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ALLA SCOPERTA DEI NOSTRI GENI: LO SCOPO DI UNA RICERCA CHE
CONTINUA
Martedì, 24 agosto 2004, ore 15.00
Relatore:
Roberto Colombo, Direttore del Laboratorio di Biologia Molecolare e Genetica Umana
presso l’Università Cattolica Sacro Cuore di Milano.
Moderatore:
Marco Bregni, di Medicina & Persona.
Moderatore: Buongiorno a tutti. E’ un grande piacere, per me, introdurre il professor
Roberto Colombo, sacerdote e ricercatore in ambito biomedico, nel solco della
tradizione che fu anche di Padre Agostino Gemelli, fondatore della Cattolica. Il
professor Colombo è responsabile del Laboratorio di Biologia Molecolare e di Genetica
Umana presso l’Università Cattolica di Milano, e i suoi interessi di ricerca attuali
riguardano la genetica molecolare di alcune malattie rare.
Adesso, quello che a me piacerebbe dire in pochi minuti, prima di introdurlo, è perché
Medicina & Persona ha organizzato questo incontro nell’ambito del Meeting 2004.
Poche discipline come la genetica, la biologia molecolare, hanno avuto un progresso
così rapido e così tumultuoso in questi ultimi anni, e la cosa più importante è che questo
progresso ha avuto delle importanti ricadute in vari ambiti, ma in particolare nella
medicina clinica. Per fare un esempio, che a me è familiare, non si può più prescindere
dalla biologia molecolare per la diagnosi, la terapia e il follow up delle malattie
mieloproliferative e linfoproliferative. In altri termini, per i linfomi, le leucemie - per
esempio nella leucemia mieloide cronica -, ormai la diagnosi si basa sulla dimostrazione,
mediante un esame di biologia molecolare, di una certa traslocazione genica. Pertanto, la
biologia molecolare è diventata il pane quotidiano anche per il medici, per i clinici.
Quindi, come professionisti implicati con la realtà professionale, con la realtà dei nostri
pazienti, non possiamo fare a meno di conoscere questo ambito, questa disciplina.
Ancora più in dettaglio - e così vi suggerisco anche una chiave di lettura di quello che
dirà don Roberto - è la questione del soggetto che viene messa in questione.
Qual’è il soggetto di questa conoscenza? Qual’è il soggetto della conoscenza in ambito
genetico? E soprattutto, qual’è il suo interesse, qual’è l’interesse di questo soggetto? In
particolare, questa conoscenza scientifica, che è così ampia e a vasto raggio, trova in se
stessa i suoi obiettivi, oppure c’è un soggetto che li definisce?
Queste sono questioni molto importanti. La genetica, nel 2003, ha celebrato i suoi
successi con il sequenziamento completo del genoma umano; vale a dire che i 3 miliardi
dei nucleotidi che costituiscono il genoma umano ormai li conosciamo. Questo vuol dire
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che la genetica è arrivata all’apice delle sue conoscenze, e quindi d’ora in poi tutto ciò
che verrà in seguito saranno solo conseguenze, oppure la realtà è più complessa di
quello che appare?
A questa e alle altre domande don Roberto Colombo darà una risposta.
Roberto Colombo: Prima di entrare nella questione di questo incontro, permettetemi di
dire due cose come ad amici, perché questo è il Meeting per l’amicizia.
La prima è che quello che ho incontrato - e io sono qui per quello che ho incontrato, non
per quello che ho fatto e faccio (altri, anche qui presenti, hanno fatto di più e meglio di
me nella ricerca biomedica) - è stato decisivo non solo per la mia vita, cioè per la mia
vocazione, ma anche per la mia professione. Non nel senso di decidere che cosa avrei
studiato e fatto - come lavoro, come professione, come missione -, ma come lo avrei
studiato e fatto. E alla fine, nella vita, non importa che cosa fai, ma come lo fai.
Dopo quello che avevo iniziato ad intuire l’ultimo anno di liceo - una intuizione che si è
via via approfondita, divenendo talvolta dolorosa (per il mio limite, per i miei errori) o
impetuosa (per il mio carattere) – era nata la certezza che, di qualunque cosa mi fossi
occupato, lo avrei fatto con lo stesso approccio, che oggi cercherò di comunicare. E, in
effetti, nella mia vita mi è accaduto di occuparmi di questioni diverse da quella di cui
parleremo ora, di fare cose diverse, sia prima di diventare prete che dopo. Avrei potuto
anche fare quello che faceva mio padre, cioè il panettiere d’inverno e il gelataio d’estate,
ma credo che lo avrei fatto in un certo modo.
E’ impossibile scrollarsi di dosso una intuizione, una sorta di presentimento che non ti
abbandona mai e che riemerge sempre, anche se cerchi di soffocarlo come un pallone
nell’acqua: il presentimento che è all’origine di quanto diremo oggi, che la natura non è
matrigna, che la natura non inganna i suoi figli - l’ho intuito più drammaticamente il
giorno in cui è morto mio padre, e avevo 9 anni -, è che la realtà c’è, e dunque, se non è
matrigna, se non ci inganna, è positiva, è per me, è per noi. Partendo dalla realtà come
essa si manifesta, mi è parso degno di investirci tempo e passione, per conoscerla, cioè
per studiarla, per affrontarla, come si affronta la malattia. Pertanto, partendo dalla realtà
come essa si manifesta - noi genetisti usiamo la parola “fenotipo” - e non da un’idea che
ci siamo fatti di essa. Vedremo come nella storia della genetica molecolare si è fatta
strada un’idea che abbiamo fatto fatica nel tempo - quanti di noi l’hanno conosciuta,
studiata e approfondita - a verificarne i limiti e ad intuirne il superamento. La realtà c’è,
e c’è al di là delle nostre idee. Le nostre idee, che scientificamente si chiamano ipotesi,
finiscono, cambiano. La realtà resta, come un macigno, come una montagna da scalare.
Tutte le idee, anche quelle belle, geniali, ci eccitano, ci illudono, e poi ci deludono.
