ESERCITAZIONE 1 Lo studente è invitato a rispondere in 5-10 righe: 2. Che ruolo hanno i processi di rottura e riparazione interattiva nella strutturazione del Sé infantile? Concetti fondanti dell'IR Infant Research Quali sono secondo Daniel Stern le precoci capacità del bambino? 2 (Tutor) 3. In che modo la sensibilità materna contribuisce allo sviluppo di un attaccamento sicuro nel bambino? Un altro tema che è stato investigato è la relazione, è la relazione, un'associazione significativa tra sensitività o sensibilità materna e sicurezza dell'attaccamento, quindi sensitività materna ed attaccamento. Potenti meta-analisi hanno verificato un'associazione significativa tra sensitività materna e sicurezza dell'attaccamento, cioè la meta-analisi è una modalità specifica di guardare a tutte le ricerche che sono state condotte sulla tematica e cerca in qualche modo di riassumere o mettere in evidenza quelli che sono i risultati comuni a diversi studi e a livello di ricerca che sono state fatte sullo stesso tema. Quindi mettendo insieme tutti i lavori che son stati fatti relativi alla sensitività materna e alla sicurezza dell'attaccamento s'è trovato che questi studi concordano in maniera significativa sul fatto che esiste questo tipo di associazione. Così come questi tipi di lavori verificano che gli interventi sul miglioramento della sensitività materna appaiono utili nel promuovere la sicurezza del bambino, e quindi se noi lavoriamo con una mamma aiutandola ad essere più sensibile, il bambino ne acquista un senso di sicurezza e quindi potrà essere classificato secondo le categorie di Bowlby, rispetto appunto al bambino sicuro. Nelle lezione precedenti abbiamo parlato di Mary Ainsworth (1973) come l'autrice di uno degli strumenti per la verifica dell'attaccamento e precisamente la strange situation, ma la Ainsworth è stata la prima che si è dedicata a ricerche relative alla relazione tra sensitività materna e tipologia di attaccamento. I suoi lavori son stati criticati perchè il campione era troppo ristretto, erano troppe poche persone. Comunque questi lavori son stati continuati da Jay Belski e Russ Isabella 1991: hanno fatto una ricerca più ampia appunto per riverificare se esista una relazione tra sensitività materna e tipologia dell'attaccamento. Allora questi due autori osservano ancora coppia madre-bambino, con una ricerca longitudinale fatta a 1-3-9 mesi e poi successivamente in cui chiedevano alle madri di essere con il loro bambino come lo erano nella quotidianità, come lo erano di solito, e osservavano i comportamenti e le interazioni delle madri coi loro bambino segnando, ogni 15 secondi tutto, quello che si verificava tra di loro, e, con lavori molto complicati di statistica, arrivano a queste conclusioni: quando il bimbo, misurato dalla strange, presentava un attaccamento insicuro – evitante la cura materna era intrusiva e iperstimolante. Quando invece il bambino presentava un attaccamento insicuro -ambivalente la madre era insufficientemente responsiva, e sottostimolante. Invece, come ipotizzato, un attaccamento sicuro corrispondeva ad un atteggiamento intermedio tra questi due estremi. Secondo tema. Sempre all'interno della tematica del legame tra modalità e atteggiamenti materni e attaccamento ho scelto un secondo tema che riguarda appunto la relazione tra quelle che vengono definite cure fornite da figure non materne e attaccamento. Viviamo in una cultura in cui i bambini stanno con le mamme, ma stanno anche con le baby-sitter, vanno anche all'asilo nido, e la domanda che ci si poneva e tuttora ci si pone è: se il fatto che il bambino venga affidato per un certo numero di ore a persone diverse da quella che viene ritenuta la figura di attaccamento che è la madre, possa appunto influire sulla qualità dell’attaccamento. Allora, le ricerche sono abbastanza complicate e interessanti. Intanto la prima serie di ricerche è stata condotta in asili nidi molto specializzati in ambito universitario ed in quel caso non si è trovata nessuna relazione tra il fatto che il bambino fosse separato dalla madre quindi stesse all’asilo nido e la tipologia di attaccamento. Quando si va a misurare il numero delle ore in cui il bambino sta separato dalla madre allora si vede che, quando ci sono più di 20 ore alla settimana di separazione dalla madre, vi è maggiore probabilità che si instaurino che si sviluppi una tipologia di attaccamento insicuro. Però, e questo mi sembra abbastanza importante, gli autori si chiedono: ma, è soltanto il fatto che il bambino sia lontano dalla madre, oppure, ci sono dei meccanismi più complessi esplicativi che in qualche modo possono influenzare sul fatto che il bambino stia lontano dalla madre? Questo, aprendo una parentesi, sembra un problema fondamentale che affronteremo anche dopo, su un'altra tematica di questa lezione, cioè che quando si parla di relazione tra attaccamento e genitorialità o più avanti, come vedremo, tra attaccamento e relazione di coppia, non possiamo pensare che ci sia una relazione quasi causale tra quello che è l'attaccamento e quelle che sono altre variabili, ma normalmente l'attaccamento è una delle variabili chd insieme ad altre in qualche modo viene ad influenzare quello che è un certo risultato per quanto riguarda il funzionamento del bambino. Allora, in questo caso, tornando appunto al nostro tema, allora in una ricerca più ampia (NICHD = Early Child Care Research Network) rispetto a quella fatta in precedenza e che comprendeva 1300 bambini osservati in 10 stati americani, tutti di madri superiori ai 18 anni, anche se di diverse etnie e che sono stati osservati in vari tipi di età, e ancora una volta con la strange che era stata applicata a 15 mesi si verifica appunto che non è che ci sia una diretta relazione tra numero delle ore in cui il bambino risulta separato dalla madre e conseguenza sulla tipologia e sulla sicurezza dell'attaccamento, e quindi sul fatto che il bambino si senta sicuro, sia capace di esplorare e sappia anche chiedere aiuto quando si sente in pericolo. E precisamente, quella che viene verificata è quella che viene chiamata “ipotesi a due vie“, cioè, l'insicurezza viene ad essere elevata nel bambino quando: ESERCITAZIONE lezione n. 2 Infant Research (Tutor) Quali sono le principali critiche mosse dall'Infant Research alla tradizione scientifica precedente? Per le ricerche moderne dell'Infant Research il neonato non è più assente e chiuso in un ambito narcisistico e mosso soltanto dalla pulsione di soddisfacimento. Un'altra critica dell'I.R. alla psicoanalisi è al suo noto modello di sviluppo per la divisioni in fasi (orale, anale, fallica e genitale) , con la presenza di un trauma specifico come quello della nascita, con i concetti di fissazione e regressione che ben conosciamo. Il trauma non superato comporta la fissazione ad una fase dello sviluppo freudiano e la regressione consiste in un ritorno a una fase precedente non percorsa fino alla fine. Queste critiche ad un livello più generale mettono in forse la validità del tragitto osservativo ma più teorico che ha compiuto la Mahler perchè esita in una critica a: la fase autistica, la fase simbiotica normale, e al narcisismo primario, e critica alla terminologia adultomorfismo e patomorfismo. Allora: la fase autistica: è un presupposto della teoria psicanalitica per cui c'è l'idea che questo organismo infantile all'inizio stia ancora nelle conseguenze di quel narcisismo ideale di quella quiete di quel benessere non disturbato da stimolazioni che aveva nel grembo materno e che questa fase autistica inizialmente sia una fase che si giustifica, fisiologica e che è una fase quella autistica che continua quella situazione ideale precedente. La fase simbiotica normale che naturalmente è difficilmente evidenziabile osservativamente e che invece si può riscontrare in pazienti adulti e allora non sarebbe normale, sarebbe invece una fase successiva dove il legame tra il bambino e la madre è così stretto che si può dire che esisterebbe una simbiosi, termine biologico. Che significa tutto questo? L'idea che sia metodologicamente non corretto basarsi sull'esperienza di un paziente adulto riproiettando all'indietro questa esperienza ragionando può in questi termini: se il paziente adulto ad esempio mostra forti tendenze simbiotiche allora vuol dire che la simbiosi doveva essere uno stato normale nei primi mesi di vita del bambino e che poi avrebbe dovuto essere superata, non è stata soddisfacemente superata e per cui si rimanifesta in questo paziente