Tito (?) Maccio (?) Plauto
Sarsina, Umbria 259/251 – Roma 184 a.C. ca
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Vita.
P. si dedicò solo ad un unico genere letterario, alla composizione di commedie, operando - grosso modo - una
sintesi tra commedia greca nuova ed elementi indigeni, attinti dalla farsa italica.
Sappiamo poco di P. uomo e le notizie che possediamo [A. Gellio e S. Girolamo IV sec. d.C.] sono poco
attendibili: nato come attore di successo, avrebbe investito malamente il capitale in commercio, ricoprendosi di
debiti e costringendosi a guadagnarsi da vivere in un mulino girando la macina.
In questo periodo cominciò a comporre commedie, fra cui il "Saturio" ("Il pancia piena") e l’ "Addictus" (schiavo
per debiti), che già dai titoli richiamano gl'infelici rovesci personali; e una terza, dal titolo sconosciuto, che,
rappresentate con successo, furono l’inizio di una fortunata attività teatrale durata oltre un quarantennio: alieno
della politica, ma non insensibile agli avvenimenti del tempo [la sua produzione si svolse, del resto, praticamente
durante la II guerra punica], visse interamente della sua arte, praticata con instancabile fervore creativo: egli,
insomma, scriveva per vivere, la sua scrittura era non più che mera professione.
Inoltre, Cicerone, nel "De senectute", afferma che P. compose da "senex" alcune commedie fra cui lo "Pseudulus":
nel 191 a.C., doveva essere quindi già vecchio. Sempre Cicerone, nel "Brutus", ci rivela l'anno della sua morte.
I codici, che contengono le commedie di P., ci hanno tramandato il suo nome completo, Tito Maccio P.. Ma "Tito"
e "Maccio" sembrano fittizi: "Maccio", infatti, deriverebbe dall'omonima maschera atellana; lo stesso termine
"Plautus" può significare o "piedi piatti" oppure "orecchie lunghe e penzoloni". Molto probabilmente, quindi, si
tratta di nomi d’arte che P. aveva usato durante l’attività di attore.
Le commedie: titoli, autenticità e possibili "ordinazioni"
Alla sua morte, entrarono in circolazione tutta una serie di commedie a suo nome, molte delle quali rivelatesi in
seguito dei falsi. Nel I sec. a.C., ne circolavano addirittura 130 titoli. Un erudito dell’epoca, Marco Terenzio
Varrone, le studiò ("De comoedis Plautinis") e le suddivise in tre gruppi:
- 21 certamente plautine (dette appunto "Fabulae Varronianae");
- 19 di attribuzione incerta
- tutte le altre considerate spurie.
L’autorità di Varrone fu tale che si continuarono a ricopiare solo le 21 autentiche. Tuttavia, da varie testimonianze
degli antichi, si è indotti a pensare che esistessero altre commedie sicuramente plautine, e oggi perdute: quali
"Commorientes", "Colax", "Gemini lenones", "Condalium", "Anus", "Agroecus", "Faerenatrix", "Acharistio",
"Parasitus piger", "Artemo", "Frivolaria", "Sitellitergus", "Astraba".
Attraverso le relative "didascalie" (ossia brevi notizie che i grammatici solevano dare, valendosi delle indicazioni
trovate nei copioni delle compagnie drammatiche, intorno alla prima rappresentazione, alla sua esecuzione e al suo
esito), sappiamo la data di composizione solo dello "Stichus" (200 a.C.) e dello "Pseudulus" (191 a.C.): la
cronologia delle altre è definibile solo in base ad elementi interni, ipotizzando un’evoluzione del suo teatro dalla
"farsa" ad una specie di "opera buffa" (va però detto che nessuna ipotesi evolutiva generale s’è affermato
nettamente e definitivamente).
Provando comunque ad azzardare un ordine cronologico, questo potrebbe essere: "Asinaria" (212), "Mercator"
(212-10), "Rudens" (211-205), "Amphitruo" (206), "Menaechmi" (206), "Miles gloriosus" (206-5), "Cistellaria"
(204), "Stichus" (200), "Persa" (dopo il 196), "Epidicus" (195-4), "Aulularia" (194), "Mostellaria" (inc.),
"Curculio" (200-191?), "Pseudolus" (191), "Captivi" (191-90), "Bacchides" (189), "Truculentus" (189), "Poenulus"
(189-8), "Trinummus" (188), "Casina" (186-5); in più la "Vidularia" pervenuta assai mutila. Ovviamente, per
quanto detto, le date riportate a fianco ai titoli sono passibili di molti dubbi, essendo risultato di mere supposizioni.
Si ricordi inoltre che, nei codici, le commedie sono disposte in ordine pressoché alfabetico.
