CARTOGRAFIA ANTICA Un uomo si propone il compito di disegnare il mondo. Trascorrendo gli anni, popola uno spazio con immagini di province, di regni, di montagne, di baie, di navi, d'isole, di pesci, di dimore, di strumenti, di astri, di cavalli, e di persone. Poco prima di morire, scopre che quel paziente labirinto di linee traccia l'immagine del suo volto. José Luis Borges Fin dalla preistoria gli uomini hanno sentito la necessità di tracciare rappresentazioni simboliche del territorio, attraverso cui poterlo in tal modo dominare razionalmente, per esigenze molteplici: commerciali, militari, politiche, burocratiche, economiche, religiose, culturali, scientifiche. Una “carta” (intendendo il termine in senso generico) non fornisce così solo dati sull’area rappresentata ma esprime anche la Weltanschaaung (visione del mondo) di chi l’ha prodotta. Nel 1963 durante scavi presso la località di Çatal Huyük, nell'Anatolia centrale, venne alla luce una rappresentazione murale di circa tre metri di lunghezza, la cui datazione venne determinata con il sistema del radiocarbonio al 6200 a.C. circa. Secondo l'interpretazione degli studiosi la mappa mostrerebbe in primo piano un insieme di abitazioni (circa 80) e sullo sfondo il vicino vulcano Hasan Dag a doppio cono con i fianchi ricoperti di massi in eruzione. La rappresentazione dall’alto delle case può essere stata favorita dall’abitudine ad entrare nelle case dell’alto, essendo esse sprovviste di porte. La più antica rappresentazione topografica di una regione può tuttavia essere identificata in una tavoletta d'argilla, scoperta nel 1930 presso le rovine dell'antica località di Ga-Sur (Nuzi), oggi Yorghan Tepe presso Kirkuk, circa 200 miglia a nord di Babilonia, attualmente conservata nel Semitic Museum della Harvard University a Cambridge. E' una piccola tavoletta (7,5 x 6,5 cm) che la maggior parte degli studiosi attribuisce all'epoca dell’impero degli Accadi (2300 a.C. c.). Su di essa appaiono due catene montuose fra cui scorre un corso d'acqua (Rahium?), che pare ricevere un affluente e poi diramarsi. Sono visibili anche delle iscrizioni cuneiformi che indicano le dimensioni degli appezzamenti coltivati: al centro un’ area di 354 iku [12 ettari], di proprietà di un certo Azala. Fra le indicazioni scritte è leggibile iin basso a sinistra l’indicazione della città di Mashkan-dur-ibla. La mappa precisa inoltre, ai bordi, tre dei quattro punti cardinali, individuati in base ai venti: si tratta di una pianta “orientata”, in quanto l’est è in alto. Altra testimonianza della cartografia mesopotamica è la frammentaria pianta della città di Nippur (1500 a. C. ca.) custodita nella Collezione Hilprecht della Friedrich-Schiller-Universität di Jena. Si nota il rilievo dato al tempio di Enlil, la divinità della città, sulla destra. Sono indicate le mura della città, con le porte, canali, magazzini, un parco e, a sinistra, l’Eufrate. E’ la prima pianta conosciuta realizzata con riduzione in scala, di cui gli scavi archeologici hanno rivelato la notevole precisione. Assai più tarda (600 a. C ca.) è una tavoletta babilonese del British Museum di Londra che rappresenta una cosmografia mitica. La terra è raffigurata come un disco circondato dall’oceano e da sette isole, a sette miglia dalla terra, che mettono in comunicazione l’oceano terrestre con quello celeste, dove nuotano costellazioni animali, gli antichi dei sumeri detronizzati e rimpiazzati da dei antropomorfi. Queste isole sono identificate da suggestive iscrizioni: “dove gli uccelli alati non volano”, “la luce è più lucente del tramonto e delle stelle” “dove non si vede niente e il sole non è visibile”, “dove un toro cornuto soggiorna e attacca chi sopraggiunge”, “dove il mattino albeggia”. 