore in un altro articolo osserva: "Dobbiamo...
prendere più viva coscienza del rapporto che lega la Chiesa a Israele e del posto che a
Israele è affidato nel piano divino di salvezza: si tratta di un compito teologico di
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primaria importanza", "La Chiesa si interroga sul Vangelo di libertà da offrire
all'Europa", Segnosette, n. 45, 3 dicembre 1991, p. 17. Le frasi del Card. Martini
disegnano con chiarezza i due compiti aperti dinnanzi alla riflessione cristiana su
Israele: il suo significato nella storia del mondo, e quello nella storia della salvezza. La
riflessione di Maritain ha contribuito ad aprire piste nuove su entrambi questi aspetti.
(8) Il senso della storia, Jaca Book, Milano 1971, p. 74.
(9) In un appunto del periodo gennaio-marzo 1906, si legge: "Il grande ostacolo al
cristianesimo sono i cristiani. Ecco la spina che mi trafigge. I cristiani hanno
abbandonato i poveri - e i poveri tra le nazioni: gli Ebrei - , e la povertà dell'anima: la
Ragione autentica. Essi mi fanno orrore... In una situazione simile, è necessario
raddoppiare in sottomissione interiore, in attesa, in amore alla Chiesa", Carnet de Notes,
DDB, Bruges 1965, p. 40. Non va neppure dimenticato che ancor prima di incontrare la
futura sposa, Maritain fu un ardente "dreyfusardo".
(10) Queste pagine, nonché una lettera del 1972 ad André Neher, sono state incluse
nella nuova, già citata edizione di Le mystère d'Israël, che così comprende, ad
eccezione di alcuni testi minori, l'insieme delle posizioni di Maritain su Israele. Peraltro
dopo la sua pubblicazione il n. 23 dei Cahiers Jacques Maritain (octobre 1991) ha
offerto nuovi materiali, ad esempio un rapporto di Maritain sul sionismo, indirizzato nel
1925 a Pio XI, una nota sull'antisemitismo per Mons. Montini (1946), il dibattito tra il
filosofo e Charles Journet sullo Stato d'Israele e sul significato del dono da parte di Dio
della terra di Canaan alle tribù d'Israele, cui faremo riferimento oltre.
(11) Sulla decisività della lettura di Le salut par les Juifs (ristampato a proprie spese dai
Maritain nel 1906), è bene ascoltare Raïssa Maritain: "Leggemmo questo libro in
campagna nel mese di agosto del 1905. Esso ci scoprì San Paolo e quegli straordinari
capitoli IX, X e XI dell'epistola ai Romani, da cui Léon Bloy prese il titolo e in cui si
incontra l'esegesi del libro Le salut par les Juifs... Léon Bloy era persuaso, ed a giusta
ragione, che il suo libro fosse, «a parte l'ispirazione soprannaturale... la testimonianza
cristiana più energica e più pressante in favore della stirpe primogenita, dopo l'XI
capitolo di San Paolo ai Romani “. Egli lo interpretava come una voce cristiana in difesa
di Israele, affermante che non vi sono prescrizioni per le promesse divine. D'altra parte
Raïssa osserva che egli "ha provato a lungo l'orrore del medioevo per il popolo ebreo",
esprimendolo "in termini talvolta inammissibili" che contaminano con iperboli ed errori
Le salut par les Juifs (I grandi amici, Vita e Pensiero, Milano 1956, p. 105 ss., 108 s.).