Il punto di partenza è che la realtà c’è - l’uomo c’è, la nostra vita c’è - e dunque ha un
senso, perché se non avesse un senso non ci sarebbe, non esisterebbe nemmeno. E se il
senso, lo scopo, il Destino, si è fatto conoscere, si è fatto incontrare.
L’ho intuito la prima volta trentatré anni fa, quando, l’ultimo anno di liceo, ho ascoltato
un prete di Milano che con la sua voce roca, ma persuasiva, affascinante, don Luigi
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Giussani, ci diceva che la Bellezza, la Verità, il senso della realtà, della vita, si è fatto
incontrare, si è fatto carne ed è uscito dal grembo di una donna e ha calpestato i piedi di
questa terra. Di questa realtà quello di cui parleremo è un aspetto, è un accento, ma non
è possibile comprendere un particolare se non tenendo presente il tutto di cui questo
particolare è un particolare. Così mi è sorto il desiderio di capirne di più, cioè di
studiare, prima, e di farci ricerca, dopo.
Si può conoscere e amare veramente un particolare - e la genetica è un particolare della
vita, non è tutto - solo tenendo presente ciò di cui questo particolare è un particolare. Per
questo “il cristianesimo - come ha detto il Papa nel suo saluto al Meeting - nonostante i
limiti e gli errori umani, costituisce il più grande fattore di vero progresso, perché Cristo
è principio inesauribile”. Anche del progresso scientifico, perché lo scopo della scienza
è conoscere la realtà, e la realtà è Cristo, come dice san Paolo.
La seconda e più breve cosa che vorrei dire - se mi consentite - è questa. Se dovessi
raccontare perché ho iniziato, da quando mi sono laureato nel 1976, a fare ricerca
biomedica e perché, grazie a Dio, dopo 28 anni continuo a fare ricerca, e perché
ricomincerei da capo a fare quello che ho fatto - in effetti, ho “ricominciato” perché tre
anni fa ho messo in piedi un nuovo laboratorio, in Università Cattolica -, perché non c’è
progresso senza ricominciare da capo, senza che l’idea che ti ha mosso, che ti ha
lanciato nella vita riprenda continuamente; se dovessi dire perché l’ho fatto, dovrei dire
la stessa ragione per cui io sono prete, per cui voi siete padri, per cui voi siete studenti,
professionisti, mariti: non perché ho scelto, ma perché sono stato scelto. Per una
preferenza della realtà verso di me. Infatti, se c’è una cosa che ho intuito in questi anni, è
che uno non sceglie le cose che fa, ma viene scelto, sono le circostanze che ti scelgono a
fare qualche cosa. E così la realtà ci chiama, ci provoca, ci coinvolge. C’è un fascino
dentro alla realtà - anche in quella più drammatica e sconvolgente, come la malattia, la
sofferenza e la morte - cui è difficile resistere. Per me è stato difficile resistere a questo
fascino che un aspetto della realtà, più di altri, ha provocato. E, alla fine, mi sono arreso,
cioè ho obbedito. La ricerca non è possedere la realtà, in questo caso possedere la vita e i
suoi elementi biologici, ma è obbedire alla realtà. La ricerca non è possedere la realtà,
ma è inchinarsi di fronte ad essa, come aveva intuito il grande Dostoevskij. La genetica
umana, come tutta la medicina e la biologia, deve “mirare a conoscere l’uomo nella sua
verità - lo ha ricordato il Papa - per poi servirlo, non manipolandolo secondo un progetto
considerato talora con arroganza migliore di quello del Creatore stesso”.
Il gusto della ricerca non è negato a chi sbaglia - chi di noi non ha commesso errori? -,
ma a chi non ha il senso della realtà, cioè il senso del Mistero che è dietro e dentro le
cose, e per cui le cose sono quello che sono e non quello che ho in mente io che siano.
Così, nella ricerca scientifica come nella vita, le idee cambiano, eccome se cambiano, le
ipotesi mutano, le teorie crollano, ma la realtà, quella sì, ostinatamente rimane. E in
questo consiste la moralità dello scienziato, nell’amare la realtà della vita, la realtà più
dell’idea che di essa egli si è fatto.
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Io l’ho capito attraverso quello che mi ha insegnato un maestro di queste cose, un
maestro nella ricerca. Poco dopo la laurea mi ero recato negli Stati Uniti, e ho lavorato
per quasi un anno nel laboratorio del professor Bruce Merrifield - alla Rockefeller
University - che si occupava della sintesi delle proteine. Era un uomo semplice e umile,
e diceva a ciascuno di noi che l’errore che noi facevamo, giovani ricercatori, gli sbagli e uno, quando inizia, di sbagli ne fa tantissimi in laboratorio -, l’errore era utile, anzi era
necessario, perché si potesse raggiungere lo scopo suo e di tutti noi: la scoperta di un
metodo fedele ed efficiente per la sintesi delle proteine al di fuori della cellula, in
laboratorio. Lui ci arrivò e per questo ricevette il premio Nobel, nel 1984.
Per me quell’anno fu un disastro, non riuscii a combinare quasi nulla, perché non avevo
ancora l’esperienza e mi aveva messo su una questione che era molto difficile, hard.
Quando me ne sono andato, salutandomi, il giorno prima che io prendessi l’aereo per
tornare in Italia, mi disse: “Your failures will be of great help to all us. Now we know
how to proceed to our goal”, “I tuoi insuccessi, i tuoi esperimenti che sono andati male,
saranno di grande aiuto per tutti noi. Adesso sappiamo come raggiungere il nostro
scopo”. Sull’aereo di ritorno in Italia ero un po’ triste, ma avevo la voglia di
ricominciare, e così ho fatto.
Adesso passiamo alla genetica.
[Diapositive]
Un grande pensatore, Kant, ha detto che due cose lo riempivano di stupore: quello che
stava sopra alla sua testa - le stelle, il cielo - e quello che c’era dentro di lui. Questa frase
ha voluto che venisse scritta anche sulla sua tomba. L’uomo ha iniziato ad occuparsi
prima delle cose che stanno in cielo, poi di quelle che stanno dentro di lui, della
conoscenza di se stessi, ma anche della conoscenza biologica.