1 Al centro della terra appare Babilonia. Essa è attraversata dall’Eufrate (rappresentato con linee parallele) che sfocia in una zona paludosa. Altre città sono indicate con piccoli cerchi. L’Egitto non ci ha lasciato quasi nessun documento cartografico. I faraoni organizzarono spedizioni militari, missioni commerciali e pure spedizioni esplorative. Uno di questi primi viaggi fu intrapreso negli anni 1493 -92 a.C. per mare alla mitica Terra del Punt (probabilmente la Somalia), come è riportato in un’iscrizione nel tempio di Der-el-Bahri. L’iscrizione è accompagnata da una nave, ma non da una mappa. Erodoto dice di un altro viaggio, ordinato dal faraone Necho (circa nel 596-594 a.C.) per il quale navi fenicie circumnavigarono l’Africa, dal Mar Rosso alle Colonne d’Ercole. Sappiamo da Erodoto che durante la campagna contro gli Sciti da parte del faraone Sesostri (ca. 1400 a.C.) tutta la terra conquistata venne cartografata. Al 1150 c., all’epoca del faraone Ramses IV, è stato datato un papiro del Museo egizio di Torino con una mappa delle miniere d’oro della Nubia (attuale Sudan), in cui sono indicate le strade che intervallano le cave e le case degli operai. *** Presso i greci dei tempi omerici la terra è concepita come disco circolare piatto, circondato completamente dalle acque del fiume Oceano. Da parte di alcuni studiosi la descrizione che Omero dà nel XVIII libro dell’Iliade dello scudo di Achille costituisce la prima rappresentazione cartografica-cosmologica greca. Vi si narra che Efesto, il fabbro divino, modellò lo scudo di Achille su tre diversi strati di metallo. Al centro erano rappresentate scene terrestri, tra le quali due città, una in pace e l'altra in guerra, e nella zona periferica, invece, era rappresentato il fiume Oceano. Tra i più notevoli elementi cosmologici erano rappresentate le costellazioni di Orione, delle Pleiadi e dell'Orsa Maggiore, nonchè il Sole e la Luna Si tratta, a suo modo, di una cosmografia mitica. Nella concezione omerica, come emerge da altri passi dei poemi, alla sommità del cielo sta la fascia incandescente dell’etere, limitata dalla volta cristallina (solida) dove sono situate le stelle. La terra ha non solo una dimensione orizzontale (γῆ), ma anche una verticale (χθών): all’estremità più profonda, distante dalla superficie quanto dista la volta del cielo secondo Esiodo (Teogonia), sta il Tartaro, la zona più profonda dell’Ade, il regno dei morti. Una versione originale del mito è proposta da Ferecide di Siro (VI sec. a. C. ), il maestro di Pitagora: in una sua opera narrava che Ζάς (Zeus) al momento di sposarsi con Χθονίη (=Χθών, la terra profonda), le dona un velo che rappresenta Γῆ e Ὠγηνός (=Ὠκεανός, Oceano): la terra che l’uomo conosce è quindi un velo che cela l’aspetto inconoscibile, ctonio, della terra stessa. A partire dal VI sec. a. C. la visione mitica del cosmo è messa in discussione dalla speculazione dei primi filosofi che, nelle colonie greche della Ionia (coste dell’attuale Turchia), aperte al contatto fra tradizioni culturali diverse, cercano di fornire una spiegazione razionale dell’universo e della sua origine (ἀρχή) emancipandosi dalle tradizioni mitiche. Se Talete, il primo scienziato-filosofo (626-548) immaginava l’acqua come ἀρχή, principio materiale dell’universo, Anassimandro (610-546 a.C.), anch’egli originario di Mileto, poneva l’ἄπειρον (=l’indefinito), cioè un principio astratto, come origine di tutte le realtà finite. Secondo quanto ci è stato tramandato egli affermava che la terra stava sospesa nel vuoto ed aveva la forma di un 2 cilindro, di cui la faccia superiore corrispondeva alla terra abitata. Della superficie terrestre egli diede una rappresentazione, secondo la tradizione, in un πίναξ bronzeo, in cui il fiume Oceano circondava le terre emerse. Si dice che Anassimandro abbia introdotto l'uso dello gnomone (un’asta di lunghezza nota infissa nel terreno che serviva per tracciare sul piano i movimenti degli astri) forse per averlo appreso dai Babilonesi. Negli anni seguenti un forte impulso alle conoscenze geografiche venne dai peripli, testi che descrivevano itinerari marittimi fornendo notizie sulle coste, sui porti e sui popoli costieri. Attorno al 500 a. C. il logografo (=scrittore di λόγοι=storie) Ecateo di Mileto (550-480 a.C.), pubblicò la sua Periegesi, la prima opera geografica greca scritta in prosa, una descrizione della terra conosciuta in due libri, ricca di dati storici e geografici, di cui ci sono pervenuti circa 300 frammenti. Essa doveva essere corredata in origine di una rappresentazione cartografica, che perfezionava il pinax di Anassimandro. Benché Ecateo prendesse le distanze dalle tradizioni mitiche (“Scrivo queste cose, così come a me sembrano vere. Infatti i racconti [λόγοι] dei Greci, a quel che mi appare, sono molti e ridicoli”), le sue nozioni geografiche sono chiaramente primitive. Per lui il Caspio era un golfo che sfociava nell'Oceano circolare. Un evento significativo per la cartografia si