adulto, ma come arriviamo a postulare l'esistenza di una fase simbiotica? Riproiettando all'indietro, cioè: dal paziente adulto al bambino. In questo direi che alcune delle critiche sono largamente accettate per la verità, perchè da più parti si erano sviluppate senza peraltro aver sostegni empirici sufficienti. L'IR ha potuto godere di una massa di evidenze empiriche che quantunque evidentemente non possano condurre ad una teoria valida al 100%, che sarebbe una distorsione delle procedure scientifiche, tuttavia mettono per lo meno in crisi queste assunzioni forti la cui natura teorica è assolutamente indisputabile. Lezione 3 ESERCITAZIONE 2 Lo studente è invitato a rispondere in 5-10 righe: 1. Nella diagnosi degli affetti, che ruolo hanno gli schemi affettivo-cognitivi del paziente? Gli schemi affettivo-cognitivi Gli schemi di Sé e degli altri sono dei prototipi euristici alla base dell’interazione sociale e del comportamento interpersonale. Ognuno di noi ha degli schemi di Sé e dell’altro che applica sistematicamente e trasversalmente alle diverse situazioni. Tali schemi includono: l’esperienza di Sé e degli altri e la regolazione degli affetti. Ripercorrendo quanto detto vediamo che: abbiamo un disturbo degli affetti, di schemi affettivo-cognitivi nel momento in cui faccio diagnosi che deve essere esplorato nella sua globalità attraverso una linea temporale e andando a vedere se ha rispettato tutte le tappe e se non ci sia stato un fattore scatenante o momento di crisi. Per fare tutto ciò mi servirò di una situazione di processo diagnostico in cui processo dei dati che mi arrivano dal paziente, dalla descrizione dell’ambiente familiare, genitori, colleghi… utilizzando il ragionamento clinico cioè raccoglierò i dati, genererò ipotesi e vedrò se le mie ipotesi sono congrue o in dissintonia a quelle fatte. Se l’ipotesi è congrua continuerò nel mio percorso per arrivare alla diagnosi, altrimenti riprenderò i dati per trovare il motivo della scorrettezza dell’ipotesi. E’ possibile che si sia dato un peso sbagliato ad alcuni dati. Ad esempio si può aver pensato che la depressione materna verificata nel secondo mese di vita del bambino sia di fondamentale importanza, mentre anche altri fattori possono avere inciso. Attraverso il processo diagnostico, utilizzando il ragionamento clinico riusciremo a fare una diagnosi del disturbo e può essere una diagnosi di questo disturbo espresso attraverso queste tre aree: il Sé, l’altro e lo schema di relazione tra Sé e l’altro. Discriminare le tre aree è importante perché il trattamento sarà diverso se riguarderà l’area del Sé o l’area dell’altro o quella della relazione tra Sé e l’altro. Un disturbo che riguarda lo schema affettivo-cognitivo del Sé sarà un disturbo precoce e di ostacolo alla costituzione delle due aree successive cioè quella dell’altro e quella della relazione tra Sé e l’altro. Invece se rileverò un disturbo a livello di schema cognitivo nell’area tra il Sé e l’altro è probabile che le altre due aree non siano intaccate o solo parzialmente intaccate. 2. Come viene definita la malattia nella psicopatologia descrittiva? La psicopatologia descrittiva è la descrizione precisa e categorizzazione delle esperienze abnormi così come sono riferite dal paziente e osservate nel suo comportamento. Questo vuol dire fondamentalmente che io non vado ad interpretare le cause, che possono essere sottese al disturbo, io mi limito a descrivere e a categorizzare il disturbo. Passiamo ad occuparci della psicopatologia descrittiva: la psicopatologia descrittiva ha la caratteristica di rilevare attraverso la diagnosi i criteri d inclusione ed esclusione del paziente all’interno di una categoria diagnostica, cioè, in altri termini, quando arriva un paziente (rimaniamo sempre affezionati al nostro paziente triste) e il paziente che ci dice che è triste continua a dirci che è triste noi dobbiamo fare una diagnosi, dobbiamo andare a vedere se il paziente può essere diagnosticato o meno come depresso, cioè se risponde o meno a questi criteri di inclusione o esclusione. Allora proviamo a leggere questo grafico (slide 13): al centro abbiamo emozioni, affetto e umore che sono l’oggetto dello studio della psicopatologia descrittiva; attualmente noi abbiamo a disposizione a livello mondiale due sistemi di classificazione che sono il DSM-IV TR e ICD-10. Il primo è un sistema di classificazione nato in ambito americano, il secondo è un sistema di classificazione in ambito inglese; i due sistemi comunicano tra di loro cioè è possibile trasformare una diagnosi fatta con un sistema classificatorio in un altro, questo non è un dato irrilevante se si pensa che magari dobbiamo comunicare tra clinici che possono utilizzare sistemo diagnostici diversi. Per la psicopatologia descrittiva secondo il DSM-IV TR i disturbi degli affetti vengono catalogati come disturbi dell’umore, disturbi d’ansia e disturbi di personalità. In altri termini voi potete vedere che nel DSM-IV TR non viene utilizzato il termine affetto che, a differenza, viene utilizzato dall’ ICD-10 che ci parla di sindromi affettive. Allora, noi abbiamo dei disturbi in cui il disturbo dell’umore è centrale, tipo i disturbi dell’umore che abbiamo visto nella diapositiva precedente, piuttosto che dei disturbi non necessariamente dell’umore, degli altri disturbi in cui il disturbo dell’umore è parzialmente secondario o ha una centralità diversa e concomitante ad altri disturbi. Prendiamo ad esempio il disturbo borderline che noi vediamo qua scritto nel DSM-IV TR viene definito come una modalità pervasiva di instabilità delle: relazioni interpersonali; immagine di sé; umore ed una marcata impulsività. Allora voi vedete che tra i criteri che ci permettono di fare una diagnosi di disturbo borderline uno dei criteri riguarda l’umore e se vogliamo in seconda misura riguarda un discorso di impulsività. Di nuovo tra i criteri di disturbo borderline noi troviamo: instabilità affettiva dovuta ad una marcata reattività dell’umore; rabbia immotivata ed intensa difficoltà a controllare la rabbia. Parlando di criteri di inclusione/esclusione, quando noi usiamo questi sistemi diagnostici il paziente per essere incluso in quella categoria non deve avere necessariamente tutti i cinque criteri elencati deve essere presente un numero di criteri previsto dal manuale che possono essere tre, quattro, cinque. Nella psicologia descrittiva l’emozione può essere anche trasversale a diversi disturbi prendiamo come esempio l’aggressività/rabbia: noi vediamo che l’aggressività/rabbia può essere presente in un numero molto alto di disturbi ad esempio: nell’intossicazione da sostanze; nell’astinenza da sostanze: nel disturbo psicotico; nel disturbo maniacale; nell’episodio depressivo maggiore; disturbo antisociale della personalità; disturbo borderline della personalità; disturbo esplosivo intermittente; disturbo acuto da stress; disturbo post-traumatico da stress; disturbo del controllo degli impulsi Non Altrimenti Specificato (NAS). Quando faccio, con un discorso di psicologia descrittiva, una diagnosi, io posso avere una serie di quadri in cui il disturbo dell’umore è centrale piuttosto che un’altra serie di quadri psicopatologici in cui il disturbo dell’umore è uno dei criteri presenti o assenti che sono fondamentali per arrivare fare una diagnosi. Cosi funziona il DSM-IV TR e nello stesso modo funziona l’ ICD 10; l’unica differenza è che mentre nel primo il disturbo che noi consideriamo dell’affetto diventa un disturbo dell’umore in cui sono inclusi i disturbi depressivi, bipolari, dell’umore dovuto a condizione medica generale, piuttosto che un disturbo dell’umore indotto da sostanze, nel secondo noi avremo le sindromi affettive che, a grandi linee, includono quadri abbastanza simili ma che li raccolgono sotto un’unica etichetta che è quella delle sindromi affettive. 3. Quali sono i potenziali ostacoli per lo sviluppo normale del bambino? 