Pietro Alotto e Roberto Trolli
DALLA CENTRALITÀ DEL TESTO
ALLA CENTRALITÀ DEL METODO CRITICO-ARGOMENTATIVO
Una proposta di educazione al ragionamento in una società democratica
Negli ultimi anni c’è stato un improvviso rigurgito di interesse per le funzioni della democrazia…. È
come se, una volta raggiunta la prima tappa del nostro viaggio con l'istituzione della democrazia,
dovessimo impegnarci per scoprire come la democrazia possa funzionare al meglio.
Molto
dipende dagli stessi cittadini. I cittadini di una democrazia dovrebbero impegnarsi nel pensiero...
Dovrebbero essere riflessivi, introspettivi, responsabili, ragionevoli, collaborativi, cooperativi...
Alcune - o molte - di queste qualità potrebbero essere rinforzate mentre i futuri cittadini sono
ancora a scuola... Se solo riconoscessimo che dobbiamo rinforzare le capacità riflessive di questi
studenti, invece di aumentare a dismisura i contenuti di conoscenza da trasmettere loro o invece
di credere di aver risolto ogni problema attraverso l’alfabetizzazione informatica.... Ecco,
l’"educazione al pensare", la promozione di un "pensiero di alto livello" dovrebbero essere un
obiettivo primario per l’educazione nel ventunesimo secolo...
M. Lipman
Poche persone si preoccupano di studiare logica, perché ciascuno ritiene di essere abbastanza
bravo nell’arte di ragionare. Io però osservo che questa soddisfazione si limita al proprio
personale raziocinio, e non si estende invece a quello degli altri uomini.
Noi giungiamo al pieno possesso delle nostre capacità di operare inferenze alla fine, dopo lo
sviluppo di tutte le nostre facoltà; non si tratta infatti di un dono naturale ma di un’arte lunga e
difficile.
C. S. S. Peirce
In questo articolo vogliamo difendere soprattutto la tesi che l’insegnamento della
filosofia è un elemento fondamentale del curricolo formativo in una società democratica, ma a
condizione che esso muti radicalmente i suoi metodi, le sue usuali pratiche didattiche e, in
parte almeno, le sue finalità.
Sosterremo che la didattica della filosofia deve prendere sul serio la missione che (a
parole) si è data, cioè quella di formare menti autonome e critiche; mentre le pratiche
didattiche (siano esse lo studio nozionistico del pensiero degli autori o la lettura dei testi) e i
contenuti dell’insegnamento tradiscono o sono inadeguati al compito.
Vogliamo inoltre proporre una visione dell’attività filosofica come gioco individuale e collettivo
volto a risolvere problemi (rompicapo). A questo scopo proponiamo, nella seconda parte del
nostro intervento,
un’ipotesi di modello pedagogico (strutturato secondo nuclei fondanti,
strategie didattiche e macrocompetenze) che ci pare utile per l’impostazione di una didattica
innovativa.
Ridare un senso al fare filosofia con i (e non ai) ragazzi significa rompere l’atmosfera
seriosa e plumbea, annoiata o falsamente compiacente della classe, per costruire una classe
“aperta” dove ci si mette alla prova, si saggia la propria inventiva nel risolvere rompicapo
filosofici, ci si impegna nella difesa delle proprie tesi e nell’attacco delle tesi avversarie; si
dialoga con i grandi pensatori del passato e del presente, cercandovi spunti, idee,
argomentazioni; litigandoci quando non si è d’accordo (ma sempre col dovuto rispetto)[1], e
mettendosi a caccia dei trucchi, delle astuzie argomentative, dei sofismi, delle fallacie a cui
ricorrevano o in cui sono caduti anche i grandi pensatori.
Filosofia e Democrazia
Il "ragionamento" è il motore dell'apprendimento umano (e come potrebbe essere
diversamente essendo l'uomo ciò che è: un essere dotato di Ragione). Non c'è conoscenza
vera senza comprensione, ma comprendere non si può se non si ragiona su quanto si
apprende, o se non si intende il ragionamento che fonda, giustifica l'affermazione, la tesi, la
legge scientifica, ecc., che viene proposta dall'insegnante o che ci viene data dal libro. Dove
non c’è questo processo di rimasticazione personale, di rielaborazione, di analisi del
ragionamento sotteso ad ogni affermazione o ad ogni tesi, e proposto esplicitamente
(pensiamo a una dimostrazione matematica o sperimentale) o implicitamente (pensiamo a
certe spiegazioni storiche); dove non c'è consapevolezza del valore delle prove o della
concatenazione logica che porta a quelle determinate conclusioni, non ci può essere vero
apprendimento ma mero nozionismo.
Ora, la Scuola, se non vuole più essere un luogo dove si trasmette un sapere
consolidato ed indiscutibile, ma un luogo dove si imparano abilità, e, in particolare, dove si
sviluppa il proprio senso critico, dovrebbe prima di tutto preoccuparsi di insegnare ad
esercitare la propria capacità di ragionare correttamente: insegnare “come pensare” piuttosto
che “cosa pensare”.