ebbe a Sparta nel 498 a.C. Come riferisce lo storico Erodoto, il tiranno di Mileto Aristagora cercò invano di convincere gli Spartani a intraprendere una campagna contro i Persiani che avevano sottomesso la sua città, esibendo una mappa realizzata su una piastra metallica, che doveva rappresentare parte del Medio Oriente, con l’Iran e l’Armenia. La rappresentazione cartografia del territorio non poteva servire solo a dominare intellettualmente lo spazio esistente, registrandolo, ma anche a modificarlo razionalmente. L’urbanista Ippodamo di Mileto, che progettò la riedificazione di Mileto dopo la II guerra persiana (479 a. C.) diffuse un modello di organizzazione delle nuove città di enorme successo nel mondo greco, fondato sulla rigorosa perpendicolarità e simmetria del sistema viario in modo da creare una pianta a scacchiera. Gli isolati base misurano m 29,50 x 51,60 (100 piedi per 175), e sono variamente suddivisi nel senso della lunghezza. Una simile struttura fu applicata dallo stesso anche nel Pireo di Atene, a Rodi e nella fondazione della colonia di Turi (445 a. C.). Una struttura di tale ampiezza necessitava sicuramente di una pianta preventiva come base per la pianificazione urbanistica; essa si può ricostruire nelle sue linee generali proprio sulla base dei risultati degli scavi archeologici. Lo storico e geografo Erodoto di Alicarnasso svolse la sua attività intorno agli anni 440 - 425 a.C. I viaggi che portò a termine gli consentirono di allargare enormemente le conoscenze geografiche dei suoi contemporanei. Le sue Storie erano essenzialmente dedicate alla lunga lotta che aveva opposto i Greci ai Persiani, ma non tralasciò di includere ogni sorta di notizie sui popoli con i quali era venuto a contatto. Si può ritenere che pur essendo venuto a conoscenza della nozione della sfericità della Terra, sostenuta in particolare dai Pitagorici su basi filosofiche (la sfera come forma perfetta) abbia continuato per semplificazione a trattarla come un disco piatto. Comunque, nei suoi scritti non manca di criticare certi luoghi comuni che continuavano ad essere usati (il "fiume" Oceano perfettamente circolare, come se tracciato con un compasso, i dimensionamenti assurdi delle parti del mondo, ecc.). Un'altra delle concezioni geografiche messe in ridicolo fu quella dei quattro "golfi" (il Mar Caspio, il Mare Arabico, il Golfo Persico e il Mediterraneo) bagnati dal fiume Oceano Naturalmente anche Erodoto non è immune da errori. Dice ad esempio di cinque giovani originari del Golfo della Sirte, che si inoltrarono verso sud, attraverso il deserto, fino a giungere a un grande 3 fiume che scorreva verso est. Sostiene che avessero raggiunto la zona di origine del Nilo, che egli situava nell'Africa Occidentale. Forse ad Erodoto può essere giunta qualche incerta notizia circa qualche grande fiume dell'Africa Centrale, ma è improbabile che all’epoca delle spedizioni abbiano potuto attraversare il deserto. In alcuni punti le conoscenze di Erodoto si dimostrano più corrette, rispetto a quelle dei suoi contemporanei e di alcuni successori. Si rese conto che il Caspio era un mare chiuso, e non un golfo affacciato sull'Oceano. Con Erodoto emerge una nuova visione della terra e della geografia, che non è più quella mitica ma nemmeno quella astrattamente concettuale dei primi filosofi: essa si fonda piuttosto sull’esperienza diretta. Un secolo dopo proprio a partire da argomentazioni sperimentali il filosofo Aristotele (384-322 a. C.) sostenne la sfericità della terra, notando l’ombra circolare della terra nelle eclissi di luna e il mutare della posizione delle costellazioni rispetto all’orizzonte nel corso di lunghi viaggi. A lui contemporaneo è Eudosso di Cnido, che introdusse la nozione di klìma, cioè la latitudine, effettuando alcune misurazioni; Pitea di Massalia (Marsiglia) calcolò la latitudine del Circolo Polare Artico. Il primo tentativo di approccio scientifico alla cartografia greca si ha sempre nel quarto secolo. Dicearco di Messina (350 - 290 a.C.), discepolo di Aristotele attivo in varie discipline, nella sua Descrizione della Terra, indicò per primo la necessità di una linea di riferimento (διάϕραγμα) su una carta dell’ecumene. Essa correva orizzontalmente da ovest a est, come un parallelo, passando attraverso Rodi; qui doveva forse incrociarsi con un'altra linea verticale. Una pietra