4. Definire il costrutto di “matrice relazionale” di Mitchell. Vediamo ore in che modo la psicoanalisi relazionale modifica la teoria dello sviluppo nella psicoanalisi classica. In particolare facciamo riferimento a questo concetto introdotto da Mitchell nel 1988 nel libro “Gli orientamenti relazionali in psicoanalisi”, concetto che viene proposto come caratteristico dello sviluppo infantile fino all’età adulta, lo sviluppo può essere spiegato attraverso la definizione di una matrice relazionale (comprende sia la realtà degli scambi interpersonali che l’esperienza intrapsichica dell’individuo). L’identità dell’individuo si sviluppa attraverso quello che è l’esperienza degli scambi interpesonali che costruisce gradualmente una mappa di funzionamento della mente e quindi costruisce l’esperienza intrapsichica dell’individuo, cioè, matrice relazionale indica sia l’importanza degli scambi interpersonali per la costruzione del funzionamento mentale, sia l’importanza della costruzione del funzionamento della mente e ne influenza successivamente i nostri scambi interpersonali. La matrice relazionale è considerata in parte una struttura innata, nel senso che esistono dei programmi genetici che vengono messi in luce da studi osservativi su neonati e che li predispongono a interagire con l’ambiente fin dalle prime ore di vita, quindi la matrice relazionale ha una struttura innata che comprende le motivazioni di base che non sono piu considerate soltanto le classiche sessuali e aggressività ma sono considerate diverse motivazioni.L’ultima teoria è di Lichtemberg del 1989 e comprende cinque motivazioni di base: motivazione della regolazione psichica delle esigenze fisiologiche; motivazione di attaccamento; motivazione di esplorazione/assertivita; motivazione aggressiva, che chiama avversiva includendo comportamenti quali il ritiro; motivazione sensuale e sessuale. Esistono altre possibili teorie ma l’idea di base è che queste motivazioni di base nascono mediante l’interazione con la figura di accudimento è centrale per il concetto di matrice relazionale. 5. Cos’è la ricerca sul processo nella psicoterapia dinamica? EserCITAZIONE obbligatoria Facoltà di Psicologia Corso di Laurea in Discipline Psicosociali Corso di Psicologia Dinamica Titolare: Prof. Massimo Ammaniti Tutor: Dott. Luca Cerniglia ESERCITAZIONE 1 Lo studente è invitato a rispondere in 5-10 righe: 1. Quali esperienze soggettive sperimenta il bambino con madre depressa? I bambini possono mettere in atto comportamenti regolatori autodiretti come ad esempio guardare altrove con sguardo vuoto, perdere il controllo posturale, autoconsolarsi oralmente, dondolarsi e stringersi le braccia. I bambini con madri con sintomatologia depressiva hanno interazioni disturbate e pochi momenti nei quali egli si trova con la madre in uno stato positivo di reciprocità. Dalle ricerche sappiamo che le madri depresse distolgono lo sguardo dai propri bambini con frequenza maggiore, esprimono una rabbia maggiore, sono maggiormente intrusive e manifestano una minore quantità di affetti positivi rispetto alle madri normali. Il bambino che partecipa all’interazione con una madre depressa è come bloccato all’interno di uno stato interattivo negativo dal punto di vista affettivo, e i messaggi inviati da ciascuno di essi nel tentativo di produrre un cambiamento vengono reciprocamente ignorati. In queste interazioni l’esperienza cronica del fallimento , dell’assenza di riparazioni e degli affetti di segno negativo produce numerosi effetti negativi sugli esiti evolutivi. Il bambino adotta uno stile autodiretto di regolazione e la regolazione degli afetti negativi diviene il suo obiettivo principale e questo gli impedisce di formulare e di raggiungerne altri.A questo punto sarà ostacolato il coinvolgimento e l’interazione con il mondo fisico degli oggetti compromettendo potenzialmente lo sviluppo cognitivo, oltre ad alterare le interazioni del bimbo con le altre persone. 2. Che ruolo hanno i processi di rottura e riparazione interattiva nella strutturazione del Sè infantile? 3. In che modo la sensibilità materna contribuisce allo sviluppo di un attaccamento sicuro nel bambino? 4.Quali comportamenti possono essere osservati nel modello insicuro evitante durante la Strange Situation? Partiamo per comprendere meglio la questione da una comparazione. Nel corso della Strange Situation, il bambino con attaccamento sicuro, vede il genitore come uno strumento di esplorazione dell'ambiente condividendo con lui le emozioni e in caso di separazione prova disagio e ricerca il contatto durante il ricongiungimento, facendo capire a chi lo osserva di essere in grado di riprendere il gioco. Invece nel caso del bambino insicuro evitante non c'è condivisione del gioco con il genitore, né mostra disagio alla separazione, non lo ricerca al ricongiungimento evitandone marcatamente il contatto. 5. Quali aree cerebrali sono coinvolte nello scambio visivo tra madre e bambino? Lo sviluppo maturativo del cervello destro è più accentuato dall'ultimo trimestre del primo anno al secondo anno ed ha un volume più grande dell'emisfero sinistro e ciò dimostra l'importanza che assumono i processi emotivi nel corso dei primi due anni di vita e gli scambi preverbali. Altro aspetto interessante: questi scambi madre - bambino non solo attivano l'emisfero destro ma hanno anche una base metabolica, psicobiologica cioè nello sguardo reciproco il volto materno stimola nel bambino alti livelli di oppioidi endogeni (sostanze tipo endorfine che provocano stati piacevoli), che generano le qualità piacevoli nelle interazioni sociali. Per quanto riguarda questi scambi madre - bambino in cui è così centrale lo scambio visivo, acustico, gestuale, ecc, in questa area quello che assume un ruolo di grande importanza sono le aree orbitali prefrontali che sono implicate nelle funzioni dell'attaccamento. Queste sono zone di convergenza fra corteccia e subcorteccia. La zona orbitale è una zona che sta nella parte inferiore della corteccia e si trova al di sopra delle cavità orbitali, al di sopra degli occhi, delle cavità orbitali. I lobi orbitali, cui abbiamo fatto riferimento, sia il solco orbitale che il girus orbitale si colloca all'apice del sistema limbico (è centrale nella regolazione emotiva e il girus orbitale e il solco orbitale rappresenta la parte superiore la più elevata del sistema limbico e il sistema limbico è stato anche definito la parte viscerale del cervello, che ci avvicina anche ad altre specie animali e per cui il sistema limbico si costituisce di una parte superiore in cui le emozioni vengono tradotte in rappresentazioni e anche maggiore consapevolezza, ed invece una parte inferiore del sistema limbico che invece ha a che fare con le risposte più automatiche ai meccanismi proprio di base delle emozioni) responsabile degli aspetti di ricompensa, eccitamento e di antagonismo, inibizione delle emozioni. La regione orbitale prefrontale (zona importante soprattutto nel secondo semestre del primo anno, è legata allo sviluppo dell'attaccamento e al tipo di scambi che si creano fra genitori e figli) è particolarmente sviluppata nell'emisfero destro, e questa zona è dominante per l'attenzione selettiva alle espressioni facciali, ossia è una zona fondamentale per l'orientamento ed il riconoscimento delle espressioni facciali per cui è fondamentale nella relazione madre - bambino. Tale regione (orbitale), è in connessione da una parte con le regioni limbiche e sottocorticali, ed dominante anche per il processing (elaborazione), l'espressione, e la regolazione delle informazioni emozionali, ossia è il livello più elevato di elaborazione delle emozioni, il che implica anche un riconoscimenti delle emozioni ed una cognitività delle emozioni stesse. Lezione 6 Argomento: Prima parte (processo diagnostico, strumenti diagnostici, aree di indagine) processo diagnostico Iter che il paziente percorre insieme al clinico allo scopo di rilevare e circoscrivere l’ampiezza del disturbo (che lamenta), attribuire ad esso un significato (che può dare anche il clinico) e avvalersi di tutte le strategie possibili a disposizione per ridurre, modificare o addirittura eliminare quando è possibile le cause che portano una sofferenza. Il processo diagnostico ha una propria processualità infatti si parte da un Invio o Autoinvio perché il paziente può avere la percezione di star male o perché gli viene detto dagli altri. Primo contatto che avviene con lo psicologo ove si parla del disturbo di cui soffre il paziente per poi arrivare a una serie di incontri finalizzati a rilevare dati legati agli affetti e aree limitrofe. Restituzione della diagnosi dopo aver visto e parlato con il paziente, dopo avergli fatto fare gli accertamenti necessari, bisognerà rivedere il paziente e comunicargli l’ipotesi diagnostica fatta e l’iter terapeutico previsto. Dalla restituzione della diagnosi si aprono tre strade: Controindicazione, ossia un trattamento; Conclusione del processo diagnostico. Ci sono alcuni pazienti per i quali la processualità diagnostica è già di per sé un intervento sufficiente. Quando si parla di indicazione