CRISTOLOGIA di Giovanni Moioli
INTRODUZIONE DI F.G. BRAMBILLA
1. E’ ormai superato il genere manualistico per il carattere controversistico del
suo procedimento metodico.
2. Per il suo riferimento all’impostazione dualistica che giustappone naturale
e soprannaturale, ragione e fede che finisce per ridurre l’apporto del sapere
critico ai preambula fidei (ambito della ragione) e la figura della fede ad un
biblicismo retorico.
3. Lo sforzo deve essere invece quello “di rispondere nella fede e secondo la
fede alla domanda sulla vicenda e sull’identità di Gesù in modo autentico e
interrogato criticamente” (12).
4. La proposta di Moioli è quella di proporre una cristologia della singolarità di
Gesù, dove la singolarità consente di legittimare il sapere della fede di fronte
alle leggi antropologiche universali del “sapere” la verità.
La singolarità dell’evento di Gesù è la ragione della sua universale validità, la
sua singolare vicenda ci dice infatti la verità su Dio.
Singolarità di Gesù significa storicità singolare e assoluta, dove storicità ci
rimanda all’evento Cristo nella sua cronologica vita terrena e assoluta indica
la normatività di questa vicenda per tutta la storia degli uomini.
Dunque l’evento-Cristo è storico e assoluto insieme.
5. Il cristocentrismo della teologia moderna consente di superare la dicotomia
passata tra Gesù e il Cristo, consente di superare le prospettive
amartiocentriche.
INTRODUZIONE DI G. MOIOLI
1. La proposta cristologica oggi va inserita all’interno del superamento della
cristologia del manuale.
2. Si deve rispondere all’interrogativo critico di marca illuministica.
Critica al manuale:
1. La critica all’insufficienza del manuale nel rendere il senso di Cristo nel
piano di Dio.
Ciò si deve fare in base alle conquiste teologiche moderne come l’approdo
cristocentrico della teologia della predestinazione (predestinazione di Cristo
e predestinazione degli uomini in Cristo), come il superamento radicale della
prospettiva anselmiano-tomista, la riflessione critica sul soprannaturale
(primato assoluto di Cristo, non esiste un naturale non cristico), Cristo come
l’orizzonte completo di comprensione dell’intera rivelazione
2. La mancata elaborazione dei rapporti tra cristologia e soteriologia.
Cristo è invece salvatore assoluto e storico non legato al peccato del mondo.
La prospettiva del manuale si incentrava sul tema dell’unione ipostatica
facendo di Cristo una continua eccezione dell’umano, un criptomonofisismo.
Il formalismo della definizione va invece legato alla storia, l’unione ipostatica
è Gesù di Nazaret, va sempre recuperata la storicità di Gesù.
La cristologia e la spinta critica illuministica
A partire dal problema di Lessing ripreso anche da Kant, l’illuminismo tenta di
dissociare il Gesù della storia dal Cristo della fede.
Il Gesù storico non può avere alcuna pretesa universale essendo legato alla
storia.
L’universalità di Cristo viene così recuperata a scapito della storia e diventa
coscienza morale (Kant), religione universale (Lessing), sentimento religioso
(Schliermacher) proiezione dell’umano (Feuerbach, Strauss).
Anche il tentativo di Bultmann è però segnato dalla svalutazione del Gesù
storico.
Oggi si opera per evitare la dissociazione tra il Gesù della storia e il Cristo
della fede.
E’ necessario così trovare la strada per evidenziare come il fatto concreto di
Gesù di Nazaret abbia una dimensione assoluta e primordiale.
Altra critica veniva fatta dall’illuminismo alla ellenizzazione delle formule
cristologiche, ad essa si risponde con il discernimento critico fatto dai credenti
nell’impatto con la cultura greca.
Ma la svolta antropologica impone una lettura una cristologia dal basso
comprensibile e la trasmissione delle formule cristologiche dei grandi concili
come Calcedonia in termini comprensibili all’uomo d’oggi, ma una cristologia
dal basso non dice tutto di Gesù.
IL CRISTOCENTRISMO (57)
Non ha senso una contrapposizione
cristocentrismo/teocentrismo “se teocentrismo qualifica un progetto o une
esperienza di superamento di Cristo, quasi fosse una struttura intermedia, ciò
non significherebbe teocentrismo cristiano.
L’incontro con Cristo non è dunque né una fase intermedia da superare
vitalmente; né il sostitutivo vissuto dell’incontro con la Trinità.
E’ la struttura stessa dell’incontro cristiano con Dio che si qualifica
cristologicamente” (58).
CRISTOCENTRISMO NELLA TEOLOGIA
:
LINEE GENERALI DI STORIA DEL PROBLEMA
(59)
Vi è la posizione di Anselmo sulla linea agostiniana, poi rilanciata da
Ludovico Molina: Cristo è venuto per salvarci.
E’ un modello già contestato da Ruperto di Deutz e da Onorio di Autun.
Oggi è superato con la riscoperta della predestinazione di Cristo, del suo
ruolo nella creazione, del fatto che con Cristo tutto comincia e in Cristo tutto
si tiene.
Anche la teologia protestante con Barth mette in risalto la posteriorità del
peccato rispetto a Cristo.
Cristocentrismo “obiettivo”: costituisce nel cogliere la centralità di Cristo
nel fondare in lui la comprensione di tutta la realtà.
E’ una lettura che Moioli segnala propria di Massimo il Confessore, la teologia
medioevale (Roberto Grossatesta), quella dell’Umanesimo (Pico e Cusano)
dove però il rischio restava quella di dissolvere Cristo dalla sua concretezza e
singolarità all’idea-sigla del reale.
Il recupero del tema della redenzione in Molina si motiva anche come
reazione a ciò., non un mondo che vede in Cristo il suo naturale
compimento, ma un mondo da redimere.