miliare nella storia della cartografia è rappresentata da Eratostene di Cirene (276 - 195 a.C ), nominato da Tolomeo II Filadelfo direttore della Biblioteca di Alessandria, il più grande centro culturale dell’antichità. E' certo che le conquiste di Alessandro Magno permisero alla comunità scientifica greca di progredire enormemente, anche sulle conoscenze geografiche, e quindi anche Eratostene potè beneficiare di esse. Egli realizzò una mappa di tutto l’Egitto e anche una rappresentazione di tutto il mondo abitato (Οἰκουμένη) che realizzava una correzione (διόρθωσις) di quelle precedenti sulla base delle notizie raccolte. Riprendendo l’intuizione di Dicearco, egli suggeri che un certo numero di linee fossero tracciate parallelamente a una di riferimento, in corrispondenza a città note, senza tuttavia distanziarle regolarmente. Scrisse inoltre un trattato dal titolo Γεωγραϕία (nome coniato da lui stesso) in tre libri. Benché Eratostene fosse snobbato dai suoi contemporanei (lo chiamavano πένταθλος per essere esperto in cinque discipline, ma anche “beta” in quando non primeggiava in nessuna), i moderni lo ritengono il "padre della geografia scientifica". Certamente il più grande dei meriti che gli vengono ascritti è la misurazione eccezionalmente precisa della circonferenza terrestre, da lui calcolata in 250.000 stadi (circa 39.375 km contro i 40.000 reali), esposta in uno scritto oggi perduto, ma di cui resta un riassunto. Egli notò la diversa inclinazione dei raggi solari nel solstizio d’estate nella città di Siene (Assuan), collocata nella linea del tropico del cancro, dove erano esattamente perpendicolari al suolo tanto da non creare quasi ombra, e in Alessandria, collocata più a nord quasi sullo stesso meridiano, dove invece un obelisco creava un’ombra di una certa lunghezza. Essendo i raggi del sole sempre paralleli a se stessi, si notava con un semplice ragionamento che l’angolo fra l’obelisco e la diagonale che univa la punta dell’obelisco all’estremità della sua ombra per terra (che si poteva calcolare facilmente) era uguale anche all’angolo creato dalle rette immaginarie che univano le due città con il centro della terra. Conoscendo la distanza fra le due città, bastava dividerla per il numero 4 dei gradi dell’angolo e moltiplicare il risultato per 360, corrispondente ad un angolo giro. Eratostene passò poi a considerare la dimensione del mondo abitato allora conosciuto, fornendo dati esagerati per eccesso: 70.000 stadi in longitudine, dalle Colonne d'Ercole all'India e 38.000 stadi in latitudine, dalla Terra delle Spezie (Somalia-Etiopia) all'isola di Thule (visitata nel IV sec. a. C da Pitea di Marsiglia, identificata variamente con la costa norvegese, con l’Islanda o addirittura la Groenlandia). Per avere un'idea dell'errore di Eratostene, si tenga presente che 70.000 stadi corrispondono a circa 140° di longitudine, cioè a un'estensione non da Gibilterra all’India come pensava Eratostene, ma da Gibilterra alla Corea. E' degna di nota, invece, la spiegazione geograficamente razionale che egli fornì per primo delle inondazioni annuali del Nilo (le precipitazioni copiose che si avevano all'inizio della stagione estiva nelle regioni di origine del fiume). In un frammento di poemetto da lui composto descrive la terra come composta di cinque fasce climatiche, due glaciali, due temperate ed una torrida. Le dimensioni che Eratostene aveva attribuito all'ecumene e alla superficie sferica della Terra davano origine a un problema: come era possibile che l'intero mondo abitato fosse concentrato in un quarto della superficie terrestre, cioè la metà di un emisfero? Ciò non era in accordo con i criteri tipicamente greci di equilibrata simmetria. Cratete di Mallo (210 - 150 a.C.), che realizzò a Pergamo un grande globo di circa tre metri di diametro, ipotizzò l'esistenza oltre al continente eurafrasiatico (Europa + Africa + Asia) di tre altri continenti: gli ἄντοικοι (a sud dell’Eurafrasia nell’emisfero meridionale), i περίοικοι (opposto all’Eurafrasia nell’emisfero settentrionale), gli ἀντίποδες (a sud dei περίοικοι nell’emisfero meridionale, in pratica diametralmente opposti all’Eurafrasia). Le ipotesi di Cratete sui nuovi continenti, che si fondavano anche su fonti del tutto inattendibili come i poemi omerici, ebbero una vasta eco anche presso i successori. Cicerone le riprese nel Somnium