e controindicazione al trattamento si intende includere anche i trattamenti farmacologici. Poiché i trattamenti producono effetti in alcuni casi sono indicati e in altri no. Dunque all’interno del processo diagnostico noi avremo una possibilità di indicazione o di controindicazione al trattamento. In ogni caso l’indicazione, la controindicazione e la conclusione del processo diagnostico terminano in una fase di follow-up cioè ad un certo punto si rivedrà il paziente e si valuterà se l’intervento fatto ha avuto esiti positivi oppure no. Processo diagnostico e strumenti: vediamo gli strumenti usati nel corso del processo diagnostico. Il colloquio che sarà diverso se è un colloquio da prima visita, se si comunica la diagnosi e l’indicazione al trattamento. Colloquio con raccolta dati (bio-psicosociale ad esempio non ci si può limitare a vedere solo se il paziente è triste oppure no, ma bisognerà fare un’anamnesi). Potrà fare dei test come strumenti di valutazione diversi. Visite specialistiche e ancora utilizzare l’esame del materiale raccolto da altri colleghi. Le aree di indagine sono: I sintomi; Il contesto in cui i sintomi si verificano (ad esempio può esserci la persona in ansia solo a scuola e quella sempre in ansia; la persona triste in un contesto e quella sempre triste). La caratteristiche del paziente cioè temperamento e il carattere in relazione alle linee evolutive cioè all’evoluzione fisiologica che la persona dovrebbe avere quindi all’acquisizione o meno che egli ha avuto di determinate tappe. L’ambiente primario e esterno con i fattori di rischio, resilienza e protezione. lezione 8 Esercizio1 (Tutor) Qual è la teoria di P. Fonagy relativa alla Funzione Riflessiva? Fonagy ha contribuito alla costruzione dell'potesi relativa alla trasmissione intergenerazionale dei modelli di attaccamento. Una madre con uno stato della mente di tipo distanziante trasmetterebbe al bambino, attraverso la mancata responsività ai suoi bisogni, l’incapacità di entrare in contatto con i propri affetti, incapacità maturata nel corso delle sue relazioni infantili con le figure genitoriali, contribuendo alla costruzione del bambino stesso di un pattern attaccamento insicuro evitante. Fonagy ha ipotizzato che la responsività del genitore si fondi su una funzione riflessiva del Sé attraverso la quale egli costituisce il bambino, fin dai suoi primi mesi, come oggetto di stati mentali, quali pensieri, desideri, emozioni, attribuendo al figlio appena nato una “teoria della mente” corrispondente alla propria. La trasmissione dei modelli di attaccamento ha come mediatore privilegiato la funzione riflessiva del Sé del genitore. Il bambino a contatto con un genitore con un’adeguata funzione riflessiva non solo può interiorizzare a livello intrapsichico un’istanza parentale che è in grado di contenere e trasformare i suoi stati emotivi, ma che è anche in grado di “pensarlo” e quindi di rifletterne l’immagine come soggetto di stati mentali. Il bambino, in questo modo, può trovare se stesso nell’altro. La funzione riflessiva del Sé della madre o del padre diventa, un fattore protettivo per la trasmissione della sicurezza dell’attaccamento. Lezione 12 Esercizio obbligatorio Psicologia Dinamica 1. Lo studente descriva brevemente lo strumento AAI e lo strumento Strange Situation, facendo cenno ai diversi modelli di attaccamento valutabili nell'infanzia e nell'età adulta PRIMA CLASSIFICAZIONE DEGLI STILI DI ATTACCAMENTO STRANGE SITUATION Consiste in una sequenza standard di episodi della durata di tre minuti in un laboratorio attrezzato per il gioco in cui il genitore lascia due volte il bambino (una volta in compagnia di un estraneo e una volta da solo) per poi ritornare. Sistema di classificazione suddiviso in tre categorie (A,B,C) per descrivere il modello di risposta del bambino al genitore: - SICURO - INSICURO – AMBIVALENTE - INSICURO – EVITANTE Il bambino con attaccamento sicuro, nel corso della Strange Situation, utilizza il genitore come base per esplorare l’ambiente, condividendo con lui le emozioni relative a tale esplorazione, manifesta disagio alla separazione e ricerca il contatto durante il ricongiungimento, dimostrandosi in grado di riprendere l’attività di gioco Il bambino insicuro evitante non condivide il proprio gioco con il genitore, né mostra disagio alla separazione, non lo ricerca al ricongiungimento evitandone marcatamente il contatto. Il bambino insicuro ambivalente dimostra dipendenza dal genitore rivelandosi in difficoltà nell’esplorare l’ambiente e a disagio durante la separazione, manifestando rabbia e/o passività sotto forma di inconsolabilità al ricongiungimento. Il bambino disorientato/disorganizzato manifesta comportamenti incoerenti nei confronti del genitore ad esempio ricercandolo e contemporaneamente rifiutandolo, e disorientati immobilizzandosi e congelando la propria mimica espressiva. RESPONSIVITA’ risposta pronta e adeguata ai bisogni del bambino e anche capacità di accogliere le emozioni espresse da quest’ultimo e di instaurare con lui un buon contatto fisico e interattivo. Secondo un insieme di ricerche gli stili di attaccamento con la medre, valutati a 12 mesi con la tecnica della Strange Situation, si mostrano efficaci predittori delle competenze sociali che il bambino dimostra nel periodo prescolare, come la capacità di costruire relazioni significative con gli adulti e di interagire con i pari mostrando empatia. Valutazione del legame di attaccamento nell’età adulta Per valutare i Modelli Operativi Interni dell’adulto, Mary Main ha messo a punto una procedura chiamata Adult Attachment Interview. Si tratta di un’intervista semistrutturata condotta secondo le linee di una valutazione psicoterapica. Tali interviste vengono registrate e classificate secondo otto diversi parametri. A questo punto può essere stabilito a quale dei quattro stili di attaccamento viene assegnato l’individuo adulto esaminato. · Stile Sicuro: modello di Sé positivo e dell’Altro positivo. Basso esitamento, bassa ansia. Alta coerenza, alta fiducia in se stesso, approccio positivo con gli altri, alta intimità nelle relazioni. Il modello positivo dell’individuo sicuro lo porta ad avere fiducia in se stesso e ad appezzare gli altri, dai quali viene considerato come tipo positivo. Le sue relazioni di coppia sono caratterizzate da intimità, rispetto, apertura emotiva ed i conflitti con il partner si risolvono in maniera costruttiva. - · Stile Preoccupato: è assimilabile allo stile insicuro ansioso ambivalente (Ainsworth). Modello di Sé negativo e dell’Altro positivo. Il modello negativo che l’individuo preoccupato ha di sé lo porta ad avere una bassa autostima tendente alla dipendenza dal giudizio altrui. Invece, il modello positivo che ha dell’altro lo porta alla continua ricerca di compagni e di attenzione. Necessita continuamente di intimità nelle relazioni tanto da far allontanare gli altri. Le sue relazioni sentimentali sono costellate di passione, rabbia, gelosia e ossessività. Tende ad iniziare conflitti con il partner rimandando, però, la rottura del legame. - · Stile Distanziante: è assimilabile allo stile Evitante (Ainsworth). Modello di Sé positivo, dell’Altro negativo. Il modello positivo dell’individuo distanziante lo porta ad avere alta fiducia in se stesso senza interessarsi del giudizio degli altri anche se pensa di essere considerato arrogante, furbo, critico, serio e riservato. Il modello negativo che ha dell’altro lo porta a dare l’impressione di non apprezzare molto le altre persone apparento, talvolta, cinico o eccessivamente critico. Svaluta l’importanza delle relazioni e sottolinea l’importanza dell’indipendenza, della libertà e dell’affermazione. Le sue relazioni di coppia sono caratterizzate dalla mancanza dell’intimità, tendendo a non mostrare affetto nelle relazioni. Preferisce evitare i conflitti e si sente rapidamente intrappolato o annoiato dalla relazione. · Stile Timoroso-Evitante: è assimilabile allo stile DisorientatoDisorganizzato (Ainsworth). Modello di Sé negativo, dell’Altro negativo. Il modello negativo che l’individuo timoroso-evitante ha di se stesso lo porta ad avere bassa autostima e molte incertezze verso se stesso e verso gli altri. Il modello negativo che ha dell’altro lo porta ad evitare le richieste d’aiuto, evita i conflitti ed ha difficoltà a fidarsi degli altri. È difficile trovarlo coinvolto in una relazione sentimentale e quando vi si trova assume un ruolo passivo. In tali relazioni è dipendente ed insicuro. Tende ad autocolpevolizzarsi