sulla guerra di Spagna INTERVISTA A GIOVANNI PESCE e ANELLO POMA, 1975: (a cura di Paola Olivetti - Trascrizione di Ivana Solavagione (*) Pubblicata sulla rivista: "Mezzo secolo". Annali 1994/1996. Per note biografiche dei combattenti citati nell'intervista cercare su: "La Spagna nel nostro cuore" - Paola Olivetti - MEZZO SECOLO Annali 1994/1996 - 25/11/2002 - Paolo : Direi che puoi cominciare a raccontarci a grandi linee qual è stata l’esperienza attraverso cui sei passato, una specie di breve nota biografica. Poma : Mi chiamo Anello Poma; c’è già un elemento di stortura nel nome perché Anello è uno sbaglio di anagrafe: il nome sarebbe Nello, poi non lo so come capita, gli sbagli di anagrafe te li porti dietro tutta la vita. Comunque, io sono nato a Biella, il 27 luglio 1914, da famiglia operaia: mio papà era un calzolaio, mia mamma era una tessitrice. L’ambiente operaio è quello dove io sono cresciuto, abitavo in uno dei quartieri più popolari di Biella, dove c’erano le cosiddette “ligiere”, e i prodromi della lotta di classe li ho sentiti fin da bambino, per il fatto che la frutta se non andavi a grattarla non la potevi mangiare – in quei tempi la situazione era quella – e poi perché la scuola, così com’era allora e, in parte anche così com’è adesso, creava un ambiente in cui ti sentivi un elemento emarginato, frustrato; allora reagivi facendo a botte con quelli che erano più ricchi di te, perché questi, pur essendo figli di industriali, magari venivano a scuola con noi e evidentemente godevano di particolare protezione da parte dei maestri e facevano i prepotenti: a me la prepotenza non andava, e allora giù botte. Ecco questo fu l’ambiente in cui sono cresciuto fino all’età di dodici anni, quando ho cominciato le prime esperienze di lavoro come garzone di lattoniere fino al compimento dei quindici anni, quando l’esigenza del guadagno immediato spinse la mia famiglia a mandarmi in fabbrica. Entrai nel lanificio Rivetti, che era lo stafili. Gli attaccafili, fra l’altro, erano una categoria particolare nelle lotte operaie, diciamo a cavallo fra gli anni che precedono e seguono la Prima guerra mondiale. Secchia, in un suo scritto, li chiamava un po’ la pattuglia d’assalto, perché da quei reparti partivano sempre i la per tutti gli scioperi, era la parte, da un lato, la meno qualificata e dall’altro però la più combattiva, quella che aveva più mordente. Ed entrai in questo stabilimento, in questo reparto. Tuttavia eravamo già nel ’29, quindi ogni manifestazione di azione autonoma della classe operaia ormai era stata completamente stroncata e l’ambiente era molto teso, molto cupo, l’oppressione si faceva fortemente sentire. Divenni in seguito operaio e cominciai a sentire i primi elementi di contraddizioni, che sono propri di questa società divisa in classi, dal fatto che quando divenni operaio si entrò praticamente nella grande crisi del ’29-34, che in Italia significò un ulteriore gravissimo colpo ai salari, con una decurtazione prima del 20%, poi ancora del 20% nel ’30 poi nel ’31 ancora un’altra riduzione. Morale: quando nel 1930 divenni operaio avevo sedici anni e prendevo 16 lire al giorno; a vent’anni prendevo 10,35. Ecco, questo era il clima, in sostanza, in cui si viveva in quegli anni di più cupa oppressione fascista e in cui la classe operaia sentiva più di ogni altra classe il peso di questo regime, perché si ripercosse indirettamente in modo pesante sul tenore di vita, in quanto il regime fascista riuscì, è vero, a realizzare una stabilizzazione dei prezzi, ma non una riduzione dei prezzi. Invece io passai dalle 16 lire al giorno alle 10 e quindi con un taglio così poderoso; insomma, nelle condizioni di vita che, evidentemente, pesavano su un giovano, che allora si affacciava alla vita e che aveva le esigenze che hanno i giovani di diciotto-vent’anni. E fu appunto intorno agli anni Venti, cioè nel 1934, che cominciai a entrare in contatto con gente che non parlava il linguaggio ufficiale del regime, che aveva accenti di opposizione, e cominciai a soddisfare le mie prime curiosità. Certo, mio papà era stato socialista, tiepido finchè si vuole, comunque di tendenza socialista, e quindi di qualcosa avevo sentito già parlare in famiglia; ma fu nella fabbrica che cominciai, per esempio, a scoprire le distinzioni fra comunista e socialista e dove cominciai a entrare nell’orbita di quella che era la politica del partito comunista, non già per una scelta ideologica, in quanto non ero affatto maturo per una scelta di tal genere, ma in quanto, essendo giovane e quindi di temperamento combattivo, ero necessariamente portato ad aderire alle istanze e alla posizione di coloro che manifestavano maggiore combattività: i comunisti, ecco; cominciavamo a sapere che andavano in galera e i socialisti stavano bravi; io ero dalla parte di quelli che andavano in galera, che combattevano, che in sostanza prendevano una posizione netta contro il regime. Poi venne a casa un militante comunista che aveva scontato sei anni e mezzo di carcere e venne a casa appunto nel 1934; perché vi era stata nel decennale una grossa amnistia e questo qui vide ridursi dodici anni e mezzo di carcere, che s’era beccato dal tribunale speciale, a una effettiva condanna, che scontò, di sei anni e mezzo. Altri beneficiarono ancora di maggiori riduzioni delle loro pene. Questi era un giovane ancora perché venne a casa che aveva 29 anni, era del 1905 e venne a casa nel ’34. Era un temperamento molto vivace, sapeva legare con la gente e legò con un gruppo di noi giovani, naturalmente con una certa, diciamo così, precauzione, cercando di non comprometterci e di non compromettere se stesso in quanto, appena uscito, non aveva naturalmente nessuna voglia di tornare in carcere. Tramite un mio amico, che lavorava in fabbrica con lui, presi contatto e diventammo molto intimi e lì maturai, cominciai ad avvicinarmi alle prime letture: il Manifesto dei comunisti, poi la letteratura populista di tipo sociale, dai libri di Jack London a La Madre di Gorkij, a tanti altri tipi di letteratura e cominciai anche a prendere conoscenza con i primi giornali clandestini: “L’Unità”, che allora veniva stampato in un foglio di piccolissimo formato, dove cominciai a prendere conoscenza di quelli che erano gli aspetti della lotta antifascista e nell’emigrazione e nel paese e, naturalmente, questo mi rese anche più attento alla lettura dei giornali che si stampavano in Italia e che raccontavano la vita politica del paese sul piano internazionale, cominciando ad essere attratto dalle vicende della vita internazionale. Non so se vale a dire quali sono i tratti che più ti rimangono impressi e che evidentemente rafforzavano la scelta che intanto stavi maturando e che diventava definitiva, di una milizia politica. Mi ricordo che, quando vi furono le elezioni in Inghilterra, mi pare – non so, nel ’32 – e si costituì il primo governo laburista inglese Mc Donald (ma io non son capace di parlare inglese), una corrispondenza che mi colpì profondamente e incise in me fu un reportage, da Londra, che riprendeva un commento del “Times”, e rivolgendosi ai laburisti diceva: “Ricordate che voi siete al governo, non al potere”; ecco, fu tutto un programma, così, ti diede già una prima dimostrazione dei limiti che rappresentava l’ascesa al potere di un partito che pure era un partito di estrazione operaia. In questo modo io crebbi, mi formai i primi elementi di maturazione politica. Ed è chiaro che la guerra di Spagna accelerò questo processo, anche perché rappresentò un po’ una svolta nel paese, ricreò un clima di maggior distensione, in quanto alimentò le speranze nell’ambiente antifascista e nell’ambiente operaio. Paolo: Scusa una cosa. Invece la guerra d’Africa, l’Abissinia, secondo te, non era stata sentita in modo particolare? Poma: No, non particolarmente. Il fatto è questo: la guerra d’Africa non è che convinse molto la gente, specialmente io parlo sempre dell’ambiente operaio, non vado in altri ambienti, se non per dire ad esempio che uno dei nostri sfoghi quotidiani avveniva nei giorni di carnevale, in quanto era un’occasione per fare a botte con gli studenti. Gli studenti, allora, non erano come adesso e siccome questi rompevano sovente l’anima con le loro manifestazioni nelle quali sfilavano per la città, inneggiando i gridi di guerra del fascismo, le rivendicazioni territoriali del fascismo (ricordo che allora era di moda lo slogan: “Vogliamo Nizza, Corsica, Savoia e Tunisia”, cioè proprio tutta l’impostazione revanscista nei confronti della Francia; questo disturbava parecchio in quanto poi c’erano i nostri vecchi che dicevano: “Ecco, quelli gridano, gridano e poi, quando si tratta di andare in guerra, loro restano a casa, in guerra ci andiamo noi”) e questo evidentemente portava ad avere un atteggiamento particolarmente, diciamo così, ostile, nei confronti di questi ambienti studenteschi. E il giorno di carnevale era il giorno buono in cui cercavamo di provocarli per fare a botte: “Carnevale, ogni scherzo vale”, e noi con gli scherzi, in sostanza, i gruppi dei rioni più popolari, cercavamo proprio la rissa con gli studenti per fare a botte perché volevamo dar sfogo a quella nostra carica di malcontento contro chi a volte si rendeva interprete, diciamo, di un certo tipo di politica che ci urtava particolarmente. Per la guerra in Abissinia vi fu molto clamore, molto polverone, ma negli ambienti operai fu considerata un fatto di disturbo, perché poi partivano i soldati per andare a far la guerra e questo è un fatto che non era naturalmente accolto con favore in mezzo agli ambienti operai. E anche le adunate: c’era gente che andava alle adunate a sentire i discorsi di Mussolini perché, così, era diventato di moda e c’era una sorta di pressione psicologica che si faceva sentire e che induceva la gente a parteciparvi. Non è che rappresentò un fatto tale da modificare gli orientamenti che c’erano fra la gente, che era decisamente contraria alla guerra e, quindi, venne salutata con molto favore la fine della guerra, perché significava il ritorno dei soldati. E anche se era nato l’impero, le nostre condizioni rimanevano tali, anzi erano peggiorate, in quanto la guerra inserì la spirale dell’inflazione, cioè crebbero i prezzi, le paghe non vennero ancora ritoccate, se non a fine guerra, cioè nel 1936, ma intanto con l’inizio della guerra tu avevi già risentito immediatamente dei contraccolpi con l’aumento dei prezzi, in conseguenza anche delle sanzioni che erano state adottate nei confronti dell’Italia da parte della Società delle Nazioni e che, se non furono applicate naturalmente con il rigore che si doveva – furono molto blandamente applicate – tuttavia certe ripercussioni si ebbero e i più che ne pagarono le conseguenze furono gli strati più poveri, come capita sempre. Quindi la guerra