I DIVERSI PROFILI DI DANNO BIOLOGICO NELLO SVOLGIMENTO DEL RAPPORTO DI LAVORO CON PARTICOLARE RIFERIMENTO AL MOBBING 1. INTRODUZIONE L’intenso coinvolgimento fisico e psichico della persona nello svolgimento dell’attività lavorativa rende il rapporto di lavoro un terreno fertile per la rilevazione di danni di natura biologica e/o morale, oltre che – a seguito dei recenti riconoscimenti della giurisprudenza di legittimità e di merito – esistenziale. La fabbrica, l’azienda o qualsiasi luogo di lavoro, infatti, costituiscono un ambiente potenzialmente produttivo di lesioni e patologie fisiche e psichiche che possono avere una grave ripercussione sull’esistenza del lavoratore, sia a causa delle condizioni spaziali in cui si svolge l’attività lavorativa, che in ragione delle relazioni che inevitabilmente ogni lavoratore intreccia con i colleghi e con i superiori, relazioni che lo coinvolgono quotidianamente per un tempo talvolta superiore a quello in cui egli estrinseca tutti gli altri rapporti della sua vita. Dalla fine degli anni ’90, dunque, anche a seguito delle convinte manifestazioni della dottrina ( pensiamo, ad esempio, alla c.d. scuola triestina che con tanta competenza ha portato avanti il discorso dapprima sul danno biologico e successivamente sul danno esistenziale ) si registra un progressivo riconoscimento dell’insufficienza della sola operatività per tutelare la salute del lavoratore dell’assicurazione obbligatoria contro gli infortuni e le malattie professionali ( la cui normativa è stata modificata nel 2000 a fronte dei pressanti inviti a recepire le istanze di tutela di natura biologica che la Corte Costituzionale ha rivolto al legislatore fin dal 1991 – v. Corte Cost. 356/1991), nonché lo sforzo della giurisprudenza e, successivamente anche della legislazione, a riconoscere anche nel diritto del lavoro le nuove voci risarcitorie coniate in sede civilistica, superando il tradizionale bipolarismo danno patrimoniale /danno morale. 2. PRINCIPI GENERALI IN MATERIA DI DANNO BIOLOGICO La progressivoa presa d’atto della rilevanza del diritto alla salute – anche in relazione alle pesanti ripercussioni che da una mancata o insufficiente tutela possono ricadere oltre che sul singolo anche sulla collettività – ha comportato come diretta conseguenza il progressivo riconoscimento di quella particolare componente del danno di natura non direttamente patrimoniale rappresentato dal danno biologico ( v. fra le prime pronunce – che hanno riconosciuto la fattispecie riconducendola ad una lettura costituzionalmente orientata del 2043 c.c.- Corte Cost. 184/1986 ). 1 La compromissione della salute come autonomo bene tutelabile determina il diritto ad un risarcimento che non può essere limitato alle conseguenze che incidono sulla capacità di produrre reddito ma che deve considerare anche quelle menomazioni dell’integrità psicofisica di un soggetto: il danno biologico si è quindi affermato come una categoria atipica generale che affianca “il diritto patrimoniale” ed il “danno morale soggettivo” e che consiste nell’evento stesso, interno al fatto lesivo della salute e che deve necessariamente essere provato non potendosi desumere dalle conseguenze esterne ( Corte Cost. 184/86). La Corte costituzionale, nella sentenza sopra richiamata ha affermato che il danno biologico è danno specifico, è un tipo di danno che si identifica con un tipo di evento. In sede civilistica è stato osservato che : la lesione dell’indennità biopsichica dell’individuo cagiona sempre e necessariamente un danno biologico che è immanente alla lesione stessa, mentre può cagionare solo eventualmente un danno patrimoniale da invalidità, consistente nella riduzione della capacità di guadagno del soggetto leso ( Cass. III 1285/98) peraltro, è stato specificato che danno biologico e danno patrimoniale attengono a due distinte sfere di riferimento, riguardando il primo il danno alla salute ed il secondo alla capacità di produrre reddito , con la conseguenza che il giudice deve procedere a due distinte liquidazioni, affinché il risarcimento sia completo e può scegliere per ciascuna di esse il criterio che ritiene più idoneo in relazione al caso concreto: le liquidazioni degli stessi, pur se distinte devono essere tenute presenti contemporaneamente affinché la liquidazione complessiva sia corrispondente al danno nella sua globalità che costituisce l’oggetto del risarcimento e del quale i due menzionati aspetti costituiscono voci specifiche ( Cass. 4071/98); è stato riconosciuto che il danno biologico può sussistere non soltanto in presenza di una lesione che abbia prodotto postumi permanenti, ma anche in presenza di lesioni che abbiano causato uno stress psicologico ( Cass. 12622/1999). Sulla spinta di una giurisprudenza sempre più consolidata nel ritenere necessaria una definizione della fattispecie, il legislatore ha dunque coniato una formulazione normativa che si ritrova sparsa in varie disposizioni di legge, anche se raggruppate fondamentalmente nel settore assicurativo: dalla definizione contenuta nell’art. 13 l. 38/2000 che ha introdotto le nuove disposizioni sugli infortuni sul lavoro, all’art. 5 L 57/2001 sull’assicurazione per sinistri conseguenti alla circolazione dei veicoli a motore, norma di recente abrogata e sostituita dagli artt. 138 e 139 Dlgs 209/2005. In tutte le disposizioni richiamate, il danno biologico viene definito come “la lesione all’integrità psicofisica, suscettibile di valutazione medico legale, della persona”. Nelle norme più recenti 2 (art. 138 e 139 Dlgs 209/2005 ) è stato precisato