per gli eventuali problemi di coppia ed ha difficoltà a comunicare apertamente ed a mostrare i propri sentimenti al partner. lezione 13 Esercizio obbligatorio Psicologia Dinamica 2. Lo studente descriva brevemente la teoria di Trevarthen la teoria relazionale di Trevarten di anni recenti che compì soprattutto lavori sullo scambio emotivo madre-bambino e sulla funzione delle emozioni su questo scambio dove va rintracciata la nascita psicologica del bambino poiché l’emozione è la prima forma di comunicazione tra questi due personaggi della diade, quando si strutturano i primi codici non solo comunicativi ma anche simbolici e di pensiero. per Trevarthen l’intersoggettività è un vissuto di esperienza condivisa con un altro essere umano, o esperienza di “contatto mentale” con l’altro che ha dato luogo durante la comunicazione interpersonale nel corso del primo anno di vita. Trevarthen, considera l’intersoggettività in termini di sincronia particolare tra le espressioni facciali, vocali e gestuali di lattanti di soli 2-3 mesi e le espressioni delle loro madri durante la comunicazione faccia-a-faccia, ciò la microanalisi dei filmati riesce a far emergere abbastanza chiaramente. Egli definisce intersoggettività la capacità di adattare il controllo soggettivo, ovviamente del proprio comportamento, alla soggettività dell’altro, per poter comunicare. 3. lo studente descriva brevemente i costrutti teorizzati da James le principali teorie delle emozioni che si sono succedute nel tempo, dalle più antiche a quelle contemporanee. Argomenti: teorie classiche, teorie contemporanee divise in neo-evoluzionistiche che fanno riferimento alla funzione adattiva delle emozioni, le teorie cognitive che studiano gli aspetti cognitivi, e le teorie socio-costruzionistiche che si riferiscono agli aspetti comunicativi interpersonali e sociali. Teorie classiche tra fine 0ttocento e meta novecento La prima teoria che affronta il problema in sede psicologica e cerca di fornirne un modello adeguato è quella di James e Lange, casualmente questi due autori la elaborano contemporaneamente. “il senso comune dice che ci accade qualcosa di brutto, siamo dispiaciuti e singhiozziamo. La mia ipotesi è che ci sentiamo dispiaciuti perché piangiamo, arrabbiati perché ci accaloriamo, impauriti perché tremiamo (james 1890) . Il nocciolo della teoria periferica di james, l’esperienza emozionale soggettiva viene alla fine di un processo piuttosto lungo di tipo somatico; prima di provare un emozione deve accadere qualche cosa nel corpo e l’emozione è la percezione soggettiva di quello che accade nel corpo. Seguendo lo schema della diapositiva, ci accade di vedere uno stimolo pauroso come quello del leone, automaticamente nel nostro corpo succedono dei mutamenti fisiologici, le nostre risposte espressive e comportamentali; soltanto alla fine sentiremo questa sensazione soggettiva che altro non è che la percezione di tutti i movimenti che sono avvenuti nel corpo, in questo senso si chiama teoria periferica, ci sono prima i cambiamenti periferici del corpo e solo alla fine la sensazione soggettiva dell’emozione. Teoria delle emozioni Oggi vi presenterò le principali teorie delle emozioni che si sono succedute nel tempo, dalle più antiche a quelle contemporanee. Argomenti: teorie classiche, teorie contemporanee divise in neo-evoluzionistiche che fanno riferimento alla funzione adattiva delle emozioni, le teorie cognitive che studiano gli aspetti cognitivi, e le teorie socio-costruzionistiche che si riferiscono agli aspetti comunicativi interpersonali e sociali. Teorie classiche tra fine 0ttocento e meta novecento La prima teoria che affronta il problema in sede psicologica e cerca di fornirne un modello adeguato è quella di James e Lange, casualmente questi due autori la elaborano contemporaneamente. “il senso comune dice che ci accade qualcosa di brutto, siamo dispiaciuti e singhiozziamo. La mia ipotesi è che ci sentiamo dispiaciuti perché piangiamo, arrabbiati perché ci accaloriamo, impauriti perché tremiamo (james 1890) . Il nocciolo della teoria periferica di james, l’esperienza emozionale soggettiva viene alla fine di un processo piuttosto lungo di tipo somatico; prima di provare un emozione deve accadere qualche cosa nel corpo e l’emozione è la percezione soggettiva di quello che accade nel corpo. Seguendo lo schema della diapositiva, ci accade di vedere uno stimolo pauroso come quello del leone, automaticamente nel nostro corpo succedono dei mutamenti fisiologici, le nostre risposte espressive e comportamentali; soltanto alla fine sentiremo questa sensazione soggettiva che altro non è che la percezione di tutti i movimenti che sono avvenuti nel corpo, in questo senso si chiama teoria periferica, ci sono prima i cambiamenti periferici del corpo e solo alla fine la sensazione soggettiva dell’emozione. LEZIONE 16 Esercizio obbligatorio Psicologia Dinamica 4. Lo studente descriva brevemente le funzioni del sistema limbico. Le emozioni sono mediate dal sistema limbico, che significa dal latino zona di confine tra le aree più recenti, le parti che si sono sviluppate solo in fasi più avanzate dell'evoluzione della specie con le parti inferiori del sistema nervoso centrale, e il sistema limbico è stato anche definito cervello “rettile” o “primitivo”, ci rimanda in qualche modo all'evoluzione della specie ossia ad una fase molto remota dello sviluppo e dell'evoluzione o primitivo e il sistema limbico è costituito dall'amigdala (una specie di mandorla che si trova in entrambi gli emisferi cerebrali), dalla corteccia orbitofrontale e dalla corteccia cingolare anteriore, ed è responsabile dei meccanismo che attribuiscono valore e significato agli stimoli, ossia una persona ci si trova a camminare dentro ad un bosco, si vede un serpente, la nostra reazione immediata è la paura, naturalmente è un'emozione sul piano adattativo molto importante perchè l'emozione ci dà un segnale forte ed attiva una serie di meccanismoche ci permettono di fronteggiare il pericolo, per cui le emozioni hanno una funzione adattativa importante per affrontare pericoli o possibili pericoli o anche situazioni anche immaginate. Figura e spiegazioni Strutture limbiche nella parte centrale del cervello (sezione verticale): amigdala, la mandorla miracolosa, quella che ci fa provare ci dà delle risposte, cioè vediamo il serpente, sentiamo un'emozione violentissima il cuore ci batte sentiamo la gola che ci si stringe le gambe che diventano molli ecc. e queste passa attraverso l'amigdala. Il sistema limbico è sensibile alle interazioni sociali e le sue attività influenzano molti processi mentali senza coinvolgere la coscienza. Cioè è una risposta automatica di cui non siamo consapevoli e che ci consente di riconoscere il pericolo e di mettere in atto i meccanismo di risposta. E dai centri coinvolti nella valutazione degli stimoli l'amigdala (struttura che interviene nel generare questo tipo di reazione) è stata studiata in relazione alle risposte “lotta o fuga” di difesa contro i pericoli: cioè di fronte al pericolo vi sono dei meccaniMitchelli innati che vengono attivati nelle situazioni di pericolo (lotta nel senso di affrontare il serpente o fuga) per cui possiamo dire che l'amigdala è una sorta di pilota automatico che ci aiuta ad affrontare la vita quotidiana e i pericoli, ed essendo un pilota automatico è sintonizzato con questi pericoli senza che intervenga una consapevolezza. 