Personaggi
I personaggi di P. non sono dei caratteri individuali ma delle maschere fisse, dei "tipi", e per questo già noti al
pubblico nel momento stesso in cui si presentano sulla scena: anche i loro nomi propri servono esclusivamente a
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ribadirne la fissità del ruolo scenico.
I personaggi maggiori. Questi i più importanti:
*L’ "adulescens": il giovane innamorato è sempre languido e sospiroso, perduto in un amore che lo travolge e lo
paralizza, incapace di superare gli ostacoli che incontra sul suo cammino. Il suo linguaggio tocca molto spesso i
registri "alti" e patetici della tragedia, naturalmente con effetti comici e parodistici, voluti dall'autore. P. non prende
mai sul serio la sua storia né i suoi lamenti d’amore: lo guarda divertito, costringendolo spesso a subire i lazzi
spiritosi del servus.
*Il "senex": il vecchio viene caratterizzato in modi diversi: è il padre severo e perennemente beffato, che cerca
inutilmente di impedire i costosi amori degli adulescentes (come nella "Mostellaria"); ma talvolta è anche un
ridicolo e grottesco concorrente dei figli nella battaglia, senza esclusione di colpi, per la conquista della donna
desiderata (come nell’ "Asinaria" o nella "Casina"). Nelle vesti dell’amico o del vicino, ha a disposizione un ricco
ventaglio di funzioni drammatiche: può ad esempio essere alleato dei giovani (come nel "Miles gloriosus") oppure
fornire un burlesco doppio del senex innamorato (come nel "Mercator").
*La "meretrix": minore importanza rivestono i ruoli femminili, anche perché non è infrequente che la ragazza
desiderata non compaia mai in scena (come nella "Casina") o svolga una particina marginale. Il ruolo femminile
più importante è proprio quello della "cortigiana", una figura sconosciuta in Roma prima che nascesse la palliata, e
che era invece consueta nel mondo greco: nella "palliata" plautina possono essere sia libere che schiave, e allora
appartenere ad avidi e crudeli lenoni, che le mettono in vendita al miglior offerente. In questo caso il loro più
grande desiderio è quello di essere riscattate dall’amante. Naturalmente, l’espediente dell’ "agnizione" (per cui, vd
oltre) può consentire loro il felice passaggio dalla condizione di amanti a quella di spose. Alcune di loro, poi, sono
abilissime e sfrontate (come nel "Truculentus"), altre dolci e sensibili (ed è questo il caso più frequente).
*La "matrona": accanto alla figura dell’etera, risalta per contrasto quella della matrona, madre dell’adulescens e
sposa del senex, quasi sempre autoritaria e dispotica, soprattutto se "dotata" (cioè provvista di dote). Accade che
spesso il senex sia vittima delle sue ire furibonde (come nell’ "Asinaria"). Non manca qualche eccezione: la nobile
figura di Alcmena nell’ "Amphitruo" o le due spose fedeli nello "Stichus".
*Il "parasitus": presente in ben nove commedie di P., il parassita è uno dei tipi più buffi e curiosi della "palliata",
caratterizzato dalla fame insaziabile e dalla rapacità distruttiva, spesso fonte di rovina economica per il disgraziato
che ha deciso di mantenerlo a sue spese. Esuberante e vitale nella sua mai placata ingordigia, il parassita non lesina
lodi iperboliche e servizi di ogni genere nei confronti dei suoi benefattori, che naturalmente sono anche vittime
delle sue sfavillanti battute, come accade nella famosa scena d’esordio del "Miles gloriosus".
*Il "miles gloriosus": come la cortigiana, anche il miles, il soldato mercenario che si mette al servizio di chi lo
paga meglio, era una figura consueta nei regni ellenistici ma sconosciuta in Roma, dove all’epoca di P. il servizio
militare era dovere di ogni cittadino. Il miles si presenta quasi sempre nelle vesti del "gloriosus", cioè del
millantatore, del fanfarone che si vanta di grandi imprese mai compiute, spacciandosi per giunta per gran seduttore:
è insomma un conquistatore immaginario di nemici e di donne, prontamente smentito dagli avvenimenti della
commedia. E’ probabile che i Romani, ridendo di questi milites ellenistici, si sentissero - per contrasto - orgogliosi
del proprio valore militare.
*Il "leno": anche il lenone, il commerciante di schiave e sfruttatore di prostitute, era una figura sconosciuta presso
i Romani. P. ne fa la figura più odiosa, anche perché di norma costituisce il maggior ostacolo al compimento dei
desideri del giovane innamorato. Ma va subito aggiunto che nel teatro plautino non esistono personaggi buoni o
cattivi, perché non esiste una partecipazione e un coinvolgimento emotivo nelle vicende, già scontate fin
dall’inizio: l’odiosità, come l’avidità, sono solo i caratteri fissi che definiscono la maschera del lenone,
irrevocabilmente destinato alla sconfitta e alla beffa. Colpisce molto di più, invece, la sua formidabile vitalità, la
sua capacità di esser superiore a ogni giudizio morale, come rivela la bellissima gara di insulti che adulescens e
servus ingaggiano contro di lui dello "Pseudolus".