Se si ritiene, inoltre, che la Scuola (a maggior ragione quella pubblica) debba essere,
fra le altre cose, scuola di "democrazia", in cui si impara ad apprezzare il valore del dialogo
intersoggettivo, dell'opinione non imposta ma argomentata, in cui si impara il valore della
convivenza e quindi del rispetto dell'altro, e quindi del rispetto delle sue opinioni quali che esse
siano (il che significa non semplicemente e con spirito superficialmente relativistico e
ipocritamente tollerante che "ognuno può pensarla come vuole", quanto il ritenere tutte le
opinioni degne di esame e discussione). Se si ritiene che il compito educativo della scuola
debba essere anche quello di formare cittadini criticamente più avvertiti, più “competenti”[2],
allora bisogna cominciare proprio dalla presa di coscienza e dalla conoscenza delle pratiche
2
argomentative
e
delle
tecniche
logiche
e
retoriche;
dal
riconoscimento
dei
trucchi
argomentativi e dalla consapevolezza degli errori che possiamo commettere o che non
possiamo fare a meno di commettere (i cosiddetti tunnel cognitivi) nei nostri ragionamenti.
Tuttavia, malgrado le lamentazioni sui ragazzi che non sanno giustificare le loro
affermazioni (anzi che non sentono la necessità di farlo), o che imparano senza capire, o che
scrivono da cani ("non sanno l'italiano" si dice, ma, come diceva Sciascia, "l'italiano non è
l'italiano, è ragionare"!); malgrado il riconoscimento, oramai generale, dell'importanza di
perseguire lo sviluppo delle capacità logico-argomentative, il nostro sistema scolastico ritiene
che l'imparare a pensare, a ragionare correttamente, non debba essere oggetto di un
apprendimento specifico, quanto piuttosto una sorta di "riverbero", di effetto secondario
dell'apprendimento di determinate materie e contenuti; e perciò non dedica tempo alla cura di
queste particolari abilità; come se, aristotelicamente o cartesianamente, si presumesse ancora
che la capacità di ragionare sia una dote naturale, innata negli uomini, che funziona
naturalmente bene e correttamente. Ma, come ormai ci attestano le scienze cognitive, questo
non è vero: ragionare o pensare è un'arte che come tutte le arti va appresa![3]
Non così avviene negli Stati Uniti, dove da alcuni anni l’insegnamento di quello che loro
chiamano “Critical Thinking” è stato posto al centro della discussione sulla riforma del sistema
educativo. In effetti, la nostra scuola ha già a disposizione una disciplina che dovrebbe
produrre “pensatori critici”, e questa disciplina è sicuramente la Filosofia.
Questo punto è stato messo bene in evidenza da D. Massaro:
Pensare e in particolar modo pensare bene, riveste … grande importanza, soprattutto oggi che viviamo in
un mondo sempre più composito e difficile, che richiede l’impegno e la responsabilità di una visione
panoramica e sistemica non solo nella risoluzione di problemi teorici, ma anche nelle scelte pratiche e
nelle decisioni. Pensare in modo corretto, secondo le regole della logica formale, e argomentato, secondo
le ragioni del dialogo tra persone costituisce dunque un obiettivo primario dei sistemi formativi. Infatti,
per quanto il pensiero rappresenti il fattore essenziale e distintivo dell’uomo, tuttavia il suo corretto
esercizio non è un dato spontaneo e naturale, ma è un’arte che si apprende e che, quindi, richiede una
didattica adeguata.
La conclusione di Massaro è che “l’educazione al pensiero autonomo e critico è il fine
principale della formazione scolastica, in particolare di quella filosofica […]”[4]
Seguendo il dettame aristotelico o la prima regola dell’argomentare secondo cui non si
argomenta intorno a ciò che è evidente, non mi metterò a difendere questa tesi, su cui mi pare
del resto ci sia una sorta di “consenso universale”, se non altro nella comunità filosofica. Più
controversa o controvertibile è invece la risposta affermativa alla domanda “l’insegnamento
filosofico tradizionale produce pensatori autonomi e critici?”.
Abbiamo già avanzato in altra sede i nostri ponderati dubbi e le nostre moderate
perplessità. Proviamo a sintetizzarle, rimandando per un approfondimento al nostro saggio.
Acquisito che lo studio nozionistico della storia della filosofia non forma pensatori più
critici e autonomi, la didattica della filosofia a partire dalla fine degli anni ottanta ha puntato
3
molto sulla lettura diretta dei testi come via maestra per insegnare a filosofare e, quindi, a
pensare in modo autonomo e critico. E’ diventata quasi un’ovvietà, tanto da farla passare dallo
stato di teoria a quello di un vero e proprio dogma. Ma si tratta di un dogma indimostrato. Su
cosa si fonda un tale dogma?