Su questa linea di cristocentrismo obiettivo si collocano anche le riduzioni
filosofiche cristiane, da quella di Kant (Cristo è la coscienza morale) a quella
di Hegel (incarnazione come processo dell’idea)
Teologia cristocentrica oggi: modelli
il Christus totus è l’unità obiettiva del reale, il primo intelligibile
concreto, l’oggetto adeguato della teologia.
THEILLARD DE CHARDIN: Cristo come centro del processo evolutivo, Cristo che
salva dal di dentro, trasformando dall’interno.
VON BALTHASAR : nell’abisso dell’amore kenotico si deve trovare la
giustificazione sia della creazione che del peccato, Cristo è l’eidos dell’uomo,
l’universale concreto.
RAHNER: nella sua antropologia di cui la cristologia è inizio e fine, l’uomo si
comprende comprendendo la dimensione cristica della sua esistenza.
BARTH: vi è una tipica concentrazione cristologica in Barth, Cristo è la parola
di Dio, dunque la prospettiva del discorso teologico non può che essere
cristologica.
CULMANN: riporta alla ribalta la centralità di Cristo nella storia, egli è il kairòs
definitivo della salvezza.
PANNENBERG: il personaggio storico Gesù di Nazaret risorto è la
manifestazione prolettica (anticipatrice) della fine.
MERSCH:
Evidentemente la centralità di Cristo è fondamentale, ma il cristocentrismo
obiettivo deve risolversi nel discorso sulla storicità singolare, efapax, di
Cristo, cioè nel fatto che la sua individualità umana storica acquista valore
universale, definitivo, per l’uomo-nella-storia.
LA CRISTOLOGIA
IL PROBLEMA CRITICO DI PARTENZA: LA LEGITTIMITA’ TEOLOGICA
DI UNA CRISTOLOGIA DI GESU’
Cristologia di Gesù significa porre l’attenzione al Gesù storico per
giustificarne l’assolutezza, l’universalità, la singolarità di quell’avvenimento.
CAPITOLO 1. L’EMERGENZA DEL PROBLEMA NELLA CULTURA E NELLE TEOLOGIE
ILLUMINISTICHE E POST-ILLUMINISTICHE
A Kant non interessa la figura storica di Gesù, ma solo una cristologia che si
riduce a descrivere l’ideale morale dell’uomo autonomo e per la quale non
conta il come la cosa possa essersi realizzata, dato che l’uomo non ha
bisogno di esempi, perché gli basta la ragione.
Così anche per Lessing verità contingenti di tipo storico non possono
diventare prove di verità di tipo razionale.
Contro ciò Hegel che rilancia il tema dell’unicità dell’individuo soggetto
unitario Gesù che non è persona storica del passato e Dio è unità di
individuale e divino.
Per Hegel l’unità del reale è rappresentata (solo rappresentata) nel Cristo
storico, a scapito però dell’assolutezza di Cristo.
Contro Lessing Kierkegaard sposta la questione perché non si tratta di
comprendere come una verità storica e contingente possa diventare verità
eterna, si tratta invece della fede, del rapporto esistenziale personale che il
singolo instaura con Cristo in una situazione che è sempre contemporanea.
Sarà necessario superare del tutto le posizioni bultmaniane, per recuperare il
dato della storia, la singolarità dell’avvenimento Gesù e il suo valore
rivelativo.
Così Gogarten, Pannenberg, Barth, Culmann, Balthasar (Cristo è l’universale
in re, nella storia), Rahner.
Il rapporto tra Gesù, fede e rivelazione cristiana è strutturale e ruota attorno al
tema della singolarità di Gesù e sulla sua storicità singolare, con l’avvertenza
che:
1. Cristo non è semplicemente una figura storica di particolare interesse
2. Non è solo portatore di una assolutezza generale di contenuti.
3. Non è solo l’assoluto semplicemente divino.
Non si può di fatto staccare il discorso sull’universale e sul normativo da
quello su Gesù, così la cristologia non può che essere cristologia di Gesù
(contro Bultmann), Gesù è l’universale del cristianesimo, si deve affermare il
carattere assoluto dell’avvenimento-Gesù.
Questa storicità singolare e quel carattere assoluto appartengono alla fede
cristiana come ora vediamo.
CAPITOLO 2. RIPRESA TEOLOGICA DEL PROBLEMA
(93)
2.1. Linee di teologia biblica
La consapevolezza dell’assolutezza del cristianesimo nel Nuovo Testamento
è fuori discussione.
A) Vi è la consapevolezza della definitività-ultimità di Gesù rispetto alla storia
salvifica che lo precede, compimento della legge, dei profeti, (prospettiva di
Matteo), rapporto con Mosè Elia, il Battista.
I gesto di Gesù sono degli efapax compiuti una volta per tutti.
B) Il tempo attuale è il tempo del dono dello Spirito (Luca, Giovanni) che è
Spirito di Cristo donato da Cristo risorto.
Atti 2; Gv 14-16.
Paolo: noi siamo negli ultimi tempi (1Cor 10, 11), Cristo è l’ultimo Adamo
(1Cor 15) Figlio e pienezza dei tempi (Gal 4,4).
C) Nell’Apocalisse Cristo ha in mano le redini della storia.
D) Il motivo dell’unicità di Cristo sta nel suo singolare rapporto con il Padre,
manifestatosi soprattutto nella resurrezione.
E) L’avvenimento di Gesù è unico, per affermare ciò non occorre svalutare il
tempo successivo, quello della chiesa, al contrario, in riferimento al dono
dello Spirito Santo ecco che il tempo attuale è strettamente legato al tempo
ultimativo di Gesù.
2.2. Indicazioni sulla tradizione cristiana post-biblica
Simbolo di Costantinopoli; il cui regno non avrò fine: è la definitività
dell’economia di Cristo.
Cristo è la pienezza della rivelazione (DV 2), l’economia cristiana non
passerà mai, non si devono aspettare altre rivelazioni (DV 4).