Ma l'essenziale era stato trasmesso, e la lettera ai Romani sarà sempre per Maritain il
cardine di ogni sua meditazione su Israele, sebbene egli abbia poi preso le distanze da
alcune posizioni di Bloy. Scrivendo nel 1918 ad un amico (il P. Franck del seminario
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francese in Roma) egli le condensa così: "Oggi, pur mantenendo altrettanto affetto e
gratitudine per Léon Bloy, non intraprenderei la ristampa di questo libro la cui oscurità,
che mi sembrava un tempo piena di profondità, mi è divenuta, allorché ho conosciuto
ciò che è veramente il mistero della fede, profondamente antipatica e di cui io rigetto
formalmente certe idee concernenti in particolare un futuro avvento dello Spirito Santo
e un futuro compimento della Rivelazione, concetti d'altra parte eccessivamente vaghi e
informi, sui quali Bloy stesso non ha mai voluto e non avrebbe mai saputo spiegarsi. E'
tuttavia troppo chiaro che non ha mai avuto l'idea assurda di un 'fallimento reale della
Redenzione'; ma soltanto di un 'fallimento apparente'" (citato in Jacques Maritain et ses
contemporaines, DDB, Paris 1991, p. 31 s).
(12) P. 289. Scrive in proposito la Dichiarazione Nostra Aetate: "Come attesta la Sacra
Scrittura, Gerusalemme non ha conosciuto il tempo quando è stata visitata; gli Ebrei, in
gran parte, non hanno accettato il Vangelo, ed anzi non pochi si sono opposti alla sua
diffusione. Tuttavia, secondo l'Apostolo, gli Ebrei, in grazia dei Padri, rimangono
ancora carissimi a Dio, i cui doni e la cui vocazione sono senza pentimento" (n. 4).
(13) Nostra Aetate, n. 4. Le affermazioni rilevanti della Dichiarazione non sono poche;
forse essa avrebbe potuto più apertamente riconoscere, oltre all'abominio dell'olocausto
nazista, la lunga serie di colpe e omissioni dell'antisemitismo specificamente cristiano
ed esprimere un'umile domanda di perdono. L'antisemitismo viene certo deplorato,
senza però un richiamo esplicito alle colpe dei cristiani.
Né è semplice curiosità annotare che le incisive parole di Pio XI: "Attraverso il Cristo
e nel Cristo, noi siamo la discendenza spirituale di Abramo. L'antisemitismo è
inammissibile. Spiritualmente, siamo tutti semiti", pronunciate il 6 settembre 1938 e
riferite da varie riviste cattoliche, non furono riportate dall' "Osservatore Romano" e
dalla "Civiltà Cattolica". (Cfr. G. Martina, La Chiesa nell'età dell'assolutismo, del
liberalismo, del totalitarismo, Morcelliana, Brescia 1970, p. 280, nota 19). In proposito
si può aggiungere che Maritain desiderò considerarsi non solo spiritualmente ma anche
etnicamente ebreo. Così scrisse nel 1967 ad un ebreo cristiano: "Io sono dei vostri, sì, ebreo per amore (non dico soltanto 'spiritualmente' semita, come è ogni cristiano, ma
'etnicamente' ebreo, legato nella mia carne e nella mia sensibilità alle tribù d'Israele e al
loro destino quaggiù)" (Cahiers Jacques Maritain, n. 23, p. 41 s.). E quasi trent'anni
prima (dicembre 1938) alla domanda della rivista The Commonweal se Maritain fosse
ebreo (per comprenderla occorre osservare che il governo franchista lo aveva accusato
di essere un ebreo convertito), il filosofo risponde: "Ahimé! no, non sono ebreo. Me ne
dolgo perché è un grande privilegio essere della razza di Gesù Cristo e della Santa
Vergine" (Oeuvres complètes, vol. VII, p.1086).
B. Lewis osserva: "Oggi vi sono alcuni segni che il virus antisemita che ha infettato la
cristianità quasi sin dall'inizio possa essere alla fine sulla via della guarigione; per un
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triste paradosso, lo stesso profondo odio religioso ha ora assalito il corpo sinora
resistente dell'Islam. Può essere che il momento della scelta sia passato e che il virus sia
già entrato nel sangue dell'Islam per avvelenarlo per le generazioni del futuro così come
la cristianità ne è stata avvelenata per le generazioni del passato", Semiti e antisemiti, Il
Mulino, Bologna 1990, p. 292.