*Il "servus": è la figura più grandiosa, il vero motore delle fabulae plautine, personaggio sfrontato e geniale,
spavaldo orditore di incredibili inganni a favore dell’adulescens e contro l’arcigna taccagneria dei senes o l’avidità
dei formidabili lenoni. Senza di lui, non ci sarebbe storia; la storia, anzi, è quasi sempre il risultato delle sue
invenzioni e delle sue creazioni: P. lo definisce in vari luoghi come un "architetto" (Palestrione, nel "Miles
Gloriosus"), un "poeta" (Pseudolo, nello "Pseudolus"), un "generale" (ancora in riferimento a Pseudolo e
Palestrione), finendo palesemente per identificarsi nella sua figura.
La sua ingegnosità è accompagnata da una lucida visione degli eventi e da un’ironia dissacrante, che non risparmia
niente e nessuno, nemmeno l’amato padroncino per il quale il servo rischia ogni volta le ire del vecchio padrone: la
sua forza è la giocosità creativa delle sue invenzioni, la gratuità un po’ folle e anarchica delle sue scommesse,
naturalmente sempre vinte; su di lui incombe perennemente la minaccia delle sferze e delle catene, gli strumenti di
punizione dello schiavo, a cui tuttavia il servo plautino risponde con la forza superiore dei suoi geniali raggiri.
Fiero e orgoglioso delle proprie mosse, si autoglorifica spesso, rivolgendosi al pubblico nella posa plateale di chi
ambisce a un applauso (un tipico esempio, questo, della tecnica "metateatrale" del nostro autore, per cui vd. oltre).
P. ce ne dà anche un ritratto fisico, che corrisponde convenzionalmente alla sua maschera: "rosso di pelo, panciuto,
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gambe grosse, pelle nerastra, una grande testa, occhi vivaci, rubicondo in faccia, piedi enormi" ("Pseudolus", 12181220). La deformità mostruosa del fisico sembra una sfida al destino, e un segno della vitalità trionfante del teatro
plautino, che rappresenta una sorta di universo rovesciato, nel quale i servi trionfano sui padroni e i figli sui padri,
sovvertendo ogni codice sociale e facendosi beffe di ogni legge. Aristotele aveva scritto che gli schiavi sono più
vicini agli animali che agli uomini. Il servo plautino, mostruoso nel corpo, dirompente nel linguaggio (spesso
osceno e volgare), spudorato negli atteggiamenti, animalesco nei suoi istinti, dimostra di essere anche il più
intelligente, e risulta perciò anche il più simpatico, quello per il quale il pubblico "tifa" fin dall’inizio della
rappresentazione.
Il ruolo del "personaggio" Fortuna. E' importante, però, ricordare che niente riuscirebbe al servo, o alla sua
astuzia, senza l'ausilio determinante della "fortuna" (Tyche), che ne contempera - e di molto - il merito del
successo, contribuendo - col suo "valore stabilizzante" - a "rimettere le cose a posto".
I personaggi minori. Non mancano, accanto ai ruoli principali, altre figura occasionali: la ruffiana ("lena"), una
sorta di doppio femminile del "leno", per lo più rappresentata come vecchia e beona; l’ancella ("ancilla"), servetta
al seguito della "meretrix" (più spesso) o della matrona, quasi sempre complice negli affari delle sue padrone; il
"cocus", il più delle volte ingaggiato per luculliani banchetti; il "puer", lo schiavetto generalmente a ruoli di
contorno; l'usuraio ("fenerator"), sempre pronto ad entrare in scena nei momenti più inopportuni per riscuotere del
denaro, naturalmente prestato per riscattare una cortigiana; la citarista ("fidicina"); il "medicus".
