3.6. Il principio dell’« autonomia» morale e il suo significato Se definiamo la libertà come «indipendenza della volontà dalla legge naturale dei fenomeni» e come «indipendenza dai contenuti» della legge morale, noi abbiamo il senso «negativo» di essa (ossia ciò che essa esclude); se, invece, aggiungiamo a questa connotazione anche quella ulteriore, ossia che la volontà (indipendente) è anche in grado di determinarsi da sé, di auto-determinarsi, noi abbiamo anche il senso «positivo» e specifico. Questo aspetto positivo della libertà è quello che Kant chiama «autonomia» (= il porre a se medesimo la propria legge). Il suo contrario è l’«eteronomia», ossia il far dipendere e determinare la volontà da qualcosa che è altro da lei. «Libertà», «autonomia» e «formalismo» sono inscindibilmente legati. Questo non significa, beninteso, che la volontà, auto-determinandosi, non si ponga dei contenuti e che la forma della legge morale non abbia una materia, ma vuol dire che questa non può mai essere il motivo e la condizione determinante. Tutte le morali che si fondano sui «contenuti» compromettono l’autonomia della volontà, implicano una dipendenza di essa dalle cose e quindi dalla legge della natura e pertanto comportano l’eteronomia della volontà. In pratica, tutte le morali dei filosofi anteriori a Kant, misurate con questo nuovo metro, risultano «eteronome» e quindi fallaci. Il nostro filosofo ritiene che tutte le morali eteronome, a seconda dei principi su cui fanno leva, possano rientrare in uno dei casi rappresentati dalla seguente tabella, che include tutti i possibili casi, tranne quello dell’etica «formale». esterni I motivi «materiali» che determinano la volontà nel principio della moralità possono essere: dell’educazione (per esempio secondo Montaigne, che sosteneva che ci si deve conformare agli usi e costumi del proprio paese). della costituzione civile (per esempio, secondo Mandeville, per il quale i fini individuali si trasformano per conto loro in sociali). Soggettivi interni del sentimento fisico (per esempio Epicuro, che fondava la sua etica sul sentimento del piacere). del sentimento morale (per esempio, Hutcheson). Interni ovvero la perfezione (come la intendevano, ad esempio, gli Stoici antichi, oppure Wolff). interni esterni Oggettivi Esterni ovvero la volontà di Dio (come la intendeva, ad esempio, Crusius —sui cui testi Kant aveva fatto lezione — e la morale teologicamente fondata). In particolare, è da rilevare che ogni tipo di etica che si fondi sulla «ricerca della felicità» è eteronoma, perché introduce fini «materiali», con tutta una serie di conseguenze negative. La ricerca della felicità inquina la purezza dell’intenzione e della volontà, in quanto punta su determinati fini (sul ciò che si ha da fare e non sul come si ha da fare), e così la condiziona. La ricerca della felicità, come già abbiamo detto sopra, dà luogo ad imperativi ipotetici, e non ad imperativi categorici. Tutta l’etica greca, che era appunto eudemonistica (tesa, cioè, alla ricerca della eudaimonìa = felicità), viene in tal modo rovesciata. La morale evangelica, invece, non è eudemonistica, perché proclama la purezza del principio morale (la purezza dell’intenzione = la purezza della volontà), come abbiamo già detto. Noi non dobbiamo agire per ottenere la felicità, ma dobbiamo agire unicamente per il puro dovere. Tuttavia, agendo per il puro dovere, l’uomo diventa «degno di felicità», il che comporta conseguenze molto importanti, come più avanti vedremo. 3.7. Il «bene morale» e la sua dimensione universale Tutte le etiche prekantiane procedevano alla determinazione di ciò che è «bene morale» e «male morale» e deducevano di conseguenza la legge morale, prescrivendo di perseguire il bene e di evitare il male. Kant, in conseguenza del suo formalismo, rovescia esattamente i termini della questione: “..... il concetto del buono e dei cattivo non deve venir determinato prima della legge morale, ma solo dopo di essa”. Insomma: è la legge morale che pone e fa essere il bene morale e non viceversa. Il paradosso cessa di essere stridente, se lo si pensa nell’ottica sopra indicata: è l’intenzione pura o la volontà pura che fa essere buono ciò che essa vuole, e non viceversa (non c’è nessuna cosa, nessun contenuto da cui potrebbe essere derivata l’intenzione e la volontà pura). Ma, si chiederà, come si può passare da questo rigoroso formalismo all’agire concreto? In che modo si può passare dall’imperativo categorico che non prescrive se non la forma, ai casi e ai contenuti particolari? In che modo è possibile la sussunzione di un’azione particolare sotto la legge pratica pura (sotto l’imperativo)? Come ben si vede, il problema che qui sorge è analogo a quello sorto nella Critica della Ragion pura a proposito della necessità di trovare un ponte, una forma di mediazione fra i concetti puri e i dati sensibili. Abbiamo visto come con la dottrina dello «schematismo trascendentale» Kant risolvesse il problema. Qui, però, il problema è più difficile da risolvere, perché si tratta di mediare il soprasensibile (tali sono, infatti, la legge e il bene morale) e l’azione sensibile. Come «schema» Kant