di Abissinia né modificò il nostro orientamento né servì a consolidare le basi del regime; direi che invece cominciò a mettere in dubbio una certa credibilità. La guerra di Spagna invece sollevò molta speranza, molto entusiasmo, tenendo presente che già c’erano state anche le elezioni in Francia che avevano visto la clamorosa vittoria del Fronte popolare; la Francia era alle nostre frontiere e, per di più, il confine francese non è molto distante; molti biellesi erano emigrati in Francia e quindi arrivava l’eco: non so, il fatto della conquista delle 40 ore, delle ferie, degli aumenti di salari, furono tutti elementi che evidentemente si ripercossero nell’ambiente operaio. La Spagna sollevò, quindi, parecchio interesse e parecchia aspettativa e divenne anche fenomeno di massa, tant’è vero che si sentivano in quei giorni, non so, in occasione per esempio della battaglia di Guadalajara (io ero ancora in Italia), si sentivano dei discorsi dei caporioni fascisti, degli squadristi che parlavano di rispolverare il manganello per dare nuovamente delle lezioni a certa gente che alzava la cresta: era appunto la conseguenza di questo nuovo clima che si andava creando in Italia e, naturalmente, crebbe anche via via la curiosità di sapere come andavano veramente le cose in Spagna. In questo modo scoprimmo Radio Barcellona: io frequentavo un caffè nel mio rione, il rione Riva, si chiamava il Bar Italia, e i più intimi, diciamo così, quelli che erano più legati (il padrone, ovviamente, era consenziente), alla sera, alla mezzanotte si sprangavano le porte del caffè (si tenga presente che allora la radio nelle famiglie operaie non c’era ancora se non in rarissime case) e poi si apriva la radio che c’era nel caffè e si sentiva Radio Barcellona, che portava appunto le notizie dell’andamento della guerra. Di qui anche il formarsi, nell’ambiente giovanile soprattutto, del desiderio di essere partecipi di quella esperienza. Carla: Sentiamo l’esperienza di Giovanni Pesce. Pesce: A un certo momento scoppia la rivoluzione in Spagna e c’è questo appello del movimento antifascista che invita tutti gli italiani ad andare a combattere in Spagna per dimostrare che l’Italia non è quella di Mussolini. Io, che militavo nella Federazione giovanile comunista, anch’io sono italiano, penso che devo fare qualche cosa. Paolo: Ma come sei diventato comunista? Pesce: Quando sono emigrato in Francia, avevo cinque anni e ho vissuto la dura vita dell’emigrazione. Dove abitavo c’erano centinaia di emigrati italiani, dei paesi balcanici, poi della Germania, sfruttati, umiliati, dormivano in sette-otto in queste baracche di legno, uno russava, l’altro era ubriaco, una vita dura. E lì ho imparato, soprattutto a contatto con questi antifascisti, che dicevano che soltanto organizzandosi e lottando si può resistere allo sfruttamento e all’umiliazione delle compagnie capitaliste; ho cominciato a partecipare a queste riunioni, mi sono iscritto alla Federazione giovanile comunista e poi, a tredici anni, sono andato a lavorare in miniera e così ho conosciuto anch’io completamente la dura vita del minatore, e poco per volta mi sono formato una coscienza. Ricordo una sera – era già verso mezzanotte, l’una – io dico a questi lavoratori: “Perché non andate a dormire?”; risponde uno: “Bisogna organizzarsi, lottare, cominciamo anche da te che sei giovane, perché se non ci organizziamo, qui c’è pericolo di essere tutti sopraffatti; e poi lì c’è la silicosi, molti muoiono di silicosi”; ogni giorno, c’era sempre uno o due morti, con il lavoro in miniera, la silicosi li distruggeva. E allora ho cominciato a crearmi questa coscienza politica, a partecipare all’attività del movimento comunista, alla Federazione giovanile comunista francese e all’attività organizzativa. Poi ci fu nel ’36 la guerra di Spagna, la rivolta dei generali traditori e partecipai a tutte le prime grandi manifestazioni di aiuto in segno di solidarietà, alla raccolta dei fondi. Poi a un certo momento leggo un documento dell’antifascismo italiano, forse un documento di Togliatti, che diceva che tutti i veri italiani dovevano andare in Spagna a combattere, a portare un aiuto tangibile per dimostrare che la vera Italia non era l’Italia di Mussolini, era l’Italia degli antifascisti, l’Italia di coloro che non hanno mai ammainato la propria bandiera. Anche se non avevo mai partecipato all’attività politica italiana, essendo italiano, ho sentito che anch’io dovevo fare qualche cosa per il mio paese e ricordo che ho chiesto di partire nell’organizzazione del partito; dicevano che ero troppo giovane per andare, che ci andava gente capace; io scappai. Paolo: Quanti anni avevi? Pesce: Diciott’anni. Arrivando alla frontiera, lì a Figueras se non sbaglio, mi hanno bloccato perché c’era il controllo degli anarchici allora; mi dissero: “Sei troppo giovane, devi tornare indietro”; allora mi sono messo un po’ a piangere; poi mi hanno mascherato, mi han messo il cappello, mi han dato un altro nome e ho detto che avevo 24-25 anni e son riuscito a passare. E lì, per la prima volta, prendo contatto con l’immigrazione italiana, con gli antifascisti italiani. Lì comincio a conoscere un po’ la storia del movimento antifascista italiano perché c’erano sì molti che venivano dalla Francia a combattere in Spagna, ma anche molti italiani che venivano direttamente dall’Italia. E per la prima volta conobbi Longo; ho conosciuto subito Luigi Longo, Nicoletto, Platone, Barontini, il gruppo dirigente del Partito comunista italiano; ho conosciuto Nenni e altri combattenti. E poi ho partecipato alle prime azioni, al primo combattimento che è stato quello del novembre a Boadilla sul Monte, la difesa di Madrid, poi alla Casa del Campo, la città universitaria, a Brunete. Poi siamo andati a Huesca; poi mio papà è morto, ho avuto tredici giorni di permesso per andare a casa. Arrivando alla frontiera mi hanno bloccato; ho dovuto passare per i Pirenei, per le montagne, per raggiungere la mia mamma; dopo 12 giorni sono ritornato, ancora attraverso i Pirenei, in Spagna per combattere, ho partecipato all’azione di Farete, cioè a tutte le battaglie fino alla smobilitazione delle Brigate Internazionali. Paolo: Ecco, in che formazione eri? Pesce: Io sono sempre stato, prima, nel battaglione Garibaldi alla II compagnia e poi, quando si è costituita la brigata, sempre la II compagnia, I battaglione. Ho partecipato in modo particolare, alla battaglia di Guadalajara e ero proprio sulla strada che da Siguenza, così chiamata la strada di Francia, portava direttamente a Madrid e proprio con la mitragliatrice; ho assistito a tutte le scene della battaglia, quando la prima camionetta è passata nelle nostre linee e li abbiamo fatti prigionieri, poi quando i due camion col rancio sono arrivati proprio nella nostra linea e sono stati presi prigionieri tutti i fascisti; ricordo i libri, tutta la roba che c’era dentro, le sigarette che sono state prese per distribuirle a tutti i garibaldini. Paolo: Ma il primo incontro con gli italiani, quando è stato? Pesce: Sì, aspetta che te lo dico. Per me la cosa importantissima, cioè quando c’era l’odio, quando c’era il fascismo, l’odio contro coloro che avevano preso i nostri compagni, che avevano subito il carcere, la cosa che mi ha fatto grande impressione quando c’è stata l’offensiva generale che noi abbiamo sfondato le prime linee e abbiamo catturato centinaia di fascisti italiani prigionieri, ho visto questo grande senso di umanità anche da parte dei garibaldini; questo senso di umanità e solidarietà anche da parte di molti che avevano subito anni e anni di carcere. Io ricordo, mi aveva fatto una grande impressione, c’era un fascista con una gamba rotta che soffriva, implorava e c’era un compagno che aveva fatto 6 o 7 anni di carcere e questo compagno si è fermato, l’ha curato, l’ha lavato, l’ha bendato, l’ha fatto bere, ha detto: “Bisogna portarlo …”. Così, questo senso di umanità, questa differenziazione fra il fascismo e questi compagni; io poi, nella mia ingenuità, gli dicevo: “Tu sei veramente umano, con la gente che t’ha messo in carcere …”; e lui risponde: “Il fascismo non sono loro, il fascismo sono i gruppi monopolistici, Mussolini; non possiamo far cadere la responsabilità sui lavoratori, perché anche questa gente che viene qui a combattere sono stati ingannati”, e questo mi ha fatto una grande impressione, questo senso di solidarietà e di umanità da parte di chi combatteva per una causa giusta. Poi ho partecipato a questa battaglia di Guadalajara, che è una battaglia molto importante, quando i tedeschi, i fascisti avevano sfondato le linee. Ero andato alle Brigate Internazionali, alla Dombroskj, che erano state in gran parte avvicinate, poi c’era stato un aiuto del battaglione Garibaldi e anche lì, vedendo arrivare la cavalleria, molti erano fuggiti, scappati e così – io ero con il compagno Tomàs che comandava allora il distaccamento di mitragliere – ho preso ‘sta mitraglia, l’ho messa in mezzo alla strada e ci siam messi a sparare, sparare da tutte le parti e abbiamo bloccato l’avanzata della cavalleria e poi abbiamo forse salvato la vita a migliaia di combattenti, forse anche lo sfondamento su Madrid, perché la battaglia era veramente impegnata. Paolo: Ecco, ma in quel momento, quando hai fatto questa cosa … Pesce: Io partivo sempre da un principio – forse è stato questo che mi ha salvato la vita anche quando ho fatto il gappista – che, scappando, quello che spara ti può mirare e colpire mentre stare sul posto e aspettare di sparare tu prima ti può salvare. Paolo: In fondo, è una forma di paura rischiare. Pesce: Paura e coscienza, perché vorrei dire, la paura vuol dire coscienza, perché secondo me – ho fatto questo discorso anche l’altro ieri all’università – io ho sempre avuto paura, l’ho tuttora paura, ma proprio perché ho paura viene superata dalla coscienza, cioè capire che questo è il tipo di lotta, è il mezzo di lotta. Ritornando a quella volta, eri preso in un modo che tu, dando un contributo, ti potevi anche salvare, perché non era scappando, fuggendo, nascondendoti che tu davi un contributo, ti salvavi, capisci? Carla: Scusa ancora: Tomàs era il tuo comandante? Pesce: Sì, era il mio comandante. Carla: E chi era questo Tomàs? Pesce: Era un grande combattente; era scappato anche lui dall’Italia in seguito alle persecuzioni dei fascisti, degli squadristi che avevano picchiato suo padre, l’avevano torturato; lui era fuggito, era arrivato in Francia. Era un uomo di grande coraggio che poi è stato comandante del battaglione Garibaldi, comandante della brigata Garibaldi; un friulano di grande coraggio e di grande audacia e che vive tuttora a Marsiglia, tranquillamente, così. L’ho visto dieci anni fa: si è sposato, ogni domenica mattina va a vendere il suo giornale, “L’Humanité”, perché lui è