I caratteri delle commedie plautine
La particolarità degli intrecci. Come visto, gl'intrecci delle commedie plautine derivano da originali greci, sono
abbastanza complicati, ma altrettanto ripetitivi e caratterizzati da elementi convenzionali; 16 su 20 presentano
infatti la stessa situazione di base: l'amore ostacolato di un adulescens per una giovane cortigiana: l’ostacolo è la
mancanza di denaro (l’adulescens dipende economicamente dal padre) per ottenerne i favori o per "riscattarla". Può
essere innamorato anche di una fanciulla onesta ma senza dote, e, in questo caso, gli ostacoli sono gli impedimenti
sociali che ne derivano. L’adulescens lotta (ancora) per far trionfare l’amore contro qualche antagonista, il padre, il
lenone o il miles gloriosus, il mercenario che compra la cortigiana. In questa lotta, egli viene aiutato da un amico,
da un vecchio comprensivo o da un parassita, ma, soprattutto dal "servus callidus" (scaltro). Spesso la commedia si
risolve in una serie di inganni organizzati da quest'ultimo per ingannare il padrone e carpirgli il denaro necessario
all’adulescens. Ogni commedia termina con un lieto fine: i giovani vengono perdonati dai padri, che si riconciliano
anche con i servi; i danni e le beffe spettano ai personaggi esterni alla famiglia, quali il miles e il lenone. Spesso il
lieto fine coincide con il matrimonio, che è reso possibile dal "topos" dell' "agnizione" o "riconoscimento": si
scopre infine che la ragazza era nata libera da genitori benestanti, ma esposta o rapita dai pirati.
Il "rimettere le cose a posto" e lo "straniamento". Come si vede, in generale lo scioglimento tipico consiste in
un "rimettere le cose a posto"; ed è chiaro che il pubblico trova in questo movimento dal disordine all’ordine un
particolare piacere: tanto più che il quadro sociale e materiale messo in scena – al di là degli estrinseci dettagli
esotici, che garantiscano un adeguato "straniamento" (P. ci tiene a sottolineare che ciò che avviene sulla scena è
solo finzione, solo gioco, e vuole scongiurare il più possibile il "transfert" degli spettatori, ricorrendo nella "Casina"
o nel "Mercator" o altrove ad opportuni esempi di "metateatro": vedi scheda di approfondimento) – è
perfettamente compatibile con l’esperienza problematica e quotidiana della Roma del tempo. Tuttavia, ed è
importante, sia chiaro che (come accennato) nessuna pretesa insegnativa o moraleggiante governa queste vicende
tipiche.
I riferimenti alla romanità. Frequenti, di contro, sono i riferimenti ad usi e costumi romani: ad es., nelle
similitudini e nelle metafore di tipo militare: il servo presenta spesso la sua lotta contro i suddetti "antagonisti"
come una battaglia o una guerra in cui egli fa parte del generale vittorioso. Ciò non stupisce in testi scritti in un
periodo storico in cui Roma passava vittoriosamente da una guerra all’altra, anche se, in verità, non c’è traccia dei
grandi avvenimenti dell’epoca: Canne, Zama, le guerre contro la Macedonia, la Siria, l’Etolia. C’è chi ha voluto
vedere qualche allusione storica in alcuni passi, ma si tratta, comunque, di accenni vaghi e velati, tanto che si può
dire che P. si mantenne sostanzialmente lontano dai grandi affari di stato, e cercò altrove motivi ed ispirazione per
le sue commedie.
Il rapporto coi modelli e la "contaminatio". Non ci sono pervenuti gli originali greci da cui derivano le
commedie plautine, per cui non possiamo valutare l’indipendenza, l’originalità di P. rispetto ai modelli greci.
Tuttavia, una delle differenze fondamentali che comunque possiamo cogliere con la commedia di Menandro (ma
modelli altrettanto validi sono Difilo, Filemone, Demofilo), per quanto concerne le trame, è che, mentre quello
cerca la coerenza e l’organicità degli intrecci, P. sacrifica al contrario spesso le esigenze di verosimiglianza e di
logica per il suo intento di trarre effetti comici dalla singola scena. Altra differenza è che il teatro di Menandro è un
teatro grosso modo antropocentrico e "psicologico", mentre P. è portato ad accentuare i tratti caricaturali dei
personaggi tipici, ricavandone maschere grottesche. Lo stesso "amore" non è visto come sentimento autentico,
bensì come mera caricatura. Si parla, anche, di "rovesciamento burlesco della realtà", in una visione quasi
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carnascialesca: alla fine della commedia, sono i giovani a trionfare sui vecchi, le mogli sui mariti; ma con ciò,
ancora, P. non vuole mettere in discussione i rapporti vigenti all’interno della società, vuole solo, semplicemente,
far divertire.
Nei prologhi delle sue commedie, P., alludendo alla sua attività, parla poi di "vertere barbare" ("tradurre dal greco
al latino"): infatti, P. fa suo il punto di vista dei greci, per i quali ogni lingua non greca è barbara. Le commedie
plautine, tuttavia, come si può arguire, non sono semplici trasposizioni dal greco, ma libere interpretazioni di quei
modelli: egli, infatti, ricorre alla cosiddetta "contaminatio", inserisce cioè in una commedia derivata da un
originale greco una o più scene, uno o più personaggi attinti da un’altra commedia sempre greca, mescolando
insomma l’originale con altre commedie [secondo alcuni critici, p. addirittura "contaminava" se stesso, ovvero
ripeteva, con modificazioni e varianti, alcuni motivi dei suoi stessi drammi, che a lui maggiormente piacevano e il
cui successo era già stato da lui sperimentato].