Questo, per esempio, è un planisfero della volta celeste; vedremo come qualcosa di
simile lo ritroveremo alla fine del nostro percorso, adesso in cui dalla genomica si apre
un altro grande capitolo che è quello della proteomica. Ma vorrei partire dal pensiero del
padre della biologia che è stato Aristotele - non è stato solo il padre della filosofia o
della fisica -. Aristotele riteneva che diversi sono i fattori che costituiscono la realtà di
un essere vivente; vedremo che questi fattori sono lo stesso termine che userà Mendel, il
padre della genetica moderna, e come questi fattori determinano i caratteri di ognuno di
noi, cioè, ciò di cui noi siamo fatti visibilmente; però, la forma propria, ciò che è
l’uomo, è dato, diceva Aristotele, dalla sua anima intellettiva.
La tesi che vorrei dimostrare è che la genetica non serve a capire chi è l’uomo, ma la
genetica ci aiuta a capire come curare l’uomo, come prenderci cura dell’uomo, perché
per conoscere chi è l’uomo, non abbiamo bisogno della genetica; cioè, dobbiamo
guardare in faccia chi abbiamo davanti, dobbiamo guardare dentro noi stessi.
Questi caratteri sono moltissimi; noi, per esempio, oggi conosciamo - questo è un sito
che noi frequentiamo molto spesso della banca dati della National Library of Medicine -,
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in forma descritta, sistematica, circa 5700 e rotti caratteri che possono venire trasmessi
ereditariamente. Oggi, come vedremo, conosciamo oltre 9000 geni però, di questi,
solamente 389 hanno trovato una corrispondenza a livello genetico. Questo mi
impressiona, perché ogni volta che apro questo sito, che viene aggiornato
quotidianamente, i numeri cambiano. Questo vi dice come la ricerca è un progresso
continuo, e non ci si può mai fermare, neanche a una pagina web.
Ho trovato interessante una corrispondenza con la frase che ha dettato il titolo di questo
Meeting, che letteralmente, nella lettera di San Bernardo, suona così: “Correte, fratelli,
perché arriviate allo scopo, il che avverrà se comprenderete che allo scopo non siete
ancora arrivati”. San Bernardo era un monaco; all’origine della genetica moderna checché se ne dica - non sta la laicità, ma sta il cristianesimo, un uomo venuto fuori
dalla tradizione cristiana. All’origine della genetica, nella metà dell’Ottocento, sta,
indiscusso, Gregorio Mendel. Neppure nei trattati di genetica della Russia sovietica
hanno potuto eliminare Gregorio Mendel, solo che in quei libri non scrivevano che era
un abate, mettevano, semplicemente, sig. Gregor Johann Mendel; e vedremo che cosa è
accaduto al suo laboratorio, che era il suo monastero. In una lettera ad un altro
ricercatore coevo, Carl Nageli, così scriveva Mendel: “Sto facendo dei progressi che non
avrei mai immaginato, ma lo scopo dello studio sembra allontanarsi ogni giorno”.
Questa è una descrizione di quello che sperimentiamo, che credo anche voi viviate ogni
giorno: uno si protende per afferrare la meta, e questa gli scivola via come un’anguilla.
Mendel lavorava in un monastero, a Brno, in Moravia: questo è il suo famoso giardino,
l’orto dove coltivava le piante di pisello; questa è la visione odierna del monastero.
Durante il regime comunista, nella Cecoslovacchia, venne espropriato - prima di esso
subì, in realtà, un vero martirio, perché, arrivati i nazisti, furono uccisi tutti i monaci
della comunità di Brno – e il governo comunista lo trasformò in un fienile, e poi, in
tempi più recenti, in un dormitorio per gli studenti dell’università. Attualmente è
rientrato in possesso dell’ordine agostiniano.
Qui sta l’immagine, ormai famosa, di Mendel con i suoi confratelli che guarda quel
piccolo ramoscello del pisum sativum. Nel suo stemma Mendel dice bene qual’era il suo
modo di fare genetica. Nel riquadro in basso a destra vedete che ha messo il simbolo alfa
e omega, simbolo di Cristo: la realtà che lui studiava era la realtà di Cristo, cioè Cristo
che si manifestava nella realtà. Quando divenne abate, e questo fu la causa della fine dei
suoi studi - perché dovette occuparsi della gestione del suo monastero - volle mantenere
il riferimento alla pianta e a Cristo come origine della sua ricerca. Nel 1865, nel suo
famoso articolo che diede avvio alla ricerca della genetica moderna, utilizzò i termini
“elementi” o “fattori”. Elementi o fattori della realtà, nel suo caso, della ereditarietà dei
caratteri.
La parola preferita da Mendel era contare: Mendel diceva che non misurava, contava.
Non misurava la realtà, la contava. Sono due cose diverse, misurare e contare; quando
uno conta prende la realtà e l’abbraccia per quello che è, quando uno misura, la
scompone. Incominciò a descrivere come le caratteristiche biologiche si trasmettevano
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da una generazione all’altra, ma questa prospettiva della genetica come descrizione di un
elemento, di un fattore della realtà, mutò presto.
Questo studioso danese, Johansen, fu il coniatore del termine “gene”. Mendel, invece,
non usò mai la parola “gene” nei suoi scritti. La parola gene, infatti, non fa riferimento a
un fattore della realtà, ma a una spiegazione della realtà. E’ la genetica riferita a genesis,
all’origine, alla genesi della realtà. Qui vediamo già una svolta nel modo di concepire lo
studio della genetica: nel 1909 si introdusse questo termine che poi soppiantò
“elemento” o “fattore” dell’ereditarietà.
Questa è una tra le immagini più belle che ho trovato, nell’arte, di un pittore fiammingo,
sulla malattia, Bambino malato. Questo olio su tela, che si trova ad Amsterdam, dice,
con lo sguardo di questa madre e lo sguardo di questo bambino che non incrocia mai
quello della madre, che all’origine dello studio della genetica umana sta la medicina. La
genetica umana nasce come genetica medica, è la malattia congenita che fa sorgere la
domanda sull’ereditarietà dei caratteri. Perché? Non chi è il bambino malato, ma perché
il bambino è malato e come faccio a curarlo?