5. lo studente descriva brevemente il concetto di lateralizzazione emisferica. La lateralizzazione emisferica (Davidson 1992, 1993) Maggior attivazione dell’emisfero sinistro a riposo = maggior predisposizione soggettiva verso le emozioni positive Maggior attivazione dell’emisfero destro a riposo = maggior predisposizione soggettiva verso le emozioni negative. LEZIONE 22 Esercizio obbligatorio Psicologia Dinamica 6. Lo studente descriva brevemente i metodi per valutare il contenuto delle narrazioni nell’ambito della valutazione del processo in psicoterapia Strumenti per la valutazione del processo in psicoterapia. Per studiare più da vicino ciò che accade nella psicoterapia e contestualmente riuscire ad ottenere una sistematizzazione dell’indagine è necessario mettere a punto degli strumenti che non sono così oggettivi come gli strumenti con cui si possono indagare i risultati, ma sicuramente si tende a costruire dei modelli di rilevazione del comportamento linguistico che possano essere sufficientemente oggettivanti. Dal 1970 al 1983. Permette una sorta di espansione della ricerca, una maggiore organizzazione, e questo avviene attraverso una differenziazione più chiara tra studi sugli esiti e studi sul processo. Per quanto riguarda gli studi sugli esiti diventa molto importante l’utilizzazione di una metodologia statistica nuova che nasce appunto negli anni ‘70 che è la meta-analisi, che permette di comparare tra loro studi diversi. Quindi è possibile confrontare diverse forme di psicoterapie, cioè studi condotti su campioni di popolazioni diverse e sulla base di applicazioni o di metodi diversi di psicoterapia possono essere confrontati tra di loro. Questo dà una grossa spinta all’interesse per un approfondimento dello studio dei fattori terapeutici, perché gli studi che mettono a confronto diverse psicoterapie permettono di arrivare alla conclusione che molte psicoterapie hanno la stessa quantità di effetto sulle diverse psicopatologie. Quindi si perde l’illusione che sia possibile identificare sempre una forma di psicoterapia migliore per un certo tipo di paziente, e si comincia a indagare quali siano i fattori terapeutici che sono trasversali rispetto ai diversi modelli teorici di psicoterapia per riuscire a capire quanto dell’effetto della psicoterapia sia dovuto a dei fattori specifici e quanto invece sia dovuto a dei fattori aspecifici. L’importanza dei fattori aspecifici ci fa riflettere sulla qualità della relazione terapeutica, nel senso che evidentemente in tutte le psicoterapie un fattore terapeutico fondamentale risulta essere appunto la cosidetta alleanza di lavoro (Bordin 1975), oggi utilizzato col termine di alleanza terapeutica. L’alleanza terapeutica in realtà implica sia delle considerazioni sulla tecnica, nel senso quali sono gli interventi tecnici che sembrano più facilitare una buona alleanza terapeutica e nello stesso tempo studiare l’alleanza terapeutica significa studiare la qualità della relazione, in particolare nel costrutto di alleanza terapeutica oggi si ritiene convergano almeno tre elementi diversi del processo terapeutico e cioè la qualità affettiva della relazione, ma anche la condivisione degli obiettivi della psicoterapia e la condivisione degli strumenti per raggiungere gli obiettivi. Quindi ci deve essere una condivisione esplicita tra cliente e terapeuta per poter costruire un’alleanza di lavoro che è alla base di una psicoterapia efficace. In questo modo lo studio della qualità della relazione terapeutica permette appunto di rispostare l’attenzione dei ricercatori sulla ricerca sul processo. La ricerca sul processo viene considerata un ponte fondamentale per coniugare la ricerca sui risultati con il lavoro clinico, con quelli che sono i modi in cui i dati della ricerca possono essere utilizzati dai clinici per migliorare la qualità del loro lavoro. Dal 1984 ad oggi. Vede da una parte un consolidamento delle metodologie di ricerca, dall’altra una disillusione rispetto all’idea di poter avere dei dati certi circa quale metodo di psicoterapia è più efficace per quel particolare tipo di psicopatologia. Infine si assiste ad una riorganizzazione della ricerca che viene molto più chiaramente legata alla clinica. Cioè fino agli anni ’70 sembrava che i clinici non fossero interessati alla ricerca in psicoterapia e quindi la riflessione sul lavoro clinico, sulla tecnica, sui problemi che nascono nella psicoterapia, rimaneva in qualche modo separata dalla quantificazione dei dati che veniva utilizzata invece dai ricercatori. Nell’ultima fase, negli ultimi vent’anni, sicuramente invece la ricerca è stata promossa sempre di più proprio nelle istituzioni che si occupano di sanità, di cura della salute mentale, proprio perché c’è un bisogno maggiore e più chiaro di integrare la riflessione clinica con i risultati della ricerca. Viene data anche una maggiore attenzione ai fondamenti concettuali. Nell’epoca della ricerca del rigore scientifico, a tutti i costi il rischio era quello di costruire degli strumenti concettuali che sembravano avere buone basi empiriche ma che non avevano poi un fondamento teorico così chiaro. Quello che si cerca oggi invece è di coniugare la validità di costrutto con la validità empirica degli strumenti utilizzati. Così come si cerca di coniugare sempre di più la ricerca sul processo con la ricerca sui risultati. La ricerca sul processo nella psicoterapia dinamica. Proprio nella misura in cui la ricerca sul processo si occupa di fattori specifici della psicoterapia è stata sicuramente la ricerca privilegiata nell’area psicodinamica dove appunto la ricerca è partita proprio dall’interesse dei clinici per migliorare la loro tecnica di intervento. La ricerca sul processo si può definire come un’indagine empirica sul come e sul perché. Cioè non ci interessa soltanto, non ci basta sapere quali sono i cambiamenti alla fine di un lavoro psicoterapeutico, ma ci interessa sapere come questi cambiamenti si producono nel corso della relazione e quali siano i fattori che producono il cambiamento. I cambiamenti possono essere valutati sia dal punto di vista oggettivo del comportamento del paziente al di fuori della psicoterapia, ma anche all’interno e al di fuori della psicoterapia rispetto all’esperienza soggettiva, cioè se noi adottiamo un ottica clinica ovviamente noi siamo interessati alla qualità di vita del paziente, non solo in termini esterni oggettivabili, ma anche in termini di qualità soggettiva dell’esperienza psichica. Quindi la ricerca sul processo osserva la realtà quotidiana del lavoro clinico, non è una ricerca sperimentale, è una ricerca naturalistica che tende ad evidenziare le caratteristiche del lavoro psicoterapeutico così come si svolge nei setting tradizionali che siano privati o che siano istituzionali. Inoltre si rivolge allo studio dei microcambiamenti, non è interessata tanto a quelo che accade alla fine di una psicoterapia che auspicabilmente è il risultato principale dell’accumulo di dati di ricerca, ma i dati della ricerca si focalizzano sui micro-cambiamenti, su ciò che avviene all’interno di una singola seduta oppure tra una seduta e l’altra. I risultati della ricerca sul processo, proprio per questa attenzione alle variabili processuali, sono fondamentali anche per la formazione clinica del terapeuta. Quindi hanno una ricaduta immediata sulla qualità del lavoro clinico dell’operatore. La ricerca sul processo ha come obiettivi fondamentalmente quindi lo studio delle variabili che intervengono tra il problema clinico iniziale e il risultato finale. Le domande che si pone la ricerche sul processo sono: quali eventi della psicoterapia hanno un efficacia? quali variabili dinamiche vengono attivate da quegli eventi? (all’interno della relazione terapeutica). quali cambiamenti sono prodotti dall’influenza degli eventi della psicoterapia sulle variabili dinamiche? Quindi in che modo sono legati tra di loro gli eventi della psicoterapia, cioè la frequenza delle sedute, il tipo di interventi verbali del terapeuta, l’atteggiamento mimico, infatti è stato studiato anche l’atteggiamento mimico del terapeuta, la frequenza-non frequenza delle sedute da parte del paziente; in che modo quindi questi vari eventi sono collegati con le variabili del processo, cioè quello che si trasforma nel corso delle sedute nella relazione terapeutica attraverso le comunicazioni di significati tra paziente e terapeuta, attraverso gli scambi comunicativi tra paziente e terapeuta, e in che modo le variazioni, le fluttuazioni di queste variabili di scambi comunicativi tra paziente e terapeuta influisce poi sui cambiamenti che il paziente porta con se nella vita al di fuori della psicoterapia. Quindi la metodologia è una metodologia articolata che parte dall’esigenza di mettere a punto dei sistemi diagnostici che siano funzionali rispetto all’indagine dei microcambiamenti del processo e che studia nella elaborazione del problema iniziale, concepito come diagnosi, studia le interazioni continue che avvengono tra le caratteristiche del paziente, le modalità tecniche, nel senso che sicuramente il terapeuta tende ad adeguare le modalità tecniche alle caratteristiche del paziente e le caratteristiche del paziente influiscono per l’altro sull’aspetto emotivo della relazione tra i due. Gli aspetti emotivi influiscono naturalmente anche sulle caratteristiche del terapeuta, le caratteristiche del terapeuta sono a loro volta la base per la scelta di modalità tecniche di un tipo piuttosto che di un altro, dunque c’è una continua interazione che possiamo definire a spirale nel corso del processo terapeutico