L’unico riferimento sembra essere quello dell’assimilazione dell’insegnamento della
Filosofia
a
quello
della
lingua
italiana.
Ora,
è
quantomeno
curiosa
questa
fiducia
nell’apprendimento “per imitazione” (leggendo Platone si impara a pensare platonicamente;
leggendo Aristotele aristotelicamente … alla fine avremo un pensatore critico), quando è sotto
gli occhi di tutti il fallimento dell’insegnamento di abilità di scrittura via lettura e studio dei
classici della letteratura: che studiando e leggendo il Manzoni uno impari a scrivere
manzonianamente non lo crede il più sprovveduto degli insegnanti di Italiano.
I sostenitori di questo dogma si rendono conto che non basta la mera lettura dei testi per
“ […] apprendere strategie argomentative e modalità di pensiero, contribuendo così alla
definizione di una serie di competenze concettuali che vanno al di là della semplice conoscenza
dei contenuti.” Ma che “Occorre fare dei testi il materiale per una serie di attività didattiche da
sviluppare su essi e grazie ad essi””[5]
Ma quali sono queste attività?
Il set operativo di uno studente di filosofia è “costituito da brani selezionati e/o da testi
completi mediante il quale svolgere attività di analisi, di ricostruzione di argomentazioni e di
teorie, sul quale compiere esercizi.”[6] A questo proposito, abbiamo esaminato alcuni dei
manuali più noti che hanno seguito le indicazioni dei Programmi Brocca. Ci siamo concentrati
sui capitoli iniziali dei diversi testi (diciamo, grosso modo, fino ad Aristotele). Siamo andati a
vedere quale tipo di attività di lavoro essi richiedono agli studenti, questo è quanto emerso.
Le operazioni maggiormente richieste sono:
§ chiarimento di concetti, di passaggi testuali, di citazioni ecc.
§ produzione o compilazione di schemi e tabelle
§ riassunti
§ definizione di termini e concetti
§ confronto di tesi e posizioni di filosofi diversi
§ spiegazioni o verifica di passi o di interpretazioni
§ ricostruzione di argomentazioni
§ ricerca sui testi letti di espressioni pro o contro una certa tesi;
§ ricerca sui testi letti di espressioni che illustrano una data tesi o un tema dell’Autore
studiato;
§ utilizzazione di coppie concettuali per ricostruire il pensiero di un autore o per fare confronti;
§ motivare tesi interpretative;
§ esporre in modo articolato a partire dai testi la tesi di un Autore;
§ ricerca nel testo di metafore, analogie paragoni.
4
Alcune considerazioni. Si tratta nella stragrande maggioranza dei casi di attività volte
alla comprensione del pensiero dell’autore o degli autori trattati nel capitolo, e non finalizzate
all’acquisizione di abilità cognitive. Non c’è una gradualità riguardo alla complessità delle
operazioni richieste, gradualità che dovrebbe essere relata alle competenze iniziali degli
studenti. Ma ciò che è importante è che si danno per possedute proprio quelle abilità cognitive
e quelle competenze che lo studio della filosofia dovrebbe far maturare, anche attraverso le
esercitazioni.
Si dà, per esempio, per scontato che i ragazzi sappiano analizzare un testo o “spiegare”
concetti o frasi ad alto livello di astrazione. Si dà per scontato che i ragazzi abbiano una
conoscenza adeguata (non approssimativa) di cosa sia un’argomentazione, o la giustificazione
di una tesi, e sappiano valutare in modo esperto un’argomentazione, ecc.
L’idea sottesa a questo tipo di attività è che facendole lo studente sviluppa abilità,
competenze e capacità cognitive di livello superiore. Attraverso queste attività e attraverso la
lettura
dei
testi
che
esemplificano
i
diversi
modelli
di
ragionamento,
il
ragazzo,
miracolosamente, dovrebbe sviluppare la capacità di ragionare e pensare in proprio. Ciò detto,
proviamo a immaginare quale possa essere il modello di apprendimento che si può
presupporre sia alla base di questa fiducia.
Sembra che per i teorici della centralità del testo l’imparare a filosofare comporti un
esercizio di modeling, di imitazione sistematica dei diversi stili filosofici. Si tratta di una tecnica
di apprendimento che per funzionare necessita evidentemente di uno studio sistematico e
sufficientemente approfondito dello stile filosofico (metodo, linguaggio ecc.) dei filosofi presi
come modello.
È un lavoro che potrebbe anche essere interessante, ma quanto “economico” in termini
di tempo di lavoro e quanto produttivo, in termini di efficacia? Quanto tempo si dovrebbe
impiegare per un lavoro ben fatto? Dopo la lettura e l’analisi di quanti testi, un ragazzino di
sedici o diciassette anni riuscirebbe ad impadronirsi dello stile filosofico di Aristotele o di San
Tommaso? Siamo sicuri che per imparare a riflettere con metodo occorra farsi prima platonici,
poi aristotelici e così via?