Chi ha fatto nascere in modo sistematico la genetica umana è un medico inglese, la cui
opera apre la strada allo studio della genetica umana come genetica delle malattie a
trasmissione ereditaria. Questo medico andava in giro a scoprire perché questi bambini
erano malati, cercando di intuire come mai in loro c’era un disordine, che vedeva
presente in diversi membri della famiglia, e descrisse per la prima volta le prime quattro
malattie a trasmissione recessiva - cioè che seguono le leggi di Mendel sulla recessività l’albinismo, la cistinuria, l’alcaptonuria e la pentosuria. Descrisse ciò in un lavoro
apparso su Lancet, nel 1906. Ora noi conosciamo il gene, la cui mutazione è legata alla
comparsa di queste malattie, descritte ai primi del Novecento: l’albinismo venne
scoperto nel 1989, il gene per la cistinuria nel 1994, quello per la captonuria nel 1996, e
nel nostro laboratorio abbiamo identificato e comunicato in forma preliminare il gene
che causa l’ultima malattia. Dopo quasi cento anni siamo riusciti a identificare il gene
che causa la pentosuria, il DCXR, che si trova sul cromosoma 17. Questa è la proteina di
questo enzima, deficitaria nei pazienti affetti dalla pentosuria, e noi abbiamo visto come
quelle parti in giallo - che qui vedete in questa sorta di spirale, che sono le catene di una
proteina - sono mancanti nella proteina prodotta in questi soggetti.
Poi venne l’identificazione dei cromosomi e la localizzazione dei fattori di Mendel sui
vari cromosomi: è iniziata l’era della mappatura, cioè andare a vedere dove, su questi 24
tipi di elementi discreti che sono i cromosomi, si trovano localizzati i geni. Qui vedete
identificati i due famosi cromosomi che determinano uno dei caratteri, fondamentali, la
sessualità. Il padre degli studi sulla genetica clinica è un amico del Meeting; dico “è”,
perché, anche se morto alcuni anni fa, la sua memoria è rimasta viva e credo parecchi di
noi ricorderanno i suoi affascinanti incontri nell’Auditorium della vecchia Fiera del
Meeting. Nel 1959 descrisse la prima malattia, la cui causa è un difetto nel numero dei
cromosomi, una “aneuploidia cromosomica”. Quest’immagine - che è tratta dal suo
lavoro - fa vedere come, in basso, al centro, ci siano tre macchie, che sono i tre
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cromosomi n° 21, presenti in questi bambini. Devo dire che quest’uomo è un altro, dopo
Mendel, che ci fa capire come la tradizione cristiana, cioè il tener presente il Mistero,
abbia guidato la sua opera di ricercatore. Quest’uomo che nella sua vita ha visto decine
di migliaia di bambini affetti da malattie cromosomiche genetiche, prima di andare in
laboratorio andava sempre a messa, passava in una piccola chiesina che si trovava due
isolati più lontano, e lì incominciava la sua giornata di lavoro che, a volte, non finiva
neppure a tarda sera.
La scoperta che il materiale dell’ereditarietà è l’acido desossiribonucleico, il DNA, è del
1944. Questi tre ricercatori, che allora lavoravano al Rockefeller Institute, poi
Rockefeller University, identificarono, attraverso dei famosi esperimenti sulla
“Diplococcus Pneumoniae", un batterio che causa la polmonite batterica, e che a
trasmettere le caratteristiche virulente di alcuni ceppi di batteri era una molecola che era
stata identificata chimicamente quasi cento anni prima.
Veniamo a tempi più vicini a noi. Nel 1953 venne descritta la struttura, ormai famosa,
della doppia elica del DNA. Vi sarete accorti che io non sono partito, come la maggior
parte dei genetisti, facendo vedere la doppia elica del DNA; io ho fatto vedere un
bambino malato, perché, per me, il punto di partenza è la persona. La genetica è la
genetica della persona umana, non è la genetica del DNA; il DNA ci serve a capire come
mai una persona è malata, ma il punto di partenza è il “fenotipo”, e il fenotipo umano,
che non è solo biologico, ma è anche spirituale, è la persona. Ma dovevamo arrivare al
DNA. Esattamente cinquant’anni dopo - come ci ha ricordato il prof. Marco Bregni
nell’introduzione -, il 14 aprile del 2003, attraverso una conferenza stampa, è stato
annunciato, in modo molto enfatico, la conclusione del progetto “Genoma umano”. Un
lavoro che è durato 13 anni - ne erano stati previsti 15, ma si è poi riusciti ad accelerare
enormemente questo lavoro - e che si è concluso con il sequenziamento del 99,9% delle
circa 3 miliardi di “lettere” - i nucleotidi - che costituiscono il patrimonio genetico
umano. Ma su questo torneremo, perché il mito del sequeziamento è una di quelle
concezioni progressiste che corrono il rischio di bloccare l’autentico progresso della
genetica. Perché sono i progressisti i veri nemici della scienza, non è il cristianesimo, ma
il progressismo, che concepisce la ricerca come misura di tutte le cose, aggrappandosi a
un punto di arrivo, come se questo non fosse un trampolino di lancio per un passo in più.
E’ stata identificata, dicevamo, la sequenza delle famose “lettere” o “basi” che
costituiscono la molecola del DNA, segmenti di questa sequenza, quando esprimono,
cioè forniscono, l’informazione per la sintesi di una proteina: i “geni”.
Quello che hanno fatto, ed è quello che facciamo anche noi nei nostri laboratori, è di
separare ad una ad una queste basi, attraverso un apparecchio che è un sequenziatore.
Queste compaiono come questi picchi di quattro colori diversi, convenzionalmente, il
cui ordine può essere letto attraverso una macchina o ispezionato visivamente, e ci
danno l’ordine di queste basi. Quanto è grande il nostro genoma? Come potete vedere,
nella versione del 2003 - l’ultima che è stata rilasciata pubblicamente presenta dei
ritocchi su alcuni cromosomi -, si parte dal più grande, il cromosoma 1 che ha circa 245
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milioni di basi, fino al più piccolo, che è il 21, che ha quasi 47 milioni di basi. In
complesso superiamo i 3 miliardi di nucleotidi. A questi, che sono il genoma che si trova
nel nucleo delle cellule, se ne aggiungono altri, pochi per la verità, ma importanti per
alcune malattie. In totale non ci discostiamo dalla cifra di prima. Se dovessimo scrivere
questa cifra in un libro con una impaginazione classica, supereremmo il mezzo miliardo
di pagine; più comodamente, lo possiamo archiviare in 3 gigabyte di memoria.