L'atteggiamento "antigreco". Un altro aspetto del teatro plautino è l’atteggiamento nei confronti dei greci: è
significativo, a riguardo, un passo del "Curculio", in cui l'omonimo protagonista, egli stesso greco, pur parla male
dei Greci: sta attraversando una via e gli danno fastidio questi Greci che hanno invaso le vie della città e vanno in
giro col capo coperto, carichi di libri, confabulando fra loro e affollando le osterie in cerca di chi possa offrire loro
in bicchiere di vino. È chiaro che P. sfrutta a fini comici quel sentimento di ostilità nei confronti dei Greci, tipica di
una parte della società romana e che aveva trovato portavoce in Catone. P. conia addirittura un verbo,
"pergraecari", che significa più o meno "gozzovigliare alla greca", vivere in modo dissoluto, proprio come
farebbero i Greci. Alcuni studiosi hanno inserito per questo motivo il teatro plautino nell’entourage catoniano, ma
questa posizione pare però poco sostenibile, dato che il nostro, come visto, vuole solo "risum movere", e non
schierarsi politicamente, rinunciando a trasmettere qualsiasi tipo di messaggio.
L'essenza definitiva della comicità plautina. In ultima analisi, volendo azzardare una schematizzazione, si può
affermare che la comicità plautina può essere di 3 generi:
1. di situazione: basata, cioè, sugli equivoci e sugli scambi di persona, con successiva "agnizione", che porta al
lieto fine;
2. di carattere: basata sull’accentuazione caricaturale e macchiettistica dei difetti dei protagonisti;
3. bassa: basata su battute volgari e sull’esasperazione di sentimenti naturali.
E' ovvio che le commedie, che rispettano tutt'e tre le condizioni sovresposte, risultano essere quelle meglio riuscite
e più gradite al pubblico: e, quindi, in prima linea, l’"Amphitruo" e lo "Pseudolus".
La lingua e lo stile di Plauto.
La lingua. Come visto, la tecnica linguistica, che si piega genialmente in battute e motteggi, riveste un ruolo
fondamentale nell'economia della comicità plautina: l'autore la riempie spesso di espressioni greche o grecizzanti,
quando addirittura non rinuncia, come accennato in "Poenulus", a servirsi di idiomi perlomeno inusitati, come il
punico. A ciò, si aggiungano parole mezzo latine e mezzo greche, le quali dovevano suonare ridicole alle orecchie
del pubblico (ad es. "pultifagus" = "mangiapolenta"), grecismi con terminazione latina ("atticissare" = "parlare
greco"), parole formate da più radici ("turpilucricupidus" = "desideroso di turpi guadagni"), oltre a neologismi veri
e propri ("dentifrangibula", riferito ai pugni che "rompono i denti"; "emissicius", che si manda alla scoperta di
qualcosa e perciò, riferito agli occhi, curioso, da spia); superlativi iperbolici e ridicoli ("ipsissimus", stessissimo;
"occisissimus", uccisissimo). Il sermo dei personaggi plautini è inoltre arricchito da fantasmagorici giochi di parole,
identificazioni scherzose (ad es. "Ma è forse fumo questa ragazza che stai abbracciando?" "Perché mai?" "Perché ti
stanno lacrimando gli occhi!" Asin.619), espressioni alle quali si aggiungono doppi sensi e, su un piano più
propriamente stilistico, da allitterazioni, anafore ed ogni sorta di figura retorica.
Malgrado queste caratteristiche, tuttavia, la lingua di P., eccezion fatta naturalmente di alcuni tratti particolari (per
es. dei discorsi degli schiavi), non è quella del volgo e del popolino, ma risente di una certa raffinatezza, che
derivava dalle discussioni del Senato, dalle assemblee del popolo e dei tribunali, e per la quale essa s'innalzava sul
livello della parlata popolare, pur conservando di questa la schiettezza e la spontaneità: una lingua, insomma, non
propriamente popolare, ma che il popolo altresì capisce ed apprezza.
I "numeri innumeri". Fondamentale, infine, la maestria ritmica, i "numeri innumeri", gli "infiniti metri", la
predilezione per le forme "cantate". Ne deriva una conseguenza importante: lo stile è intrinsecamente vario e
polifonico, ma varia piuttosto poco da commedia a commedia, in una forte profonda coerenza. Insomma, si deduce
che P. non dipende esclusivamente dallo stile di alcun modello e anzi, come già detto, dà sfoggio di ampia
originalità: ristrutturazione metrica, cancellazione della divisione in atti, completa trasformazione del sistema
onomastico.