usa il concetto di «natura» intesa quale insieme di leggi che si attuano necessariamente (ossia senza eccezione alcuna). Egli dice quanto segue. Immaginiamo questa come «tipo» della morale (e usare la legge e la natura sensibile come «tipo» della legge morale, significa usarla a guisa di «schema» o «immagine» per raffigurare analogicamente la legge e la natura intelligibile). Ora prendiamo l’azone concreta che ci prepariamo a compiere e supponiamo che la massima cui si ispira dovesse diventare legge necessaria (ossia non suscettibile di eccezioni) di una «natura» in cui noi stessi fossimo costretti a vivere. Ebbene, questo «schema» ci rivela immediatamente se la nostra azione è oggettiva (morale), oppure no: infatti, se risulta che noi saremmo contenti di vivere in questo supposto mondo in cui la nostra massima diventasse legge necessaria (che non ci eccettua), vuoi dire che essa era conforme al dovere; se no, no. Esemplifichiamo. a) Se uno dice il falso ad esempio per evitare guai, si accorge subito se è o no morale il suo comportamento, trasformando la sua massima (= mi è lecito dire il falso per evitare guai) in legge di una natura di cui egli stesso dovesse far parte necessariamente: infatti in un mondo in cui tutti dicessero necessariamente il falso non sarebbe possibile vivere (e proprio colui che mente sarebbe il primo a non voler vivere in esso). b) Si potrebbe vivere in un mondo in cui tutti ammazzassero necessariamente? c) Oppure in un mondo in cui ti rubassero necessariamente? E gli esempi potrebbero moltiplicarsi a piacere Elevando, dunque, la massima (soggettiva) al livello dell’universalità, io sono in grado di riconoscere se essa è morale, oppure no. Guarda le tue azioni nell’ottica dell’universale, e capirai se sono azioni moralmente buone oppure no. È, questo, un raffinato, complesso e ingegnoso modo di esprimere qu stesso principio che, con estrema semplicità veritativa, il Vangelo afferma: «di fare agli altri quello che non vorresti fosse fatto a te». 3.8. Il «rigorismo» e l’inno kantiano al «dovere» Tenendo presente quanto fin qui è stato detto, è evidente che, per Kant, non basta che un’ azione sia fatta secondo la legge, ossia conformemente alla legge. In questo caso, l’azione potrebbe essere semplicemente «legale» (fatta conformemente alla legge) e non «morale». Per essere morale la volontà che sta a base dell’azione deve essere determinata «immediatamente» dalla sola legge, cioè non «attraverso la mediazione del sentimento, di qualunque specie esso sia»: qualsiasi intervento sulla volontà di moventi che siano estranei alla legge morale provocano «ipocrisia». Se faccio carità ai poveri per puro dovere, faccio azione morale; se la faccio per compassione (che è un sentimento estraneo al dovere o per farmi vedere generoso (che è mera vanità), faccio azione semplicemente legale o addirittura ipocrita. È chiaro che l’uomo, come essere sensibile, non può prescindere dai sentimenti e dalle emozioni; ma quando questi fanno irruzione nell’azione morale non possono che inquinarla: e anche quando spingono nel senso indicato dal «dovere» sono pericolosi, appunto perché c’é rischio che facciano scadere l’azione piano morale a quello puramente legale, nel senso sopra chiarito. Kant riconosce diritto di cittadinanza nella sua etica ad un solo sentimento: quello del «rispetto». Si tratta, però, di un sentimento suscitato dalla stessa legge morale, e quindi di un sentimento diverso dagli altri. La legge morale, infatti, contrastando le inclinazioni e le passioni, si impone su di esse, ne abbatte la superbia e le umilia: e ciò suscita nella sensibilità umana appunto il «rispetto di fronte a tale «potenza» della legge morale. Si tratta, come dicevamo, di un sentimento sui generis, ossia di un sentimento che nasce su un fondamento intellettuale e razionale, in quanto suscitato dalla ragione medesima, «e questo sentimento precisa Kant è il solo che possiamo conoscere interamente a priori, e di cui possiamo conoscere la necessità». Il rispetto, evidentemente, si riferisce sempre e solo a persone, e mai a cose. Le cose inanimate e gli animali possono suscitare amore, paura, terrore ecc. mai «rispetto». E lo stesso vale per l’uomo inteso come «cosa», ossia nell’aspetto fenomenico: possiamo amare, odiare, e anche ammirare un grande ingegno o un potente, ma il rispetto è altra cosa e nasce solo di fronte all’uomo che incarna la legge morale. Il rispetto, in questo senso, può collaborare, come «movente», ad ubbidire alla legge morale. Tutto questo spiega meglio le caratteristiche della legge morale come «dovere». La legge morale, in quanto esclude l’influsso di tutte le inclinazioni sulla volontà, esprime una «coercizione pratica» delle inclinazioni, una loro sottomissione (e perciò rispetto), e quindi si manifesta come «obbligatorietà». In un essere perfetto la legge morale è legge di «santità», in un essere finito è «dovere». E si capisce, così stando le cose, come Kant ponga il dovere al di sopra di tutto, in quanto rivelativo dell’appartenenza dell’uomo anche al mondo intelligibile, oltre che a quello sensibile, con tutte le conseguenze connesse. — —