Il rapporto tra l’unicità di Gesù e il tema della circolarità indefinita fu già di
Origene, per affermare l’irriducibilità di Dio al mondo si espresse il concilio
Vaticano I.
Si condannano quelle teologie trinitarie del XII-XIII secolo che pensavano ad
una età dello Spirito dopo l’età del Figlio.
Il non superamento di Cristo viene letto dai protestanti nei termini di una
revelatio crucis e della sola Scriptura.
Il mantenimento della Tradizione nella chiesa di Roma significa non certo
superamento, ma solo diversa interpretazione della definitività di Cristo.
Viene poi la contestazione illuministica e l’abbandono del riferimento storico
in Loisy e Bultmann, con la risposta del magistero che afferma inscindibili il
Gesù della storia e il Cristo della fede.
La storia va intesa come un processo verso un compimento in un
ermeneutica oggettiva degli avvenimenti.
E’ la verità come storia è Gesù e “l’ermeneutica obiettiva della storia non è
data dalla totalità futura, ma dalla singolarità avvenuta di Gesù di Nazareth”
(102), in lui vi è la verità che è il mistero stesso di Dio.
Il sapere della fede è così riferito all’avvenimento definitivo di rivelazione che
è Gesù.
E così la cristologia non può che essere cristologia di Gesù.
L’ORIZZONTE SOTERIOLOGICO DELLA CRISTOLOGIA DI GESU’
Dal discorso soteriologico alla descrizione cristologica saltando la dicotomia
manualistica tra cristologia e soteriologia.
1. GESÙ FIGURA DEFINITIVA E MEDIATORE DI SALVEZZA
1.1. Gesù come figura storica e definitiva di mediatore di salvezza (109)
1.1.1. Linee di teologia biblica (109)
Sono rari ma significativi i testi nei quali si parla di Cristo mediatore di
salvezza, soprattutto 4: 1Tm 2,5; Ebr 8,6; 9,15; 12,24.
Ma un po’ tutta la lettera agli ebrei gioca sul rapporto alleanza-mediazione
che si compie ed esaurisce in Gesù.
“Nel piano di Dio Gesù è visto e voluto come avente un oggettivo riferimento
al mondo ed alla sua salvezza” (109).
Sono assenti nell’Antico Testamento prospettive mediatrici di tipo
cosmico-salvifico-demiurgico tra Dio e il creato.
E’ Dio stesso che si offre alla comunione e i mediatori che Dio si sceglie e di
cui Dio si serve sono sempre uomini.
Essi svolgono una funzione di intercessione presso Dio a favore del popolo,
sono p. es. Abramo, Mosè, il Servo isaiano, il Messia.
Sono mediatori umani i sacerdoti, i profeti e i re, ma anche l’angelo, lo spirito,
la sapienza, la legge.
Gesù porta tutto a compimento, per cui queste figura perdono, dopo di lui, la
loro funzione che è esaurita.
Vi è un rapporto di mediazione tra Gesù e il Regno: il Regno si instaura con
Gesù che compie i segni del Regno (miracoli, perdono dei peccati,
resurrezioni...), decidersi per Gesù è decidersi per il Regno.
Il fatto che Gesù sia il mediatore definitivo dell’alleanza implica l’Antico
Testamento e la creazione non possano essere affermati senza il riferimento
a lui, del resto Dio crea per l’alleanza, si parla di alleanza creatrice all’interno
della quale si collocano i vari momenti di alleanza fino a Gesù che è nuova ed
eterna alleanza.
Il ruolo di Cristo nella creazione non si può confondere con concezioni
cosmiche, cosmogoniche, demiurgiche, in quanto è in Gesù agiscono
prerogative divine che vengono dal Padre.
1.1.2. Indicazioni sulla tradizione cristiana post-biblica (113)
Il riferimento è alla questione ariana e alle vicende nicena e post-nicena.
Ario elabora proprio una visione mediatrice del Logos che preserva la
trascendenza divina nel duplice senso della creazione e dell’incarnazione
nelle quali entra in campo il Logos che non è Dio.
A Nicea si mantiene il dato della mediazione, ma aggiunta al tema della
omousia con il preciso intento di evitare tutte le figure cosmogoniche,
cosmiche o demiurgiche.
Per gli antiocheni e Agostino la mediazione avviene in forza dell’umanità di
Gesù, per Cirillo la mediazione è opera del Verbo incarnato che è uno e non
si può dividere.
Ci si orienta così verso una ontologia dell’unità di Cristo che, nella teologia
occidentale, porta con sé il rischio di una mancanza del riferimento storico e
del carattere storico dell’unico mediatore.
Su questa linea ontologica diventa problematica una fondazione trinitaria
della mediazione di Gesù, qui infatti egli è il Figlio incarnato, ma manca il
riferimento al suo rapporto con il Padre e con lo Spirito Santo, riferimento che
sarebbe più chiaro con il recuperare riferimenti economico-biblici che meglio
metterebbero in rilievo l’essere mediatore di Gesù (Gesù come Figlio, Parola,
Sapienza, nuovo Mosè, il Servo, compimento del sacerdozio, della legge, del
tempio).
L’azione mediatrice di Cristo va allora letta nell’ambito dell’Alleanza e della
storia, l’azione salvifica è infatti storica e storicamente situata.
L’azione mediatrice di Cristo si realizza, in altre parole, in un agire, vivere,
morire concreti.
1.2. La figura della mediazione di Gesù nello schema delle tre
prerogative di profeta, re, sacerdote
Non si può partire da considerazioni sul fatto che Cristo è l’unto e che
nell’Antico Testamento vi è l’unzione sacerdotale, profetica regale, per
evidenziare il rapporto tra Cristo e queste tre figure (l’ipotesi sarebbe così:
Cristo è l’unto che pone la verità su tutte le precedenti unzioni. Ma non si
può).
D’altro canto è pur vero che la missione di Gesù compie le missioni
sacerdotali, profetiche e regali. Cfr. lettera agli Ebrei.