che la lesione deve esplicare un’incidenza negativa sulle attività quotidiane e sugli aspetti dinamico relazionali della vita del danneggiato indipendentemente da eventuali ripercussioni sulla sua capacità di produzione del reddito. Nello svolgimento del rapporto lavorativo, l’ampia accezione della definizione formulata ha consentito di ricondurre vari eventi lesivi – che per la loro configurazione non trovavano tutela nelle disposizioni codicistiche e dello Statuto dei lavoratori – al danno biologico. In particolare, selezionando varie pronunce giurisprudenziali, la casistica può essere ricondotta alla seguente esemplificazione: danno derivante da un abuso del tempo di lavoro, con ciò intendendosi i danni da mancata concessione del riposo settimanale e la mancata reiterata fruizione delle ferie; danno da licenziamento ingiurioso; dimissioni ìndotte da molestie sessuali; menomazione della capacità di concorrenza lavorativa e di avanzamento della carriera; dequalificazione professionale. Prima di esaminare la giurisprudenza che si è formata sulle varie fattispecie, è però necessario affrontare un discorso più generale sul tipo di responsabilità che postula l’accertamento del danno, visto che da ciò deriva l’entità dell’onere di allegazione e prova a carico delle parti ed il termine di prescrizione dell’azione. Va precisato infatti che il danno biologico, nell’accezione sopra coniata, può in astratto derivare, nell’ambito del rapporto fra datore di lavoro e dipendente, sia dal generale obbligo di neminem laedere espresso dall’art. 2043 c.c. e, come tale, fonte di responsabilità extracontrattuale, sia dallo specifico obbligo di protezione dell’integrità psicofisica del lavoratore sancito dall’art. 2087 c.c. a integrazione ex lege delle obbligazioni nascenti dal contratto di lavoro, la cui violazione è fonte di responsabilità contrattuale. Qualora la responsabilità fatta valere dal dipendente sia quella contrattuale (derivante quindi dall’inadempimento dell’obbligo di adottare tutte le misure necessarie a tutelare l’integrità psicofisica del lavoratore – v. anche la l. 626/94) il fondamento della responsabilità non può derivare, in termini di responsabilità oggettiva – dal semplice riscontro del danno biologico quale evento legato con nesso di causalità all’espletamento della prestazione lavorativa , occorrendo pur sempre l’elemento della colpa ossia la violazione di una disposizione di legge o di contratto o di una regola di esperienza. La necessità della colpa – che accomuna la responsabilità contrattuale a quella aquiliana – va poi coordinata con il particolare regime probatorio della responsabilità contrattuale che è quello previsto dall’art. 1218 c.c. ( diverso da quello di cui all’art. 2043 c.c.). 3 In particolare, il riconoscimento della natura contrattuale della responsabilità del datore di lavoro – in relazione alla predisposizione ed adozione di tutte le misure idonee a tutelare l’integrità psicofisica del lavoratore – comporta che al fine della risarcibilità del danno biologico – inteso come danno all’integrità psicofisica della persona in se considerata - grava sul lavoratore l’onere di provare: la lesione all’integrità psicofisica e quindi il danno ; il nesso di causalità tra l’evento dannoso e l’espletamento della prestazione, nel contesto lavorativo dato ( e cioè in ipotesi non protetto adeguatamente ) Una volta assolto tale onere , non occorre che il lavoratore dimostri anche la sussistenza della colpa del datore di lavoro inadempiente, gravando su quest’ultimo il diverso onere di provare che l’evento lesivo sia dipeso da un fatto a lui non imputabile ed in particolare di aver ottemperato all’obbligo di protezione in argomento, ossia di aver correttamente adempiuto alla propria prestazione ( in proposito Cass. 1307/2000 ) . Inoltre la responsabilità contrattuale implica che il debitore è tenuto a risarcire soltanto i danni prevedibili , ex art. 1225 c.c, e non quelli imprevedibili; e che il termine di prescrizione per l’azione è decennale. Al contrario, ove la pretesa venga ricondotta all’art. 2043 c.c la prova avrà per oggetto: 1. un comportamento riferibile al datore di lavoro, persona fisica o giuridica, omissivo o commissivo ; 2. un danno ingiusto che tale comportamento deve poi aver cagionato; 3. l’esistenza del nesso causalità tra comportamento e danno. La prova si presenta complessivamente molto più difficile; il termine di prescrizione dell’azione è quinquennale ma il risarcimento comprende i danni prevedibili ed imprevedibili. 4. IL DANNO BIOLOGICO NELLO SVOLGIMENTO DEL RAPPORTO DI LAVORO La giurisprudenza di legittimità mostra di muoversi all'interno di tale “schema normativo” tenendo ben presente le peculiarità del rapporto di lavoro, e, soprattutto, valorizzando i doveri di protezione del datore di lavoro e riconducendo l’azione avente per oggetto il danno biologico all’art. 2087 c.c e quindi alla responsabilità contrattuale Tuttavia l’esigenza di valutare il danno prodotto in tutti si suoi aspetti ha indotto la giurisprudenza a ricorrere sempre più frequentemente all’utilizzo alla tutela a doppio binario. La giurisprudenza di legittimità è ormai consolidata, infatti , nel ritenere a carico del datore di lavoro la coesistenza sia della responsabilità contrattuale che di quella extracontrattuale nel tentativo di realizzare una completa tutela della condizioni di lavoro del dipendente. 