(14) "L'odio dei nazisti verso gli Ebrei si maschera sotto un'infinità di pretesti, ma nella
sua vera natura è un odio soprannaturale, un odio satanico che detesta gli Ebrei perché
essi sono il popolo di Dio e hanno dato Cristo al mondo: è il travestimento
psicopatologico di una cristofobia” (p. 194).
(15) Genealogia della morale, Adelphi, Milano 1988, p. 24; la citazione precedente è a
p. 23.
(16) p. 153. E anche: "Agli occhi di un cristiano che si ricorda che le promesse di Dio
sono senza pentimento, Israele continua con la sua missione sacra: ma nella notte del
mondo, che ha preferito a quella di Dio. Gli occhi bendati, la Sinagoga cammina ancora
nell'universo dei disegni di Dio" (p. 32).
(17) Rm, 11, 25-26. In proposito la Bible de Jérusalem osserva che Paolo ha sempre di
mira le due collettività: il blocco del mondo giudaico e l'insieme del mondo pagano.
Nostra Aetate insegna: "Con i Profeti e con lo stesso Apostolo [Paolo] la Chiesa attende
il giorno che solo Dio conosce in cui tutti i popoli acclameranno il Signore con una sola
voce e 'lo serviranno appoggiandosi spalla a spalla' (Sof 3, 9)".
(18) Commentando la corsa dei due apostoli Pietro e Giovanni alla tomba del Signore,
Tommaso d'Aquino scrive: "I due popoli, il popolo ebreo e quello dei Gentili, sono
simbolizzati, alla tomba di Cristo, dai due apostoli. Essi corrono al Cristo simultaneamente attraverso le età: i Gentili mediante la loro legge naturale, gli Ebrei in
virtù della loro legge scritta. I Gentili, come Pietro, che arriva secondo al Sepolcro,
pervengono più tardi alla conoscenza di Gesù Cristo, ma, come Pietro, entrano per
primi. Il popolo ebreo, il primo a conoscere il mistero della Redenzione, sarà l'ultimo
convertito alla fede del Cristo... Allora, dice il Vangelo, Giovanni entrò; Israele non
deve restare eternamente all'ingresso del Sepolcro. Dopo che Pietro vi sarà entrato, vi
penetrerà lui stesso, perché alla fine gli Ebrei, anche essi, saranno raccolti nella fede".
In Joan., XVIII, lect. I.
(19) Il mistero di Israele, Morcelliana, Brescia 1964, p. 120. Il capitolo da cui traiamo
questa citazione ("L'antisemitismo come problema per gli Ebrei") non figura
nell'edizione francese del 1990.
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(20) Il senso della storia, p. 88. Secondo N. Berdjaev il popolo ebraico ha introdotto
nella vita terrestre il principio dello "storico" in un modo tale che è impossibile
addivenire ad una spiegazione materialista della storia giudaica: essa si oppone senza
mezzi termini al materialismo storico. Il filosofo russo ha peraltro colto i forti rinvii tra
messianismo socialista e messianismo giudaico: "il messianismo socialista ha radici
giudaiche e nel mondo cristiano significa attesa del falso Cristo, attesa dell'anticristo"
(p. 89); ha inteso che l'antisemitismo non capisce tutta la portata religiosa della
questione ebraica (cfr. p. 90), e compreso l'indissolubile solidarietà tra destino del popolo ebraico e destini della storia cristiana e viceversa (questo è un punto del più alto
rilievo, perché in passato i cristiani hanno cercato di espellere come estranea e
irrilevante per la storia cristiana la vicenda dell'ebraismo). Rimane comunque singolare
e difficilmente spiegabile la mancanza di ricorso esplicito di Berdjaev all'insegnamento
di Paolo nella Lettera ai Romani, dal momento che egli intende elaborare una filosofia
religiosa della storia, in cui la vicenda religiosa del popolo ebraico è centrale: "Il popolo
ebraico respinse il Crocefisso e finì per essere esso stesso crocefisso nel suo destino" (p.