1.2.1. Gesù profeta, maestro, legge
Nei vangeli Gesù spesso si comporta come i profeti nel condannare l’ipocrisia
religiosa, contro le false interpretazioni dell’alleanza, le distorsioni della legge.
Gesù viene riconosciuto profeta (Mt 16,14; Gv 4,19; 7,40; Atti 3,22; 7,37), in
Mt 13, 57 Gesù applica a sé il detto che il profeta non è disprezzato se non
nella sua patria e in casa sua.
Ma certamente Gesù è profeta in modo nuovo ed è comunque al vertice
dell’istituzione profetica (Ebr 1,1-3).
In particolare Matteo mette in risalto il fatto che Gesù è il maestro, da cui la
qualifica magistrale.
Gesù chiama i discepoli, ma parla anche alle fole, si esprime con un
insegnamento nuovo dettato con autorità, è maestro universale ed unico.
Gesù è legge perché nella sua attività magisteriale interpreta la legge nella
logica di continuità e di rottura con l’Antico Testamento.
Gesù è maestro e ha la coscienza di esserlo, lui è la Parola, dunque il suo
insegnamento ha valore normativo ed universale.
Tale insegnamento vive di una attualizzazione incessante ad opera dei
discepoli grazie al dono dello Spirito e alla sia presenza in essi.
“L’universalità singolare e di diritto di Gesù-Figlio, come maestro-legge, viene
effettivamente universalizzata dalla presenza dello Spirito” (122).
Perciò l’azione dello Spirito universalizza l’avvenimento singolare di
Gesù-maestro, ma no nel senso che la legge dello Spirito supera quella di
Gesù (senso medievale condannato di una età dello Spirito superiore ed
ulteriore a quella del Figlio), non nel senso hegeliano, ma nel senso che lo
Spirito mette nel tempo continuamente in rapporto il credente con
Cristo-maestro, dato che lo Spirito consente la permanenza di una realtà
storica quale la chiesa.
Così la chiesa partecipa all’aspetto magisteriale della missione di Gesù, del
resto la chiesa è fatta e costituita da Cristo nello Spirito, da qui la sua
infallibilità-indefettibilità.
1.2.2. Gesù re, pastore, giudice “redentore”
Il riferimento alla qualifica regale è un luogo comune nel Nuovo Testamento
(Luca, Gv, Ebrei dove l’ingresso nel santuario è una intronizzazione.
C’è il riferimento al re israelitico che giudica, guida fa le leggi, ma che è
subordinato a Jahvè. Il re israelitico è mediatore della regalità di Dio.
In questo senso Gesù porta a verità il significato regale.
Nella fase pre-pasquale Gesù è il re servo, in essa vi è la dialettica
regalità-servizio, nella fase post-pasquale abbiamo il servo esaltato.
Entra in gioco il rapporto tra l’essere-figlio e l’essere-re.
Ma Gesù è il Figlio dunque è la verità dell’essere-figlio, che porta a verità le
figure del re israelitico quale guida, liberazione, legge, giudizio.
Nello Spirito il Cristo diviene legge e guida della chiesa, dunque la regalità del
Figlio è fondativa dell’esistenza della chiesa.
Il tema della regalità fu molto trattato nel Medioevo.,
L’unione ipostatica fonda la regalità assoluta di Gesù il quale è un re che ci
ha conquistati (acquistati a prezzo del suo sangue) e al quale siamo
sottomessi.
Pio XI nell’enciclica Quas Primas (1925) che tratta della regalità di Cristo la
spiegava con lo schema dei tre poteri: legislativo, esecutivo, giudiziario, pur
con un evidente limito metodologico che coglie il significato della regalità di
Gesù a partire dalla regalità umana.
La regalità di Cristo è funzionale alla salvezza soprannaturale degli uomini,
essa è però universale, e finisce per riguardare anche l’ambito naturale dato
che il Verbo è creatore.
Il potere di Cristo nell’ordine naturale va visto in riferimento alla salvezza
soprannaturale e definitiva, ciò vale anche per l’esercizio di tale potere da
parte della chiesa.
1.2.3. Gesù sacerdote unico della nuova alleanza (131)
E’ la linea della interpretazione sacrificale della morte di Gesù e del nuovo
culto che egli intende instaurare, il tema è soprattutto presente in Ebrei.
La novità e definitività del sacrificio rimanda alla novità e alla definitività del
sacerdozio di Cristo.
Ora la nuova alleanza è definitiva in quanto fondata su un sacerdozio e un
sacrificio definitivi.
Tutto questo risponde ad un piano divino e ad una sua risposta libera di
Cristo, l’eletto.
L’unicità del sacerdozio di Cristo si basa, ancora una volta, sull’unicità del suo
essere-Figlio.
La nuova alleanza costituisce poi tutto un popolo sacerdotale (1Pt 2,1-10; Ap
5).
Nella tradizione successiva il tema del sacerdozio di Cristo ha preso il
sopravvento rispetto a quelli del profeta e del re.
Lui è l’unico mediatore e l’unico sacerdote a motivo della sua umanità\divinità
per cui la mediazione sacerdotale si fonda sull’ontologia di Cristo, nella
unione ipostatica.
Gesù così conclude l’alleanza antica inverando le sue figure più significative,
quelle del re, del profeta, del sacerdote, che si realizzano così nel dono dello
Spirito Santo.
1.3. Figura di “mediazione” e figura di “sacramento” o di “simbolo”
(139)
Si tratta dell’interpretazione simbolico-sacramentale della realtà di Cristo.
Già Agostino interpreta Cristo come sacramento, cioè signum sacrum: Gesù
uomo-Dio è sacramento in quanto in lui si visibilizza la divinità.
1.3.1. Modelli di cristologia
cattolica (141)
sacramentale nella recente teologia
Lo stimolo nasce dall’esigenza di ricomprendere i sacramenti, lo stesso
Vaticano II parla della chiesa quale sacramento di salvezza.