4 Cass. 4184/2006 -“ Sul datore di lavoro gravano sia il generale obbligo di “neminem laedere” espresso dall’art. 2043 c.c sia il più specifico obbligo di protezione dell’integrità psicofisica del lavoratore sancito dall’art. 2087 c.c ad integrazione degli obblighi “ex lege” nascenti dal contratto di lavoro (la cui violazione determina l’insorgenza di una responsabilità contrattuale). Conseguentemente il danno biologico – inteso come danno all’integrità psicofisica della persona in se considerata, a prescindere da ogni possibile rilevanza o conseguenza della lesione – può in astratto conseguire sia all’una che all’altra responsabilità.” Tale principio è in astratto estendibile a tutte le ipotesi di danno biologico che si verifichi nel rapporto di lavoro, proprio in considerazione della diversificata sfaccettatura dei possibili eventi che caratterizzano la vita lavorativa . La Cassazione , peraltro, sottolinea che anche nell’ipotesi di responsabilità contrattuale non si versa in responsabilità oggettiva, ma occorre, comunque, l’elemento della colpa ossia la violazione di legge o di contratto o di una regola di esperienza. La necessità della colpa va poi coordinata con il particolare regime probatorio della responsabilità contrattuale che è quello previsto dall’art. 1218 c.c. con i relativi oneri processuali a carico della parte datoriale. Passiamo ora ad esaminare i vari momenti della vita lavorativa in cui più frequentemente si configurano condotte dannose. Sui tempi di lavoro ed in particolare sullo svolgimento dello straordinario: 1. Cass. 1307/2000: è stato ravvisato il danno biologico come danno alla integrità psicofisica della persona in se considerata quello derivante da un eccessivo carico di lavoro estrinsecatesi nell’accettazione di lavoro straordinario continuativo o nella rinuncia a periodi di ferie. E’ stato peraltro affermato che grava sul lavoratore l’onere di provare l’inadempimento del datore di lavoro all’obbligo di adottare le misure di protezione che consentano di non travalicare il limite che costituisce un sano bilanciamento fra tempo di vita e tempo di lavoro; e che, una volta assolto tale onere, non occorre che il lavoratore dimostri anche la sussistenza della colpa del datore di lavoro inadempiente, gravando su quest’ultimo il diverso onere di provare che l’evento lesivo sia dipeso da un fatto a lui non imputabile. Inoltre il lavoratore deve provare sia la lesione all’integrità psicofisica che il nesso di causalità fra l’evento dannoso e l’espletamento della prestazione lavorativa; 2. Cass. 5207/2003, Cass. 1135/2004: è stata acclarata la maggiore penosità del lavoro prestato dopo il settimo giorno per cui la maggiorazione è dovuta, a titolo risarcitorio, anche nell’ipotesi in cui la successiva concessione di riposi compensativi consenta di ripristinare l’alternativa numerica fra giorni lavorati e giorni riposati; 5 3. sullo stesso argomento Cass.16398/2004 che distingue il danno da usura psicofisica dall’ulteriore danno alla salute o biologico ( con ciò comprendendo anche quello derivante dall’impedimento alla libera esplicazione delle attività realizzatrici della persona conseguente all’attività usurante svolta in conseguenza del lavoro prestato oltre il sesto giorno consecutivo, il quale esige un preciso onere di allegazione e prova( conforme anche a Cass. 5207/2003); 4. Cass. 8267/1997 : l’attività di collaborazione cui l’imprenditore è tenuto nei confronti dei lavoratori a norma dell’art. 2087 non si esaurisce nella predisposizione di misure tassativamente imposte dalla legge , ma si estende all’adozione di tutte le misure che si rivelino idonee a tutelare l’integrità psicofisica del lavoratore . Ne consegue che il mancato adeguamento dell’organico aziendale ( in quanto e se determinante un eccessivo carico di lavoro ) , nonché il mancato impedimento di un superlavoro eccedente la normale tollerabilità, con conseguenti danni alla salute del lavoratore, costituisce violazione degli artt. 42 co.2° Cost. e 2087 c.c.e ciò anche quando l’eccessivo impegno sia frutto di una scelta del lavoratore, atteso che il suo comportamento non esime il datore di lavoro dall’adottare tutte le misure idonee alla tutela dell’integrità fisico-psichica dei dipendenti; Danno da molestie sessuali Per molestie sessuali si intende ogni comportamento indesiderato a connotazione sessuale o qualsiasi altri tipo di comportamento basato sul sesso che offende la dignità degli uomini o delle donne nel mondo del lavoro ( Codice di condotta allegato alla Raccomandazione della Commissione Europea 27.11.1991 n. 131 ) La giurisprudenza di merito e di legittimità hanno rimarcato che le condotte moleste del datore di lavoro e comunque , all’interno dell’azienda, sono in contrasto con l’art. 2087 c.c. e determinano quindi principalmente una responsabilità di natura contrattuale che può, comunque , concorrere con responsabilità extracontrattuale ( v. fin da Cass. 7768/1995 ) In termini contrattuali il datore è tenuto a tutelare la dipendente anche da eventuali comportamenti molesti di altri dipendenti , tanto che è stato riconosciuta la legittimità del licenziamento irrogato ad un dipendente che aveva molestato una collega a nulla rilevando la mancata previsione nel codice disciplinare, rientrando comunque il dovere di tutela dell’imprenditore nella portata omnicomprensiva dell’art. 2087 c.c.