D’altra parte, un tale apprendimento ha senso se accompagnato dalla capacità di
transfer dei modelli appresi a contesti e problematiche diverse o attuali. Ma che senso avrebbe
affrontare le tematiche della bioetica o dell’intelligenza artificiale o dell’epistemologia con lo
stile filosofico ora di Platone, ora di Aristotele, ora di Kant ?
È per questa fiducia nel “confilosofare” che i manuali si dimenticano di fornire ai ragazzi
proprio quegli strumenti del pensare filosofico (ma si potrebbe dire del pensare e del ragionare
tout court) senza i quali il fare filosofia o il riflettere filosoficamente o, più semplicemente
svolgere le operazioni testuali richieste, non hanno senso.
Pensare e ragionare correttamente non sono, come abbiamo sopra ricordato, un dato
naturale ma un’arte che va acquisita costruendo una serie di strategie di apprendimento
5
adeguate. A maggior ragione ragionare e pensare filosoficamente. Ebbene, finora non abbiamo
trovato un solo manuale di filosofia che si preoccupi di costruire un percorso graduale di
appropriazione degli strumenti del pensare con correttezza e metodo.
Per finire, incerto, per non dire misterioso, rimane il nesso fra le attività di studio e di
pratica proposte in questo modello didattico con le competenze richieste per la formazione di
persone “in grado di orientarsi nella società e nella vita”![7]
A questo punto, vale la pena affrontare una questione su cui non ci eravamo troppo
soffermati. Perché la filosofia è la disciplina che (più di ogni altra?) dovrebbe essere atta a
sviluppare il pensiero autonomo e critico? E, se può farlo, quale insegnamento della filosofia
può farlo meglio?
Bene, va detto in via preliminare che la tesi che sosteniamo in questo articolo si fonda
su una visione della filosofia e del ragionamento che sono oggetto di dibattito e che non
possiamo dare per scontati. Tuttavia, noi riteniamo che questi assunti meglio di altri rendono
ragione dell’attività filosofica quale si è svolta nel corso dei secoli, e delle pretese formative
dell’insegnamento della disciplina oggi.
Per chiarire meglio questo punto dovremo fare una breve digressione sulla natura della
Filosofia e del filosofare.
Che cos'è la Filosofia, a cosa serve e come presentarla ai giovani?
Partiamo con una tesi, che per noi è una constatazione, e che non discuteremo: non si
può in nessun modo se non impropriamente parlare (come pure alcuni fanno) di "Scienza
filosofica" o di "Filosofia scientifica", non esiste niente di simile, e forse non può esistere per la
natura stessa di questa disciplina. Viene, allora spontaneo chiedere: se non è una scienza cosa
diavolo è? e, soprattutto, a che serve la Filosofia?
Già a che serve? E’ difficile rispondere. Non che i filosofi non abbiano dato delle risposte
in questi duemila anni, ma si ha come l'impressione che nessuna di esse sia pienamente
soddisfacente. Sembra anzi quasi che le risposte siano tante quanti sono i filosofi e ognuna
valida per ciascuno di loro rispettivamente.
Alla fine non si può evitare l'impressione che l'attività filosofica sia una vocazione più
che un sapere specializzato, vocazione che, naturalmente, uno può avere oppure no. Forse per
questo è così difficile riuscire a convincere gli studenti della bontà dello studio della Filosofia.
Generazioni di professori di Filosofia hanno cercato di dimostrare a generazioni di
riluttanti allievi che studiare questa disciplina era fondamentale per la loro vita di uomini o di
cittadini. Chi non si è posto mai il problema del significato della nostra esistenza? ingiungevano
minacciosi; quanti di voi, non si sono posti il problema del bene e del male, o dell'esistenza di
Dio? suggerivano sornioni. I ragazzini, terrorizzati, assentivano sia che questi problemi li
6
avessero vagamente sfiorati, sia che la sicurezza dell'affermazione dell’insegnante li facesse
sentire un po’ vermi, perché così avrebbe dovuto essere da che mondo è mondo, ma così,
vergogna!, non era stato.
Ma le cose stanno veramente così? Possono delle giovani menti che la vita con i suoi
drammi, le sue spesso drammatiche scelte ha solo sfiorato, privi di quell'esperienza del mondo
che è l’humus da cui nasce la Filosofia, comprendere le problematiche etiche, gnoseologiche,
politiche, o, addirittura, cosmologiche affrontate dai filosofi antichi e moderni?
Si dirà che è proprio questo quello che dovrebbe fare un buon professore di Filosofia:
riuscire a coinvolgere gli adolescenti, smuovere il loro interesse, "commuoverli"... . Forse, ma
abbiamo i nostri dubbi. Noi non escludiamo che i migliori fra noi riescano in quest'impresa
improbabile, ma non crediamo che siano in molti. D'altra parte ogni età ha problematiche sue,
ed è inutile forzarla. Al massimo se ne otterrà un interesse coartato ed abbastanza estrinseco,
che porterà ad un apprendimento appiccicaticcio, pronto a sciogliersi al primo sole della
dimenticanza.