SCHILLEBEECKX: Cristo è il sacramento primordiale in quanto esprime in sé la
duplice dimensione discendente\ascendente: l’amore di Dio per gli uomini e il
culto umano per Dio.
Gli atti di Cristo, atti personali del Figlio di Dio in forma umana sono causa di
grazia: i miracoli, la redenzione.
L’incontro umano con Gesù è il sacramento dell’incontro con Dio.
RAHNER : si parte dalle considerazioni sulla simbolicità dell’essere che si
esprime e si autorealizza così: ogni ente è simbolico, si realizza esprimendosi
nell’altro, ponendo l’altro.
Se l’ente si dà nel suo esprimersi, nel suo simbolizzarsi, si conosce l’ente nel
simbolo.
Così il Logos incarnato è il simbolo assoluto di Dio nel mondo e l’umanità di
Cristo è l’apparizione del Logos, suo simbolo reale e radicale, l’umanità del
Logos è l’estrinsecarsi di Dio.
BALTHASAR: Gesù è la forma oggettiva di rivelazione, egli è un unicum che
giustifica le cose che sono.
In queste prospettive la mediazione di Cristo fondata ipostaticamente diventa
il simbolizzarsi e il prendere forma del Figlio in Gesù.
1.4. Punti conclusivi
Gesù è il mediatore definitivo di alleanza. Ciò motiva la sua storicità.
In riferimento all’alleanza antica la mediazione di Gesù si concretizza
attraverso l’inveramento delle figure di profeta, re e sacerdote e si realizza
attraverso il dono dello Spirito Santo nella Pasqua.
La crisi circa la mediazione di Gesù è stata l’eresia ariana risolta con la
confessione dell’omousia che vita il pericolo di riduzionismi
cosmico-demiurgici della figura di Cristo-mediatore.
E’ nell’ontologia (vero Dio e vero uomo) di Gesù che si coglie la ragione
profonda del suo essere mediatore nel duplice senso, quello per cui Cristo è
mediatore in quanto uomo ipostaticamente unito al Figlio di Dio e quello che
Gesù è mediatore in quanto sacramento-simbolo della presenza del Figlio di
Dio salvatore (oggi più seguita e più biblica).
2. GESU’ DI NAZARETH, MEDIATORE PASQUALE (151)
Nella Pasqua Gesù realizza la sua missione di mediatore.
In passato l’attenzione era focalizzata sulla morte, sul sui valore salvifico letto
nei termini di soddisfazione, riscatto, sacrificio, merito, mancava la visione
unitaria a le da considerare anche il fatto della resurrezione.
Si pensava la redenzione come realizzata per la soddisfazione vicaria, ma va
rilevato che anche la Pasqua ha valenza soteriologica
2.1. il rapporto tra salvezza e morte di Gesù (153)
2.1.1. La morte salvifica di Gesù: sacrificio, redenzione, soddisfazione,
merito. Approccio tipologico (154)
La Scrittura afferma chiaramente che Cristo è morto per i nostri peccati, ha
dato la vita per noi, è la lettura soteriologica della sua morte.
La morte di Gesù ha una dimensione sacrificale che porta a compimento la
dimensione sacrificale del culto di Israele.
E’ possibile leggere il sacrificio di Gesù alla luce dei vari sacrifici del culto di
Israele: sacrificio di alleanza, di olocausto, pro peccato del Servo di Jahvè, di
espiazione (citazioni a pag. 155).
Nell’offerta di sé che Gesù realizza, si attua secondo il disegno di Dio il
significato profondo dell’istituzione sacrificale antica, per la quale, nella logica
anche dell’alleanza i sacrifici erano sacrifici di comunione.
L’offerta di Gesù è così il sacrificio della Nuova Alleanza, il gesto da cui
dipende e per cui si realizza la comunione definitiva dell’uomo con Dio per
iniziativa di Dio.
Non si deve allora pensare il sacrificio come la pena per il peccato, ma bensì,
più semplicemente, ad una purificazione: in quel sangue espiatorio abbiamo
la riconsacrazione a Dio del popolo, perciò la morte espiatrice di Cristo non
agisce nei termini di una soddisfazione penale, una punizione pagata al posto
degli altri.
LA PASSIONE-MORTE DI GESÙ COME VERITÀ DELLA REDENZIONE O DEL RISCATTO
E’ necessario applicare la figura biblica di salvezza-riscatto per comprendere
la vicenda di Gesù senza fare ipotesi non accettabili (tipo quella dei diritti del
diavolo).
Nell’esodo Jahvè appare come il redentore di Israele, il goel (Es 6, 6-7) in un
progetto che si compie in Gesù la cui morte è morte redentrice: Mt 20,25-28;
1Tm 2,6; Tt 2,14: “Ha dato se stesso per noi, per riscattarci da ogni iniquità e
formarsi un popolo che gli appartenga”; 1Pt 2,9 (popolo acquistato, il
riferimento è al sangue di Cristo); Ef1,14; Ap 5,9-10 (“hai riscattato per Dio
con il tuo sangue”).
Nella logica del goel torna più volte l’immagine dell’acquisto: in questo modo,
da acquistati, si entra ora nell’alleanza.
TRASCRIZIONE TEOLOGICO-SCOLASTICA DEL RAPPORTO TRA MORTE DI GESÙ E
SALVEZZA: LA SODDISFAZIONE E IL MERITO
E’ la messa in atto della tematica biblica della riparazione del peccato, ma
essa non mette sufficientemente a tema la libertà del dono di Cristo
(l’incarnazione come conseguenza del peccato, tale da costringere Cristo a
salvarsi) e neppure che comunque la passione-morte di Cristo fu ben di più di
quanto non fosse necessario (Tommaso), ma fu sovrabbondante.