I geni servono a che cosa? Nelle nostre cellule servono a dare le informazioni per
costruire gli elementi di base che sono le proteine, da cui derivano tutti gli altri elementi.
Che cosa succede se in un gene avviene un difetto? Marco Bregni ci parlava prima di
malattie legate alle mutazioni, a difetti genici, o comunque dovute a qualcosa che non
va. L’esempio che porto, noto a molti di coloro che mi ascoltano, è quello della catena
dell’emoglobina - una delle due catene, la catena beta - che normalmente viene tradotta
e serve a costruire una delle due catene della proteina dell’emoglobina, la globina, un cui
pezzetto, di cinque aminoacidi, vedete lì in alto. Questa è l’emoglobina che abbiamo,
poi, se non siamo affetti da un’emoglobinopatìa, da una malattia del sangue. Ma in Italia
ci sono circa 5500 persone che sono affette da una forma di talassemia che deriva per lo
più da una mutazione - ce ne sono diverse, questa la più diffusa in Italia - che ha la
tripletta, questa serie di tre aminoacidi nella posizione 39. Vedete che in alto, sotto la 39,
avevamo una “c” (citosina); sotto, troviamo in questi soggetti una “u” (uracile). Tutto
questo fa sì che la traduzione di quell’informazione si arresti troppo presto.
L’emoglobina si ferma così a 39, 38 aminoacidi anziché a 146 che servono a far
funzionare l’emoglobina; questo fa sì che questi pazienti siano affetti da questa malattia.
Ho voluto dire questo perché si pensa che le malattie genetiche siano rare; è vero: io mi
occupo di malattie genetiche rare nella loro accezione classica, cioè quelle che
presentano una frequenza molto bassa, 1:10000 nati. Ma ciascuno di noi è portatore di 5
o 6 mutazioni che, per fortuna, non provocano una malattia clinicamente rilevante: le
mutazioni non sono cosa affatto infrequente nella nostra vita. Uno dei problemi che ha
angustiato molti, dopo la scoperta, la decifrazione della sequenza, è stato quanti sono i
geni.
Queste sono alcune vignette apparse nelle riviste scientifiche dopo l’aprile del 2003 che
si chiedevano: ma quanti sono i nostri geni, quante sono le unità che forniscono le
informazioni? Si era arrivati ad una sorta di lotteria, il cui numero più alto era 120130000 e il più basso era 15-20000; insomma gli scienziati avevano cominciato a dare i
numeri, e qualcuno pensava di giocarli anche al lotto. Il valore che più si avvicina è
questa stima, che è apparsa due mesi fa su una rivista, che afferma che sicuramente
nell’uomo sono almeno 21000. Potrebbero, però, essere intorno ai 30-32000. Di certo
molti di meno di quanti la lunghezza del nostro genoma, e soprattutto la complessità del
nostro organismo, lasciavano supporre. Da qui quasi uno sconforto, uno sconcerto: ma
se l’uomo è al vertice della scala evolutiva, se l’uomo è al culmine di quel processo di
complessità biologica, com’è possibile che abbia così pochi geni?
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L’idea di cui parlavamo, di identificare nel gene l’origine dell’uomo,la sua caratteristica,
ha portato come a rimanere sconfitti di fronte a questi numeri, che s’incominciava a
dare. In realtà, se noi prendiamo uno dei ceppi dei topi di laboratorio, quello che è stato
sequenziato, il c57bl/sj, esso ha circa il numero di geni che abbiamo noi, cioè intorno ai
27-30000 e, cosa ancor più sorprendente, è che vi è una corrispondenza del 99% - non
uguaglianza, ma corrispondenza - tra i geni del topo e quelli dell’uomo. Ancor più
recentemente, un anno fa, è stato sequenziato il genoma di questo boxer, la cui
lunghezza è inferiore di poco a quella dell’uomo, ma presenta - è ancora in fase di studio
- circa o sopra il 75% di corrispondenza rispetto all’uomo. Questa è la corrispondenza
tra i pezzi di cromosomi dell’uomo - con quei colori lì - e i cromosomi del topo - che
sono 20 -. Vedete che la corrispondenza è stata ricostruita come un collage. Ma
dobbiamo venire a capire qual’è stato il grande dogma che si è via via sgretolato. Sì,
perché i dogmi non appartengono solo alla tradizione delle religioni, ma anche la
scienza, quando diventa dogmatica, diventa capace di affermazioni - direbbe Popper non falsificabili, che quindi si escludono da ogni ulteriore progresso.
Questo signore, Francis Crick, uno dei due che ha decodificato la struttura a doppia elica
del DNA, cinque anni dopo la pubblicazione di quel lavoro, formulò, in una famosa
conferenza, quello che diventerà il dogma centrale della biologia molecolare, e cioè che
l’informazione genetica, quella che serve a costruire un organismo, può fluire in una
sola direzione: dal DNA ad un’altra molecola, che chiamiamo RNA, alla proteina. Di lì
a qualche anno dovette ricorreggerlo - perché in realtà c’è una possibilità di ritornare
indietro - con la scoperta di un enzima, la transcriptasi inversa. Noi sappiamo oggi che
dall’RNA alcuni virus riescono a ricostruire una copia che è il cDNA. Ma resisteva in lui
e in molti ricercatori l’idea che le proteine non avessero la possibilità di influenzare il
messaggio genetico, cioè la possibilità di influenzare l’espressione del DNA e del
mRNA. Crick scrisse, in quegli anni, che se si fosse scoperta una proteina capace di
modificare o modulare l’espressione del DNA, sarebbe crollata tutta la biologia
molecolare moderna. Questo è accaduto, perché i miti o i dogmi della scienza non
resistono di fronte alla realtà. Si è infatti scoperto che le proteine - e questo è il lavoro
che abbiamo davanti, quello che cerchiamo di fare adesso - sono in grado di influenzare
in almeno due modi - ma ve ne sono anche altri possibili - questo processo, attraverso un
controllo della trascrizione, detti switch on, quando un gene si deve attivare; switch off,
quando un gene si deve spegnere. E ci sono proteine che fanno questo, e, secondo, fanno
un processo molto interessante, che noi chiamiamo l’editing dell’RNA, cioè fanno, in
qualche modo, un taglia-incolla delle informazioni dell’RNA, che è quello che ci
permetterà, molto probabilmente, di spiegare come mai i geni umani sono così pochi e le
nostre proteine così tante.