( Cass. 5049/2000). Danno da dequalificazione professionale 6 Il danno da demansionamento o dequalificazione , nel quale può essere ricompreso anche il danno per perdita di chance professionali costituisce molto spesso una linea di confine con il mobbing, visto che attraverso la violazione dell’art. 2103 c.c. sovente viene apprestata la strategia ad esso sottesa. La giurisprudenza, pertanto, ha prestato molta attenzione a tale fattispecie anche perché il danno da dequalificazione professionale si presenta molto spesso come una fattispecie complessa, in cui coesiste sia la lesione del diritti tutelati dagli artt.2103 c.c sia la lesione della dignità professionale del lavoratore con le possibili ripercussioni sulla sua salute psicofisica. Si rileva quindi nella giurisprudenza di merito e di legittimità una progressiva spinta verso il riconoscimento della possibile coesistenza di un doppio binario risarcitorio, che è stato successivamente esteso anche alla fattispecie mobbing. Le pronunce più significative sono le seguenti e si sono occupate anche del nodale problema dell’inere della prova. 1. Tribunale di Milano 18.2.2005 n. 1384 si è occupato del demansionamento professionale nell’ambito giornalistico ed ha affermato che “il pacifico interesse del lavoratore allo svolgimento delle sue mansioni si concretizza per il caso dell’inviato speciale – si trattava di una giornalista alla quale era stato assegnato un numero estremamente ridotto di articoli in esterna e le era stato richiesto di svolgere attività redazione in termini e con contenuti non confacenti alla sua qualifica, per cui aveva chiesto oltre al risarcimento danni ex art. 2103 anche il riconoscimento del danno all’immagine ed alla professionalità – nell’interesse a svolgere la sua attività anche al fine di mantenere e sviluppare le sue capacità professionali,l le sue relazioni con le fonti e gli interlocutori , la sua capacità di operare sul campo con il concreto esercizione dell’autonomia che ciò richiede. Tale interesse va tutelato anche in relazione all’attività redazionale che deve essere compatibile con le specifiche competenze professionali dell’inviato”. Secondo il Tribunale la violazione sussiste anche nel caso in cui venga mantenuto il medesimo inquadramento professionale ed il mantenimento del pregresso livello retributivo; ed è stato ritenuto che, anche a voler escludere che il danno sia in re ipsa , il pregiudizio connesso alla impossibilità di svolgere le proprie mansioni rientra fra le regole di comune esperienza, con la conseguenza che la valutazione di tale circostanza può essere fattta anche alla stregua del fatto notorio ex art. 115 cpc. 2. sempre in ambito giornalistico il Tribunale di Roma 2732/2005 ha ritenuto sussistente il demansionamento nel caso di sottrazione del giornalista al proprio pubblico mediante la collocazione ad una fascia oraria diversa da quella a lui assegnata , tenuto conto che nel 7 settore televisivo la professionalità si valuta anche, se non soprattutto, sulla base dell’indice di ascolto e la cosiddetta audience è un metodo di misurazione della professionalità; 3. Cass. 15868/2002 ha sostenuto che il demansionamento del lavoratore non solo viola lo specifico disposto di cui all’art 2103 c.c. ma implica la lesione di un diritto fondamentale dello stesso lavoratore in ordine alla esplicazione della sua personalità nel luogo di lavoro con la conseguenza che il pregiudizio correlato a tale lesione è suscettibile di risarcimento ex arft. 1226 in forma equitativa da compiersi anche quando non vi sia la prova, in via diretta, dell’esistenza di un effettivo pregiudizio patrimoniale dato che la prova presuntiva può desumersi da elementi di fatto relativi alla durata del demansionamento. A tale orientamento si associano, da ultimo Cass. 8271/2004 e Cass. 10157/2004. Di contrario avviso, e cioè aderenti al diverso indirizzo che richiede la prova del danno Cass. 16792/2003, Cass. 10361/2004 Proprio su tale punto si è formato una contrasto di giurisprudenza risolto recentissimamente a favore del secondo orientamento da Cass. SU 6572/2006. La questione specificamente posta era : premesso entrambi gli indirizzi convergono nel ritenere che la potenzialità nociva del comportamento datoriale può influire su una pluralità di aspetti ( patrimoniale, alla salute ed alla vita di relazione ) e concordano sulla risarcibilità del danno anche non patrimoniale , ammettendo anche il ricorso alla liquidazione equitativa, bisogna stabilire se , in caso di demansionamento o dequalificazione il diritto del lavoratore al risarcimento del danno, soprattutto di quello esistenziale, suscettibile di valutazione equitativa, consegua in re ipsa al demansionamento oppure sia subordinato all’assolvimento , da parte del lavoratore, dell’onere di provare l’esistenza del pregiudizio. Al proposito la Corte ha ritenuto che: “ In tema di demansionamento e di dequalificazione, il riconoscimento del diritto del lavoratore al risarcimento del danno professionale, biologico o esistenziale che asseritamene ne deriva – non ricorrendo automaticamente in tutti casi di inadempimento datoriale – non può prescindere da una specifica allegazione, nel ricorso introduttivo, sulla natura e sulle caratteristiche del pregiudizio medesimo. Mentre il risarcimento del danno biologico è subordinato all’esistenza di una lesione dell’integrità psico-fisica medicalmente accertabile, il danno esistenziale - da intendere come ogni pregiudizio ( di natura non meramente emotiva ed interiore, ma oggettivamente accertabile ) provocato sul fare areddittuale del soggetto, che alteri le sue abitudini e gli assetti relazionali propri, inducendolo a scelte di vita diverse quanto all’espressione e realizzazione della sua personalità nel mondo esterno – va dimostrato in giudizio con tutti i mezzi consentiti dall’ordinamento, assumendo peraltro precipuo rilievo la prova per presunzioni, per cui dalla