E tuttavia non ci si può mica limitare a svolgere solo quelle tematiche filosofiche che
possono avere un qualche aggancio con la realtà vissuta dagli adolescenti (a che cosa si
ridurrebbero? al tema dell'amore, della giustizia, della bellezza, dell'apparenza...), tematiche
importanti certo, ed anche, per certi aspetti, interessanti, ma che impoverirebbero, e
umilierebbero la disciplina .
In questi anni in cui abbiamo insegnato la storia della Filosofia ci siamo accorti di come
dagli studenti i problemi filosofici vengano spesso visti, accolti, osteggiati più che come
problemi «vitali», come meri rompicapo: una sfida al buon senso, all'intelligenza dei singoli;
qualcuno interessante, ma, più spesso, del tutto "inutili", irrilevanti, oziosi. Ebbene perché non
sfruttare questa naturale tendenza favorendola: in fondo ogni problema filosofico è
innanzitutto un rompicapo, rompicapo con forti implicazioni esistenziali.
Ma perché "rompere il capo" a degli adolescenti, perché farli ammattire dietro a
problemi ardui che, in questi momenti della loro vita, difficilmente si trovano ad affrontare?
Noi riteniamo che la risposta giusta sia questa: lo studio della Filosofia va visto come
una sorta di palestra intellettuale. Uno scontrarsi con i dilemmi dell'esistenza prima di
doverli affrontare direttamente. E se è così, allora non serve a niente studiare e tenere a
mente lunghe teorie di soluzioni date da Tizio o da Caio, basta esercitarsi a comprendere le
varie soluzioni, le argomentazioni che le sorreggono, e divertirsi a smontarle. In questa visione
la Filosofia ha la stessa funzione del gioco per gli animali: un apprendistato
necessario per
quando bisognerà affrontare davvero i problemi.
La Filosofia è un gioco, ma un gioco che può essere fatto a diversi livelli. Ad un livello
elementare è un gioco che facciamo tutti. Chi più chi meno, ognuno di noi "filosofeggia", che si
sia studiata o no la storia della Filosofia. Ma "filosofeggiare" non basta, bisogna farlo, come per
tutti i giochi, rispettando delle regole. Bisogna quindi conoscere le regole (ma anche i trucchi)
per giocare correttamente, e per poter smascherare eventuali bari. Tanto più che in gioco c'è
7
la nostra stessa esistenza. Non sono indifferenti per noi le diverse soluzioni accettate: non è
indifferente per noi accettare la filosofia cristiana dell'esistenza oppure una filosofia
materialistica che nega l’esistenza di Dio!
È un gioco che ci permette di trattare con problemi esistenziali e sociali ad un livello
astratto (come se fossero i nostri), che ci permette di giocarci con il disinteresse tipico
dell'adolescenza, ma anche con l'accanimento che vi poniamo quando tentiamo di risolvere
un rompicapo matematico, enigmistico ecc.
Perché il gioco funzioni occorre accettare di entrarci e di rispettarne le regole. Ma quali
sono le regole del gioco filosofico?
In prima istanza potremmo dire che le regole fondamentali del gioco filosofico sono
quelle di tutti i giochi razionali. Chi accetta di entrare in un gioco razionale si impegna ad
essere onesto, cioè a non barare, a non usare trucchi, nella fattispecie, a non usare argomenti
speciosi, per il solo gusto di vincere la disputa eventuale; si impegna ad usare argomenti
corretti sotto il profilo logico e convincenti, che costringano cioè «l’uditorio universale»
all'assenso o alla controargomentazione (in questo senso la Filosofia non può accettare che
siano posti
limiti alla ragione, cioè nega che ci siano verità che non siano accessibili alla
ragione). Va da sé che un argomento che ci convince non necessariamente è un argomento
valido, che dimostra la verità della tesi; la Storia della Filosofia è piena di tesi false sostenute
da argomenti convincenti per qualcuno o per molti in un dato momento storico. D'altra parte
tolte le scienze dimostrative e quelle sperimentali, tutte le altre attività razionali non hanno
altro criterio di valutazione della accettabilità o meno di una teoria se non quello del suo essere
convincente. Ora se una teoria può essere convincente e tuttavia falsa[8] come possiamo
evitare di cadere nello scetticismo più radicale?
Ebbene, noi crediamo che lo scettico sia uno che pretende troppo, un assetato di verità
incontestabili che, non potendole avere, rinuncia all'uso della Ragione nei limiti di quello che
può offrirci[9]. In fondo i nostri manuali di storia della filosofia sono pieni di teorie e dottrine
filosofiche cadute in pieno discredito, superate e che non hanno più seguaci; e quand’anche
teorie filosofiche del passato vengano riprese e tornino in auge, è solo perché qualcuno ritiene
di aver trovato nuovi "buoni argomenti" per rispolverarle. Si può a buon diritto affermare che
non esiste veneranda dottrina filosofica che venga ripresa tale e quale era sostenuta all'origine.