In effetti la teologia post-tridentina si orienta per una interpretazione penale
della soddisfazione di Cristo: Cristo paga la pena del danno compiuto dagli
uomini (anche se non si accettavano, su questo punto, le esagerazioni
calviniste).
Per ciò che riguarda il merito, va detto che biblicamente c’è una correlazione
tra l’obbedienza del Figlio e la sua resurrezione-esaltazione-glorificazione, a
partire da Is 53, Fil 2: è la risposta del Padre al Figlio in una logica del dover
essere fondata sulla superiore libertà di Dio .
Nella prospettiva anselmiana la retribuzione non può riguardare il Figlio dato
che lui non ne ha bisogno, ma deve pur esserci, ecco dunque che riguarda
tutti gli uomini, così la soddisfazione di Cristo diventa soddisfazione per noi.
La teologia ha giocato con le categorie di merito e di soddisfazione che anche
il magistero ha fatto proprie: bolla Unigenitus Dei filius del 1343 di papa
Clemente VI che teorizza il thesaurus ecclesiae e le indulgenze sulla base
dell’infinità del merito di Cristo.
A Trento il merito di Cristo è funzionale a definire il primato di Cristo per la
nostra salvezza.
Soddisfazione o sacrificio ?
Si comprende la riduzione della categoria di sacrificio a quella di redenzione
nel caso di Cristo, ma biblicamente sacrificio dice molto di più, indica anche
riscatto, oppure acquisto, dal sangue del sacrificio scaturisce l’alleanza.
Così nell’unico e definitivo sacrificio di Cristo noi siamo stati riscattati,
essendo poi quello sacrificio di alleanza, siamo anche diventati popolo di Dio,
perdonati dal peccato (è anche sacrificio di espiazione).
Abbiamo così una tipologia interpretativa biblica di tipo culturale\rituale e una
scolastica di tipo giuridico.
Sono posizioni non sovrapponibili o riducibili una all’altra, ma è evidente che
prevale quello biblico.
Nei due tipi resta comunque il dato della valenza salvifica della morte di
Cristo, tale dimensione presenta due poli, l’uomo salvato e Dio che salva.
Nel primo caso la morte di Cristo che salva realizza ciò per sostituzione o per
solidarietà?
Il servo di Jahvè non si pone nel quadro di una vicarietà sostitutiva, quanto in
quello di una rappresentanza solidale, da unico agisce a favore di tutti
(personalità corporativa), non si tratta di sostituire gli altri, ma di includerli
nella propria azione.
La morte di Cristo è l’espressione massima della solidarietà di Cristo con il
mondo peccatore.
La linea della sostituzione vicaria è improponibile se non nell’ambito di una
dimensione più fondamentale, quella della solidarietà.
Questa rappresentatività deriva forza anche dalla singolarità di Gesù in
quanto egli è centrale nel piano di Dio ed è quindi universale nella storia,
singolare ed universale, così è Gesù, e così è la sua morte redentrice.
Accanto alla polarità umana vi è quella teocentrica, del teocentrismo di Gesù
che coincide con il suo mistero di Figlio, in questo caso Gesù in quanto Dio
offre a Dio un sacrificio, ma questo non ha senso. Si pensava allora al
sacrificio fatto da Gesù in quanto uomo, ma qui si rischia di cadere nel
nestorianesimo che nega una reale unità interiore di Gesù.
In realtà più che di Dio e dell’uomo in Cristo si deve più semplicemente
parlare di Gesù.
L’ESIGENZA DI UNA VERIFICA E DI UNA TEMATIZZAZIONE CRITICA DEL RAPPORTO TRA
“TIPOLOGIA DELLA MORTE SALVIFICA” E “MORTE DI GESÙ” (178)
La cristologia non deve parlare di una morte salvifica, ma della morte di Gesù
quale morte di salvezza, una morte singolare, senza analogie (Balthasar) ma
anche un caso particolare di morte del giusto che diventa modello etico.
La particolarità della morte di Gesù deriva dal suo essere Dio, dal chiamare il
Padre Abbà e la singolarità della cosa si coglierà poi a partire dalla
resurrezione.
LA QUESTIONE FONDAMENTALE: PERCHÉ UN RAPPORTO TRA MORTE DI GESÙ E
SALVEZZA; ANZI TRA QUELLA MORTE E LA SALVEZZA (186)
Biblicamente la cosa è affermata con grande rilevanza.
Si cerca di spiegare perché la solidarietà si debba esprimere nella morte.
La logica di Dio è quella di agire nella debolezza e nell’umiliazione, è lì che
Dio esprime, con la resurrezione, la sua potenza gloriosa.
A monte di questa solidarietà sta una duplice consegna divina che è atto
d’amore: il Padre consegna il Figlio e il Figlio si consegna al Padre (Gal 2,20;
Rm 3, 32; 5,8; Gv 3,16).
Lo sforzo di Anselmo è quello ci cogliere una ratio necessaria alla morte
dell’uomo-Dio.
Essa è il segno massimo di libertà, è l’abbassamento più totale condiviso, dà
senso al morire dell’uomo che è un con-morire con Cristo, è la conseguenza
dell’essere Messia del Cristo.
Ma il tema della morte va sempre letto nell’ottica della resurrezione accaduta
dopo, che esprime bene il tema della liberazione.
DESCENSUS AD INFEROS E SALVEZZA
(193)
Atti 2,24.27; Rm 10,7; Ef 4, 8-9, 1Pt 3,18; 4,6.
Il tema della discesa agli inferi afferma la realtà della morte di Gesù, dunque
è entrato nel Regno dei morti.
La sua morte ha dimensioni salvifiche universali.
E’ tema che collega bene il fatto della morte con l’effetto della salvezza.
Per Balthasar il descensus sta piuttosto ad indicare il massimo della kenosi,
negli inferi vi è il massimo della distanza dal Padre.
Qui Gesù trasforma la morte degli uomini da un con-morire dei peccatori ad
un con-morire con Cristo che porta salvezza.