valutazione di precisi elementi dedotti ( 8 caratteristiche, durata, gravità, conoscibilità all’esterno ed all’interno del luogo di lavoro, eventuali reazioni poste in essere dal datore comprovanti l’avvenuta lesione dell’interesse relazionale , effetti negativi dispiegati nelle abitudini di vita del soggetto ) il cui artificioso isolamento si risolverebbe in una lacuna del procedimento logico – si possa attraverso un prudente apprezzamento coerentemente risalire al fatto ignoto, ossia all’esistenza del danno facendo ricorso, ai sensi dell’art. 115 cpc, a quelle nozioni generali derivanti dalla comune esperienza , delle quali ci si serve nel ragionamento presuntivo e nella valutazione delle prove”. Tale pronuncia ha suscitato contrastanti reazioni, e quelle più negative ( v. M.Meucci – “La prova del danno da demansionamento: un epilogo apparente” in DL, 2, 2006 , 369) hanno ritenuto che il principio di diritto enunciato costituisse un passo indietro, teso a travolgere tutti gli sforzi interpretativi sinora registrati nell’individuare nel demansionamento una fattispecie di danno non bisognosa di alcuna prova ma esistente in re ipsa. Ritengo, peraltro, che dalla lettura della sentenza non possa giungersi alle valutazioni di “oscurantismo” espresse, visto che anche se viene rimarcato l’onere di allegazione e prova in capo al ricorrente ( binomio dal quale, in presenza di fattispecie di aspetto complesso ed a valenza plurima, è forse pericoloso prescindere ) , viene invece ampiamente valorizzato il ricorso alla prova presuntiva e l’utilizzo dell’art. 115 cpc che costituisce a ben vedere , ove ben supportato da precise allegazioni, la chiave di volta per la tutela degli aspetti non prettamente patrimoniali del danno nei quali la prova documentale è spesso inesistente e quella per testimoni tanto difficile da essere per lo più inattendibile, promanando da soggetti coinvolti comunque nelle dinamiche lavorative patologiche denunciate dal lavoratore e quindi facilmente condizionabili da interessi personali di sopravvivenza. IL MOBBING L’ingresso del mobbing nel mondo del diritto è relativamente recente, anche se il fenomeno ha probabilmente ben più antiche origini. Come è noto, i primi studi del mobbing si devono alla psicologia e promanano da uno studioso svedese, Heinz Leyman, che fin dal 1980 ha iniziato ad esaminare le relazioni intercorrenti negli ambienti lavorativi in Svezia, registrando che proprio in tale paese c’era già una notevole diffusione del fenomeno e sostenendo che una alta percentuale dei suicidi ( pare il 10% ) doveva attribuirsi proprio al mobbing. 9 Nel 1996 è stato pubblicato in Italia il primo libro dedicato all’argomento il cui autore Harald Ege , psicologo del lavoro tedesco, ha, per primo dato una definizione che ha permesso di coniugare le acquisizioni della psicologia con le fenomenologia giuridica. “Il mobbing è una situazione lavorativa in cui attraverso la conflittualità sistematica, persistente ed in costante progresso in cui una o più persone vengono fatte oggetto di azioni di alto contenuto persecutorio da parte di uno o più aggressori in posizione superiore, inferiore o di parità con lo scopo di causare alla vittima danni di vario tipo e gravità. Il mobbizzato si trova nell’impossibilità di reagire adeguatamente a tali attacchi e a lungo andare accusa disturbi psicosomatici e relazionali e dell’umore che possono portare anche ad invalidità psicofisiche permanenti di vario genere e percentualizzazione” Ege , che vive in Italia ( Bologna ) ha pure rivestito il ruolo di CTU in numerosi processi presso il Tribunale di Forlì e non è un caso che proprio il T. di Forlì sia stato uno dei giudici di merito pionieri in materia ( v. in particolare T. Forlì 2001; t. Forlì 28/2005 e ancor più recentemente T. Forlì 2.3.2006 in materia di mobbing consumato attraverso reiterate molestie sessuali ). Lo studioso ha fornito anche un preziosissimo contributo nell’individuare 5 categorie in cui suddividere gli attacchi mobbizzanti e cioè: 1. attacchi a contatti umani ( limitazioni alle possibilità di esprimersi,continue interruzioni del discorso, critiche e rimproveri costanti ancorché pretestuosi etc); 2. isolamento sistematico ( trasferimento in un luogo di lavoro isolato, comportamenti tendenti ad ignorare la vittima e ad impedirle di parlare con gli altri colleghi,); 3. cambiamenti delle mansioni ( revoca delle stesse , assegnazione a lavori senza senso etc); 4. attacchi contro la reputazione ( calunnie, pettegolezzi etc) 5. violenza o minacce ( atti di violenza fisica anche a sfondo sessuale ) Il mobbing non è una singola azione o un singolo comportamento, ma è una serie reiterata di comportamenti persecutori, protratti nel tempo e corrispondenti ad una vera e propria strategia espulsiva. Può estrinsecarsi in verticale ( bossing ) o in orizzontale , ordito quindi da parte dei pari . Normalmente si verifica con maggiore frequenza in ipotesi di modificazione della struttura aziendale che richiede una riorganizzazione implicante l’espulsione di alcune unità lavorative ed un maggiore adeguamento dei dipendenti alle nuove “regole” aziendali, spesso finalizzate al profitto in modo spregiudicato. Numerose sono le proposte di legge per dare una definizione normativa al fenomeno, ma attualmente le fonti di riferimento non hanno il rango di legge dello stato e sono: 10 La Risoluzione A5-0283/2001 del Parlamento Europeo del 21.9.2001 che ha il merito di aver segnalato con forza agli Stati membri il dilagare del fenomeno indicando nel Considerando A) che “secondo un