naturalizzato francese. Ha partecipato anche a tutta la Resistenza in Francia ed è una delle figure che purtroppo è dimenticata da tutti ed è stato uno che ha dato un grande contributo in Spagna; è stato il compagno il quale dal ’40 al ’43 ha portato in Italia attraverso le montagne i dirigenti del partito comunista: ha portato Amendola, ha portato Rosaio, ha portato il povero sindaco Dozza, quasi tutti i dirigenti del partito li ha portati, con una modestia, una semplicità. Poi ha partecipato alla Resistenza d’Italia, comandando la brigata della Valtellina e poi lui, dopo la Liberazione, giusto o sbagliato, quei due fascisti che avevano dato l’olio di ricino a suo padre, che avevano picchiato suo padre, lui li ha fatti fuori; poi, purtroppo, la polizia lo cercava, lui è scappato in Francia, si è messo a lavorare e si è ritirato lì, tranquillo. Carla: Quindi, per te è stato un modello questo combattente. Pesce: Sì, per me è stato uno dei più grandi combattenti, ma soprattutto la caratteristica di trovare questa modestia, questa semplicità, questa intuizione, anche se non aveva una grande preparazione teorica, però aveva questa grande intuizione politica e militare e, secondo me, è stato uno dei migliori comandanti che sapeva amalgamarsi con i soldati, con i garibaldini, con ognuno di noi: così, questo suo modo semplice, umano, generoso. Carla: Cos’era: un operaio, un contadino? Pesce: Un operaio, era un muratore. Carla: Quanto ci avete messo a montare la mitragliatrice mentre i mori arrivavano? Pesce: La mitragliatrice era già montata, perché eravamo in linea, andavamo incontro; a un certo momento la cavalleria aveva sfondato le linee tenute dalla Dombroskj e venivano avanti; tutti, la gran parte fuggivano; al via di Tomàs, senza dire niente, piazzammo la mitragliatrice lì, in mezzo alla strada, e cominciamo a bloccare e abbiamo bloccato l’offensiva e questo ha dato la possibilità poi a chi fuggiva di ritornare nelle proprie posizioni e di ricostruire la linea. Paolo: Gli uomini della Dombroskj erano i polacchi? Pesce: Sì, i polacchi; era stata accampata la Dombroskj e poi quella compagnia che si chiamava con il nome di Dimitrov, una compagnia mista: anche lei era stata in gran parte coinvolta in questa offensiva. Paolo: Scusa se torniamo un momento indietro. Ecco, l’organizzazione di questi primi volontari europei antifascisti è stata subito costituita dalla Brigate Internazionali o c’è stata una forma diversa? Pesce: Subito dopo la rivoluzione, sono accorsi in Spagna alcuni gruppi: per esempio c’era la Gastone Sozzi, c’era stato il gruppo di Rosselli in Aragona, a Monte Pelato c’eran questi gruppi di antifascisti, di italiani che erano andati immediatamente e, contemporaneamente, credo che le organizzazioni antifasciste, in particolare il partito comunista abbiano posto l’esigenza di creare la brigata o il battaglione Garibaldi nel nome dell’antifascismo italiano; contemporaneamente affluivano gruppi, personalità, francesi, polacchi, russi, dall’America Latina, dall’Inghilterra – c’era il battaglione Lincoln – cioè da tutte le parti del mondo, da 62 paesi. Carla: Bene, tu hai sempre fatto il mitragliere? Pesce: Sì, sono sempre stato mitragliere. Carla: Eri proprio uno specialista delle mitragliatrici? Pesce: Sì, anche perché così era una cosa … Carla: Ti piacevano. Pesce: No. Forse con la storia che ero giovane, bisogna portarla a spalle ‘sta mitragliatrice e bisogna fare queste lunghe camminate; essendo poi il più giovane, finivo per portarla. Carla: Pesava? Pesce: Sì, pesava, era una di quelle mitragliatrici russe. Paolo: Divise in due pezzi naturalmente. Pesce: Sì, divisa in due pezzi, sì. Poma: Tre pezzi: il carro, la corazza e la canna. Io portavo la corazza, sempre. Paolo: Ancora una cosa: i rapporti tra voi e gli spagnoli? Pesce: Mah, credo che sono sempre stati marginali, anche perché ogniqualvolta noi si andava a riposo in questi paesi c’erano manifestazioni fra i combattenti del battaglione Garibaldi e gli organismi democratici del paese; c’era anche questa solidarietà: noi cercavamo di raccogliere fondi per dare un contributo anche in generi alimentari alla popolazione, ai bambini, c’era proprio questo senso di solidarietà, c’è sempre stato, così …. Paolo: Viceversa, diciamo, le azioni erano coordinate, grosso modo, da un comando … Pesce: Sì, c’era lo stato maggiore. Paolo: Ma poi voglio dire: in questi settori del fronte, ad esempio a Guadalajara, eravate tutte Brigate Internazionali? Pesce: All’inizio, ricorderò sempre, quando una mattina, così, fra di noi, il comandante dice: bisogna raggiungere il posto immediatamente, nessuno sapeva dove si andava. E soltanto quando siamo arrivati a un certo punto ci hanno detto: “I fascisti italiani hanno fatto una grossa offensiva, occorre immediatamente bloccarla”; e ricordo che a un certo momento siamo scesi dai camion e io avevo questa mitragliatrice sulla spalla, ero stanco di queste camminate nei campi; vediamo arrivare due motociclette e chi dice sono i nostri, non sono i nostri, spariamo, non spariamo, tutta una discussione un po’ in questo senso, abbiamo sparato alcuni colpi, li abbiamo fatti prigionieri e veniamo a sapere che i fascisti italiani stavano venendo avanti e lì fu che Barontini ha dato immediatamente l’ordine di sparpagliarsi, di prendere posizione in questa pianura e ci furono questi primi combattimenti fra noi e le prime avanguardie di fascisti italiani. E poi la sera passò una prima camionetta, non sapeva ancora che i garibaldini erano arrivati; abbiamo fatto prigionieri questi italiani con il rancio; poi, il giorno dopo, erano riluttanti a prendere questo camion. Abbiamo fatto un mucchio di prigionieri così, in questo modo. In mezzo a loro c’era questa disorganizzazione. Si dice anche che c’era un gruppo di antifascisti, una cellula comunista che lavorava, che faceva passare nelle nostre linee … Paolo: Questo era vero? Pesce: Mah, io adesso non so; erano supposizioni, per il fatto che sono passati prima dell’offensiva generale 7 o 8 camion direttamente nelle nostre file, che poi sono stati bloccati lì, fatti prigionieri tutti; non si riusciva a capire perché venivano avanti … Carla: Potevano aver sbagliato la strada. Pesce: Sì. Carla: Le solite bande di italiani! Paolo: E quindi erano fascisti? Erano volontari? Pesce: Sì, sì, mercenari. Carla: Ma loro hanno sparato, si sono difesi? Pesce: No, no; soltanto un camion ha sparato e poi siamo andati a catturarli. Ma la cosa bellissima è che c’erano questi combattenti, sono andati via al canto di bandiera rossa, uscendo dalle trincee, proprio sulla strada, sai, a prendere tutti, una cosa molto simpatica. Carla: Per loro non tanto. Pesce: Vedere ‘sta gente che sventolava al canto di bandiera rossa, questi qui che imploravano, tutti che piangevano, tutte queste scene, capisci, in queste scene uno dice: “Io non c’entro niente, m’hanno ingannato, io ci ho moglie con cinque o sei bambini, io non volevo andare, in Abissinia lavoravo”, ma era realtà, era verità, eh! E adesso si capisce anche questa grande umanità da parte nostra nel difendere loro, anche quando c’è stata l’offensiva di carattere generale. Carla: Volevo dire qualcosa a proposito di questo arrivare lì, e non sapere se erano fascisti o meno: era proprio fatta alla garibaldina la cosa … Pesce: Tieni conto che c’era stata un’offensiva precedente dei fascisti che avevano rotto il fronte e non sapevamo neanche noi di preciso dov’era avvenuto … Carla: Quindi non sapevate…. Poma: A un certo punto eravate a Palacio Ibarra …Pesce: C’è stato, sì; mentre noi avevamo preso posizione in quella zona prima dell’offensiva generale, ci fu un grosso combattimento al Castello di Ibarra, un grosso combattimento e i fascisti l’avevano occupato. Poi ci fu la controffensiva nostra della IV compagnia – se non sbaglio – sì, la IV compagnia del battaglione Garibaldi, con l’appoggio di alcuni gruppi della Comune di Parigi francese e alcuni gruppi spagnoli e lo hanno riconquistato, facendo anche numerosi prigionieri. Poi ci fu anche un tentativo di Guerrini, mi sembra, che comandava la compagnia o che era vice-comandante; lui aveva gridato: “Arrendetevi, siete circondati!”, ed era andato avanti; s’avvicina un fascista e gli butta una bomba uccidendolo; visto questo i nostri compagni sono partiti all’assalto e li hanno fatti tutti prigionieri. Paolo: Scusa, avevate delle divise particolari o eravate vestiti come capitava? Pesce: Ma io il primo fronte che ho fatto nel ’36 a Boadilla sul Monte son andato così, come ero venuto dalla Francia, in borghese, senza fucile, perché mancavano le armi e non c’era altro mezzo che catturarle al nemico; poi ci furono le divise, ci fu un esercito regolare, con i suoi gradi. Paolo: La stella rossa? Pesce: No, non so se la stella rossa; so che avevamo le divise, ci hanno obbligati anche a portare i gradi. Ci fu una polemica tremenda; ti ricordi? Diventava un esercito regolare, con i suoi comandanti, i suoi commissari, con il suo stato maggiore, con le divise da ufficiali, da caporale, pinco pallino, non so. Allora protestarono molti garibaldini: “I gradi, che storia è questa?”. E’ logico, noi facevamo parte di questi eserciti regolari spagnoli e dovevamo anche, così, tenere conto di questa situazione. Carla: Allora non solo gli anarchici protestarono … Quello che io volevo chiederti, chiedere a tutti e due, ecco: questa guerra fatta da voi, cioè dalle Brigate Internazionali, secondo voi, era una guerra da manuale, cioè rispondevate alla guerra di Franco con le solite tattiche, oppure già avevate – a parte nelle città – ma dico in campo aperto delle tattiche più vicine alla guerriglia? Ecco, vi chiederei proprio una specie di descrizione militare di come avete condotto la guerra con un esercito di volontari. Poma: Ci sono due fasi: la fase in cui i franchisti stavano tentando il colpo di stato, il popolo risponde, risponde come può, comunque risponde e risponde vittoriosamente. Perché va tenuto presente che i maggiori centri industriali di importanza economica della Spagna rimasero nelle mani della Repubblica: Valenza, Barcellona, Madrid, le Asturie, in sostanza i centri fondamentali, dove erano accentrate le industrie rimasero nelle mani popolari; la ribellione fu soffocata, il popolo vinse. Ora da questa fase in cui il popolo risponde alla ribellione dei franchisti, all’organizzazione di un esercito per fronteggiare, poi, la vera e propria invasione della Spagna che fu promossa dagli italiani e dai tedeschi, direi che c’è un processo di transizione in cui il popolo, tra l’altro, deve ricostruire, quasi da capo, l’esercito; ed è il periodo delle milizie popolari, che è caratterizzato dal fatto che si costituiscono spontaneamente – per iniziativa soprattutto dei partiti e dei sindacati, delle organizzazioni giovanili – delle