Le magie della cultura di Roberto Malighetti Le configurazioni delle culture e delle relazioni culturali nel mondo contemporaneo congiuntamente ai cambiamenti nello statuto del sapere hanno aperto nuovi spazi e nuove strategie di ricerca, modificando una serie di topoi caratteristici delle scienze sociali: cultura, identità, comunità, etnia, razza, tribù, nazione. In questo mondo plurivoco ed eteroglosso, i cui confini culturali sono sempre più confusi e mutevoli, sistematicamente ibridati attraverso l'aggregazione sincretica di tratti eterogenei in nuove e instabili configurazioni, diventa difficile inscrivere le identità in culture indipendenti e discrete. Le riflessioni dell’antropologia contemporanea hanno prodotto nuovi approcci ai concetti di cultura e identità, non più definibili in termini di semplice appartenenza a un insieme compatto e coerente o come attributi quasi-naturali di conchiuse e indifferenziate realtà sociali. Le culture risultano invece come il prodotto artificiale, dinamico e aperto, di una rappresentazione contingente, precaria e parziale, continuamente reinventata attraverso processi di negoziazione. Delocalizzate e deterritorializzate, diventano il prodotto caleidoscopico, congiunturale e frammentario, di strategie attivamente articolate da differenti individui e gruppi a vario livello. In questo senso l'identità culturale non è statica, ma è sottoposta ad un continuo processo di riformulazione, costituendo una totalità in movimento che si compone e ricompone costantemente in maniera articolata e complessa. Da questo punto di vista si rinnova il tradizionale scarto differenziale che ha sempre separato gli strumenti concettuali dell’antropologia dalle loro utilizzazioni da parte degli analisti organizzativi. L'uso del concetto di cultura negli studi simbolici delle organizzazioni è rimasto per lo più arroccato su concezioni funzionaliste, essenzialistiche e reificanti. Tali indagini rimandano a universi di strutture che si autodelimitano e autoriproducono, entità circoscritte e localizzate scomponibili in "tratti" elementari, scientificamente misurabili e manipolabili. Come nel caso dello studio etnografico di Bertolotti, Cantarelli, Macrì e Tagliaventi, l'accento è posto sul carattere sovraindividuale e totalizzante del sistema culturale, inteso come un insieme di “valori centrali, distintivi e durevoli” o “idee e presupposti o premesse di fondo”. Tali valori, “così radicati da risultare sostanzialmente immodificabili” in quanto ricondotti a fattori “emotivi”, vengono contrapposti alle pratiche e alle azioni “razionali”, operative e gestionali, che sembrerebbero escluse dalla cultura in una neutrale zona di oggettività ed efficienza. Tuttavia tengono insieme l'impresa attraverso un’uniformità di consensi fondata sulla passiva assimilazione, da parte degli attori sociali, alla cultura aziendale e sulla totale identificazione con essa. Viene così espulsa la dimensione dell'articolazione interna e del cambiamento. La pluralità culturale, l’ibridazione, l’identificazione molteplice o i conflitti sono considerati come patologie dell’informale, causate meccanicisticamente da “inusfficienti e tempestive informazioni” e dalla susseguente “non completa condivisione di regole generali”. Al massimo viene concepita un'articolazione fra la cultura del reparto e quella professionali viste, comunque, come monoculture minoritarie omogenee e dai confini ben precisi, in rapporto complementare a una monocultura dominante altrettanto chiusa: “consapevoli del fatto che perseguire la missione ultima della propria attività professionale […] risulti possibile solo attraverso la collaborazione di tutti, gli attori tendono naturalmente a identificarsi con il reparto legando a questo la loro percezione di successo personale”. In tal senso “le identità di ordine inferiore (di gruppo o di funzione per esempio)” sono contenute in quelle “di ordine superiore (identità organizzativa)”. A tali modalità di identificazione, di natura puramente emotive e quindi contrapposte alla razionalità del committment, gli autori riconoscono effetti patologici. Non solo perché possono produrre comportamenti manageriali dispotici. Soprattutto la forte “identificazione con la missione del reparto” rischierebbe di produrre posizioni conflittuali ingestibili perché basate sui valori Pubblicato in Sviluppo e Organizzazione, gennaio-febbraio 2004, n° 201, pp.26-27. 