sondaggio svolto fra 21.500 lavoratori della Fondazione Europea per il miglioramento delle condizioni di vita e di lavoro ( Fondazione di Dublino ) l’8% dei lavoratori della UE, pari a 12 milioni di persone è stato vittima di mobbing sul posto di lavoro, e che si può presupporre che il dato sia notevolmente sottostimato ;” e di aver richiamato l’attenzione sul fatto che il continuo aumento di contratti a termine e di condizioni precarie del lavoro crea le condizioni propizie alla pratica di varie forme di molestia, soprattutto fra le donne che sono frequentemente vittima, più che gli uomini dei fenomeni di mobbing; e che detto fenomeno, oltre ad avere effetti devastanti sulla persona, determina anche un grave problema di ordine pubblico e di costo del lavoro in quanto provoca lunghi periodi di assenza o di presenza intermittente per le patologie psichiatriche che ne derivano. La Risoluzione esorta gli stati membri a rivedere e, se del caso, completare la propria legislazione vigente sotto il profilo della lotta contro il mobbing e le molestie sul luogo di lavoro e a verificare ed uniformare la definizione della fattispecie del mobbing; Alcune leggi regionali che hanno tentato di dare una definizione al fenomeno: la più solerte è stata la regione Lazio la cui l. 11.7.2002 n. 16 all’art. 2 aveva introdotto una definizione di mobbing dalla quale sono partite le censure di illegittimità poi accolte dalla Corte Costituzionale con sentenza 359/2003. L’art. 2 prevede che per mobbing si intendono atti e comportamenti vessatori o discriminatori protratti nel tempo, posti in essere nei confronti di lavoratori dipendenti , pubblici o privati , da parte del datore di lavoro o di soggetti posti in posizione sovraordinata ovvero da altri colleghi, e che si caratterizzano come una vera forma di persecuzione psicologica” La disposizione si è addentrata nella esemplificazione dei comportamenti ed è stata perciò dichiarata costituzionalmente illegittima dalla Corte Costituzionale che ha rilevato che il fenomeno non è ignorato dal nostro ordinamento statale, pur non essendo ancora emerso come oggetto di una disciplina specifica; che nell’esemplificazione erano indicati anche comportamenti di rilevanza penale e che ciò, dunque, determinava che in realtà l’intera legge si fondasse sul presupposto, da ritenere in contrasto con l’assetto costituzionale dei rapporti fra stato e regioni , che in assenza di una specifica disciplina di un determinato fenomeno emergente nella vita sociale, le Regioni potessero avere in via provvisoria poteri illimitati di legiferare; si sono poi espresse le Regioni Umbria (28.2.2005 n. 18 ) ed Abbruzzo ( 11.8.2004 n. 26) le cui leggi , viceversa, sono rimaste salve dal vaglio di costituzionalità , in quanto hanno dato per presupposti i comportamenti costituenti mobbing non formulando né definizioni 11 generali né esemplificazioni, ma limitandosi, entrambe , e predisporre misure di sostegno per i lavoratori e le famiglie colpiti dal fenomeno. Altro tentativo di definizione respinto promana dalla circolare INAIL 17.12.2003 n. 71 intitolata “Disturbi psichici da costrittività organizzativa sul lavoro. Rischio tutelato e diagnosi di malattia professionale. Modalità di trattazione delle pratiche” che il Tar del Lazio ha annullato su ricorso della Confindustria ( Tar Lazio sez. III ter 5.5.2005-4.7.2005 n. 5454) sulla scorta dell’affermazione che “la suddetta circolare si traduce in un vero e proprio provvedimento mirante ad integrare il complesso delle malattie c.d. tabellate, violando l’art. 10 co.1. Dlgs 38/2000 nella misura in cui siffatta integrazione deriva non già dal rigoroso accertamento, da parte della Commissione Scientifica per l’elaborazione e la revisione periodica delle tabelle né dall’espresso impulso dei Ministeri a ciò competenti, bensì da un comitato interno all’ente e senza le garanzie , pure partecipative , recate del Dlgs 38/2000.” La stessa sentenza, invece, rimarca la legittimità del DM 27.4.2004 , pur impugnato, affermando che il provvedimento è stato emanato nel rispetto dell’art. 10 Dlgs 38/2000, e che non ha altra funzione che quella di raccolta del dato epidemiologico, indicando le malattie riconducibili a mobbing come quelle a bassa probabilità che necessitano di una stringente prova del nesso etiologico. Attualmente pertanto la definizione del fenomeno continua ad essere rimessa alla giurisprudenza ed alle sue elaborazioni che si basano prevalentemente sui suggerimenti della psicologia del lavoro. A tal proposito è stato ad esempio rimarcato che il fenomeno ha un’ampia diffusione all’interno dei rapporti di pubblico impiego, con ciò intendendosi ambienti di lavoro quali gli uffici della pubblica amministrazione e la scuola, tanto che la Cassazione ha dovuto da qualche anno affrontare il problema del riparto di giurisdizione. Prendendo le mosse dalla qualificazione dell’azione – contrattuale od extracontrattuale, visto che anche nel mobbing, come vedremo fra poco, il danno può assumere una plurima sfaccettatura – ha affermato dapprima che “ai fini del riparto di giurisdizione rispetto ad una domanda di risarcimento danni proposta da un pubblico dipendente nei confronti della PA, che non sia assoggettata alla disciplina introdotta dal dlgs 80/1998 per fatti avvenuti in epoca antecedente al 30.6.1998, assume valore determinante l’accertamento della natura giuridica dell’azione di responsabilità in concreto proposta , in quanto, se si tratta di azione contrattuale la cognizione rientra nella giurisdizione esclusiva del g. a , mentre se si tratta