Scipionis (ultimo libro del De re publica) e finirono per trovare ampio credito nel Medioevo, venendo paradossalmente confermate in età moderna dalla scoperta dell’America, dell’Oceania e dell’Antartide. Il grande astronomo e matematico Ipparco di Nicea (185-125 a. C.), inventore della trigonometria, perfezionò la definizione di un reticolato geografico; egli immaginò l’esistenza di un continente fra l’Oceano Indiano e l’Atlantico, basandosi sull’osservazione delle maree. Il filosofo Posidonio di Apamea, vissuto dal 135 al 51 a.C., occupa un posto importante nella storia della cartografia. Dopo aver viaggiato a lungo nel Mediterraneo, si stabilì a Rodi, dove aprì una scuola. Qui realizzò anche la costruzione di un planetario, quale strumento didattico per le sue lezioni, che riproduceva i moti celesti. Criticò la usuale suddivisione (risalente a Parmenide ed Aristotele) della superficie terrestre in cinque zone su criteri climatici, sostenendo invece che si dovevano introdurre termini astronomici, quali i circoli tropici e i circoli polari. Egli sulla base di calcoli astronomici (variazione della posizione nel cielo di una stella a diverse latitudini), fornì un calcolo della superficie della terra (180.000 stadi) molto meno preciso di quello di Eratostene, purtroppo seguito da Tolomeo e diffuso fino all’età moderna. Interessi più etnografici che matematico-scientifici animarono il geografo Strabone, autore di un’opera geografica eccezionalmente ricca e vasta. Egli era nato ad Amasia, sul Mar Nero, all'incirca nel 64 a.C. compì i suoi studi a Nysa, in Caria, e soggiornò a diverse riprese a Roma. Intorno al 25 a.C. si trasferì ad Alessandria. La sua Geographia, in 17 libri, si basa sui resoconti dei viaggi compiuti da vari esploratori. Da qui possiamo trarre una gran messe di notizie sui suoi predecessori, 5 specialmente su Eratostene. Malgrado la sua asserzione di aver viaggiato estesamente, gli specialisti tendono a privilegiare l'ipotesi che egli abbia largamente attinto al materiale della Biblioteca di Alessandria, ma il suo viaggio di risalita del Nilo fino alle frontiere con l'Etiopia sembra effettivamente avvenuto. E' probabile che le sue opere geografiche abbiano avuto scarsa diffusione a Roma, perchè non sono citate da Plinio. Ridusse un poco le dimensioni del mondo abitato rispetto a quelle date da Eratostene: 70.000 stadi in lunghezza (anzichè 78.000) e 30.000 in latitudine (anzichè 38.000). Nei suoi scritti non mancò di volgere la sua attenzione al problema delle deformazioni che nascono nel voler rappresentare la superficie sferica della Terra su un piano. Per questo suggeriva di ricorrere per quanto possibile a un globo "come aveva fatto Cratete", raccomandando di costruirlo opportunamente grande, di almeno dieci piedi di diametro. Marino di Tiro, che fiorì intorno all'anno 120 d.C., può essere considerato il primo a proporre la necessità di un approccio matematico alle proiezioni cartografiche. Egli sosteneva la necessità di un reticolo di meridiani e paralleli, probabilmente originato da una proiezione cilindrica centrale. Secondo Tolomeo, la caratteristica notevole delle carte di Marino fu il maggiore dettaglio accordato al mondo abitato, rispetto ai predecessori. Ma dice anche che Marino mancò di spirito critico nelle sue investigazioni scientifiche e che commise degli errori. Tuttavia le opere di Marino devono essere state di enorme importanza per il suo tempo, e che sicuramente esse devono essere state la base sulla quale Tolomeo costruì il suo imponente contributo geografico. La fama dello scienziato alessandrino Claudio Tolomeo (ca. 100 - ca. 170 d.C.), attivo in numerosissimi campi disciplinari, dall’ottica alla musica, dalla matematica alla storia, è legata a due opere di grandissima influenza fino all’età moderna. La prima è la Μεγάλη σύνταξις, un’opera di astronomia successivamente tradotta e diffusa in arabo con il nome di “Almagesto” (“il più grande”). In essa egli afferma con prove valide la sfericità della terra ma ne afferma anche contro Aristarco di Samo l’idea della collocazione centrale nell’universo (geocentrismo) e la sua immobilità, che saranno pressoché incontestati fino a Copernico e Galileo. Nella Γεωγραϕική σύνταξις, nota semplicemente come Γεωγραϕία egli si distaccò dall’impianto etnografico e filosofico dei suoi predecessori, sostenendo un approccio