Per capire questo processo di editing, prendete questo esempio. Se noi immaginassimo
che una poesia di Leopardi, il Canto notturno di un pastore errante dell’Asia, sia stata
scritta in un libro non tutta di seguito, ma intercalata da delle frasi che nulla c’entrano
con il testo della poesia e che qui abbiamo indicato in giallo. Ecco, se noi provassimo a
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leggere questo, non ci apparirebbe una poesia di Leopardi, ma qualcosa come: “Che fai
tu, luna, in una casa fredda, in una città antica del ciel?”, e così via. Questo è quello che
fanno i nostri geni. Le nostre informazioni sono intercalate da delle sequenze
apparentemente senza senso, che addirittura alcuni ricercatori avevano chiamato, con
disprezzo, junk-DNA, il DNA spazzatura. Ora noi stiamo cominciando a capire che
questo DNA non è per niente spazzatura; ci sono probabilmente informazioni che noi
non siamo ancora in grado di leggere, e questa è un’altra delle dimensioni dell’avventura
del progresso della genetica di questi anni e degli anni a venire. Immaginate adesso di
togliere le frasi spurie da questa poesia, ed ecco che compaiono i versi di Leopardi: “Che
fai tu, luna, in ciel? Dimmi, che fai, silenziosa luna?” e così via: questo è quello che
accade esattamente nell’editing dei nostri geni. Infatti i geni sono dei pezzi di DNA che
vengono copiati, trascritti, su un’altra molecola che è l’mRNA. Ma questa è ancora una
forma grezza; potremmo dire che è una copia di un libro in cui ci sono ancora le
immagini o le parti che noi dobbiamo tagliare prima di ricostruire un collage; questo si
chiama pre-mRNA. Ora, vedete quelle parti in rosso: queste sono le parti che
contengono le informazioni per fare una proteina; in verde, invece, sono l’intercalare
della poesia precedente. Ebbene, ci sono delle proteine che hanno il compito di tagliare e
incollare le parti rosse. Infatti, le parti rosse vengono staccate ad una ad una e
costituiscono gli esoni. Questi poi vengono ricuciti insieme, ed ecco che abbiamo il
nostro gene con il suo contenuto di informazioni capace di dirci come sarà una proteina.
Questo è l’mRNA maturo, che serve per costruire la proteina, come abbiamo visto
precedentemente.
Ma la cosa più sorprendente, che noi stiamo cercando di capire proprio in questi anni, è
che questo taglia e incolla non è univoco, ma ci sono diversi modi, probabilmente
numerosi, per tagliare e incollare, con cui le proteine tagliano e incollano i geni, e quindi
costruiscono delle frasi con un significato diverso. Provate a pensare di tagliare in
diverso modo lo stesso pezzo - vedete che i frammenti, gli esoni, hanno lunghezze
differenti - e otteniamo quattro tagli differenti. Se noi uniamo quattro tagli, otteniamo
quattro mRNA maturi, che ci danno quattro proteine differenti con un solo gene. E’ così
crollato un altro mito: l’idea che c’è un rapporto fra un gene e una proteina; un gene può
servire a costruire tante proteine. Anche in questo ci può aiutare un esempio, che farò
più brevemente. Queste sono due frasi costruite da me, come esempio, che contengono
due informazioni intercalate tra loro che apparentemente sono senza senso: “non cresce
la luna pianta nel sotto il cielo di Lombardia con una bella estate…”. Ora, così, questa
frase non ha alcun senso. Se noi pensiamo di togliere alcuni elementi, ad esempio,
togliamo: “non”, “pianta”, “sotto”, “il”, e così via, vedete che emerge la prima frase:
“Cresce la luna nel cielo di Lombardia in una bella estate senza nubi e possiamo
ammirarla dal balcone di casa e possiamo ammirarla attendendo gli amici che tardano ad
arrivare per la sera di addio”. Ma possiamo decidere di togliere altri termini, e avremmo
un’altra frase ancora, un’informazione diversa. Questo è quello che sta dietro al fatto che
da un gene possano nascere più proteine.
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C’è un paradosso che è stato chiamato: “il paradosso c della genomica comparata”, che
nasce se andiamo a vedere le differenze tra il genoma degli animali e il nostro.
Prendiamo sei genomi che sono stati sequenziati in questi anni: vedete come non vi è
raffronto tra la complessità - in questo consiste il paradosso “c”, dove “c” sta per
“complessità” -, la complessità del moscerino della frutta, la drosophila, e l’uomo;
eppure, vedete che non vi è un rapporto diretto, di proporzione. Ma ancora di più emerge
se noi prendiamo il ratto o la rana: essi hanno un genoma molto simile in lunghezza a
quello dell’uomo; “3 mb” sta per “megabasi”, 3 miliardi virgola uno di basi. Se poi
saliamo nell’ordine di grandezza, troviamo la locusta che ha tre volte la quantità di DNA
che noi abbiamo nei nuclei, o, addirittura, l’ameba, questa piccolissima struttura
microscopica che ha seicentosettanta miliardi di basi. Viene alla mente quello che disse
Karl Popper, in un libro che riprende una conferenza che fece nel ’72: “Che differenza
c’è - diceva il filosofo - tra l’ameba e Einstein? Tutte e due sbagliano. L’ameba sbaglia,
perché c’è un difetto nel suo metabolismo, non funziona. Anche Einstein può sbagliare.
La differenza è che l’ameba non riconosce il suo sbaglio, non lo corregge, e quindi
soccombe al suo errore biologico. Einstein è stato in grado, noi siamo in grado, di
riconoscere il nostro errore, di correggerlo e dunque di vivere e non morire.” Ho
ritrovato questo testo su Science, citato nell’articolo di un editorialista, che dice che
nonostante decenni di studi, i genetisti non sanno dire che cosa rende umani gli uomini.