di azione extracontrattuale la giurisdizione appartiene al giudice ordinario ( Cass SU 8438/2004); orientamento implicitamente confermato da Cass. SU 13537/2006 che per comportamenti di dequalificazione, denunciati come mobbing, ha affermato che per il lavoro pubblico privatizzato, ove i fatti lesivi denunciati si 12 riferiscano in parte ad epoca antecedente ed in parte ad epoca successiva al 30.6.1998, la competenza giurisdizionale non può che essere distribuita fra giudice amministrativo e giudice ordinario in relazione ai due periodi, fermo restando che in caso di comportamento illecito permanente si deve far riferimento al momento di realizzazione del fatto dannoso ( giurisdizione del giudice ordinario allorché, come nel caso esaminato dalla corte, la cessazione della permanenza sia stata successiva al 30.6.1998 ). La natura dell’azione proposta assume dunque anche in tema di mobbing una valenza nodale: al proposito la complessa sfaccettatura della fattispecie e la possibile riconduzione delle condotte lesive sia a specifiche norme poste a tutela del lavoratore ( v. ad esempio la più ricorrente violazione dell’art. 2103 c.c. ) , sia alla complessiva tutela apprestata dal 2087 c.c , sia alla possibilità di ravvisare nella strategia mobbizzante danni morali o esistenziali riconducibili all’art. 2059 c.c.( norma ormai pacificamente non più incastrata nelle maglie del danno derivante da illecito penale ), rende possibile, come va sempre più spesso affermando la giurisprudenza di merito e di legittimità, ritenere ammissibili tutele concorrenti che consentano di risarcire il lavoratore del danno subito nella misura totale, ammesso che ciò sia realisticamente possibile. Fra la giurisprudenza di merito maggiormente significativa che ho rinvenuto nella mia ricerca ritengo di menzionare il Tribunale di Forlì, con le sentenze 2001, 2005 e 2006 sopra citate con particolare riferimento alla n° 28/2005 nella quale con estrema chiarezza il giudice emiliano indica i punti nodali del problema mobbing, derivanti principalmente dall’assenza di una definizione normativa della fattispecie e dalla rilevanza del “valore aggiunto” in essa contenuto. Con l’ingresso del mobbing nel “mondo del risarcimento” è infatti possibile, finalmente, arrivare a qualificare come lesive e sanzionabili anche un complesso di situazioni che, valutate singolarmente, potrebbero anche non contenere elementi di illiceità, ma che, considerate unitariamente ed in un “contesto mobbizzante” assumono un particolare valore molesto ed una finalità persecutoria, che non sarebbe stato possibile apprezzare senza il quadro d’insieme che il mobbing consente di valutare. Nel caso di specie – si trattava di una dipendente dell’amministrazione scolastica che aveva per molti anni prestato servizio presso la Direzione Didattica del VI Circolo di Forlì e che sosteneva di essere stata sottoposta a comportamenti ostili analiticamente indicati in ricorso, che le avevano provocato una patologia depressiva causata dalla conflittualità nell’ambiente di lavoro con conseguente lungo periodo di malattia e dichiarazione di inidoneità al servizio – il Tribunale ha ritenuto che i danni dei quali il ricorrente chiedeva il riconoscimento fossero riconducibili alla categoria del danno non patrimoniale , così come risultante dalla lettura critica e costituzionalmente orientata dell’art. 2059 c.c., secondo la quale detta norma trova applicazione sia nel caso di danno alla salute che di danno alla professionalità. 13 Le è stato quindi riconosciuto sia il danno biologico che quello esistenziale, ed il risarcimento ha avuto come parametro, per il danno biologico l’invalidità permanente nell’ordine del 5% come ravvisato dal CTU , ed è stato parametrato alle tabelle formulate dal Tribunale di Milano in relazione all’età della ricorrente ; per il danno esistenziale, ricondotto alla lettura rivitalizzata dell’art. 2059 c.c , è stato usato un parametro equitativo costituito dal collegamento alla durata dell’azione mobbizzante in relazione alla quantificazione dell’indennità temporanea giornaliera totale raddoppiata: si è tenuto cioè conto che il tempo di lavoro costituiva all’incirca la metà della durata della giornata della ricorrente e che la ripercussione della malattia psichica contratta era invece ricaduta sull’intero tempo di vita. Anche la Corte d’appello di Roma si è pronunciata su un caso di mobbing con una importante sentenza ( 4.4.2002/14.4.2003 n° ) ha ritenuto , nel caso di un dipendente di banca adibito a mansioni dequalificanti per quasi quattro anni, accompagnata da una situazione lavorativa quantomai difficile caratterizzata da continui scherzi ed insinuazione dei colleghi, situazione alla quale era conseguita una sindrome ansioso depressiva certificata ) che sussistesse il danno da demansionamento invocato in relazione alla lesione dell’art. 2103 c.c., danno liquidato nella misura del 50% ( e non del 30%, come ritenuto dal giudice di primo grado ) oltre che il danno biologico e psichico considerato dalla Corte come danno non patrimoniale, come tale liquidabile in via equitativa. Detta sentenza , poi confermata dalla Cassazione ( Cass. Sez Lav. 17.2./23.3.2005 n° 6326 ) ha costituito l’occasione per far pronunciare la Corte anche sulla natura della fattispecie mobbing, visto che è stata ritenuta in rapporto di species a genus rispetto al danno biologico con la conseguenza che ove la fattispecie venga dedotta in appello non costituisce domanda nuova ma solo una diversa qualificazione dello stesso fatto giuridico, proprio “in considerazione