"Musas plautino sermone locuturas fuisse, si latine loqui vellent." ("Se le Muse avessero voluto esprimersi in latino
avrebbero parlato con la lingua di P."): così Quintiliano, nella sua "Instituto oratoria", ci tramanda il giudizio critico
di Elio Stilone, il primo grande filologo latino del II sec. a.C. . Per non dimenticare, poi, l’epitaffio del poeta citato
da Gellio (che lo aveva letto negli scritti di Varrone) dove si dice che, alla morte di P.: "numeri innumeri simul
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omnes conlacrimarunt" ("scoppiarono in pianto tutti insieme ritmi innumerevoli").
La funzione della musica. Altra prova dell’originalità di P., è il fatto che egli dà molto spazio alla musica e al
canto (circa i due terzi del numero complessivo dei versi prevedevano il suono del flauto), mentre nelle commedie
di Menandro sono molto scarse le parti composte in metri lunghi o in metri lirici. In P. troviamo i "cantica", metri
lirici cantati e altre parti in versi o metri lunghi recitati e accompagnati dal flauto. Nella metrica, insomma, P. è un
maestro: egli foggia, seguendo le necessità della lingua latina, i già noti senari giambici e versi quadrati in varietà
di forme, peraltro sottomesse a sottili regole. La mescolanza dei metri si precisa nelle due forme del "deverbium"
(parti recitate senza accompagnamento) e, come detto, del "canticum" (recitativo accompagnato), alternate con
estrema libertà. Ciò significa che P. riscriveva parti che in Menandro erano destinate solo alla recitazione.
Particolarmente rilevante, così, è la presenza delle parti liriche e polimetriche, dai ritmi assai variati, mossi e vivaci:
esse occupano complessivamente circa 3000 versi, cioè un settimo del totale, e avevano la funzione di dar rilievo,
con il contributo determinante del ritmo e della musica, ai momenti di più forte concitazione e di più intensa
emotività. E’ probabile, comunque, che il potenziamento dell’elemento lirico-musicale sia stato stimolato dalla
consuetudine e dalla predilezione del pubblico romano per i tipi di spettacolo in cui la musica, il canto e la danza
avevano un ruolo fondamentale.
Metrica
“Nelle commedie plautine sogliono distinguersi tre parti fondamentali, che ovviamente si ripetono più volte nel
corso di una stessa commedia. Le tre parti sono: diverbium, recitativi, cantica.
- Si intendeva per diverbium il dialogo, ma rientravano nella definizione anche il Prologo e eventuali monologhi,
purché si trattasse di parti che dovevano essere recitate con tono di voce normale, senza intonazione ritmica, forse
anche nel senso che non doveva sentirsi il ritmo del verso. L'uso più frequente del diverbium si aveva in tutte le
scene lineari e di scarsa animazione, nelle quali praticamente si poteva giungere ad un linguaggio prosaico, che
l'arte degli interpreti doveva poi valorizzare.
- Per recitativi si intendevano invece le parti declamate, quelle cioè nelle quali si faceva maggiormente risaltare il
ritmo del verso, anche attraverso un accompagnamento musicale, a livello di sottofondo, che veniva eseguito tra le
quinte. Per intenderci, si potrebbe pensare a quelle parti del melodramma moderno che si indicano appunto come
recitativi, nelle quali il rapporto fra la parola e la musica diventa meno vincolante ed immediato, limitandosi la
musica a fornire, in un certo senso, il tessuto ritmico sul quale la frase musicale recitata deve porsi.
I recitativi
ricorrevano nelle scene di maggiore animazione, quando, comunque, all'autore sembrava opportuna una certa
apertura lirica.
- I Cantica sono infine le parti musicali vere e proprie, nelle quali il rapporto parola-notazione musicale è diretto e
vincolante. In generale si trattava di monologhi, o, con termine musicale, monodie. Poiché non sempre si verificava
la fortunata coincidenza che l'attore fosse anche dotato musicalmente, poteva accadere che il Canticum fosse
interpretato fra le quinte da un cantore specialista, mentre l'attore sulla scena si limitava alla mimica del canto.
Ognuna di queste tre parti si esprimeva in una particolare e costante forma metrica. - Il diverbium era solitamente scritto in senari giambici, che però ammettevano molte sostituzioni. Si poteva trovare
al posto dei giambi (U _ ) un anapesto (U U _ ) o un dattilo ( _ U U) o un proceleusmatico (U U U U). Anche se
non capitava che in un verso si ritrovassero tutte queste sostituzioni contemporaneamente, accadeva comunque che
lo schema del senario risultasse molto vario, tanto che il numero delle sillabe, che nello schema originario dovrebbe
essere di dodici, poteva arrivare anche a più di quindici sillabe. Del resto la difficoltà di interpretare metricamente
un senario plautino, si intenderà ricordando che, fino agli studi del Ritschl, non s'era creduto di poter riconoscere
alcuna regola nella metrica plautina.