Mi ricorda quello che, alcuni anni fa, don Giussani ha detto, quando aveva saputo che
avevano dato il Nobel allo studioso della Drosophila Melanogaster, che aveva studiato
questo insetto: “Hanno dato il Nobel a uno che sa tutto su una mosca, ma non sa niente
su se stesso. Per capire chi siamo dobbiamo capire quello che noi siamo.” Nell’articolo
di cui vi parlavo troviamo questa frase: “Sebbene il genoma umano ci consentirà di
confrontare il nostro genoma con quello dei primati, e di scoprire caratteristiche che
sono unicamente umane, non c’è garanzia che queste caratteristiche siano responsabili di
qualunque dei nostri singolari attributi biologici”.
In effetti noi stiamo studiando i cromosomi dell’uomo, i 24 cromosomi, e qui vediamo il
numero dei caratteri che sono stati mappati, cioè legati ai cromosomi, che oggi è di oltre
9.000. Questo non vuol dire che noi conosciamo la sequenza di questi, ma sappiamo che
sono legati alla trasmissione; in effetti noi oggi conosciamo la sequenza, quindi
sappiamo dire come è fatto. Ma di circa 9.700 geni, però, solamente di 389 sappiamo a
cosa servono. Questa è un’altra delle grandi sproporzioni della ricerca: infatti il rapporto
tra i fenotipi, cioè i caratteri, le malattie, le caratteristiche, e i geni conosciuti, è di 3,8 a
100. Meno del 4% dei geni hanno trovato il loro significato biologico.
Questa è la strada che si apre, è il lavoro che c’è da fare, altro che la mistica del DNA, il
libro della vita che ci avrebbe svelato tutto. Qualcuno aveva scritto che i medici non
avrebbero più visitato i pazienti, ma avrebbero fatto fare un loro genotipo. Ce n’è di
strada prima di poter dire questo. Se noi andiamo a vedere qualcuno di questi
cromosomi, per esempio il cromosoma 3 - lo possiamo vedere sul sito che noi
frequentiamo, quello dell’NCBI -, vediamo che una mappa cromosomica appare come
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questa bacchetta dove sono indicati dei segmenti, a destra, che sono le regioni che sono
state mappate e sequenziate e sui quali sono stati studiati i geni, sono stati identificati,
per esempio, alcuni tra i tanti del cromosoma 3.
Vi faccio vedere alcuni esempi: il CDCD2 è un gene che è stato coinvolto nello studio
della trasmissibilità della cardiomiopatia dilatativa di tipo 1E; e così diversi. Noi, per
esempio, ne abbiamo identificato uno, il CG1 58 che è legato ad una malattia molto rara.
Questa malattia è una forma di epidermolisi - una malattia della pelle -. Qui vedete
l’epidermide di uno di questi pazienti. Quando noi prendiamo il sangue per estrarne il
DNA non dobbiamo mai dimenticarci che quello - anche se poi il paziente sparirà,
perché il paziente sta in corsia, non in laboratorio - è il sangue di un paziente. Tenere
sempre presente con la coda dell’occhio che la genetica parte dalla persona, è la salvezza
per non fare le cavolate più grosse che un ricercatore possa fare in questo campo.
Abbiamo visto le sue cellule. Questi sono i fibroblasti e li abbiamo confrontati con i
fibroblasti della sorella di questo paziente. Per chi non è familiare con microscopia
cellulare qui vengono indicati quei piccoli pallini molto luminosi che sono degli
adiposomi. Queste cellule contengono numerose gocce di lipidi. Questa malattia dà un
accumulo di lipidi, di grassi neutri, di trigliceridi che causano poi quel problema
dermatologico per questi pazienti. E’ stato possibile sequenziare il gene e, nell’esone 4 uno di quei frammenti che vengono tagliati e che abbiamo visto prima - abbiamo visto
che c’era una differenza tra la sequenza di quelle lettere nel paziente e in quello di sua
sorella che non aveva questa malattia. E’ chiaro che uno che non è familiare con questi
problemi non vede qui nessuna differenza; non spaventatevi se non vedete nessuna
differenza, perché ci vuole un occhio che le passa uno per uno: ve la faccio vedere con
una freccia. Vedete che lì, dove ho indicato, c’è un picco azzurro in più, tra il picco
azzurro sotto, e il picco verde, compare un secondo picco azzurro che per noi è una di
queste lettere che è la citosina in posizione 594. Questo provoca la malattia di questo
paziente. Quando lo abbiamo detto a questo giovanotto - che è un ragazzo di origine
turca che adesso abita a Monaco di Baviera, lì lavora con la sua famiglia e sono nella sua
famiglia cinque i malati di questa malattia - non ha capito di cosa si trattava, perché è
uno che lavora in un bar, fa il cameriere, però è rimasto stupito. Quando ha visto questa
roba qui la sua faccia, il suo volto e quello di sua sorella lì, erano stupiti, e veramente
non volevano andarsene dalla clinica dermatologica di Monaco. Da quando siamo andati
su e gli abbiamo detto che avevamo capito perché aveva quella malattia.
I nostri cromosomi però non contengono tantissimi geni, ci sono delle regioni che noi
chiamiamo i “deserti di geni” e questo è un altro aspetto interessante. Qui vedete queste
linee, queste barre arancioni indicano, dove sono più alte, la densità di geni, cioè di geni
trascritti, che sono stati identificati come mRNA e raccolti sotto forma di cDNA. Vedete
che ci sono regioni, come la P21, che ne hanno tantissimi, ma ci sono due deserti famosi
del cromosoma 3: il P 25 e il P12 Q12. Circa il 45% del nostro DNA si pensa che sia un
deserto, che non contenga informazioni. Ma allora a che serve? Non abbiamo ancora
scoperto a cosa servono. Io sono certo che qualcuno ci arriverà - qualcuno sta già
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intuendolo -; arriveremo a capire perché ci sono. Perché nella realtà non c’è niente a
caso, tutto ha un senso, e se tutto ha un senso c’è anche una ragione perché ci sono quei
“deserti” e perché ci sono queste “città”, cioè quelle regioni che sono molto densamente
popolate.