tra queste diverse caratteristiche. La strategia della ricerca sul processo si pone tre obiettivi: Una buona diagnosi, cioè operazionalizzare la definizione del problema clinico portato dal paziente studiando in dettaglio non solo la patologia come teoria della psicopatologia, ma proprio gli indicatori specifici della patologia così come vengono presentati dal paziente come problema. E quindi avere degli indicatori specifici del problema portato dal paziente che possano permettere di andare poi a studiare i micro-cambiamenti di questo problema nel corso del tempo. Identificare la natura degli interventi, in particolare quindi differenziare i diversi interventi che il terapeuta fa nel corso del processo e cercare di evidenziare quali siano gli effetti specifici dei diversi interventi. Obiettivo della ricerca sul processo, quello più ambizioso, è costituito dalla costruzione di mini-teorie che spieghino la reazione tra A e B, cioè la relazione tra il problema clinico portato dal paziente e la natura degli interventi messi in atto dal clinico. Metodi per la ricerca sul processo. Si possono classificare orientativamente in due grandi categorie: I metodi che valutano il contenuto, e che quindi propongono una valutazione sistematica delle narrative in termini di contenuto delle narrazioni. (Facciamo un passo indietro) Perché abbiamo bisogno di una valutazione sistematica delle narrative: la psicoterapia è sostanzialmente uno scambio verbale tra paziente e terapeuta. È vero che ciò che passa attraverso il linguaggio non è solo il contenuto semantico del linguaggio o la costruzione linguistica della comunicazione, ma sono una quantità di informazioni dovute al non verbale, legate quindi alla postura, all’espressione facciale, ecc. dei due partecipanti alla relazione, e ci sono anche degli studi che hanno cominciato a indagare attraverso una video-registrazione gli scambi non verbali tra paziente e terapeuta, però la maggior parte delle ricerche sul processo, finora, si attesta sulla ricerca relativa agli scambi verbali. E quindi l’ipotesi di base è che, attraverso uno studio sistematico della narrativa, noi riusciamo anche a inferire quali sono i processi mentali che accompagnano gli scambi verbali tra paziente e terapeuta. Dicevo quindi che i metodi per la ricerca possono essere classificati in due grandi categorie che sono i metodi per valutare il contenuto delle narrazioni, questi metodi evidenziano dei pattern relazionali, è diventato molto importante nel paradigma psicodinamico l’uso di pattern relazionale sia nella spiegazione dello sviluppo del bambino, sia nella spiegazione della formazione della psicopatologia, dunque anche i metodi per la ricerca sul processo si avvalgono di questo concetto per indagare i contenuti delle narrative che si scambiano tra paziente e terapeuta. Per valutare queste narrative, e per evidenziare pattern relazionali ricorrenti nelle sedute, occorre segmentare il testo di una seduta in unità tematiche. Ci sono diversi modi di scegliere unità tematiche, il modo dipende molto dalla costruzione del metodo. La ricerca va ad evidenziare la ridondanza, dal punto di vista clinico in area psicodinamica è da lungo tempo noto che il problema clinico del paziente si rivela all’orecchio del terapeuta proprio attraverso la ripetitività, la ridondanza, di certi temi narrativi, in particolare la ridondanza, appunto, di certi temi, di certe tematiche, di certi problemi nelle relazioni interpersonali ci aiuta a scegliere il focus della psicoterapia. Quindi la messa a punto di metodi sistematici per identificare i pattern relazionali ridondanti o prevalenti all’interno di una o più sedute consecutive, permettono al clinico di costruire delle ipotesi specifiche su quale deve essere il focus della psicoterapia e anche su quale deve essere il tipo di cambiamento che andiamo cercando. Tra i metodi per la valutazione del contenuto delle narrative ne possiamo accennare brevemente tre abbastanza noti: il primo è il PERT di Gill e Hoffman messo a punto a Chicago (19791982). Gill, proveniente dalla psicoanalisi dell’Io, e Hoffman provenendo da un impostazione di tipo social-costruttivista, hanno costruito un metodo per la valutazione dei temi contenuti nelle sedute di psicoanalisi, centrando l’attenzione sulla probabile esperienza che il paziente fa della relazione terapeutica. Il modo in cui il paziente racconta le sue storie viene continuamente collegato con l’esperienza che questo paziente sta facendo della relazione terapeutica. Il secondo di questi metodi è abbastanza diffuso ed è quello della Diagnosi Di Piano (PD) di Weiss e Sampson che è stato messo a punto nel 1986 a San Francisco e che mette in primo piano un’ipotesi di tipo cognitivista, quindi coniuga un concetto tradizionale come quello della coazione a ripetere della psicoanalisi con un ipotesi cognitivista, la patologia è dovuta a credenze patogene. Le credenze patogene, secondo Weiss e Sampson, sono alla base del progetto terapeutico del paziente, il paziente cioè si aspetta di poter finalmente sconfermare queste credenze patogene. Quindi se la credenza è basata sulle esperienze relazionali del passato, nel senso di aspettarsi delusioni, non attenzione, da parte di un altro, il terapeuta deve in qualche modo sconfermare con il suo operato clinico le aspettative patogene del paziente e questo permette che il progetto terapeutico del paziente si realizzi. Un altro metodo è l’indagine sui meccanismi di difesa, è un metodo messo a punto da Perry nel 1990, la DMRS è la scala per la valutazione dei meccanismi di difesa, è stata tradotta e messa a punto in italiano da Lingiardi e Madeddu in un libro che ha già visto due edizioni, la seconda del 2002 è molto completa perché ci sono esempi per la valutazione dei meccanismi. Questo metodo seleziona un aspetto specifico dei contenuti delle narrative e cioè quegli aspetti che possono essere messi in relazione appunto alle strategie di coping del paziente stesso. I meccanismi di difesa oggi vengono identificati come strategie di adattamento e l’ipotesi centrale è che lo studio delle strategie di adattamento ci permette di definire sia il problema clinico iniziale, sia i micro-cambiamenti del paziente nel corso del processo, attraverso un miglioramento della funzionalità e del’efficacia delle difese. I metodi centrati sullo stile narrativo. Sono dei metodi che sono più attenti alla forma delle comunicazioni verbali che non ai contenuti. L’ipotesi centrale è che appunto la rilevazione delle variabili formali permetta di codificare delle differenze stilistiche tra i parlanti o tra momenti diversi dello stesso parlante, nel caso del paziente, che spiegano, cioè che rimandano a degli aspetti affettivi delle narrazioni, cioè il modo in cui il paziente racconta le sue storie può essere studiato come una indiretta indicazione della qualità affettiva del racconto, dell’intensità dell’attivazione emotiva presente in quel momento nel paziente e della efficacia comunicativa del linguaggio. Questo vale, ovviamente, anche per il linguaggio del terapeuta. Il terapeuta può essere più o meno in contatto con le sue emozioni nel corso dell’interazione con il paziente, può essere più o meno efficace nella comunicazione verbale rivolta al paziente e questo si può rilevare attraverso lo studio delle qualità stilistiche del linguaggio utilizzato. Metodi di questo tipo sono quelli dei Framges proposto da Teller e Dahl (1986) a New York che cerca di costruire dei contesti narrativi attraverso la struttura sintattica della conversazione oppure quello del TVII, cioè il questionario per la valutazione degli interventi verbali del terapeuta, in questo caso, messo a punto da Koenigsberg e Kernberg (1985-1988) che cerca di differenziare una diversa qualità comunicativa degli interventi del terapeuta attraverso l’organizzazione formale del linguaggio e degli scambi verbali tra paziente e terapeuta. Entriamo più nel merito e illustreremo adesso due strumenti che sono particolarmente utilizzati attualmente nella ricerca sul processo in psicoterapia dinamica: Il primo è uno strumento che valuta il contenuto delle narrative ed è il CCRT di Luborsky e Crits-Chistoph. Il manuale di questo strumento, tradotto in italiano, ha una prima edizione del ‘90 ed una edizione successiva del 1998. Il metodo di Luborsky e Crits-Chistoph si basa sull’ipotesi che il cambiamento terapeutico, centrale per la psicoterapia dinamica, consista nell’acquisizione di consapevolezza della disfunzionalità dei propri modelli