86).
(21) Su questo dibattito cfr. Regards sur Israël, Cahiers Jacques Maritain, n. 23, pp.
33-39.
(22) Ph. Chenaux, "Paul VI et Maritain", in AA.VV., Jacques Maritain et ses
contemporains, p. 332. Il testo della lettera di Maritain a Mons. Montini è ora nei
Cahiers Jacques Maritain, n. 23, pp. 31-33. Il filosofo francese ribadisce il “carattere
eccezionalmente grave, e in qualche modo soprannaturale, dell’odio di cui Israele è
l’oggetto da parte dell’antisemitismo a cui Hitler e Rosenberg hanno dato la più
selvaggia forza”; riprende l’idea che l’odio contro il Cristo s’è sviluppato prima di tutto
contro il popolo che ha dato al mondo Mosè e i profeti e da cui è nato secondo la carne
il Cristo. Comprende le ragioni che durante la guerra spinsero Pio XII ad astenersi “di
parlare direttamente degli Ebrei e di richiamare direttamente e solennemente
l’attenzione dell’universo sul dramma d’iniquità che si svolgeva a loro riguardo”. Ma
ora che il nazismo è stato vinto, e le circostanze sono mutate, Maritain chiede che il
papa faccia intendere la sua voce. Egli domanda a Pio XII tramite Mons. Montini non
soltanto di condannare l'antisemitismo che giudica tutt’altro che spento ed anzi in
ripresa, ma di testimoniare della sua compassione verso il popolo di Israele e di
richiamare al mondo la dottrina di S. Paolo e gli insegnamenti della fede sul mistero
d'Israele (cfr. p. 31s).
(23) Cfr. p. 291. Anche G. La Pira ha percepito quasi contemporaneamente la grande
novità, tale da costituire un riorientamento nella storia universale, rappresentata dal
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ritorno di Israele in Palestina. In una lettera alle monache di clausura del 1961 l'allora
sindaco di Firenze osserva: "Io resto sempre «stordito», come si dice, quando rifletto
pensosamente sopra il mistero storico più evidente d'oggi: il ritorno di Israele in
Palestina. E' un «segno dei tempi» di tale gigantesca grandezza da lasciare davvero
«storditi» tutti coloro che cercano di scrutarne il valore! Che cosa significa nel piano di
Dio?" (Lettere alle claustrali, Vita e Pensiero, Milano 1978, p. 274).
Per La Pira vi è una connessione tra la nuova età della Chiesa, che seguirà alla
reintegrazione di Israele, e la nuova età del mondo, che avverrà con l'ingresso della terra
nella pace e nella fraternità. La nuova età della Chiesa sarà anche nuova età del mondo e
viceversa: "Ecco, Madre Reverendissima, il senso ultimo - ci pare! - degli eventi dei
nostri tempi: cioè essi confermano ogni giorno, attraverso tanti segni, l'esistenza di
questo "comando" di Dio, di questo disegno di Dio: quel comando e quel disegno di cui
quasi profeticamente parla Pio XII (primavera storica e estate storica); di cui è segno
tanto marcato il Concilio Vaticano II; di cui sono segni così marcati gli eventi politici,
tecnici e scientifici (eventi spaziali) di questi ultimi tempi e di questi ultimi giorni: quel
comando e quel disegno in cui è disposto, appunto, l'ingresso di tutto Israele - cioè di
tutti i popoli della terra: Israele antico e nuovo - nella terra promessa della pace e della
fraternità; in cui è disposto, cioè, l'ingresso della storia del mondo in una stagione
nuova (di primavera) che avrà per caratteristica essenziale lo sradicamento della guerra
e la trasformazione degli strumenti di distruzione in strumenti di edificazione (le spade
in aratri: Is 2,1 ss). L'epoca nuova che vedrà gradualmente fiorire nella grazia di Cristo
tutti i popoli; che vedrà, cioè, la resurrezione di Israele (Rom 11) e l'ingresso di Ismaele
e di tutti i popoli nella comune casa del Signore; che vedrà imbarcati nella barca di
Pietro - per la grande "avventura" storica del tempo nuovo - tutti i popoli e tutte le
nazioni della terra!" (lettera del 30 settembre 1962, p. 333).