milizie che sono un’emanazione di queste organizzazioni. Ci sono le milizie anarchiche, le milizie comuniste, le milizie socialiste, le milizie della Ugt che era l’organizzazione sindacale socialista, della Cnt che era l’organizzazione sindacale anarchica, dei movimenti giovanili, che combattono come possono e in modo ancora abbastanza localizzato (io lo dico nella prefazione del lavoro che abbiamo fatto). Va tenuto presente, tra l’altro, che il popolo spagnolo non conosceva la guerra, cioè era da 50-60 anni, da diverse generazioni che gli spagnoli non facevano la guerra, tranne, diciamo così, i soldati di professione che facevano la guerra nelle colonie, ma la Spagna praticamente dalla guerra di Cuba del 1908 non era più stata in guerra con nessuno; erano passati quindi 30 anni, due generazioni, di fatto. E quindi bisognava imparare anche a far la guerra e si registrarono in quei primi momenti anche molti errori di ingenuità, di disorganizzazione, di incomprensione verso l’esigenza di un coordinamento dell’azione e poi di un comando unico. Il fatto di difendere la prerogativa delle milizie popolari, di partito, di colore, fu un elemento che evidentemente ritardò questo processo di formazione di un esercito vero e proprio e, quindi, praticamente, le milizie prendevano ordini dai propri partiti, e questo facilitò, indubbiamente, l’avanzata di Franco che disponendo ancora di forze limitate, ma organizzate secondo i canoni di un esercito professionale, ovviamente …. Pesce: Ecco, ha anche avuto subito l’afflusso di apparecchi, di armi, di mezzi moderni e con tecniche avanzate. Poma: Sì, questo lo so, soprattutto per trasportare il “tercio”, cioè la Legione straniera e i marocchini dalla colonie intervenne l’aviazione; siccome le coste erano bloccate, dovettero farlo con l’aviazione in un primo momento. Comunque, questo periodo che è caratterizzato appunto dalle milizie popolari, formate dalla gente messa assieme così in fretta, armata soprattutto dal loro coraggio, ma anche con molta inesperienza, non permise l’organizzazione immediata di un esercito. Questo avvenne poi nel momento in cui attorno alla difesa di Madrid, che diventa il simbolo della libertà della Spagna, si realizza un’unione di tutte le forze. Allora il problema è: come possiamo difendere meglio Madrid? Organizzandosi, organizzando un comando unico, coordinando le nostre azioni e organizzandosi, quindi, in esercito. E il ruolo delle Brigate Internazionali fu decisivo a questi effetti. E va, secondo me, demistificato il ruolo che a volte si esagera avuto dalle Brigate Internazionali. Le Brigate Internazionali erano, sì e no, alcune decine di migliaia di persone, in un esercito che contava più di mezzo milione di uomini. Pesce: 80.000 erano. Poma: Ma no, 80.000! Son molti di meno, anche lì …. Il Tunon de Lara (Manuel Tunon de Lara, Storia della Repubblica e guerra civile in Spagna, Roma, Editori Riuniti, 1966) che ti fa una storia molto rigorosa della guerra di Spagna afferma che le Brigate Internazionali non arrivarono a 20.000. Noi eravamo sui 4.000 e i francesi erano un po’ più numerosi di noi, noi eravamo secondi, come numero, e quindi …. Però in un primo momento le Brigate Internazionali furono un grosso elemento di organizzazione, di ordine e poi erano formate da gente che conosceva la guerra, tra l’altro; erano pratici della guerra, perché molti avevano fatto la guerra del ’14-18, tutti ne avevano sentito parlare, anche solo il sentirne parlare era un elemento che contava. Quindi portarono un grosso contributo in questo processo di organizzazione e l’esercito si cominciò a costituire nei giorni della difesa di Madrid; poi, è chiaro, perfezionò la sua ossatura e divenne un esercito regolare a tutti gli effetti, con caratteristiche popolari, naturalmente. Era certo diverso da quello che era l’esercito franchista; il fatto che a un certo momento nessuno voleva i gradi è caratterizzante di questa mentalità, di questa psicosi che c’è nel combattente: il grado significava una differenziazione contro la quale combattevamo e, tuttavia, bisognava che ci fosse qualcuno che assumesse a un certo momento responsabilità di comando e questo si distingueva anche con le stellette che mettevamo e che in un primo momento davano parecchio fastidio. Si introdusse anche nella guerra di Liberazione nazionale in Italia. Non volevamo i gradi, non volevamo le differenze nei pagamenti. Infatti, io mi ricordo, nel biellese non venne introdotta la differenza del soldo, che rimase per tutti uguale; prendemmo le stellette e, naturalmente, chi doveva, come me e come lui, mettere le stellette poi doveva anche subire la sfottitura degli altri. Pesce: Io non le ho mai messe. Poma: E della popolazione che diceva: “Co tì ‘tlas butà i gradi, né?”, e ti sfottevano. E così anche in Spagna; il rapporto fra ufficiale e soldato è sempre un rapporto di forte cameratismo. C’è poco da fare: lì non c’erano le accademie che ti sfornavano gli ufficiali; chi erano gli ufficiali? Erano quelli che davano prova di essere i più bravi, di avere maggiore lucidità. Pesce giustamente diceva che nelle sue azioni, anche gappiste, ha sempre avuto paura; il coraggio non esiste, istintivamente l’uomo è un animale come tutti gli altri, che di fronte al pericolo tende a ritirarsi; è poi l’elemento coscienza che ti dà la possibilità di padroneggiare i tuoi movimenti e fare il ragionamento che diceva lui: se tu scappi, ebbene, tu non hai la possibilità di difenderti, ma non solo se tu scappi; a me hanno insegnato, quelli che avevano cominciato a fare la guerra prima di me, che se sparano sei obbligato a buttarti a terra, tu devi vedere come ti butti a terra, perché se ti metti per così, offri, diciamo, un obiettivo lungo un metro e sessanta, quanto sei alto; se ti butti per così offri, invece, sessanta centimetri di bersaglio a chi ti spara. Anche queste cose elementari, in sostanza, dovevi imparare. E diventavano ufficiali quelli che avevano acquisito più esperienza e si erano dimostrati i migliori, perché così il popolo esprime poi i propri capi. In questa maniera fu la caratteristica del comandante, del commissario. Paolo: Visto che hai detto “commissario”. Vorrei un chiarimento: il commissario politico è un personaggio importante, perlomeno nella rivoluzione russa, nella guerra civile russa. Come è stato trasportato? Evidentemente l’origine è quella, no? Ed è un’origine estremamente importante, in un certo momento, perché vuol dire: noi abbiamo degli ufficiali anche di carriera, o comunque della gente che era ufficiale prima, però a comandare una formazione rivoluzionaria non ci dà fiducia, quindi bisogna che ci sia sempre vicino il politico che controlla, che aiuta, ma che controlla anche questo comandante. In che misura una cosa di questo genere funzionava o non funzionava? Per esempio, nella nostra guerra di Liberazione era sempre un pochino forse non necessario, spesso ha preso una forma diversa, cioè si occupava delle questioni politiche. Vorrei sentire la vostra opinione, soprattutto perché è un punto abbastanza interessante. Pesce: Per mia esperienza, quando andai in Spagna e si organizzò il primo gruppo ad Albacete e poi alla Roda e fu nominato commissario politico, credo Platone allora, aveva soprattutto questa funzione: quella di educare i garibaldini, di portare a conoscenza la situazione politica, di spiegare i motivi della lotta. E poi per me è stato anche molto utile avere anche questo elemento di educazione politica. Per esempio, dopo una battaglia, talvolta c’erano le critiche verso il comandante, o critiche verso altri garibaldini e poi era nella discussione, nel dibattito, che il commissario interveniva, spiegava, dava dei suggerimenti, bisticciava anche, perché faceva delle critiche, anche critiche al comandante, se era necessario, al comandante di distaccamento, agli ufficiali subalterni. Credo che il commissario politico, per la mia esperienza, sia stato un elemento di educazione, soprattutto politica e poi, direi anche, di controllo politico, cioè il fatto che ci fosse il commissario che collaborava col comandante, significava anche una maggior garanzia che quelle che erano le direttive, l’impostazione della lotta, gli obiettivi da raggiungere venivano portati a compimento, perché c’era questo collegamento, questo controllo, non so neanch’io come chiamarlo. Dopo le battaglie, il commissario parlava, spiegava i significati di quella lotta, di quel combattimento, faceva delle critiche: perché il tale era scappato, s’era nascosto, poi perché non s’era comportato bene, ecc. Tutto questo serviva poi a dare più slancio, più entusiasmo, più coscienza ad ognuno di noi. Poma: Io credo che bisogna partire da questo presupposto: un esercito che ha come base il volontariato e dove, quindi, l’elemento coercitivo non gioca un ruolo determinante o non unico, è chiaro che si pone il problema immediatamente di dare una coscienza a questi combattenti, cioè bisogna principalmente che uno sappia perché si fa, altrimenti perché uno deve andare volontario? Non è la cartolina precetto che ti fa andare soldato, è il tuo slancio, la tua coscienza politica che ti fa partecipare. E’ chiaro che questo combattente di tipo diverso è anche un soldato che ubbidisce in un’altra maniera agli ordini del comando, ha un comportamento non passivo, di fronte al comando militare, ma ha un comportamento dialettico, cioè vede anche in senso critico il comportamento del comandante e vuole anche esercitare questa sua funzione critica. E direi che il commissario è intanto questa coscienza critica del combattente nei confronti di come viene portata avanti la guerra, come viene impostata, come viene condotta, come viene coordinata. E poi c’è questo aspetto, che giustamente sottolineava Pesce, di un esame critico del combattimento del militare in guerra, del fatto di cogliere quelle che sono le umane debolezze che si manifestano nel momento del pericolo e di correggerle, non con un atto di costrizione o disciplinare, ma rafforzando la coscienza politica del soldato. Ora, è chiaro che anche nella vita partigiana in Italia non si è sentita molto l’importanza del commissario in certi campi e dipende dai luoghi: dove ho fatto io la guerra partigiana, direi che per un lungo periodo di tempo abbiamo fatto a meno del comandante militare; c’era un comandante, ma era un comandante politicizzato, era un uomo politico che faceva il comandante e aveva al suo fianco un altro uomo politico che adempiva le funzioni di commissario. C’è poi da tener presente che c’è un rapporto molto importante da curare, ed è il rapporto con la popolazione. Allora il fatto che le unità combattenti, quando attraversano un territorio o ripiegano o sono in riposo abbiano un comportamento piuttosto che un altro è molto importante nel consolidamento della coscienza