- Il verso prevalente nei recitativi è invece il settenario trocaico, detto anche tetrametro trocaico catalettico.
Purtroppo anche lo schema di questo verso fu da Plauto variato sensibilmente, con la sostituzione dello spondeo al
trocheo, e successivamente con l'introduzione anche qui di dattili, anapesti o proceleusmatici.
In questo caso la
maggiore varietà ritmica trovava una sua giustificazione nella necessità di stabilire in qualche modo; una
corrispondenza con il sotto fondo musicale.
- Per quanto riguarda i Cantica, che come abbiamo detto c’erano veri e propri “pezzi” musicali, dai quali la
recitazione risultava, in un certo senso interrotta, i metri usati furono numerosi e diversissimi. Comunque, in
generale si trattava di composizioni aventi a base due piedi fondamentali: il cretico ( _ U _ ) e il bacchico (U _ _ ).
Naturalmente, qui come non mai, la fantasia ritmica plautina si sbizzarrisce nelle sostituzioni più ardite, alternando
anche ai versi aventi a base cretici e bacchici, altri versi, come settenari giambici, ottonari giambici, ottonari
trocaici, dimetri, trimetri e tetrametri anapestici. L'effetto, comunque, era artisticamente valido, in quanto i cantica
attraverso la molteplicità dei ritmi, raggiungevano una musicalità e vivacità gradevolissima. La proporzione
esistente fra le tre parti nella commedia plautina varia, tanto che alcuni studiosi hanno ritenuto di poter su di essa
fondare un criterio per la valutazione cronologica delle commedie stesse, ritenendo che l'aumentare delle parti più
strettamente recitate segnasse una più bassa datazione della commedia.
Il criterio ha un suo coefficiente di
validità, soprattutto se applicato non disgiuntamente da altri più ampi criteri di datazione” [A. Portolano].
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Conclusione.
Allora, la comicità originale nasce proprio nel contatto fra la materia dell’intreccio e l’aprirsi di "occasioni" in cui
l’azione si fa libero gioco creativo, diventa "lirismo comico" (Barchiesi), in una sfuriata di digressioni esilaranti,
battute salaci e/o beffarde, dialoghi scoppiettanti.
APPROFONDIMENTO
Il metateatro, ovvero la rottura dell’illusione scenica
Uno degli aspetti più tipici del teatro plautino è la tendenza a sottolineare per trarne aspetti comici, il carattere
fittizio e ludico dell’evento teatrale. Lungi dal proporsi come obiettivo l’immedesimazione del pubblico nell’azione
scenica, Plauto ama svelare esplicitamente e quasi smascherare la finzione teatrale in quanto tale, come per
richiamare gli spettatori alla consapevolezza di star partecipando insieme con l’autore ad un gioco che li diverte
entrambi. Una forma di rottura dell’illusione scenica molto sfruttata da Plauto è costituita dai procedimenti
riconducibili al cosidetto “metateatro” cioè al teatro nel teatro, al teatro che rappresenta se stesso parla di se
stesso.
Con “metateatro” (dal greco metà, “dopo, oltre, al di là”) s’intende il “teatro nel teatro” cioè una serie di
procedimenti presenti in tragedia, commedia, melodramma ecc., grazie ai quali il teatro “si mette in
scena”, rappresenta se stesso o parla di se stesso.
In Plauto il metateatro è costituito da procedimenti di rottura dell’illusione scenica, per cui il teatro,
invece di presentarsi come imitazione immediata e verosimile della realtà, mette apertamente in luce il
suo carattere fittizio e convenzionale, svelandosi, di solito con intenti scherzosi, come finzione e come
gioco. Procedimenti di quest’ultimo tipo erano frequenti nella commedia greca antica (V sec. a.C.),
mentre con la commedia nuova greca (IV-III sec. a.C.) ebbe inizio una lenta evoluzione verso il cosidetto
“dramma assoluto”, in cui l’attore e il personaggio s’identificano e si fondono, l’autore si nasconde dietro
le vicende rappresentate, e queste sono messe in scena realisticamente, così da indurre
quell’immedesimazione degli spettatori nell’azione, a cui diamo il nome di “illusione scenica”.