Che uno si dichiari neoplatonico, neohegeliano o neomarxista si può essere certi che i pezzi più
deboli, più sottoposti a "critica", più insostenibili della vecchia teoria sono stati abbandonati o
riformulati.[10]
La critica (razionale) è l'arma della Ragione. Ogni dottrina filosofica, ogni teoria, nel
momento in cui viene resa pubblica, viene sottoposta, si può star certi, ad una critica serrata!
Se la guerra per i Futuristi rappresentava l’igiene del mondo, la "critica" la rappresenta per
l’attività filosofica.
La critica puntigliosa, mordace, sistematica, ossessiva, finanche biliosa, cattiva ci
assicura che nessuna teoria che non sia costruita su solide fondamenta può passare indenne al
8
setaccio: ogni fessura, ogni crepa se pur minima verrà scandagliata, allargata quanto possibile,
l’edificio intero verrà scosso prepotentemente per valutarne la stabilità... Difficilmente le teorie
filosofiche passano indenni e integre questo esame: molte vengono abbandonate, altre
subiscono riformulazioni, raggiustamenti, per tornare alla nostra metafora, si turano le falle, si
consolida dove è necessario, si murano le crepe. Alla fine di queste opere di ristrutturazione
niente è più come prima, e qualche volta la costruzione originaria non è più riconoscibile (se
pur è ancora la stessa).
Questa opera di demolizione critica non solo è necessaria, ma è altresì salutare per la
filosofia, e lo è talmente che una regola su tutte dovrebbe valere per il filosofo (la stessa che
Popper auspicava per lo scienziato): fai in modo che la tua teoria possa essere esaminata in
tutti i suoi aspetti, difendila più che puoi, ma senza usare sotterfugi, non sfuggire alle critiche!
È proprio per favorire la critica che la seconda regola fondamentale della filosofia
dovrebbe essere: scrivi chiaramente, evita il linguaggio oscuro, per iniziati, aborrisci le parole
ambigue, i doppi sensi, il gusto aforistico e paradossale.
Non sempre questa regola è stata rispettata dai filosofi, anzi, forse, fra tutte è quella
che lo è stata meno; qualche volta per oggettive difficoltà (non sempre è facile render in modo
chiaro questioni complicate), più spesso per opportunismo, per una malcompresa esigenza di
profondità e rigore, per elitarismo accademico, od altro ancora[11].
Proviamo a questo punto a riformulare la definizione di Filosofia: la filosofia è un’attività
che mira a risolvere rompicapo (filosofici!) via argomentazioni (razionali) che mirano a
convincere l’uditorio universale, e che vengono poi sottoposte a critica serrata.
Messa in questi termini, la filosofia così intesa è stata praticata (e forse lo è ancora
oggi) da pochi, almeno intenzionalmente. La stragrande maggioranza dei filosofi, infatti, ha
sempre pensato che la propria dottrina fosse "vera" anzi l'unica vera, e non solo convincente;
che le proprie argomentazioni fossero prove che dimostravano la verità della tesi, non
argomentazioni più o meno convincenti o sostenibili razionalmente. Tutti invece, fin dagli inizi
della storia della filosofia hanno fieramente e pugnacemente usato la Critica come arma
demolitrice delle dottrine avversarie; utilizzandola con parsimonia quando si trattava di
mettere sotto esame le proprie di dottrine. Comunque, quale che fosse in passato, o sia tuttora
l’intenzione dei filosofi, noi siamo convinti (stavamo per dire certi) che essi non hanno fatto
altro che la filosofia nel senso che siamo venuti sostenendo.
L'obiettivo da raggiungere è la Verità. La Filosofia, infatti, non cerca soluzioni
"confortanti" ma soluzioni vere, o meglio (visto che
non si possiede un criterio assoluto di
verità che ci possa permettere di discriminare fra soluzioni vere e false) soluzioni valide
razionalmente: una soluzione, per quanto confortante sia per noi, deve sempre essere vagliata
alla luce della ragione critica, solo se supera i tentativi di confutazione può essere accettata
provvisoriamente come valida.
Vi sono naturalmente molte altre regole che devono essere conosciute, ma queste
verranno apprese, come in qualsiasi apprendistato, iniziando a giocare.