della gente a sostenere lo sforzo della guerra. Quando il battaglione Garibaldi si ritirava, o si ritirava la brigata e attraversava i necessari periodi di riassestamento dei suoi reparti, il mio tenente si era posto il problema di stabilire i rapporti con la popolazione con iniziative che prendeva in direzione dei bambini, che è uno dei momenti più commoventi e che ti permette anche di stabilire immediatamente un dialogo. C’era anche questo fatto umanitario, il bisogno di vedersi circondato da questo calore affettivo da parte della gente, e nessuno come i bambini sono in gradi di darti questo. Perciò si cercava di organizzare delle feste, di comprare dei giocattoli per fare dono a questi bambini. Questo ti permetteva di entrare in un certo tipo di rapporto con la popolazione, ma bisognava anche comportarsi, nei confronti di questa popolazione, nel modo più corretto. Intanto il popolo spagnolo è molto ospitale: immediatamente ti apriva le porte delle case, ma bisogna rispettare le cose, le persone; e noi fummo molto severi, ad esempio nei confronti di chi adocchiava le ragazze e si comportava male. Su questo fummo molto severi e vi fu sempre un comportamento molto corretto; molti, molti di noi hanno sposato delle spagnole, ma hanno “sposato” delle spagnole, non è che cercassero l’avventura galante, perché questo evidentemente poteva pregiudicare molto i rapporti in un paese che ha un po’ la mentalità che hanno i nostri meridionali nei confronti delle donne, e allora noi cercavamo di essere molto rispettosi delle cose e delle persone, particolarmente e naturalmente delle donne. Ebbene, chi organizzava questo era il commissario; il comando militare doveva occuparsi intanto di completare la dotazione di munizioni che tu avevi consumato nel combattimento, di far aggiustare le armi, di chiedere, avendo avvertito la carenza di certe armi da fuoco, come le mitragliatrici o i fucili mitragliatori, che venissero sostituite e aumentate, di fare il rapporto sull’azione militare, doveva occuparsi di tutta questa parte militare. Il commissario politico doveva portare avanti questo altro lavoro, in direzione della popolazione e poi in direzione dei combattenti, quando si faceva l’esame critico del loro comportamento in combattimento. E allora la funzione del commissario è molto importante perché dà un’impronta diversa al reparto combattenti, lo rende certamente politicizzato ed è chiaro che chi vuole un esercito apolitico, quindi che combatta senza sapere per che cosa combatte è chiaro che avversa decisamente la figura del commissario. Chi, invece, vuole avere un esercito cosciente, che sa per che cosa combatte, non può che essere favorevole alla figura del commissario che ha un suo ruolo specifico, in sostanza, e che è poi l’elemento, appunto, che concorre anche a rafforzare la fiducia che gli uomini debbono avere nel comandante. Pesce: Io volevo dire una sola cosa importante: quando si pose il problema dell’urgenza del comando unificato, dell’esercito unico, credo che ci fu molto dibattito e discussione, e il dibattito e la discussione avvenivano in questo senso: noi avevamo di fronte un esercito regolare, che è l’esercito di Franco appoggiato dall’esercito italiano che aveva mandato decine di migliaia di uomini e di materiali. Bisogna dire che l’elemento fondamentale che ha anche aiutato a creare questa maggior disciplina, questa organizzazione, questo esercito unico, è stato sempre il V reggimento. Già nel ’36, in modo particolare, il partito comunista, attraverso la costituzione del V reggimento, fu di esempio a tutte le altre formazioni, leniniste, ecc.; fu d’esempio anche attraverso le battaglie che ha sostenuto attraverso la forte offensiva che aveva scatenato Franco che pensava di occupare Madrid, a metà di novembre. E fu proprio il V reggimento, dove c’era questa disciplina, questa organizzazione, questo comando unico, a bloccarlo, a bloccare e sconfiggere l’offensiva fascista. E credo che il V reggimento fu di esempio a tutte le altre formazioni, soprattutto a queste milizie socialiste, anarchiche, giacchè soltanto nell’unità e nel comando unico era possibile resistere, combattere contro il fascismo. Ma vorrei dire poi un’altra cosa: tante volte ci dicono: “siete stati sconfitti in Spagna”; io credo che il problema della guerra mondiale come tutti i dirigenti della Resistenza europea, tutti direi, han fatto la loro esperienza in terra di Spagna. Io credo che anche in questo abbiamo acquisito un grande contributo di esperienza politica e militare, che poi è servita a ognuno di noi nel proprio paese a condurre la lotta contro il fascismo; per questo dobbiamo anche essere riconoscenti alle forze spagnole che ci han permesso di combattere. E questo proprio, ricordo che raccontavano gli amici e i compagni quando sono tornato in Francia: se non ci fosse stata questa esperienza, questi ex combattenti delle Brigate Internazionali, soprattutto italiani e polacchi e poi francesi a organizzare i primi gruppi, ma soprattutto passare subito all’azione, al combattimento … Paolo: Gli spagnoli .. Pesce: Eh sì, ma anche gli italiani, che hanno dato un contributo all’organizzazione in Francia enorme; e vediamo che i primi gappisti a Bologna, a Torino e a Milano erano ex combattenti di Spagna; era difficile trovare un gappista che non avesse vissuto la guerra di Spagna. Paolo: Ecco, senti una cosa: perché la guerra di Spagna – questo è un interrogativo che farò così per quello che vale – non si è trasformata in guerra partigiana? Pesce: Mah, io credo che il problema della guerra di Spagna fu il tentativo degli stati fascisti, in accordo con il mondo occidentale, di creare le condizioni per fare intervenire direttamente, apertamente, l’Unione Sovietica e poi creare il famoso blocco degli stati fascisti dell’Europa occidentale; credo che si trattò, almeno così, nel parlare con molti amici, del tentativo di scatenare subito la Seconda guerra mondiale. Perché non si è trasformata in una guerra partigiana? Per me non esistevano le condizioni: prima di tutto il popolo spagnolo era diviso e poi bisogna tenere conto che c’erano dalla parte di Franco oltre 100.000 italiani; c’erano gli specialisti tedeschi; era una cosa anche molto difficile; sì, c’era la solidarietà del movimento operaio internazionale, ma non so fino a che punto poteva esistere e svilupparsi una guerra partigiana in Spagna con la situazione politica esistente in Europa in quel momento. Paolo: Questi sono gli elementi direi più estranei alla realtà spagnola. Pesce: E bisogna tenerne conto. Poma: Mah, ecco, io ho sostenuto anche una conversazione all’università: credo che questo argomento che propone Paolo sia da considerare, perché è una delle debolezze della guerra civile spagnola. Se noi vogliamo esaminare le cause della sconfitta dei repubblicani in Spagna dobbiamo mettere necessariamente al primo posto il peso preponderante, decisivo che ebbe l’intervento dei tedeschi e degli italiani e d’altro canto il non-intervento che privò la Spagna delle possibilità di potersi rifornire delle armi necessarie per una riscossa, perché va tenuto presente che, per esempio, nella battaglia dell’Ebro credo che il rapporto dell’armamento fosse da 1 a 10, soprattutto nel campo delle armi pesanti e dell’aviazione, cioè la nostra aviazione partecipò nei primi giorni dell’offensiva e della difesa del contrattacco fascista e poi sparì completamente: era stata distrutta. Questo va posto necessariamente in primo piano; senza l’intervento dell’Italia e senza il non-intervento, le sorti della Spagna sarebbero state diverse; se non c’era il non-intervento, certo la Spagna era in grado di resistere almeno un anno in più e, voi capite, un anno in più cosa avrebbe significato per la storia d’Europa; avrebbe significato certamente tutte altre cose. Questo va posto in primo piano; poi, quando si vuole fare un esame profondo, anzi in senso autocritico, delle debolezze interne della repubblica, credo che il fatto di non essere riusciti a suscitare un movimento di guerriglia nelle zone occupate da Franco sia da ascrivere a uno degli elementi di debolezza. Tentativi vi furono: ci sono fotografie che mostrano il commissario Vidali del V reggimento che dà istruzioni a della gente che va a lavorare nella Spagna occupata da Franco; il tentativo di organizzare guerriglia ci fu, ma non prese piede e di questo, oggi come oggi, non sono in grado di dare una spiegazione; è chiaro che il problema è molto più profondo e in parte è dovuto al fatto, secondo me, che Franco vinse là dove il movimento popolare era meno maturo, cioè nelle zone più arretrate come nella Navarra, le zone tradizionalmente monarchiche; quindi il movimento di resistenza incontrò indubbiamente delle difficoltà, ma è chiaro che questo è un elemento che va approfondito in studio, perché è da annoverare tra le debolezze della repubblica spagnola. Il non aver saputo suscitare un movimento partigiano nella zona di Franco già costituì un handicap notevole; le cause adesso dirle è complicato. Paolo: Come mai non si è fatta una autentica riforma agraria, non c’è stata una distribuzione della terra; o c’è stata? Pesce: Il problema è proprio questo: con la vittoria del Fronte popolare, proprio il governo di Fronte popolare non ha mantenuto gli impegni per odio di classe o per timore che si sviluppassero le cose a sinistra, ha tentato con tutti i mezzi di ostacolare quello che era in programma, perché, se con la vittoria del Fronte popolare si fossero ascoltati quelli che erano stati i suggerimenti di quella linea politica del partito comunista …. Ricordo il discorso della Pasionaria, quando ha fatto il famoso discorso agli elettori, dicendo: c’è questo pericolo di ribellioni fasciste, bisogna prendere provvedimenti, in luogo di arrestare le forze golpiste, non fu certo efficace trasportarle da Madrid alle isole Canarie; ci fu anche una debolezza o complicità di tutte le forze cosiddette democratiche per timore, per paura che si sviluppasse il movimento operaio e contadino, e questo ha favorito il colpo di stato; direi che nella Resistenza stessa, quando ci fu la guerra civile, lo stesso tentativo di Caballero di ostacolare la costituzione dell’esercito unico, di impedire che si facessero delle fortificazioni, di impedire che si potesse trasformare l’industria in industria di guerra, certo è tutta una serie di tentativi, che essendo un problema di classe, in ultima analisi, la preoccupazione era che si sviluppassero le forze di sinistra, i comunisti; c’è anche quest’aspetto in tutte queste cose. Paolo: Voi che eravate presenti, come le vedevate queste cose? Poma: Bisogna tener presente questo: quello che diceva Pesce è giusto; cioè indubbiamente i primi governi che si susseguirono dopo la vittoria del Fronte popolare manifestarono molti timori nell’applicare