ESALTAZIONE DI GESÙ E SALVEZZA
(195)
Per esaltazione si intende l’insieme di morte, resurrezione, ascensione,
pentecoste, parusia, così Gesù di Nazaret, il crocifisso è fatto Cristo e
Signore ed effonde lo Spirito.
Tommaso parla della resurrezione e dell’ascensione come causa di salvezza,
non nel senso del merito, ma quale causa efficiente strumentale.
La resurrezione di Cristo è modello esemplare della nostra resurrezione.
Anche l’ascensione per Tommaso sarebbe causa efficiente.
Questa sensibilità prepone per una visione unitaria del mistero pasquale.
LA PASQUA DI GESÙ COME UNITÀ SALVIFICA
(202)
In vista della salvezza degli uomini la morte e la resurrezione vanno visti in
unità, non separati.
La morte di Gesù ha valore salvifico per la sua singolarità per la singolarità di
quella morte che è un morire in solidarietà con i peccatori, inoltre è una morte
singolare perché sfocia poi nella resurrezione, la quale sarà poi condivisa con
noi, e così sarà salvezza.
In effetti però la teologia occidentale ha messo in rilievo solo il rapporto della
morte di Gesù e la nostra salvezza, anche se con l’eccezione di Tommaso.
PUNTI CONCLUSIVI
Vi è un rapporto fondamentale tra salvezza dell’alleanza e pasqua di Gesù.
Il momento pasquale di Gesù è il momento operativo per eccellenza della
salvezza, esso dice la verità sull’esistenza pre-pasquale e la conferma nella
sua validità normativa per il credente.
Nella Pasqua si manifesta l’unicità del rapporto filiale di Gesù con Dio, ma
anche la sua solidarietà con l’uomo.
L’effetto pasquale è il dono dello Spirito che significa remissione dei peccato,
nuova alleanza e nuova creazione.
IMPLICAZIONI CRISTOLOGICHE DELLA MEDIAZIONE PASQUALE DI
GESU’ (211)
GESÙ DI NAZARET FIGLIO UNICO DI DIO
I riferimenti biblici vanno ai testi del battesimo di Gesù, della trasfigurazione,
della parabola dei vignaioli omicidi (Mc 12,6) dove si parla del figlio prediletto
e a quelli dove si parla del Figlio suo (Gal 4,4), proprio (Rm 8,32) e
unigenito (Gv3,16 e 1Gv 4, 9-10).
C’è un continuo riferimento sia al sacrificio di Isacco che ai testi del servo di
Jahvè, come anche alla passione stessa di Gesù.
Ciò significa che la, passione ci definisce i contorni del Figlio di Dio, o meglio
la pasqua che comprende la passione-morte-resurrezione ma anche
l’ascensione-esaltazione e il dono dello Spirito.
E’ affermata l’assoluta originalità dell’essere-figlio del Figlio.
I
temi della divinità (Nicea-Costantinopoli) e dell’unità uomo-Dio
(Calcedonia) furono oggetto delle riflessioni dei padri, unità ma nella
distinzione.
Il soggetto è la persona del Figlio.
Nella teologia scolastica e manualistica si intendeva l’incarnazione come
l’assunzione della natura umana di una natura divina, a questo punto era
indifferente quale delle tre natura si sia incarnata, si diceva però che vi era
una convenienza per l’incarnazione del Figlio: sono discussioni astratte
(come quella della possibile assunzione di una natura non umana de potentia
Dei absoluta), ciò che conta è il fatto storico di quella incarnazione.
L’uomo-Dio Gesù di Nazaret è l’Unigenito dal Padre, della stessa sostanza,
ciò per la communicatio idiomatum, ma oggi la teologia cerca soluzioni
diverse cercando una cristologia senza la dualità delle due nature, per
esempio recuperando la strada biblica della kenosi.
Tutto Gesù (umano e divino) ha un rapporto filiale con il Padre, da qui
bisogna partire. (tale discorso sarà ripreso più avanti)
SCIENZA E COSCIENZA DI GESÙ
(220)
Il Nuovo Testamento presenta la coscienza filiale di Gesù ed anche la
coscienza della sua missione fino alla morte.
La scolastica pensava ad un triplice livello di conoscenza di Gesù, uno
beatifico (scientia visionis) uno infuso (scientia infusa), un acquisito,
sperimentale (scientia acquisita).
Il terzo livello faceva problema con soluzioni anche di spinta monofisita
finendo per ridurre l’umanità di Gesù.
Tommaso evita il pericolo anche se si intese sempre la conoscenza umana
di Gesù almeno superiore per eccellenza a quella degli uomini.
Comunque Gesù, uomo vero, ha acquistato conoscenza, vi è stato un
cammino umano che coesisteva però con la scienza infusa.
Di fatto Gesù conosceva le cose ben più di un uomo da qui il valore delle sue
previsioni, dei suoi giudizi, valore che non ammette possibilità di errore,
quindi Cristo aveva già acquisito (scienza infusa) ciò che andava acquisendo
(scienza acquisita).
Ma la ragione ultima della verità del suo insegnamento sta nella visione
beatifica che indica il suo rapporto di comunione con il Padre.
C’è però evidente un problema di composizione tra le tre scienze la cui
esistenza viene però ribadita nel documento del S. Uffizio del 1918 (DS
3645-3647).
Si è cercato di parlare della visione beatifica come di una visio immedita,
della scienza infusa come di una illuminazione profetica della scienza
acquisita da mantenere nel campo delle conoscenza umane.
Con queste riduzioni ci si è un po’ avvicinati al Cristo secondo la carne che fa
una esperienza umana pur vedendo di essere il Figlio di Dio.
Cristo ha come uomo la coscienza di essere il Figlio di Dio, ma in una forma
chiara solo grazie alla visione beatifica.
Gesù è la unità e la totalità della rivelazione, ora, per salvare l’umanità si
deve concepire la possibilità di un suo errore?