interattivi rigidi. Cioè modelli di relazione interpersonale rigidi, poco flessibili e quindi disfunzionali. Il metodo di valutazione si basa sulla segmentazione del testo delle sedute trascritte in episodi relazionali, le unità da valutare sono episodi relazionali, caratterizzati dal racconto di una interazione o più interazioni fra il soggetto e un altro privilegiato o anche un gruppo di altri, per esempio la famiglia o i genitori presi nell’insieme. Ogni episodio relazionale viene valutato individuando i “wishes” presenti nell’episodio, quindi desideri, bisogni e intenzioni dell’interazione raccontata, le risposte dell’altro (RO), sempre rispetto ai desideri ai bisogni e intenzioni del soggetto e infine le risposte del sé (RS), cioè la reazione del soggetto rispetto alle risposte dell’altro. Attraverso la valutazione di queste componenti in tutti gli episodi relazionali si ricava un modello generale legato alla frequenza (si scelgono le risposte più frequenti) e si individua in questo modo un modello di relazione conflittuale. un esempio: desidero essere aiutato, gli altri non mi aiutano, mi sento triste. È un modello che viene costruito in maniera artificiale sulla base delle frequenze delle diverse componenti del CCRT. Il cambiamento attraverso il CCRT si valuta indagando il livello di pervasività, cioè quanto più sono rigidi i modelli relazionali presenti nei racconti del paziente tanto più il CCRT risulterà pervasivo, cioè c’è un modello che satura la maggior parte degli episodi raccontati, e quindi l’ipotesi è che il cambiamento stia nella diminuzione della pervasività del CCRT verso la fine del trattamento. Poi la modifica delle risposte dell’oggetto negative e delle risposte del sé negative, quelle che abbiamo visto nell’esempio, la risposta “gli altri non mi aiutano“, la risposta del sé “mi sento triste” sono risposte negative. La qualità affettiva delle risposte dell’altro e del sé tende a modificarsi se la psicoterapia ha un effetto nel corso del processo. Infine si va a cercare in che modo cambiano i temi ricorrenti, è molto probabile che nel corso di una psicoterapia, il CCRT, cioè il modello relazionale conflittuale centrale che risultava più frequente all’inizio della psicoterapia, mano mano ceda il posto a qualche aspetto del modello che era invece meno frequente all’inizio. Il secondo e ultimo metodo è quello di Wilma Bucci (1992-1997) che ha messo a punto uno strumento per valutare l’attività referenziale. Questo strumento è stato costruito sulla base di una serie di ricerche che la Bucci aveva condotto in precedenza anche con ricercatori dell’area della psicologia cognitiva, come per esempio Paivio. Il metodo della Bucci si basa su un altro tipo di ipotesi, cioè l’idea è sempre che ciò che è disfunzionale nel paziente che si rivolge richiedendo un aiuto psicoterapeutico, sia una modalità di interazione derivata da esperienze relazionali del passato. Ma in che modo questo condiziona lo stato mentale del paziente? Appunto, da un punto di vista, se noi uniamo un’ottica cognitiva ad un ottica psicodinamica possiamo individuare la presenza di meccanismi di dissociazione nella mente del paziente, proprio sulla base delle esperienze passate, dissociazione tra informazioni affettive, emotive, sensoriali e informazioni legate al linguaggio verbale. Quindi il cambiamento terapeutico dovrebbe consistere nella possibilità di riattivare delle connessioni che sono state separate, tagliate attraverso dei meccanismi di dissociazione e che tendono ad impedire ad un paziente di avere un contatto costante con le proprie reazioni affettive. Quindi l’ipotesi è che il cambiamento consista in una riattivazione delle connessioni tra l’esperienza emozionale e il linguaggio verbale. Le narrative, nel corso delle sedute psicoterapeutiche, dovrebbero proprio avere l’obiettivo di permettere di ripristinare un’integrazione tra pensiero organizzato secondo il linguaggio verbale ed emozioni e sensazioni che vengono registrate a livello inconscio. Il metodo di valutazione proposto dalla Bucci consiste anche in questo caso nella segmentazione del testo delle sedute in unità ideative, in questo caso le unità tematiche non devono essere necessariamente episodi, ma il testo viene segmentato sulla base del cambiamento del tema della narrativa nel corso della seduta. Ogni unità ideativa viene valutata su quattro scale: la concretezza, che si riferisce alla quantità di parole concrete riferite ad emozioni o a sensazioni, a qualità dell’esperienza sensoriale presentate nell’unità ideativa; la specificità, che valuta la quantità di dettagli con cui l’unità ideativa, il tema viene narrato; la chiarezza, che valuta invece l’organizzazione complessiva del linguaggio, quindi quanto l’esposizione del racconto risulti chiara all’ascoltatore; l’immaginazione, che valuta la capacità della narrazione di evocare immagini nella mente dell’ascoltatore. 7. lo studente descriva brevemente il concetto di modelli di relazione conflittuale. Entriamo più nel merito e illustreremo adesso due strumenti che sono particolarmente utilizzati attualmente nella ricerca sul processo in psicoterapia dinamica: Il primo è uno strumento che valuta il contenuto delle narrative ed è il CCRT di Luborsky e Crits-Chistoph. Il manuale di questo strumento, tradotto in italiano, ha una prima edizione del ‘90 ed una edizione successiva del 1998. Il metodo di Luborsky e Crits-Chistoph si basa sull’ipotesi che il cambiamento terapeutico, centrale per la psicoterapia dinamica, consista nell’acquisizione di consapevolezza della disfunzionalità dei propri modelli interattivi rigidi. Cioè modelli di relazione interpersonale rigidi, poco flessibili e quindi disfunzionali. Il metodo di valutazione si basa sulla segmentazione del testo delle sedute trascritte in episodi relazionali, le unità da valutare sono episodi relazionali, caratterizzati dal racconto di una interazione o più interazioni fra il soggetto e un altro privilegiato o anche un gruppo di altri, per esempio la famiglia o i genitori presi nell’insieme. Ogni episodio relazionale viene valutato individuando i “wishes” presenti nell’episodio, quindi desideri, bisogni e intenzioni dell’interazione raccontata, le risposte dell’altro (RO), sempre rispetto ai desideri ai bisogni e intenzioni del soggetto e infine le risposte del sé (RS), cioè la reazione del soggetto rispetto alle risposte dell’altro. Attraverso la valutazione di queste componenti in tutti gli episodi relazionali si ricava un modello generale legato alla frequenza (si scelgono le risposte più frequenti) e si individua in questo modo un modello di relazione conflittuale. un esempio: desidero essere aiutato, gli altri non mi aiutano, mi sento triste. È un modello che viene costruito in maniera artificiale sulla base delle frequenze delle diverse componenti del CCRT. Il cambiamento attraverso il CCRT si valuta indagando il livello di pervasività, cioè quanto più sono rigidi i modelli relazionali presenti nei racconti del paziente tanto più il CCRT risulterà pervasivo, cioè c’è un modello che satura la maggior parte degli episodi raccontati, e quindi l’ipotesi è che il cambiamento stia nella diminuzione della pervasività del CCRT verso la fine del trattamento. Poi la modifica delle risposte dell’oggetto negative e delle risposte del sé negative, quelle che abbiamo visto nell’esempio, la risposta “gli altri non mi aiutano“, la risposta del sé “mi sento triste” sono risposte negative. La qualità affettiva delle risposte dell’altro e del sé tende a modificarsi se la psicoterapia ha un effetto nel corso del processo. Infine si va a cercare in che modo cambiano i temi ricorrenti, è molto probabile che nel corso di una psicoterapia, il CCRT, cioè il modello relazionale conflittuale centrale che risultava più frequente all’inizio della psicoterapia, mano mano ceda il posto a qualche aspetto del modello che era invece meno frequente all’inizio. Il secondo e ultimo metodo è quello di Wilma Bucci (1992-1997) che ha messo a punto uno strumento per valutare l’attività referenziale. Questo strumento è stato costruito sulla base di una serie di ricerche che la Bucci aveva condotto in precedenza anche con ricercatori dell’area della psicologia cognitiva, come per esempio Paivio. Il metodo della Bucci si basa su un altro tipo di ipotesi, cioè l’idea è sempre che ciò che è disfunzionale nel paziente che si rivolge richiedendo un aiuto psicoterapeutico, sia una modalità di interazione derivata da esperienze relazionali del passato