il programma che il Fronte popolare si era dato e per il quale aveva vinto le elezioni; se fosse stato più tempestivo, bè probabilmente saremmo partiti in condizioni di molta maggiore superiorità di quanto non avvenne nei fatti. Però è indubbio che la riforma agraria andava avanti ugualmente, e fu uno dei motivi che accelerò la ribellione, cioè a un certo momento se tu hai il colpo di stato lo hai perché è chiaro che certi privilegi, certe posizioni di classe sono seriamente minacciate, vuoi dalla volontà dei governanti di applicare certe leggi, vuoi dal fatto che c’è un movimento inarrestabile in marcia contro il quale non c’è forza che tenga; il fatto è che questo movimento era in marcia. Tieni conto che non erano passati poi molti mesi dalla vittoria del Fronte popolare alla ribellione franchista e certe cose non erano potute andare a buon compimento, però un programma di riforme in atto c’era, c’era soprattutto attraverso i movimenti contadini. E’ chiaro che se il movimento contadino che c’era nelle zone più sviluppate come l’Andalusia, come nella zona della Murcia, come nel nord della Spagna, ecc., fosse stato incoraggiato da norme di legge in favore dei contadini che dessero mandato all’autorità locale di procedere allo scorporo delle terre, dei feudi, per darli in dotazione ai contadini, è chiaro che questo si sarebbe esteso in tutta la Spagna e in quel momento a Franco sarebbe stata molto più dura, perché il contadino doveva poi rinunciare alla sua terra e in questo caso diventava un guerrigliero, capisci? E’ chiaro che questi ritardi aiutavano notevolmente Franco. Paolo: Un’altra cosa, sempre su questo tema, poi veniamo a degli argomenti ancora più specifici, ma anche questi temi generali mi pare siano abbastanza interessanti e soprattutto bisogna vederli come anche li avete vissuti voi, cioè come li avete sentiti in modo diretto. Un problema che è analogo a questo è un pochino la questione religiosa. C’è stata una grossa sollevazione anti-clericale, anti-cattolica nei primi giorni, perlomeno, della guerra civile, poi come si è sviluppata, quali errori? Poma: Io rovescerei la questione: vi fu di fatto lo schierarsi delle forze clericali della Chiesa a fianco dei ribelli; questo fu il fatto: certe chiese, in certi momenti, erano diventate dei veri e propri fortini; dovettero essere espugnate, bisognava partire da lì, non è vero che la ribellione del popolo si sfogò contro la chiesa, affatto. Inoltre va tenuto presente che uno dei più grandi proprietari terrieri era la chiesa e quindi nelle campagne è chiaro che questo elemento pesava nei rapporti; c’è poi da fare altre differenziazioni tra il grande episcopato, perché il prete povero era sempre coi poveri: non a caso abbiamo avuto molti preti dalla parte del popolo che combatterono contro i franchismi; non a caso, per esempio, l’intera chiesa basca, che era diretta da gente più semplice, si schierò con la repubblica e i fascisti furono particolarmente crudeli nei confronti dei cattolici baschi. Quindi partirei di lì: che alla ribellione di Franco aderirono le forze della reazione, della conservazione e cioè, in modo particolare, le forze dei proprietari terrieri e la chiesa, purtroppo, si schierò da quella parte, anche per ragioni di classe, perché era una delle più potenti forze di proprietari terrieri e, c’è poco da fare, se a un certo momento i preti sparano contro il popolo, il popolo spara contro i preti, è un po’ in questi termini; poi è chiaro che si inseriscono anche elementi di esagerazione da una parte e dall’altra, una guerra civile è una guerra civile, non è un’altra cosa. Mi diceva una volta un grande riformista del passato, Rinaldo Rigola, che però era un uomo intelligente e soprattutto era umanamente molto onesto, bè diceva nel momento in cui c’era questa ondata di processo alla Resistenza negli anni ’50: “Ma che cosa si vuole, che una rivoluzione sia una cosa che va via liscia? Ma è come il fiume: quando è in piena non si può pretendere che l’acqua del fiume sia pulita; è chiaro che l’acqua è torbida, quando il fiume è in piena, bisogna dar modo che si calmino le acque e che l’acqua si rischiari”. E’ chiaro che in una rivoluzione tu hai sempre elementi di esagerazione da una parte e dall’altra, provocati dal fatto che uno vede cadere il proprio fratello o la propria madre e poi vuole vendicare la propria storia, in sostanza ha la rabbia in corpo; in qualche modo la deve sfogare e, quindi, s’introduce anche quest’elemento, ma nell’impostazione va detto così, che la chiesa si schierò con Franco, questo è il problema, come adesso è invece schierata contro Franco: è diversa la situazione. Paolo: Una cosa che forse si può sottolineare di più è che, quasi sempre, nelle rivoluzioni il terrore, il cosiddetto terrore iniziale è quello bianco …. Pesce: Voglio dire: non è che noi lo abbiamo vissuto perché non eravamo lì quando è scoppiata la guerra; l’abbiamo saputo così, nel contatto con la popolazione, parlando, in modo molto semplice e siamo venuti a conoscere molti episodi dei giorni del colpo di stato di Franco. In tutti i paesi ci fu proprio la caccia; non soltanto la caccia a colui che era comunista, ma al democratico, e venivano uccisi e massacrati donne, bambini, senza processi, senza pietà; mi hanno raccontato degli episodi che fanno rabbrividire, c’è da tremare ancora adesso, cioè il modo in cui si sono comportati verso tutti coloro che la pensavano in senso democratico… Paolo: Ecco, forse questa è una cosa che noi non sottolineiamo mai abbastanza. Pesce: Una delinquenza che è una cosa veramente così; me l’ha raccontata non solo l’uomo politico, ma anche la donna semplice, la contadina, la gente che era lì così, che arrivavano questi fascisti dal paese o da un altro paese e uccidevano quelli che non la pensavano, e poi fuggivano; che quando il paese è stato rioccupato dall’esercito repubblicano gran parte erano fuggiti e lì veniva alla luce del sole quanto avevano fatto quei gangster: ne hanno fatto veramente di tutti i colori, proprio. Mi ricordo, quando siamo arrivati al Pardo, sono andato una sera in una famiglia contadina con Tomàs e, così, parlando, ci raccontava che in un paese fuori Madrid che i fascisti avevano occupato provvisoriamente, hanno ucciso lì marito, moglie, tre bambini, proprio una cosa così; questa donna semplice raccontava questi episodi così, per niente, erano dei democratici, ma non facevano per niente vita politica; e ce ne fu un centinaio di questi processi, di questi episodi, veramente di torture, di uccisioni. Basti pensare a cos’ha fatto il fascismo quando poi ci fu la sconfitta di Madrid, quando hanno ucciso, massacrato centinaia di migliaia di persone. C’era già stato il ritiro delle Brigate: attraverso la storia, attraverso i sopravvissuti, ci hanno raccontato: quando ci fu il colpo di stato di Casado e l’arrivo di Franco a Madrid hanno massacrato centinaia di migliaia, uomini, donne, proprio così…. Poma: Intanto va detto questo, che le grandi rivoluzioni, dalla rivoluzione francese alla rivoluzione russa, ci dimostrano questo: la presa del potere da parte delle forze rivoluzionarie è di fatto un fatto indolore; è poi dopo che c’è la controreazione delle classi spodestate, che scatenano il terrore e al terrore si risponde col terrore; in Spagna, ha detto bene Pesce, bisogna tener conto che ogni paese in cui arrivavano i franchisti, che l’occupavano, facevano l’operazione chiamata “limpieza”, pulizia la chiamavano; l’operazione chiamata “limpieza” in cosa consisteva? Che tutte le persone che avevano avuto in qualche modo a che fare con le autorità repubblicane, con processo sommario venivano liquidate, cioè era sufficiente appartenere a, non so, una categoria, i barbieri. Mi ricordo proprio un barbiere di Torellò che rappresentava la categoria dei barbieri nei rapporti con l’Alcade, cioè del municipio: bastò questo perché fosse fucilato. Quindi vi fu proprio uno sterminio di gente che aveva avuto a che fare con le autorità repubblicane, ma appunto il terrore è la conseguenza, in sostanza, della reazione che scatenano le forze controrivoluzionarie con le quali se tu non vuoi soccombere non hai altra scelta che quella di rispondere con le stesse armi. Paolo: Scusa: per gli stranieri, quando venivano fatti prigionieri i combattenti delle Brigate Internazionali, come venivano trattati, di solito? Pesce: Io ricordo un episodio, guarda, che mi ha turbato a Guadalajara, proprio a Guadalajara: in perlustrazione, quattro garibaldini vengono fatti prigionieri e vengono immediatamente uccisi a pugnalate, e furono scoperti il giorno dopo da un’altra pattuglia. Ciò per dimostrare la differenziazione tra noi e loro, e poi io, nella mia ingenuità, perché i fascisti uccidevano e noi li facevamo prigionieri, gli davamo latte caldo, vino caldo, cioè la differenza fra noi e loro, cioè tutti coloro che dai fascisti venivano fatti prigionieri, soprattutto le Brigate Internazionali venivano immediatamente massacrati e uccisi mentre da noi ci sono alcuni episodi …. Poma: Sì, sì, diversi. Pesce: Venivano salvati. Poma: Alcuni si salvavano, sì, cioè cosa capitava: che, se ti pigliavano, per esempio, le unità più arrabbiate, quelle ti facevano fuori; se invece ti pigliava un’altra unità in cui un comandante era meno feroce, allora ti mandava indietro, con la scusa di interrogarti e allora ti salvavi; infatti vi furono, ce ne sono diversi …. Pesce: Pochissimi, perché si sono fatti passare per spagnoli. Poma: No, ma anche come italiani, per esempio, ce ne sono che furono presi nel nord, furono poi portati in Italia e condannati al confino. Ma intendiamoci son pochissimi … Pesce: Si conteranno sulle dita delle mani. Poma: Gli altri venivano fatti fuori, se erano internazionali. Paolo: Tu, nell’introduzione, ci hai raccontato fino al momento in cui sentivi Radio Barcellona e quindi hai avuto questo stimolo a partire. Raccontaci rapidamente le tue esperienze, le tue prime esperienze, come sei entrato, come sei uscito, come sei arrivato, come ti sei inquadrato … Poma: Mah, io ho già detto che gli elementi più giovani sono sempre in genere i più combattivi, nel senso che non hanno problemi di famiglia, non sono passati attraverso esperienze che li hanno temprati, se volete, ma anche, in sostanza, bruciati, e perciò eran quelli che più spingevano per cercare di andare in Spagna, e io feci il primo tentativo con un compagno che poi è morto in Estremadura: Eraldo Venezia, che è stato condannato dal Tribunale speciale. Lui era originario di Bianzè, però abitava a Biella, si era sposato a Biella, faceva il venditore ambulante, fu condannato dal Tribunale speciale e ritornò nuovamente a Biella; con un suo amico decise di espatriare, e io cercai di entrare in questo gruppo, cercai di entrare perché loro prendevano la via della montagna – questo fu nel luglio del ’37. Tieni conto che avevo fatto altri tentativi prima, senza riuscire a trovare il collegamento giusto (non era facile); questi però partirono e io non potei seguirli. Per combinazione capitò che in quel momento c’era l’Esposizione internazionale a Parigi e il dopolavoro organizzava dei treni speciali che andavano a visitare l’esposizione, e io ho cercato questa via, assieme a un altro; eravamo ancora non conosciuti e quindi bastava presentare la carta d’identità; siccome andavamo a centinaia e centinaia, a migliaia in treni speciali che partivano per l’esposizione di Parigi, trovai questo modo qui, me ne andai tranquillamente in treno, anziché valicare le montagne. Arrivato a Parigi, trovai questo modo qui, me ne andai tranquillamente in treno, anziché valicare le montagne. Arrivato a Parigi avevo gli indirizzi, mi presentai a questi indirizzi; era quindi nel mese di agosto del 1937, mi presentai a questi indirizzi, c’era un bureau d’édition francese, cioè una casa editrice, dove c’era un italiano; presi contatto con l’organizzazione, ci chiesero cosa volevamo fare, noi dicemmo che volevamo andare in Spagna. Otto giorni dopo partivo già per la Spagna: partimmo in un gruppo di diverse nazionalità, fino a Carcassonne, che è una città alla frontiera spagnola; lì restammo alcuni giorni in attesa, perché il passaggio si faceva clandestinamente (in modo clandestino per modo di dire per il fatto che tu non potevi passare in treno, non passavi col passaporto, dovevi passare la frontiera clandestinamente), e quando le guide eran pronte, passammo la frontiera e andammo a finire a Figueras. Da Figueras ci portarono, sempre in treno, ad Albacete, dove c’era la base delle Brigate Internazionali – questo è noto a tutti -, da Albacete andammo a Quintanal de la Repubblica a fare un periodo di istruzione, poi da lì partii per il fronte, che raggiunsi nel mese di settembre del ’37 e partecipai al primo combattimento a Fuentes de Ebro. Pesce: Io a Farete. Carla: Quindi tu hai fatto il soldato invece che nell’esercito regio …. Poma: Tra l’altro io ero riformato nell’esercito italiano, mi ero fatto riformare e quindi il militare l’ho fatto lì. Ho fatto in Italia 17 giorni di militare in attesa di avere la riforma; in questi 17 giorni trovai il modo di farne 8-10 di cella di rigore perché … Pesce: Eri indisciplinato! Poma: Sì, sì, e poi il militare l’ho fatto in Spagna; lo imparai lì, vedete l’importanza del fatto di aver anche sentito parlare della guerra. Mi ricordo che andai al fronte con la leva del ’37, cioè l’esercito popolare era ormai una cosa acquisita nell’agosto del ’37, e già venivano chiamate alle armi le classi, e venne appunto chiamata alle armi, in quell’occasione, la classe del 1917 che, nel ’37, faceva 20 anni e andai al fronte con questi ragazzi, e il fatto che questa gente non avesse mai sentito parlare di guerra fu un trauma per loro. Mi ricordo che andammo a prendere posizione prima di dare il cambio alla formazione che occupava la cresta della collina, rimanemmo lì alcune ore, appostati sotto il monte, e c’era l’artiglieria fascista che sparava, ma voi sapete che l’artiglieria o ribatte contro la sporgenza, contro la montagna o, se è troppo alta, va a finire a due chilometri di distanza prima che esploda. E io ero lì tranquillo che sentivo sparare e sapevo questo; oh, ‘sti ragazzi, madonna! Non sapevano più dove mettersi, cercavano una buca per mettere la testa col sedere fuori, e io li guardavo e dicevo: “Perché fate questo?”. C’era un compagno italiano che era venuto lì che mi fece questo discorso: “Tu è la prima volta che vieni al fronte?” – “Sì, è la prima volta” – “Vedo, perché non hai paura, io ero come te, e poi sono stato tre volte ferito e adesso sento la paura”, ed è così: quando tu cominci a restare bucato una volta, due volte, poi c’hai paura; poi c’hai sempre chiaro l’elemento cosciente che te la fa vincere la paura; ebbene, ‘stì ragazzi si comportavano in quel modo proprio perché non conoscevano la guerra; bè, gli stessi un anno dopo avevano meno paura di me, cioè avevano imparato a far la guerra, erano diventati dei combattenti formidabili; per dire come si forma l’uomo, come l’esperienza conti, anche solo riflessa, anche solo l’esperienza riflessa. Carla: Quindi questa è la tua prima esperienza, l’aver visto questi ragazzi far la guerra. Poi tu sei stato ferito molte volte. Poma: S’, sono stato ferito in Estremadura la prima volta. Sei stato in Estremadura? Pesce: Ero in Francia. Poma: Perché eri in convalescenza. In Estremadura rimasi ferito ma leggermente, ad un braccio, una pallottola in un braccio e difatti fu praticamente una vacanza che mi presi; cosa vuoi, una ferita ad un braccio fa ridere; ti evacuano lo stesso perché han paura di infezioni. E anche qui ho vissuto un’esperienza di tipo umano che forse merita la pena di raccontare. Noi andammo all’attacco, sfondammo il fronte e facemmo la marcia di avvicinamento a un paese e lì facemmo dei prigionieri … Ricordo che c’era un ragazzo giovane preso prigioniero che era ferito e questo era terrorizzato, chissà cosa gli avevano detto, è chiaro: “Questi ti prendono, ti ammazzano, ecc.”; io vedevo quella faccia piena di terrore e d’altro lato vedo che era ferito; ad un certo punto mi spazientisco con quelli che cercavano di interrogarlo: “Piantala lì, non vedi che è ferito? Prima cerchiamo di medicarlo e poi lo interroghi, no?”, l’ho detto in italiano, dall’italiano allo spagnolo non c’è molto, questo ha capito, mi rivolse uno sguardo di gratitudine che veramente io ce l’ho ancora davanti, cioè è chiaro che, in quel momento, a questa persona si apriva una finestra nuova: “Ma adesso che vogliono medicarmi non m’ammazzano”, fu questo certamente il ragionamento che fece; difatti, quando lo portarono via si voltò a guardarmi, io dissi: “Vai, vai tranquillo, non ti faranno niente, ti medicheranno”, cercai di tranquillizzarlo, perché avevo visto come stava, questo terrore impresso nel suo viso …. Bè, partecipai a questo combattimento, rimasi ferito, prendemmo una batosta in quell’occasione, furono molti i morti e i feriti e nell’agguato conobbi alcune delle più ridenti località di villeggiatura spagnole, come Origuela, Murcia; Origuela è un posto meraviglioso, vicino ad Alicante; io avrei anche prolungato molto, perché si sta veramente bene …. Pesce: Ah, ti sei imboscato, eh? Poma: No, sono stato quindici giorni, non ti preoccupare. Senonchè capita l’offensiva sull’Aragon, del marzo; l’attacco in Estremadura l’abbiamo fatto il 16 febbraio, in marzo i fascisti attaccano; allora, appena vengono notizie dello sfondamento del fronte d’Aragon chiediamo di partire per il fronte; infatti io raggiunsi la brigata che si era prima attestata a Caspe e poi si era ritirata, dopo aver preso delle grosse legnate, su Gandesa. E io raggiunsi la brigata a Gandesa, che era ormai già molto che si organizzava e lì presi posizione e feci tutta la ritirata fino al fiume Ebro, dove poi ci attestammo, perché il fronte si stabilizzò poi al di là del fiume, facendo saltare i ponti, ecc. Poi l’offensiva fascista si prolungò nel levante, puntando su Valencia. Ritornai al fronte, rimasi lì attestato sull’Ebro fino all’agosto, quando ci fu l’attacco repubblicano, l’offensiva dell’Ebro; nel frattempo, però, ero andato diverse volte in pattuglia lungo le rive: mi buscai una pallottola in una gamba, una pallottola molto intelligente; pensate, passò tra il tendine e il ginocchio, pensate quanto spazio di sola carne rimanga tra il tendine e il ginocchio e quella mi bucò solo la carne; ebbi un “sedere” che non finisce più; bastava un millimetro più basso, ti partiva il tendine ed eri finito oppure ti rompeva la rotula del ginocchio ed era la stessa cosa; mi bucò solo la carne, presi una vacanza anche lì, ci vogliono quindici-venti giorni per guarire, poi ritornai al fronte, partecipai all’offensiva dell’Ebro, dove in Sierra Cabal rimasi ferito per la terza volta e lì ebbi poi postuma la manifestazione della paura: io ero andato a far rifornimenti per la mitraglia – anch’io ero alla mitragliatrice – arrivo con le cassette di munizioni, sento un baccano d’inferno, era notte, il nostro fronte e quello dei fascisti era sulla stessa collina a cinquanta metri di distanza, i fascisti erano arrivati a occupare la collina, ma noi l’avevamo difesa e non gliel’avevamo lasciata occupare e nella notte combattemmo e tentammo di contrattaccare per riprenderla; e io invece credevo fossero i fascisti che attaccavano, allora vado avanti e sgancio una bomba a mano, una sip, invece eravamo noi che attaccavamo, non riesco più a infilare la sicurezza nella sip, e allora ci ritirammo a pochi metri, c’era un fuoco infernale, dovemmo buttarci giù, e allora lì cosa capitò? Che a un certo momento persi i sensi perché una pallottola esplosiva aveva colpito la canna del fucile, mi aveva riempito la testa di schegge e persi i sensi alcuni attimi; mi sveglio e c’era la leva della sicura che andava su, capisci? Se fosse andata su tutta, figurati, mi avrebbe sbrindellato e allora mi prende una fifa del diavolo, la spingo, la butto giù nella riva, poi grondavo sangue, torno indietro a vedere cosa avevo, i compagni dicevano: “Vai, vai indietro a farti medicare”. Vado indietro a farmi medicare e poi mi evacuano; e nell’ospedale per almeno otto giorni io avevo gli incubi di notte, tutte le notti sognavo la bomba, aveva la leva che si alzava e mi svegliavo madido di sudore, perché è chiaro che fu uno shock, ci vollero otto giorni prima che mi passasse quella fifa arretrata, a scoppio ritardato, che mi prese in conseguenza di quella cosa …. Carla: E questi ti hanno bucato tre volte, insomma. Poma: Sì, ma sempre in modo intelligente. Carla: Avevi un accordo col Padreterno. Paolo: Sentiamo qualche episodio … Poma: Questo ne ha da raccontare! Forse sa più farle le cose che dirle …. Pesce: Io sono stato ferito gravemente a Farete; lì c’era una grossa offensiva contro Saragozza, a un certo momento i fascisti contrattaccano, io ero col mio distaccamento in un punto avanzato sulla collina, slegato completamente dal comando, siamo bersagliati dall’artiglieria, i carri armati ci sparavano addosso, io mando due staffette per sapere cosa fare, ma nessuno dice niente, le staffette non ritornano, a un certo momento siamo lì tutti feriti, gravemente feriti, rimango ferito alla spalla e al polmone e poi due schegge alla colonna vertebrale e ho avuto la sensazione di avere le gambe spezzate. Lì c’era un compagno di Firenze, Cerbai, che poi è stato fucilato nella guerra di liberazione, che dice: “Pesce, dobbiamo scappare, i fascisti sono qui, a cento metri!”; dico: “Vai, vai via tu, io ho le gambe spezzate, non posso camminare”, e lui mi tira così, tirandomi così mi è venuto un po’ di respiro, mi sento di