9
Filosofia come abito critico
Se questa caratterizzazione (insieme descrittiva e normativa dell’attività filosofica) ha un
qualche fondamento, allora la più bella e appassionata difesa del valore della Filosofia, come
siamo venuti delineandola, si trova in un capitoletto di On liberty di John Stuart Mill, opera che
della Filosofia non si occupa. Ci riferiamo al capitolo in cui Mill affronta il tema della libertà di
pensiero e di discussione [12], e in particolare alla sezione in cui Mill argomenta a favore della
libertà di critica. Scrive Mill:
[…] le nostre convinzioni più giustificate non riposano su altra salvaguardia che un invito permanente a
tutto il mondo a dimostrarle infondate. Se la sfida non viene raccolta o viene tentata e perduta, siamo
ancora molto lontano dalla certezza, ma abbiamo fatto quanto di meglio ci consente la presente
condizione della ragione umana: non abbiamo trascurato nulla pur di offrire alla verità una possibilità di
raggiungerci; […].[13]
E ancora, sostenendo con favore il metodo ciceroniano di studiare sempre gli argomenti
dell’avversario con uguale se non maggiore attenzione dei propri, Mill arriva a dire che:
[…] se una verità fondamentale non trova oppositori è indispensabile inventarli e munirli dei più validi
argomenti che il più astuto avvocato riesce ad inventare.[14]
Ci si potrebbe a questo punto chiedere: cosa ha a che fare questo con la filosofia?
Ebbene cosa sta difendendo Mill se non l’attività filosofica intesa come esame incessante, mai
domo di qualsiasi certezza e posizione precostituita?
Anche chi è certo di possedere la verità trova alimento dall’esame critico di essa, e una
società democratica non può che invitare a difendere la libera discussione di tutte le idee anche
di quelle ritenute più certe e sacrosante. La critica rivitalizza e dà nuova linfa alle nostre
convinzioni perché ci costringe a ricordarci le ragioni per cui le avevamo accettate una volta.
Ciò che ci preme sottolineare è che questo compito di analisi libera e critica delle idee (e
delle “alternative” come direbbe E. Bencivenga[15]) è o dovrebbe essere la funzione tipica
della Filosofia. Se esiste una ragione per mantenere uno spazio all'attività filosofica e allo
studio della filosofia in un sistema educativo, questa ragione non può che stare nella necessità
di formare menti aperte e addestrate al libero esame e alla libera discussione delle proprie idee
e di quelle che vengono proposte da altri.
Tuttavia, perché questo accada si deve rinnovare e molto profondamente (per dirla con
Fulvio Manara, una nuova “rivoluzione copernicana”?) l’insegnamento della filosofia a tutti i
livelli.
Si deve innanzitutto rompere l’equazione filosofia = storia della filosofia. Studiare una
galleria di filosofi in modo nozionistico non apre la mente. La mente poco attrezzata di
10
strumenti di analisi critica e di giudizio cade nel relativismo gnoseologico, tenendosi
aggrappate alle proprie credenze e convinzioni.[16]
Si deve poi buttare alle ortiche il dogma della “centralità del testo” in tutte le sue
varianti. La lettura e le operazioni normalmente svolte sul testo, come abbiamo già visto, non
producono menti più critiche, o menti che sanno pensare meglio.
A nostro avviso solo un insegnamento filosofico che miri a sviluppare il gusto dell’esame
critico delle diverse idee e delle diverse posizioni e l’armamentario logico-argomentativo dei
ragazzi, è coerente con le sue finalità educative, e può far ritrovare il senso ormai perduto
dello studiare Filosofia a scuola.
La Filosofia (quando non pretende di possedere vie alogiche all’Assoluto), al suo meglio,
è fatta, come abbiamo visto, di ragionamenti che portano a tesi e ad argomentazioni che le
sostengono; essere capaci di comprendere e valutare con competenza le argomentazioni altrui,
formulare con consapevolezza e competenze adeguate le proprie argomentazioni significa
uscire dalla vuota chiacchiera, dalle insopportabili discussioni a vuoto in cui nessuno tiene
veramente conto di quanto dice il contendente, non sentendosi obbligato a controargomentare;
significa ponderare razionalmente la propria posizione prima di abbracciarla, e poi saperla
difendere.
Educare alla razionalità significa anche questo, educare all’etica del rispetto delle regole
del gioco argomentativo.
Tutto questo in classe di filosofia non si fa o si fa soltanto in modo rapsodico e senza
metodo. Quali competenze di retorica (nel senso del Perelman) o di dialettica (nel senso di
Aristotele) o di logica abbiamo mai cercato di costruire con metodo nelle nostre classi? Quale
programma di addestramento dialettico abbiamo mai proposto ai nostri ragazzi negli anni?
Schiacciati dal peso dei sempre più ponderosi manuali di storia della filosofia, o dalla più
noiosa esegesi puntuale di qualche noiosissimo “classico” della filosofia, pochi di noi sono
riusciti a recuperare il tempo per fare qualcos’altro.
Tuttavia, è inutile nascondersi dietro a un dito: accanto alla mancanza di tempo (mirabile
scusa per chi non vuole lasciare sentieri familiari!) vi è sicuramente una cronica carenza nella
formazione degli insegnanti di filosofia, che riguarda proprio quelle conoscenze e quelle
competenze logico-argomentative che dovrebbero andare a formare nei discenti.