1 emotivi e irrazionali. Tuttavia queste patologie sono considerate come effetti inattesi e indesiderati di enti patogeni esterni, intervenuti a disturbare uno stato di naturale equilibrio omeostatico. Sono infatti da ricondurre nel disegno formale organizzativo attraverso la meccanica della comunicazione. L’eziologia è infatti identificata nelle “inadeguate informazioni” sulle regole generali che “generano percezioni di differenze di identificazione tra i diversi gruppi del reparto non necessariamente accurate” in quanto ignoranti dell’essenziale unità organica. La soluzione proposta sembra quindi prevedere un aumento del livello di identificazione, per scoraggiare conseguenze inattese, e produrre “modalità di interazione più “razionali” (i.e. operative) e meno emotive (i.e. culturali). L’obiettivo dovrebbe essere raggiunto attraverso il rafforzamento delle identità “di ordine superiore al fine di consentire gli obiettivi comuni dell’organizzazione”, le incentivazioni monetarie e le sanzioni. Rispetto a questi approcci analitici, la novità dei recenti contributi dell’antropologia consiste nel togliere alla cultura e all’identità la valenza oggettiva e nel considerarle come costruzioni, sottolineandone il carattere processuale, discontinuo, inventato e contrattuale. Usando un concetto wittgensteiniano potremmo dire che la cultura tratta“ della rete”, e non della realtà, configurandosi non come uno spazio esterno a chi lo utilizza, un oggetto delle pratiche e dei discorsi, ma come uno strumento che definisce e costruisce mondi possibili. In tal senso si tratta di un processo storico e politico piuttosto che spaziale. Secondo modalità simili a quelle sollecitate dai cultural studies, l’antropologia contemporanea riflette sull'intreccio fra sistemi simbolici e sistemi di potere e sulla produzione e riproduzione delle forme culturali. Descrive l’articolazione, il collegarsi e lo scollegarsi, di elementi disparati in maniera al tempo stesso espressiva e politica e invita a considerare "chi crea e chi definisce" o chi manipola nella contingenza e a quale scopo i significati culturali, attraverso quali dinamiche e quali elementi, secondo quali concezioni della cultura. Attribuendo coerenza sistematica interna e condivisibilità pervasiva, persistenza e omogeneità, le analisi culturali delle organizzazioni hanno prodotto un coerente sistema integrato di strutture interrelate e funzionali, ordinabile e, dal punto di vista etnografico, monografabile, di significati consensuali. Si sono altresì appropriate del metodo funzionalistico dell'osservazione partecipante, ossimorico strumento di salvataggio dell’uniformità, dell'autenticità e della purezza, da tempo desueto nella pratica etnografica. In questo modo hanno assecondato il processo di reificazione, colludendo, anacronisticamente, con le concezioni e le pratiche di un management razionale e onnisciente. Hanno così promosso strategie organizzative fondate su logiche verticistiche, perseguendo finalità politiche di governo di una macchina organizzativa, funzionale e gerarchica. La “magia della cultura” consiste nella trasposizione dei simboli in entità che sfuggono la loro intrinseca precarità. Questa entificazione o sostanzializzazione conferisce alle manifestazioni culturali una condizione di realtà autonoma e indipendente, sottratta al flusso esperienziale del loro impiego e ai cambiamenti della vita sociale. Tuttavia per quanto il processo di reificazione possa spingersi in avanti, la cultura non può mantenersi e sussistere indipendentemente dall'uso. I simboli culturali esistono solamente in quanto impiegati, condivisi e socializzati. Esistono solamente attraverso le inevitabili variazioni determinate dell'uso e si realizzano non già nonostante, ma attraverso le variazioni, non al di là del cambiamento ma al suo interno. Ogni organizzazione diventa allora il risultato del continuo processo di organizzare attraverso la negoziazione quotidiana e contingente da parte di una pluralità di attori sociali. Il punto di vista etnografico invita a decostruire la molteplicità delle costruzioni culturali dei propri interlocutori, disaggregandole, rendendole storiche e politiche. Propone di indagare gli spazi di scambio nei quali si definiscono culture e identità all'interno di un’arena politica in cui differenti visioni del mondo, interessi e poteri si contrappongono. 2