Plauto, pur traendo le sue opere da modelli greci della commedia nuova, interrompe questo processo di
trasformazione della commedia in forma chiusa (processo che sarà poi ripreso e condotto molto innanzi
dall’altro grande commediografo latino, Terenzio), accogliendo ogni specie di introduzione metateatrale,
per ricavarne effetti comici, come abbiamo visto sopra. Egli attinge per questo aspetto anche e soprattutto
a una tradizione italica di spettacoli teatrali, di tipo farsesco e buffonesco, che comportavano da parte
degli attori la ricerca di un contatto diretto con il pubblico, fatto di ammiccamenti, strizzatine d’occhi,
lazzi e motteggi, anche improvvisati.
Nel teatro novecentesco il metateatro celebra i suoi trionfi, com’è noto con Luigi Pirandello, soprattutto
(ma non soltanto) nella trilogia, detta appunto metateatrale, costituita da Sei personaggi in cerca d’autore
(1921), Ciascuno a suo modo (1924) e Questa sera si recita a soggetto (1930). Nel primo e più
importante di questi drammi, a un capocomico sconcertato si presentano sul palcoscenico, durante le
prove di uno spettacolo, sei personaggi creati e poi abbandonati dal loro autore: essi, mossi, dall’esigenza
che sia data forma ed espressione al loro dramma, si propongono e s’impongono al capocomico e agli
attori con l’urgenza dei loro conflitti dolorosi e delle loro tragiche contraddizioni.
Dal metateatro antico, che consiste fondamentalmente nello svelare, per lo più con intento scherzoso, il
carattere fittizio dell’evento scenico e del mondo creato dalla fantasia del poeta, attraverso una lunga
evoluzione si è giunti, con Pirandello e poi con gli sviluppi successivi del teatro contemporaneo, a
mescolare e confondere scena e vita reale, accomunate dalla precarietà e dalla labilità di apparenze
egualmente ingannevoli. Non si tratta più semplicemente della rottura dell’illusione scenica: l’illusione
stessa, con un gioco molto più sottile, viene messa in discussione in quanto tale, postulando (è ciò che fa
Pirandello) che i personaggi esistano di per se stessi al di fuori della finzione e insinuando il dubbio che
non esista una realtà oggettiva (di cui il teatro sarebbe “mimèsi”, imitazione), ma che la vita reale sia non
meno illusoria, inafferrabile, inconsistente ed evanescente del mondo fittizio inventato dall’arte.
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Esempi di metateatro in Plauto
1) Da Asinaria, vv 1-15
PROLOGVS:
Hoc agite sultis, spectatores, nunciam,
quae quidem mihi atque vobis res vertat
bene
gregique huic et dominis atque conductoribus.
face nunciam tu, praeco, omnem auritum
poplum.
age nunc reside, cave modo ne gratiis.
nunc quid processerim huc et quid mihi
voluerim
dicam: ut sciretis nomen huius fabulae;
nam quod ad argumentum attinet, sane
brevest.
nunc quod me dixi velle vobis dicere,
dicam: huic nomen graece Onagost
fabulae;
Demophilus scripsit, Maccus vortit barbare;
Asinariam volt esse, si per vos
licet.
inest lepos ludusque in hac comoedia,
ridicula res est. date benigne operam mihi,
ut
vos, ut alias, pariter nunc Mars adiuvet.
Orsù, spettatori, fate questo se volete;
che questo spettacolo porti bene a me e a voi
e a questa
compagnia e ai capocomici e agli impresari.
Orsù tu, o araldo, rendi il pubblico tutt’orecchi.
E
ora siediti: fa’ attenzione solo che non sia per nulla.
Ora dirò perché io sia venuto qui e che
intenzione abbia:
affinchè conosciate il titolo di questa commedia.
Infatti, per quanto riguarda
l’argomento, è certamente breve.
Ora dirò ciò che ho detto di voler dire a voi:
Questa
commedia ha nome Onagos in greco;
l’ha scritta Demofilo, Macco l’ha tradotta in lingua
barbara (in latino);
vorrebbe che (il titolo) fosse Asinaria, se lo permettete.
C’è grazia e gioco
in questa commedia,
è uno spettacolo che fa ridere. Concedetemi benevolmente la vostra
attenzione,
affinché Marte vi protegga come ugualmente in altre circostanze.
2) Da Pseudolus, vv. 401-405
PSEUDOLUS:
Sed quasi poeta, tabulas cum cepit sibi
quaerit quod nusquamst gentium,
reperit tamen,
facit illud veri simile, quod mendacium est,
nunc ego poeta fiam: viginti
minas,
quae nusquam nunc sunt gentium, inveniam tamen.
Ma come il poeta, quando ha preso con sé le tavolette,
cerca ciò che non esiste in nessun luogo
tra le genti, e tuttavia lo trova,
e rende verosimile quel che è menzogna,
ora io diventerò poeta,
e le venti mine,
che ora non esistono in nessuna parte tra le genti, io tuttavia le troverò.
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