(24) Sul focolare palestinese e il sionismo, che non è chiamato a far nascere uno Stato
politico, l’intervento del 1943, pubblicato col titolo “In the Scales of Justice” (in United
Palestine Appeal Yearbook for 1943, New York) è esplicito: “Io non penso che il
sionismo possa apportare una soluzione ai problemi di tutta la massa di Israele, né che
rappresenti la fine della Diaspora, ma sono convinto che il sionismo rivesta
un’importanza storica di primo piano; il ritorno in Palestina è il preludio della
liberazione dall’esilio. Il sionismo è chiamato non a far nascere uno Stato politico alla
maniera di quelli dei Gentili (il cui nazionalismo, del resto, non è una benedizione per
l’umanità), ma piuttosto a diventare un giorno il centro animatore di tutta la giudaicità
dispersa. Ma ciò che importa soprattutto oggi è il rifugio che la Palestina può e deve
offrire alle masse dei perseguitati che sono in una terribile disperazione, insieme alla
base temporale richiesta per la cultura indipendente, la coscienza e lo spirito del popolo
ebraico. E’ da questo punto di vista che tutti i problemi relativi al focolare palestinese
devono soprattutto essere considerati oggi”, Oeuvres complètes, vol. XVI, p. 533.
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Ma già in una lettera dell’autunno del 1925 al P. Hugon, pregato di far avere a Pio XI
un rapporto di Maritain sul sionismo, si prevede che quest’ultimo “è destinato a
trionfare in Palestina”, a testimonianza che il prosionismo maritainiano fu di antica data.
Su questi aspetti cfr. il Cahiers n. 23, più volte citato, che alle pp. 27-33 pubblica la
lettera al P. Hugon e il rapporto a Pio XI.
(25) Il filosofo francese prosegue così: "La fede cristiana ritiene in effetti che lo Spirito
Santo è l'autore principale della Scrittura; e per grande che si possa rendere il ruolo
strumentale giocato nella sua redazione dal condizionamento umano - costumi e
mentalità di questa o quella epoca - di cui si occupano l'esegesi e la storia, resterà
sempre che l'intenzione dell'autore ispirato dallo Spirito Santo non sembra dubbia: il
Creatore del cielo e della terra ha donato la Terra Promessa agli Ebrei con un libero
decreto della sua volontà" (p. 243 s.).
(26) "Temporale e secolare, lo Stato d'Israele lo è in linea di principio e di diritto; non lo
sarà veramente, di fatto, che quando sarà riuscito a liberarsi dalle pressioni teocratiche
esercitate da una minoranza detta "ortodossa" che, invece di lavorare sul piano religioso
alla riscoperta dei valori eterni senza di cui nessuna funzione o missione spirituale è
concepibile, si ostina a voler imporre, sul piano politico, un qualche simulacro di Stato
sacrale... " (p. 246 s.). "Lo Stato d'Israele, in quanto Stato, non è che uno stato come gli
altri", sebbene la sua esistenza sia ritenuta da Maritain cosa giusta e necessaria (cfr. p.
284). Un documento ufficiale della Santa Sede in materia (Ebrei e ebraismo nella
Chiesa cattolica, documento del Segretariato per l'unione dei cristiani del 24 giugno
1985) si esprime nei termini seguenti: "Per quanto si riferisce all'esistenza dello Stato
d'Israele e alle sue scelte politiche, esse vanno viste in un'ottica che non è di per sé
religiosa, ma che si richiama ai principi comuni del diritto internazionale".
(27) Ho pubblicato le due lettere nel mio Profili del Novecento. Incontri con Bobbio,
Del Noce, Lazzati, La Pira, Maritain, Sturzo, Effatà, Cantalupa 2007, pp. 72-77.