nuovo le gambe, allora mi sono salvato perché eravamo su questa collina, mi sono buttato giù, rotolando, i fascisti tiravano le bombe a mano e sbagliavano; su cinquanta ci siamo salvati in cinque, in questa battaglia tremenda; io ero rimasto ferito, poi altri feriti, morti, anche perché il comando della brigata Garibaldi non era riuscito a comunicarci di ritirarci e noi avevamo l’ordine di rimanere lì… E’ stato un brutto ricordo. Poi sono stato ferito nell’offensiva su Madrid dove è stato ferito anche Giuliano Pajetta, a Brunete. Paolo: Adesso il ricordo più vivo, più bello. Pesce: Mah, per me i ricordi son tutti belli; la cosa che mi ha fatto grande impressione e che fu poi per me un elemento di educazione politica, di solidarietà e di umanità è vedere questi combattenti, dal contadino al bracciante, all’operaio, al tecnico, anche all’intellettuale, così, assieme in questa fratellanza, in questa umanità, in questo spirito di comprensione, in questa solidarietà, in cui tutti cercavano di capirsi e l’intellettuale cercava di insegnare al bracciante quando c’era un momento di tempo; per me fu veramente una grande scuola di democrazia e di umanità questa vita assieme con uomini che uscivano dal carcere, dal confino, uomini che avevano anche una grande intelligenza, come Platone. Ricordo Platone alle prime battaglie di Madrid, quando ci vedevamo, stupendo intellettuale, molto umano, generoso, che ti chiedeva consigli; questa umanità che per me rimane sempre presente, che poi mi è servita nella vita, nel rapporto che ho avuto coi garibaldini, coi combattenti, con i compagni, nella vita di ogni giorno, nell’attività politica: era sempre presente questo senso di comprendere gli uomini e di avere questa modestia, questa semplicità; è stata per me questa una grande scuola, la guerra di Spagna. Carla: Ecco, senti, mi sembra che voi avete avuto la fortuna di essere protagonisti di due guerre popolari. Una più o meno perduta come quella della Spagna e una vinta …. Poma: Perduta! Carla: Sì, perduta; non perduta da voi che ne avete ricavata un’esperienza, appunto … E l’altra, la Resistenza italiana; mi sembra che parliate della Spagna così, con più nostalgia insomma … Poma: Ah, è il mio grande amore! Pesce: Per me c’è questo: sono partito dalla Francia dove stavo anche bene, avevo una bottiglieria, un locale … E la guerra di Spagna mi ha insegnato, fu una scuola che mi ha insegnato soprattutto a sentire anche il problema nazionale, che in fondo ero italiano e che dovevo fare qualche cosa per liberare il mio paese; in questo senso la Spagna mi fu di aiuto e mi fu scuola, sennò sarei diventato un francese e avrei continuato a lavorare alle miniere. Io giovanissimo capii che era giusto rispondere a questo appello e che bisognava andare, e ho capito anche che era giusto e che dovevo far qualcosa per contribuire a liberare il mio paese; e un’altra cosa che ho imparato è stata la solidarietà, il fatto che nel combattimento in cui uno rimaneva ferito, il compagno rischiava la vita, moriva lui per tentare di salvare il ferito. In fondo io vivevo in trincea, a fianco di un contadino, non sapevo una parola d’italiano: incominciai a studiare l’italiano e lui mi faceva le lezioni; sentivo questo senso di solidarietà, di umanità, di comprensione, di tolleranza, di modestia soprattutto, e questa fu una grande scuola, che poi è servita a me nella mia attività politica, quando ero gappista a Torino, a Milano, capire i giovani, andarci incontro, essere umano con loro, non fare il comandante, il superiore. Tutto questo rimane, non si può dimenticare, rimane come scuola di democrazia, direi come scuola di educazione politica, e poi, in fondo, questa vita ci ha temprato alla lotta e al combattimento, perché la Spagna ha dimostrato che si può affrontare, si può resistere, si può combattere contro il fascismo, anche senza aver vinto, cioè si può lottare, combattere e resistere. Per me che ero giovanissimo questo ricordo, questo amore, questa simpatia è stato incancellabile. Carla: La Spagna è stata la vostra università. Pesce: Per me è stata l’università. Carla: Mi sembra per tutti e due. Poma: Sì. In conclusione una cosa che ci fa ricordare con affetto … Pesce: E’ che lì hai imparato a combattere e a lottare, queste sono cose importanti. Poma: E’ che in genere – è una mia opinione, discutibile quanto si vuole – ti rimangono più impresse le battaglie perdute che quelle vinte. Perché la battaglia perduta, in fondo, si accompagna a tutto un dramma: quando vinci c’è il popolo in festa, quando perdi e il popolo perde con te, il popolo è in lutto. Una cosa che è incancellabile in ognuno di noi che ne ha vissuto il travaglio è stata la ritirata della Catalogna: torme di gente, donne, bambini, vecchi, con tutti i mezzi, con le loro poche cose che riuscivano a portarsi dietro che si trascinavano verso la frontiera francese per non restare lì, dove stavano arrivando i franchisti. Furono molti che lasciarono il territorio spagnolo, mi pare da qualche parte di aver letto che solo nella ritirata della Catalogna mezzo milione di persone lasciò la Spagna e si rifugiò in Francia; ebbene, il dramma di questa gente nei confronti della quale ti sentivi impotente a intervenire perché ormai eri in fuga anche tu, è una cosa che è rimasta impressa e che ti ha fatto desiderare sempre, ti fa desiderare ancora il ritorno in quel paese per vederlo non più in lutto, ma in festa, perché noi abbiamo avuto innumerevoli attestati di amicizia, di calore, da parte di questa gente in vari posti. Rimane incancellabile per noi la manifestazione di Barcellona, quando venne praticamente annunciato ufficialmente il ritiro delle Brigate Internazionali dalla Spagna e il congedo che esse presero dal popolo spagnolo con una grossa manifestazione, in cui tutto il popolo di Barcellona si riversò per le strade ad applaudire, ma in un modo commovente che ti strappava le lacrime agli occhi; anche se eravamo gente corazzata per aver visto tante cose non riuscivi a trattenere la commozione. E la Pasionaria disse parole che colpivano nel profondo, allora ecco, il ricordo di questo popolo che si raccoglie attorno a te per dirti: ritorna, grazie per quello che hai fatto, questa fratellanza, e poi invece vedere magari le stesse persone, o comunque altre simili, che si ritiravano il giorno della ritirata. Certo la Resistenza resta un fatto incancellabile in ognuno di noi, ma la Spagna è anche sete di rivincita; il fatto che questo popolo che più di ogni altro forse ha meritato d’essere libero, debba ancora adesso essere oppresso da un regime fascista, anche per colpa nostra, perché non abbiamo saputo fare tutto quello che dovevamo fare per aiutarlo a conquistare la sua libertà, ecco è qualcosa che ci riempie ancora di nostalgia e che ci fa ricordare molto profondamente questa esperienza che abbiamo vissuto. Paolo: Io non ho capito una cosa: voi due vi siete mai visti in Spagna? Pesce: No, mai visti. Carla: E quindi quando vi siete conosciuti? Pesce: A Ventotene. Lui era amico di Secchia e io contemporaneamente ero amico di Secchia. Carla: E quindi al confino vi furono studi di carattere militare che vi hanno preparato per la Resistenza? Pesce: Sì, sì. Io ne feci uno abbastanza importante, ne parla anche Secchia, sulla tecnica della guerriglia; io non ero preparato, avevo imparato nella guerra di Spagna, che era una cosa: sparare di fronte al nemico, tu gli andavi incontro, il nemico veniva incontro a te; era invece tutta un’altra tattica che fu chiaramente di grande utilità per quando poi venni qui a Torino. Quando venni qui a Torino mi hanno detto: “Tu devi fare il comandante, il comandante non deve rischiare la vita, non deve fare azioni”. “Allora chi comando?”; dice: “Nessuno”. Carla: Scusa, per te Poma, per tornare a Ventotene … Poma: Bè sì, il confino non fu una perdita di tempo, riempimmo le nostre giornate con lo studio di carattere politico, soprattutto storico, e i compagni che si erano succeduti al confino erano riusciti a dotare il collettivo di una ricca biblioteca, alla quale si attingeva per ogni tipo di studio e di lettura; poi c’erano i corsi che facevamo su determinati argomenti; io ho fatto con Secchia un interessante studio sul materialismo dialettico e sul materialismo storico, che durò parecchi mesi: Secchia ci faceva le lezioni, poi ci indicava i testi sui quali dovevamo soffermarci per completare le cose che lui ci diceva. Facemmo anche brevissimi corsi o conversazioni su aspetti di carattere militare; intanto si leggeva quel poco, non c’era molto materiale sulla guerra militare, e sulla guerriglia ancor meno, ma c’era qualcosa: non so, le cose scritte da Garibaldi sulla guerriglia, Pisacane, furono oggetto di meditazione da parte nostra, perché era profonda la convinzione in noi di passare attraverso quella esperienza; in fondo noi avevamo già fin nei campi di concentramento notizia che i compagni slavi che erano ritornati nei loro paesi erano diventati dei partigiani; queste notizie si susseguirono poi anche al confino; sapevamo appunto della guerra partigiana in Francia, in Jugoslavia, nei Balcani in genere e allora pensavamo che probabilmente avremmo dovuto passare anche noi da quella esperienza e l’avere alcune conoscenze sia pure rudimentali di cos’è la guerriglia era una cosa molto, molto importante. Ci soffermammo molto; come del resto anche i compagni che erano in carcere fecero dei corsi sulla guerriglia, cioè vennero a casa non del tutto sprovveduti; è chiaro che poi da queste rudimentali conoscenze che noi avevamo acquisito all’attività pratica ci correva tanta distanza, che dovemmo poi imparare nel vivo della lotta a fare la guerra partigiana; i libri non è che ti dessero molte cognizioni, ma tuttavia si aveva una certa formazione che consentì quantomeno di avere una predisposizione a questo genere di lotta: ecco la differenza. Ciò che contraddistinse i comunisti dagli altri fu il fatto che fin dall’8 settembre loro avevano chiaro ciò che dovevano fare; non a caso furono i primi ad andare a chiedere le armi nelle caserme che poi non gli vennero date, e si dettero da fare per procurarsi le armi, quando non riuscirono addirittura a instradare dei reparti dell’ex esercito in montagna; è chiaro che bruciarono le tappe, ma da noi ad esempio dove questo non avvenne vi era in noi una predisposizione alla guerriglia che fu un forte elemento di vantaggio nei confronti dei gruppi che questa predisposizione non l’avevano. Tratto dall’intervista in video realizzata a Torino il 13 febbraio 1975 da Paolo Gobetti, Giuseppe Risso e Carla Nosenzo Gobetti. Pubblicato sulla Rivista “Mezzo Secolo” – Annali 1994-1996. Per notizie biografiche sui numerosi combattenti citati nel corso dell’intervista, vedi La Spagna nel nostro cuore. 1936-1939, a cura dell’AICVAS, Milano, marzo 1996