I corsi di formazione dei nuovi insegnanti (almeno da quello che se ne sente dire) sono
egemonizzati dai teorici della nuova didattica modulare (qualsiasi cosa possa voler dire in
Filosofia) e dai sostenitori del dogma della “centralità del testo”. Ci piacerebbe sapere in quanti
di questi corsi si insegna teoria dell’argomentazione o a gestire una disputa filosofica regolata.
Si stanno formando nuovi insegnanti che saranno bravissimi a costruire “moduli” didattici
sullo intero scibile umano, capaci di rintracciare con certosina pazienza i brani dei testi classici
utili ad ogni bisogna! Ma cosa ha a che fare questo con l’insegnare filosofia? A chi serve uno
studio di queste cose? Sicuramente non ai ragazzi, i quali capiscono alla fine poco o nulla di
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quello che viene loro trasmesso e a cui non rimane nulla di utile per la loro formazione umana
e civile.
Se si vuole riformare l’insegnamento della filosofia bisogna iniziare col formare allora
buoni
insegnanti
di
dell’argomentazione,
filosofia,
ma
che
che
siano
conoscano
sia
soprattutto
un
po’
addestrati
di
alla
logica
che
pratica
di
teoria
dialettica
o
argomentativa, e non soltanto buoni conoscitori della storia della disciplina e dei classici della
filosofia o abili artigiani nella costruzione di moduli discutibili.
Il che non vuol dire che l’insegnamento filosofico non debba ricorrere alla costruzione di
moduli tematici (pensiamo, p.e., alla programmazione interdisciplinare) o rinunciare agli
excursus storici (la contestualizzazione storica è fondamentale per ogni testo o ogni soluzione
presa in esame, in quanto ogni argomentazione è una risposta diretta o indiretta ad almeno
un’altra). È che non sono queste cose che, a nostro avviso, devono caratterizzare e sostanziare
la pratica dell’insegnamento filosofico.
----------------------------------------------------------[1] Cfr. E. Bencivenga, Platone, amico mio, Mondadori, Milano 1997.
[2] “Il cittadino tipico precipita a un più basso livello di resa mentale non appena entra nel campo politico. Ragiona e
conduce le sue analisi in un modo che egli riconoscerebbe subito come infantile se usate nella sua propria sfera di
interessi. Egli ridiventa un primitivo. Il suo pensiero torna ad essere associativo e affettivo…” J. A. Schumpeter,
Capitalismo, socialismo e democrazia, cit. in: G. Sartori, Democrazia. Cosa è, Rizzoli, Milano 1994, p. 74.
[3] “Pensare bene non è un automatismo della mente umana, ma un’arte, qualcosa che si acquisisce e che può essere
potenziato […]” (A. Oliverio, L’arte di pensare, Rizzoli, Milano 1997, p. 8).
[4] Vedi D. Massaro (a cura di), Metodologia e didattica del testo filosofico, Paravia, Torino 1998. Massaro si limita,
però, a consigliare
“una metodologia filosofica congruente con l’obiettivo del pensare in proprio attraverso la
ruminazione del pensiero altrui (i classici)”.
[5] E. Ruffaldi, Insegnare filosofia, La Nuova Italia, Firenze 1999, p. 179.
[6] cit. p. 140.
[7] Ci permettiamo di rimandare per una più approfondita analisi al nostro saggio «Centralità del testo e ‘rapsodicità’
formativa. Insegnamento e apprendimento delle discipline filosofiche», in C. Tugnoli (a c. di), La filosofia nella scuola,
Annali 2001, Iprase del Trentino, Franco Angeli, Milano 2001.
[8] Vedi M. Piattelli Palmarini, L’arte di persuadere, Mondadori, Milano 1995.
[9] Vedi anche N. Bobbio, “Prefazione” al Trattato dell’argomentazione di C. Perelman e L.Olbrechts-Tyteca, Einaudi,
Torino 1982, p. XIX.
[10] Vedi anche M. Dummett, “Il pensiero fa progressi”, Il Sole-24Ore, 27 Luglio 1997. Reperibile in Internet
all’indirizzo: http://www.symbolic.pr.it/bertolin/soleO.htm
[11] Vedi il bel libro di M. Baldini, Contro il filosofese, Laterza, Bari 1991.
[12] J. Stuart Mill, Saggio sulla libertà, Il Saggiatore, Milano 1981, pp. 39-84.
[13] ibidem., p. 45.
[14] ibidem, p. 63.
[15] Vedi il suo bel libro Giochiamo con la filosofia, Mondadori, Milano, 1990
[16] Vedi il saggio di M. Messeri, “Temi della filosofia contro storia della filosofia”, reperibile in Internet all’indirizzo
http://www.swif.uniba.it/lei/scuola/messeri.htm.
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