(28) Qualche breve notizia in merito si trova nella mia introduzione a J. Maritain,
Ragione e ragioni, Vita e Pensiero, Milano 1982.
(29) Cfr. ad es. M. Dubois, "J. Maritain e il mistero d'Israele", in AA.VV., Jacques
Maritain oggi, a cura di V. Possenti, Vita e Pensiero, Milano 1983, pp. 440-455. E
anche la testimonianza di G. Dossetti che, aderente alla Resistenza, legge nel 1943 il
saggio "L'impossibile antisemitismo", pubblicato nel volume Questions de conscience
(DDB, Paris 1938), considerandosi da allora debitore di Maritain per la lettura del
problema ebraico.
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(30) Mentre l'interpretazione d’Israele per la storia temporale sembra compiutamente
assestata già nel 1937, sono riscontrabili ritocchi e approfondimenti sul significato
religioso di Israele, che sboccano nell'idea di due popoli di Dio affratellati e riuniti da
comuni persecuzioni e comuni dolori (cfr. p. 295 s.). E più intensa diviene la
meditazione alla luce della regola di non separare mai il mistero d’Israele e il mistero
della Chiesa, perché in un futuro racchiuso nel grembo di Dio i suoi due popoli ne
formeranno uno solo.
In un breve testo del 1921 "A propos de la question juive" (Comunicazione alla
"Semaine des Ecrivains Catholiques", pubblicata poi con completamenti ed
aggiornamenti nel 1926 ed ora raccolta nelle Oeuvres complètes, vol. II, pp. 1196-1203,
ma non inserita in Le mystère d'Israël), Maritain distingueva due aspetti - uno politicosociale ed uno spirituale-teologico - della questione ebraica, avanzando un giudizio
complessivamente severo sul primo, a motivo della presenza di spirito ebraico nella
maggior parte dei grandi movimenti rivoluzionari dell'epoca moderna, in cui si esercita
una volontà di distruzione. Mentre il filosofo francese esprime la persuasione che non ci
si possa attendere un attaccamento reale degli ebrei al bene comune della civiltà
occidentale e cristiana, richiede pure che si rifletta senza odio sul problema ebraico,
evitando sia di scatenare le passioni popolari, sia di individuare negli ebrei l'unica causa
dei mali presenti, come se le infedeltà ben gravi dei cristiani non esistessero. Già si
avverte in nuce il principio ermeneutico, ripreso, sviluppato e affinato nel 1937,
secondo cui negli ebrei la speranza messianica e la passione per la giustizia assoluta
tendono a spostarsi dal piano soprannaturale a quello temporale, operando come
fermento di attivazione e di rivoluzione.
Quanto all'aspetto spirituale-teologico, esplicito è il ricorso a san Paolo e il memento
che i cristiani sono innestati su un tronco ebraico, quello dei profeti, della Vergine,
degli apostoli, di Gesù: "Più la questione ebraica diviene politicamente acuta, più è
necessario che la maniera con cui trattiamo tale questione sia proporzionata al dramma
divino che evoca" (p. 1199).
(31) "E' necessario che i cristiani comprendano veramente che Dio non ha rifiutato, ma
continua sempre ad amare i figli di Israele, e che è il suo amore che ha permesso tale
lunga passione; ed è necessario che gli ebrei comprendano veramente che non è la
volontà di potenza ma la carità del Cristo, che anima gli sforzi della Chiesa verso gli
uomini" (p. 292).
(32) Intervento al convegno "A 50 anni dalla legislazione razziale italiana – Il
contributo di Jacques Maritain alla lotta contro l'antisemitismo", promosso dall'Istituto
Italiano Maritain, Ancona, 5 aprile 1990, poi in AA. VV., I cattolici e la lotta
all’antisemitismo, a cura di G. Galeazzi, Massimo, Milano 1992, p. 17.
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