Arrivo a chiudere con una delle prospettive più interessanti che è la post genomica. Cosa
c’è al di là dello studio della genetica? Ma al di là dei geni ci sono le proteine e noi
abbiamo visto che sono molte di più dei geni che costituiscono il nostro genoma e quindi
la grande avventura è quella di arrivare a studiare le proteine, e a capire la loro
interazione. I fattori della realtà non sono fattori disordinati, ma interagiscono verso una
unità che è quello che noi siamo. In questo bell’articolo apparso qualche mese fa sulla
rivista Science questi studiosi hanno studiato le proteine di quel moscerino che abbiamo
visto prima, hanno studiato 3.522 proteine; noi ne abbiamo oltre 100.000, forse
130.000/140.000 nel nostro corpo, e hanno fatto una mappa di queste 3.522 proteine e
delle loro interazioni. Qui è ingrandito, nel rettangolo, e si vedono tutti i puntini che
sono delle proteine, con dei trattini tra di loro che dicono come queste parti stanno
rispetto al tutto, al proteoma, all’insieme delle proteine funzionali. Hanno fatto anche
un’altra cosa, hanno visto come un certo numero di queste, oltre 2.300, sono localizzate,
si trovano dentro la cellula. Per chi ha un po’ di familiarità con la cellula vede che qui è
rappresentata in giallo l’esterno della membrana cellulare, in azzurro il citoplasma, in
verde il nucleo. Anche qui vedete tutte le interazioni che sono state trovate. Questo è
uno dei capitoli più affascinanti che ci attendono.
Dobbiamo tornare là dove siamo partiti, perché il poeta Eliot diceva che «la conclusione
di tutte le nostre ricerche sarà sempre di arrivare là dove eravamo partiti e di conoscere il
luogo per la prima volta». A me sembra che questa mappa si avvicini molto alla prima
mappa che gli uomini hanno incominciato a costruire, la mappa celeste, la volta del
cielo, quello che riempiva di ammirazione Kant e che ha mosso la ricerca dell’uomo.
C’è una sorprendente somiglianza, eppure qui ci sono secoli di diversità.
Vorrei finire con una citazione di Berry Commoner - uno tra i ricercatori più critici della
modernità - che in un’intervista - lui, studioso di problemi ecologici, di evoluzione,
americano -, in un’intervista rilasciata all’ERP Magazine, due anni fa, ha detto: “Il DNA
non ha creato la vita, è la vita che ha creato il DNA”.
Noi di questo ne siamo certi, perché noi abbiamo incontrato la vita e sappiamo che il
cristianesimo costituisce, come ci ha ricordato il Papa, il più grande fattore di vero
progresso; e avere incontrato la Vita che si è fatta carne ci dice che è la vita che viene
prima di ogni particolare o determinazione della vita stessa.
Dicevamo che ciò che uccide il progresso scientifico non è il cristianesimo, ma il
progressismo che assume l’uomo come misura di tutte le cose, come metro della realtà.
Questo uccide la ricerca, perché dove non c’è spazio per qualcosa che è più grande
dell’uomo, l’uomo diventa incapace di grandi cose; ma dove c’è spazio per qualcosa di
più grande dell’uomo, l’uomo diventa capace di cose grandi e la ricerca scientifica è una
tra le più grandi avventure che l’uomo abbia intrapreso.
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Auguro a tutti voi, auguro soprattutto ai giovani che oggi sono venuti qui numerosi, di
lasciarsi stupire dalla realtà della vita, e di non tirarsi indietro di fronte alla fatica che la
ricerca nella vita sempre comporta, la fatica che la ricerca richiede. Ne vale davvero la
fatica. Auguri !
Moderatore: Grazie don Roberto. Se posso fare una considerazione conclusiva vorrei
ringraziarti, perché ci hai fatto intuire la bellezza di tutto quello che c’è all’interno del
corpo umano e di quanto può essere bella la ricerca in genetica e in biologia molecolare.
Io ho anche una certezza rispetto a quello che tu dicevi, che comunque mai la genetica
sarà in grado di sostituire il medico e la visita del paziente, perché curare il paziente è
una relazione e la genetica potrà essere uno strumento per questo, preziosissimo, ma
insostituibile è il rapporto con l’uomo, con il paziente.
Un’altra cosa mi veniva in mente, che vorrei che tenessimo presente, da quello che don
Roberto ci ha testimoniato, anche proprio con il suo esempio personale. Sapere che la
realtà ha un senso educa anche a ricercare il senso del particolare; secondo me questa è
la lezione che dobbiamo portare a casa da quello che lui ci ha detto, e questo si applica
non solo alla genetica, ma a tutti gli altri ambiti in cui ci troviamo a lavorare e a operare.
Rapidamente vorrei dare due avvisi per quanto riguarda Medicina & Persona, allo stand
di Medicina & Persona è possibile incontrare persone e colleghi che illustrano l’attività e
gli scopi dell’Associazione, ed è anche possibile rinnovare l’iscrizione all’Associazione.
Alle 17.00, in Sala Negri, ci sarà l’incontro “L’esperienza degli ospedali cattolici in
Uganda”, in collaborazione con Medicina & Persona e AVSI. In questo incontro verrà
raccontata l’esperienza che viene fatta in una realtà complessa come l’Uganda e verrà
anche dato conto della raccolta di fondi: “Un’ora di lavoro per l’Uganda”, che è in corso
presso numerose istituzioni ospedaliere italiane.
Inoltre ricordo il terzo convegno dell’Associazione, “Medico cura te stesso”, che avverrà
tra il 25 e il 27 maggio a Milano; il programma provvisorio verrà distribuito a partire
dall’autunno. Infine ricordo anche la rivista Journal of Medicine and Person, che è uno
strumento fondamentale per diffondere i giudizi culturali che ci stanno a cuore, e quindi
chiedo a tutti di contribuire con articoli, con note e lettere alla rivista, come pure di
iscriversi, e questo è possibile farlo presso lo stand. Grazie a tutti.
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