Ma in Cristo vi è la verità sotto forma di kenosi (il Cristo pre-pasquale) e sotto
forma di esaltazione (il Cristo post-pasquale).
“Così la maturità umana del Gesù pre-pasquale comporterebbe una
maturazione reale della coscienza che egli ha di sé e della sua missione: più
completa e profonda di quella che, per esempio, egli avesse nella prima
fanciullezza e nell’adolescenza. Senza però mai incontrare la contraddizione:
e in tensione reale verso il compimento e la verità finale della esaltazione”
(231).
Il problema della visione beatifica si risolve in quello della
intuizione-coscienza del suo essere Figlio di Dio.
Ridimensionata così la visione beatifica si può anche parlare di una fede in
Cristo come intuizione del senso del piano divino e una speranza da lui
vissuta quale abbandono nelle mani del Padre.
Recuperando questi dati si fa una cristologia di Gesù, di quel preciso Gesù.
LA LIBERTÀ DI GESÙ
(233)
Il Nuovo Testamento ci presenta un Gesù libero che è obbediente e segue la
sua missione affidatagli: vince le tentazioni, si sottrae alla facile popolarità.
Nell’epoca patristica il tema della libertà è quello della conciliazione tra la
libertà umana di Gesù e il suo essere Figlio, negando la peccabilità e
attaccando il monotelismo con Massimo il confessore e il concilio di
Costantinopoli III.
Era necessario salvare l’integrità dell’umanità di Gesù.
Per gli scotisti Cristo poteva peccare, ma non peccò per l’azioni di grazie
efficaci.
Altro problema è il rapporto tra libertà e visione beatifica.
In Cristo ci appare la libertà umana autentica, ne è come l’archetipo, la libertà
di fare il bene, in lui si esprime la verità dell’umano.
LA CARNE VERA DI GESÙ
(238)
Carne intesa qui come corporeità.
Ma carne indica anche la fragilità della condizione umana e segnala il
dramma vero della passione.
Da qui l’attacco ai doceti e agli gnostici, ma anche quello contro chi limitava la
dimensione umana come Apollinare.
A Calcedonia si parlerà di consustanzialità con noi secondo la carne.
Così Gesù è vero uomo e uomo perfetto, in tal modo salva l’uomo
(prospettiva soteriologica).
CONCLUSIONE. UMANITÀ VERA E SINGOLARE DI GESÙ (245)
Gesù è l’umano vero e singolare, presente in una situazione esistentiva
unica, lo afferma il Nuovo Testamento e tutta la tradizione successiva.
La misura di questa umanità viene espressa nella figura del giusto e del
servo di Jahvè.
E però evidente che in Cristo vi è una eccedenza che è il suo rapporto con
Dio., l’umano di Gesù deve esprimere un rapporto unico con Dio.
Gesù-vero-uomo è consustanziale a noi a livello etnico-culturale-storico.
Gesù è così consustanziale con i peccatori, ma senza peccato.
In questa situazione vive la sua rappresentatività solidale redentiva.
Dire Gesù non è dire l’umano perché la sua singolarità storica presenta una
eccedenza che consiste nell’unione ipostatica.
Ma dire Gesù non è uscire dall’umano, bensì indicare l’umano realizzato,
aperto a Dio, obbediente a lui.
Nello studiare l’umano di Gesù non si può però mai dimenticare il divino,
l’umano conduce verso questo suo mistero singolare.
Sezione terza IL MISTERO DELL’UNITA’ DI CRISTO: QUESTIONE
RADICALE DELLA CRISTOLOGIA (253)
La singolarità dell’uomo Gesù si esprime nel suo rapporto personale e
particola, singolare, con il Padre, un rapporto che lo pone sulla sua stessa
linea.
Perciò l’esserci di Gesù Figlio unico di Dio non si esaurisce nello spazio
storico tra la concezione e la resurrezione.
La sua storicità è il luogo definitivo ed insuperabile del manifestarsi del Dio
santo, in lui opera lo Spirito Santo.
L’unità Dio-uomo fu cointestata da Apollinare da qui la necessità della
teologia di mantenere il dato dell’umanità di Gesù e della differenza tra
umano e divino che resta pur nella loro unità.
Si elaborò così il concetto di natura (diverse) e ipostasi (unica) nel Figlio e a
Calcedonia e poi al Costantinopoli III si chiarì che il partecipare del divino non
annulla né assorbe l’umano data la distinzione.
L’unità nel Figlio ci dice della partecipazione del Dio trascendente all’umano e
rappresenta una rivoluzione per la cultura ellenistica.
Essa va descritta con la precisazione che vi è una differenza irriducibile tra
l’umano e il divino, in Gesù l’unica persona è quella del Figlio.
Nella riflessione calcedonese e post-calcedonese ormai la teologia ha preso il
posto della economia.
La linea scotista (260ss) non accetta nell’esistenza una distinzione reale tra
essenza ed esistenza, perciò la natura umana di Cristo è un esistente umano
distinto dal Verbo, ma non indipendente dal Verbo e dunque non persona in
quanto ordinato al Verbo, perciò l’uomo Cristo Gesù non è persona, cosicché
la persona è il Verbo incarnato, ma resta la perfezione dell’esistente umano.
La linea tomista distingue tra essenza ed esistenza per cui si è persona
nell’esistenza ed è l’esistenza che fa sussistere la persona.
Perciò la natura umana di Cristo (essenza) non è persona in quanto non è in
atto in modo tale da essere esistenza, non sussiste.
E’ invece il Verbo ad essere in atto-esistente, perciò la persona in Cristo
Gesù è il Verbo che da unità della natura umana e divina.
Ma questi e il Billot, il tomismo avrà anche altre interpretazioni.
Gaetano: l’uomo Gesù non ha sussistenza propria, dunque non è persona, è
solo natura umana la cui sussistenza è quella del Verbo.