della mancanza di una specifica disciplina di mobbing e della sua riconduzione ( anche secondo la sentenza della Corte Cost.n° 359 del 2003) alla violazione dei doveri del datore di lavoro, tenuto, ai sensi dell’art. 2087 c.c., alla salvaguardia sul luogo di lavoro della dignità e dei diritti fondamentali del lavoratore”. La diversificata tutela risarcitoria appare, dunque, ormai assodata da tutta la giurisprudenza che mostra di ritenere ammissibile, in linea generale, ( v. la già citata Cass. SU 6572/06 ) anche il coesistente risarcimento del danno esistenziale che ha recentemente fatto ingresso nel panorama dei danni risarcibili grazie all’opera attenta della dottrina e della giurisprudenza di merito e di legittimità: fermo restando, ovviamente, che oltre ad una circostanziata allegazione dei fatti, debbano essere dedotte prove sufficienti, fra le quali, come detto, precipuo rilievo va assumendo “la prova per presunzioni”. 14 Ciò detto, e vado a concludere, ci si chiede perché nelle nostre aule di giustizia rimane, comunque, nella sostanza ancora molto difficile fornire tutela a coloro che subiscono danni da mobbing. Ed infatti, le sentenze che vi ho riportato – di estremo pregio ed accuratezza – sono però le sole ad essere emerse nell’intero panorama giurisprudenziale e rappresentano dunque – se i dati statistici del fenomeno sono esatti ( e sembra così, visto che sono stati registrati anche in una risoluzione del Parlamento Europeo ) una goccia nel mare dei comportamenti datoriali illeciti. Certamente, sarebbe importante che intervenisse finalmente una legge nazionale a dare definizione al fenomeno, anche al fine di semplificare l’opera interpretativa e renderla così più certa ed uniforme: rispetto a ciò pare , comunque, che esista una certa resistenza, dal momento che tutti i tentativi di cui vi ho parlato – contenenti certamente qualche pecca di carattere formale – sono stati censurati con una solerzia davvero inusitata; e che comunque il legislatore , nonostante la giacenza di numerosi progetti di legge non sembra abbia intenzione di giungere all’emanazione di un testo definitivo entro breve tempo. A ciò si aggiunge anche il parere contrario di taluni alla definizione normativa del fenomeno ( G. Gramiccia . Tutela sostanziale garantita dai codici civile e penale in Guida al diritto n° 9/2005 ). E , dunque, con i pochi strumenti a disposizione si può dire che forse in questa materia, più che in altre, fa la differenza una specifica formazione dei protagonisti del processo, e cioè 1. dei difensori che devono apprestare fin dell’ atto introduttivo specifiche allegazioni sui fatti, oltre che prove sufficienti a darne dimostrazione: più circostanziata sarà l’allegazione degli eventi caratterizzanti la fattispecie, più sarà consentito al giudice ricorrere al ragionamento presuntivo indispensabile a colmare quei vuoti che una prova oggettivamente difficilissima spesso lascia aperti; 2. dei CTU che devono prestare particolare attenzione all’anamnesi lavorativa dell’interessato non trascurando alcun particolare ma non sopravvalutando eventuali stati mentali preesistenti ma solo predisponesti al disagio psicologico, condizioni dunque che spesso sono presenti in tutti noi e che non consentono, per ciò solo, di escludere frettolosamente l’esistenza di un comportamento illecito e reiterato del datore di lavoro foriero di danni areddituali; 3. di noi giudici che dobbiamo trattare questi processi senza fretta e con la necessaria cura ed attenzione: cosa spesso impossibile visti i carichi di lavoro delle nostre sezioni specializzate che non ci consentono fra le altre cose, di dedicare allo scambio con altri saperi il tempo necessario ad acquisire una approfondita conoscenza del problema. A tal proposito, e concludo davvero, inserirei nelle note bibliografiche di questa relazione anche un cenno alla cinematografia relativamente recente ( 2004 ) sul tema e cioè il film di Francesca 15 Comencini “Mobbing-mi piace lavorare” che fa vedere con insolita maestria sia le sottili dinamiche che governano il fenomeno sia l’insufficienza di un qualsiasi ristoro patrimoniale a ricucire le ferite che esso provoca. BIBLIOGRAFIA La tutela della persona psicofisica del lavoratore – di Raffaele Fabozzi in “Persona e danno”, a cura di Paolo Cendon , 2004; Le molestie sessuali sul luogo di lavoro – di Umberto Oliva in “Persona e Danno” sopra citato; Il mobbing – di Enrico Pasquinelli in “Persona e danno” sopra citato “La prova del danno da demansionamento: un epilogo apparente ” di Mario Meucci in DL 2, 2006; “Mobbing” di Cesare Parodi , 2005, I libri di ambiente e sicurezza del Sole 24 Ore; “Duplice binario risarcitorio per i comportamentio vessatori” di Francesco Ciampi in Guida al diritto 9,2005; “Difficile inquadrare un fenomeno animale” di Francesco Ciampi in Guida al diritto 9,2005 “Autonomi i pregiudizi di natura esistenziale” di Eugenia Serrao, uida al diritto 9,2005; “Il mobbing e il diritto del lavoratore alla prestazione lavorativa” di Rita San Lorenzo in www.dirittolavoro.altervista.org; Mobbing: immagine professionale, dignità personale e vita di relazione di Paolo Cendon – Commento a Tribunale di Forlì 28.1.2005 n° 28; Mob, mobber e mobbing di Fausto Nisticò in www.unicz.it “Mobbing- Mi piace lavorare” di Francesca Comencini, 2004, film GIURISPRUDENZA TUTTE LE SENTENZE CITATE RIFERIMENTI NORMATIVI RISOLUZIONE A5-0283/2001 DEL Parlamento europeo del 21.9.2001; L.R- Lazio 11.7.2002 n. 16; L.R. Umbria 28.2.2005 n. 18; L.R. Abruzzo 11.8.2004 n. 26; Circolare Inail 17.12.2003 n. 71 16