TERZO SETTORE 13/06/2007 Protagonisti del welfare o solo ''utili idioti''? Capodarco apre il confronto con la politica e il non profit Il 21 una giornata di dibattito a Roma, con politici e rappresentanti delle associazioni, a partire da un duro documento. Albanesi: ''Come terzo settore abbiamo commesso un gravissimo errore, di cui oggi sentiamo le conseguenze...'' ROMA – Il titolo forte del convegno – “Per non essere utili idioti” - promette una discussione irrituale. La Comunità di Capodarco ha fissato l’appuntamento a Roma, per il 21 giugno prossimo (prologo della IV Festa delle Comunità che proseguirà a Capodarco di fermo, nelle Marche), con l’intento dichiarato di fare il punto sulle politiche sociali, ma soprattutto sul ruolo delle associazioni, delle comunità, delle tante esperienze a cavallo tra il volontariato e l’impresa sociale che si sono sviluppate dall’inizio degli anni settanta in Italia. E del loro rapporto sempre più difficile con la politica, che sarà rappresentata da 4 ministri in carica (Ferrero, Turco, Bindi, Rutelli) e da due ex ministri (Veltroni, Alemanno). Ma non si tratterà di uno dei tanti convegni in calendario. Basta leggere il documento che don Vinicio Albanesi, presidente della Comunità, ha preparato per rendersi conto, al contrario, che si tratta di uno di quegli appuntamenti che potrebbero determinare un punto di svolta. Il convegno di Roma non sarà irritale per due motivi. Prima di tutto perché parte proprio dalla Comunità di Capodarco, che è stata il battistrada (si potrebbe dire l’avanguardia) di tutte le attività nel settore di cura alla persona, di lavoro nel “sociale”, di sperimentazione delle attività di contrasto al disagio. Sarà un momento di riflessione sul Terzo Settore, sul ruolo positivo che ha assunto in Italia, ma anche una riflessione autocritica spietata sui limiti di queste esperienze che pur crescendo di importanza mediatica, non riescono poi a incidere sulle politiche. Il secondo motivo che rende importante il convegno di Roma è la decisione di concentrare l’attenzione sul ruolo “sostitutivo” delle associazioni in un contesto in cui il Welfare mostra il suo massimo sbandamento, reso evidente già dal linguaggio. Ogni giorno si inventa un nome nuovo per ridefinire lo Stato Sociale anche se poi “nessuno – come scrive don Albanesi – sa quali siano i diritti sociali riconosciuti, quali le garanzie minime di aiuto e assistenza”. La Comunità di Capodarco lavora da oltre trent’anni nel “sociale”. Le sue prime esperienze sono legate soprattutto al lavoro di cura, di riabilitazione, assistenza e formazione delle persone disabili, da quando con la legge 118 del 1971 gli “handicappati” furono riconosciuti anche giuridicamente come “persone”. La necessità di una riflessione così cruda come quella proposta da Vinicio Albanesi parte dalla constatazione che da allora – dal 1971 – moltissime cose sono cambiate e non tutte in meglio. Dal punto di vista della politica (vedi il lancio successivo) si potrebbe perfino notare un certo regresso, un ritorno indietro rispetto alle prime grandi “invenzioni” sociali degli anni settanta. In quegli anni si misero in discussione i manicomi, gli istituti chiusi della segregazione (compreso un ripensamento sulle carceri). Furono gli anni della chiusura dei manicomi, ma anche gli anni delle grandi riforme. L’introduzione dello Statuto dei lavoratori marciò insieme alla riforma sanitaria, mentre ci si cominciava a occupare delle nuove emergenze delle tossicodipendenze, dell’immigrazione ai suoi primi passi in Italia, dell’aumento della marginalità. In questo contesto si sono sviluppate le esperienze delle tante associazioni, onlus, delle cooperative, mentre dalle università ci si cominciava a rendere conto che i temi sociali meritavano un’attenzione a parte. Il convegno proposto da Capodarco non sarà però una rassegna asettica delle tante esperienze cresciute nel sociale, né una riproposizione acritica delle principali tappe di questa storia particolare. In una certa fase ci si è resi conto che tutte queste emergenze e tensioni sociali, ogni problema legato al disagio e alla marginalità, non avrebbero più potuto essere affrontati solo con il cuore. Ed è qui lo snodo. “Ad un certo punto – scrive Albanesi – abbiamo commesso un gravissimo errore, di cui oggi sentiamo le conseguenze negative. Siamo diventati gestori di servizi, senza riuscire a ottenere un quadro di riferimento uguale in Italia, caratterizzato da risposte certe, diffuse nel territorio, di livello minimo garantito”. Un’affermazione dunque che ci sbatte in faccia direttamente una delle questioni più difficili che sta affrontando oggi la politica (la definizione dei livelli essenziali delle prestazioni sociali), ma anche un disvelamento coraggioso di uno dei miti del presente: il carattere di panacea di tutto ciò che non è Stato, né mercato. Vinicio Albanesi non parla per tutti, ma parla evidentemente a tutti. “Siamo stati succubi – spiega – superbamente orgogliosi, della nostra risposta precaria, con quattro grandi limiti: abbiamo perduto la nostra dimensione di coscienza critica e di inventiva; abbiamo subito gabbie assistenziali imposte da altri, abbiamo creato aziende sociali imbarcando specialisti di ogni genere, siamo stati promotori di un mercato straccione”. La riflessione deve quindi ripartire proprio da quello spartiacque: dal momento in cui anche le comunità come Capodarco decisero di cominciare a “gestire” servizi per conto dello Stato e degli enti locali. Si tratta di ripensare le esperienze fatte anche perché - nella maggior parte dei casi - sono state improntate e costruite sulla base dell’analisi dei fenomeni sociali, ma non sulle loro cause e quindi sulla necessità di rimuoverle. La preoccupazione maggiore è stata così quella di crearsi una “nicchia”, sforzandosi di fornire servizi decenti. Operare nel sociale è diventato a poco a poco l’arte di creare agenzie che forniscono servizi “chiavi in mano”. (pan)