rigorosamente scientifico e matematico: per lui la geografia è essenzialmente cartografia, e la sua opera è "una guida geografica alla costruzione di mappe”. Le più antiche copie pervenute (secolo XIII) appaiono costituite di otto "libri", alcune delle quali corredate di carte: il primo atlante generale del mondo che sia sopravvissuto. Non sappiamo fino a che punto corrispondessero realmente a quelle realizzate da Tolomeo o siano state ricostruite da studiosi bizantini. Nella parte testuale dell'opera sono indicati gli obblighi del costruttore di mappe e la natura del materiale con cui egli ha a che fare. Per evitare, o quanto meno ridurre gli errori che si avevano nelle proiezioni cartografiche di Marino di Tiro, fondate su rette perpendicolari equidistanti, Tolomeo proponeva una proiezione conica. Questa consisteva nel proiettare i punti della sfera terrestre su una superficie conica il cui asse coincideva con l'asse terrestre, e che doveva intersecare la superficie terrestre stessa in corrispondenza dei paralleli di Rodi e di Thule. Le coordinate sono date in gradi rispetto a un meridiano di riferimento passante per le Isole Fortunate (le Canarie). Per rappresentare la parte conosciuta dell'emisfero sud traccia un parallelo a sud dell'equatore (Equinoctialis) - distante da esso quanto la località nordica di Meroe dista dall'equatore stesso-, e dei meridiani speculari a quelli della fascia superiore corripondente. La parte restante non viene rappresentata, in quanto non 6 abitata: si riteneva infatti che oltre la zona torrida equatoriale non fosse più possibile la vita. Egli si limitò ad usare questa proiezione soltanto per la sua prima carta generale del mondo, mentre per le rimanenti ventisei carte regionali, collocate alla fine dell’opera, fece uso della proiezione di Marino. Gran parte dell’opera è costituita da tabelle di località abitate con latitudini e longitudini in gradi di città, estuari, sorgenti, monti, promontori, ecc.. L’ultimo libro contiene 26 mappe, ciascuna ripiegata a metà e recante sul retro una iscrizione della regione illustrata, dei suoi confini e una lista delle città principali. Le coordinate di queste città sono date non in gradi ma in tempo. La longitudine è espressa in ore e minuti rispetto al meridiano di Alessandria (1 ora = 15º, 1 minuto = 15’), mentre la latitudine è espressa in termini di durata del giorno più lungo (al solstizio estivo). Questo trattato rimase l'opera geografica di riferimento per tutta l'età medioevale, venendo soppiantato solo durante il secolo XVI. Come si è detto, Tolomeo commise l’errore di seguire la misura della circonferenza terrestre calcolata da Posidonio. Basandosi sulla misura della circonferenza terrestre di 180.000 stadi, trasmise alla posterità la erronea nozione della estensione del mondo abitato (dalle Isole Fortunate, cioè le Canarie, all'India) per una metà dell'intera circonferenza terrestre, cioè 180°, mentre ne occupavano poco più di 100. Agli studiosi del Rinascimento quindi arrivò (1) la dimensione terrestre (erronea) di Tolomeo e (2) l'esagerata estensione del complesso Europa-Asia (sempre di Tolomeo), con tutte le conseguenze. *** Senza dubbio la civiltà romana doveva possedere una buona cartografia. Il gran numero di strade realizzate, le numerose guarnigioni disperse ai quattro angoli dell’impero, la formazione di specialisti misuratori (agrimensores) sono tutti fattori che indicano una predisposizione a coltivare la costruzione di mappe, anche se le testimonianze sono molto ridotte. Nel 174 a.C. una mappa della Sicilia era stata fatta per il tempio di Matuta. Varrone (scrittore latino del secolo I a.C.) cita una mappa dell’Italia. Quando una colonia veniva fondata, o un territorio veniva suddiviso, venivano redatti dei piani in duplice copia, una in metallo o in pietra, da essere esposta pubblicamente, un’altra in lino, per gli archivi di stato. Pomponio Mela, scrittore latino del secolo I d.C., di origine spagnola, è considerato il primo cartografo romano. La maggior parte delle informazioni geografiche a lui attribuite si rifanno a quelle risalenti ai greci Eratostene e Strabone. La sua conoscenza di alcuni aspetti del Nord Europa è però migliore di quella degli scrittori greci (ad esempio è il primo a citare le "Isole Orcadi"). L'opera principale di Mela è intitolata De chorographia, ed è una descrizione, in tre libri, dei paesi del Mediterraneo, del Nord Europa, e anche di Asia e Africa, regione per regione. Non si ha alcuna prova che l'opera fosse dotata di carte geografiche. Mela scrisse agli inizi dell'invasione romana della Britannia, e quindi le sue cognizioni sulle isole inglesi sono del tutto imprecise. Sappiamo anche di mappe costruite privatamente, come quella del mondo conosciuto (orbis pictus), fatta costruire dal generale Marco Vipsanio Agrippa (63 - 12 a.C.), che si suppone basata su misurazioni stradali fatte eseguire su tutto l’impero dall’imperatore Augusto (27 a.C. - 14 d.C.). Si tratta chiaramente di rilievi a carattere unicamente militare e non astronomico. La mappa, che era completata da note descrittive redatte dello stesso Agrippa, fu completata postuma solo nell’anno 20 d. C. ed esposta al Campo Marzio nella Porticus Vipsania. Sebbene delle copie siano state realizzate ed inviate in varie città dell’impero, restano solo citazioni verbali, come quelle di Plinio il 7 Vecchio, che attinge alle didascalie di Agrippa (morto nel 79 d. C.), ma forse alcune mappe circolari medioevali serbano indiretto ricordo del modello. Recentemente è stata avanzata tuttavia una ricostruzione diversa, in forma rettangolare; essa sarebbe stata suddivisa in tre pareti adiacenti, in modo che il visitatore si sentisse al centro del mondo conosciuto. La diversità culturale tra i Greci e Romani si manifesta anche nelle loro concezioni cosmografiche e nel modo di fare cartografia. Mentre i primi erano interessati agli aspetti astronomici e scientifici, i secondi puntavano a finalità piuttosto propagandistiche o pratiche (militari o amministrative). Si è per molto tempo creduto che la mappa di Agrippa fosse alla base della famosa Tabula Peutingeriana, copia medioevale di una mappa antica, rinvenuta nel 1507 dall’umanista viennese Konrad Celtes, bibliotecario dell’imperatore Massimiliano I e passata poi al collezionista Konrad Peutinger (1508 - 1547) di Augsburg da cui prende il nome. Pubblicata nel 1598 ad Anversa è oggi custodita nella Biblioteca Nazionale di Vienna. Essa consta di una striscia di pergamena lunga m 6,752 e larga circa 34 cm, oggi suddivisa in 11 fogli, segmenta, di circa 60 cm ognuno. Manca l’estremità sinistra, corrispondente alla penisola iberica e alle isole britanniche. L'intero mondo abitato viene enormemente schiacciato e deformato, ridotto ad unica asta diritta: l’Impero romano è visto come un immane sistema di rettilinei stradali, che sembrano quasi annullare gli elementi fisici del territorio e i loro rapporti. I mari, in particolare sono ridotti a strisce sottili e i fiumi assumono un percorso rigorosamente longitudinale. Lo stravolgimento del profilo delle terre rappresentate è compensato dall'abbondanza e dalla precisione dei dati relativi alla distanza e ai tempi di percorrenza tra i nodi della maglia stradale di cui l'impero disponeva nel periodo del massimo splendore. La tabula appartiene al genere degli itineraria, sorta di grandi carte stradali illustrate diffuse in età imperiale che rispondevano ad esigenze di varia natura economica e militare. Gli itineraria potevano essere picta, cioè figurati, come nel nostro caso, o semplicemente adnotata, cioè ridotti ad elenchi scritti di distanze. Già nell'età giulio-claudia si assiste infatti ad un eccezionale allargamento degli ambiti commerciali: l'instancabile attività dei mercanti, sostenuta dall'enorme domanda dei generi di lusso da parte dei ceti elevati italici, produsse una spettacolare dilatazione - dal Baltico alla Somalia, dall'Irlanda all'India e alla Cina - del campo d'azione del commercio romano. Ma vi potevano essere nondimeno motivi di carattere militare: conoscere la geografia è importante per poter controllare i territori, far muovere velocemente le milizie, sedare ribellioni e riscuotere i dazi. Tuttavia nella tabula peutingeriana non troviamo evidenziati tanto siti di interesse propriamente militare, quando luoghi di culto, centri commerciali e impianti termali. Ciò rende improbabile una diretta derivazione dall’orbis pictus di Agrippa, specie se si immagina quest’ultimo di forma circolare. Benché l’impianto attuale della tabula risalga probabilmente al III secolo, è tuttavia significativa l’indicazione di città come Pompei, Ercolano ed Oplonti decadute o scomparse dopo il I secolo d. C., il che fa pensare all’impiego di fonti di quest’epoca. Altre modifiche avvennero in età tetrarchica e nei primi secoli del medioevo (V-VI) con il rilievo dato alla principali capitali tardoantiche (Roma, Antiochia e Costantinopoli) e con indicazioni della storia sacra (nel deserto del Sinai è indicato che lì gli Ebrei avevano errato per 40 anni). E’ probabile che la forma definitiva della Tabula Peutingeriana venne fissata in età tardoantica, anche se la copia viennese risale al XIII secolo. Non conosciamo il nome dell’autore della Tabula, forse indicato nella parte mancante. L’Anonimo ravennate, che sembra attingere dati dalla tabula, cita il nome di un certo Castorius come sua fonte, e quindi si potrebbe pensare che costui sia stato l’autore. 8 Ci sono giunti vari frammenti di una monumentale carta topografica di Roma (Forma urbis) fatta incidere su marmo dall’imperatore Settimio Severo (193 - 211 d.C.), caratterizzato dalla delineazione incredibilmente precisa degli edifici. La pianta misurava in origine circa 13 m di altezza per 18 m di larghezza e si componeva di circa 150 lastre rettangolari di marmo. Il disegno della pianta venne inciso sulle lastre dopo che erano state collocate sul muro. Le lastre erano applicate come rivestimento parietale su una delle sale disposte all'angolo meridionale del Foro della Pace, poi riutilizzato per la chiesa dei Santi Cosma e Damiano, dove sono tuttora visibili i fori utilizzati per le grappe di fissaggio delle lastre. La pianta rappresenta in una scala di 1:240 ed è orientata, diversamente dagli usi moderni, con il sud-est in alto. Viene rappresentato in dettaglio il piano terra di tutti gli edifici, compresi colonnati e scale interne. La datazione è posteriore al 203, data della costruzione del Settizodio, la cui pianta si conserva su uno dei frammenti, e anteriore al 211, anno della morte di Settimio Severo: questi viene infatti citato come regnante nella dedica conservata su uno dei frammenti. La pianta venne probabilmente eseguita in occasione della ricostruzione di alcuni settori del Tempio della Pace che erano stati danneggiati da un incendio nel 192. È possibile che la pianta severiana ne rimpiazzi una più antica dell'epoca di Vespasiano, il costruttore del complesso monumentale. Doveva essere connessa con la pianta catastale ufficiale di Roma (forse conservata nella medesima sala, ma redatta su papiro, più facilmente aggiornabile), e riportare inoltre i dati riguardanti i proprietari degli edifici e le loro misure. Attualmente si conservano 1.186 frammenti delle lastre, circa il 10-15% del totale. Nella Tabula Peutigeriana i simboli delle città impiegano un tipo di visione diagonale dall’alto detta “a volo d’uccello” che caratterizza anche un’altra importante fonte cartografica del tardoantico: la Mappa musiva di Madaba sul monte Nebo in Giordania. Si tratta di un mosaico pavimentale di una chiesa, scoperto nel 1890, che rappresenta l’intera Terra Santa, dal delta del Nilo fino alla costa di Tiro e Sidone. Pervenuto frammentario, esso misura attualmente 15,70 x 5,60, ma probabilmente non doveva essere in origine molto più esteso. La carta è orientata verso est, in modo che i nomi delle località potessero essere letti da chi entrava. Essa comprende ben 157 toponimi, città, villaggi o nomi di luoghi geografici. Le località sono ordinate sulla base di un sistema viario, come nella tabula peutingeriana. Le città sono rappresentate in forma più o meno stilizzata. Le città minori sono talora indicate con un semplice edificio, una porta fra due torri. Gerusalemme è invece presentata con ricchezza di dettagli, attraverso una mutevole prospettiva, che permette di evidenziare i più importanti edifici della città, dalla porta settentrionale detta “della colonna” alla basilica del Santo Sepolcro che si apre ad ovest sul Cardo maximus. All’estremità meridionale si notano la basilica della Santa Sion e la Nea Theotokos (basilica della Madre di Dio) di età giustinanea, che costituisce fonte importante per la datazione. Non mancano, con funzione prettamente decorativa immagini di palme (oasi), di pesci nel fiume Giordano ma anche due barche nel Mar morto. La presenza di riferimenti diretti alle tribù di Israele, nonché la valorizzazione dei luoghi di culto cristiani, fa di questo mosaico una vera e propria carta biblica, oltre che un documento di fede. 9