CRISTOLOGIA di Giovanni Moioli INTRODUZIONE DI F.G. BRAMBILLA 1. E’ ormai superato il genere manualistico per il carattere controversistico del suo procedimento metodico. 2. Per il suo riferimento all’impostazione dualistica che giustappone naturale e soprannaturale, ragione e fede che finisce per ridurre l’apporto del sapere critico ai preambula fidei (ambito della ragione) e la figura della fede ad un biblicismo retorico. 3. Lo sforzo deve essere invece quello “di rispondere nella fede e secondo la fede alla domanda sulla vicenda e sull’identità di Gesù in modo autentico e interrogato criticamente” (12). 4. La proposta di Moioli è quella di proporre una cristologia della singolarità di Gesù, dove la singolarità consente di legittimare il sapere della fede di fronte alle leggi antropologiche universali del “sapere” la verità. La singolarità dell’evento di Gesù è la ragione della sua universale validità, la sua singolare vicenda ci dice infatti la verità su Dio. Singolarità di Gesù significa storicità singolare e assoluta, dove storicità ci rimanda all’evento Cristo nella sua cronologica vita terrena e assoluta indica la normatività di questa vicenda per tutta la storia degli uomini. Dunque l’evento-Cristo è storico e assoluto insieme. 5. Il cristocentrismo della teologia moderna consente di superare la dicotomia passata tra Gesù e il Cristo, consente di superare le prospettive amartiocentriche. INTRODUZIONE DI G. MOIOLI 1. La proposta cristologica oggi va inserita all’interno del superamento della cristologia del manuale. 2. Si deve rispondere all’interrogativo critico di marca illuministica. Critica al manuale: 1. La critica all’insufficienza del manuale nel rendere il senso di Cristo nel piano di Dio. Ciò si deve fare in base alle conquiste teologiche moderne come l’approdo cristocentrico della teologia della predestinazione (predestinazione di Cristo e predestinazione degli uomini in Cristo), come il superamento radicale della prospettiva anselmiano-tomista, la riflessione critica sul soprannaturale (primato assoluto di Cristo, non esiste un naturale non cristico), Cristo come l’orizzonte completo di comprensione dell’intera rivelazione 2. La mancata elaborazione dei rapporti tra cristologia e soteriologia. Cristo è invece salvatore assoluto e storico non legato al peccato del mondo. La prospettiva del manuale si incentrava sul tema dell’unione ipostatica facendo di Cristo una continua eccezione dell’umano, un criptomonofisismo. Il formalismo della definizione va invece legato alla storia, l’unione ipostatica è Gesù di Nazaret, va sempre recuperata la storicità di Gesù. La cristologia e la spinta critica illuministica A partire dal problema di Lessing ripreso anche da Kant, l’illuminismo tenta di dissociare il Gesù della storia dal Cristo della fede. Il Gesù storico non può avere alcuna pretesa universale essendo legato alla storia. L’universalità di Cristo viene così recuperata a scapito della storia e diventa coscienza morale (Kant), religione universale (Lessing), sentimento religioso (Schliermacher) proiezione dell’umano (Feuerbach, Strauss). Anche il tentativo di Bultmann è però segnato dalla svalutazione del Gesù storico. Oggi si opera per evitare la dissociazione tra il Gesù della storia e il Cristo della fede. E’ necessario così trovare la strada per evidenziare come il fatto concreto di Gesù di Nazaret abbia una dimensione assoluta e primordiale. Altra critica veniva fatta dall’illuminismo alla ellenizzazione delle formule cristologiche, ad essa si risponde con il discernimento critico fatto dai credenti nell’impatto con la cultura greca. Ma la svolta antropologica impone una lettura una cristologia dal basso comprensibile e la trasmissione delle formule cristologiche dei grandi concili come Calcedonia in termini comprensibili all’uomo d’oggi, ma una cristologia dal basso non dice tutto di Gesù. IL CRISTOCENTRISMO (57) Non ha senso una contrapposizione cristocentrismo/teocentrismo “se teocentrismo qualifica un progetto o une esperienza di superamento di Cristo, quasi fosse una struttura intermedia, ciò non significherebbe teocentrismo cristiano. L’incontro con Cristo non è dunque né una fase intermedia da superare vitalmente; né il sostitutivo vissuto dell’incontro con la Trinità. E’ la struttura stessa dell’incontro cristiano con Dio che si qualifica cristologicamente” (58). CRISTOCENTRISMO NELLA TEOLOGIA : LINEE GENERALI DI STORIA DEL PROBLEMA (59) Vi è la posizione di Anselmo sulla linea agostiniana, poi rilanciata da Ludovico Molina: Cristo è venuto per salvarci. E’ un modello già contestato da Ruperto di Deutz e da Onorio di Autun. Oggi è superato con la riscoperta della predestinazione di Cristo, del suo ruolo nella creazione, del fatto che con Cristo tutto comincia e in Cristo tutto si tiene. Anche la teologia protestante con Barth mette in risalto la posteriorità del peccato rispetto a Cristo. Cristocentrismo “obiettivo”: costituisce nel cogliere la centralità di Cristo nel fondare in lui la comprensione di tutta la realtà. E’ una lettura che Moioli segnala propria di Massimo il Confessore, la teologia medioevale (Roberto Grossatesta), quella dell’Umanesimo (Pico e Cusano) dove però il rischio restava quella di dissolvere Cristo dalla sua concretezza e singolarità all’idea-sigla del reale. Il recupero del tema della redenzione in Molina si motiva anche come reazione a ciò., non un mondo che vede in Cristo il suo naturale compimento, ma un mondo da redimere. Su questa linea di cristocentrismo obiettivo si collocano anche le riduzioni filosofiche cristiane, da quella di Kant (Cristo è la coscienza morale) a quella di Hegel (incarnazione come processo dell’idea) Teologia cristocentrica oggi: modelli il Christus totus è l’unità obiettiva del reale, il primo intelligibile concreto, l’oggetto adeguato della teologia. THEILLARD DE CHARDIN: Cristo come centro del processo evolutivo, Cristo che salva dal di dentro, trasformando dall’interno. VON BALTHASAR : nell’abisso dell’amore kenotico si deve trovare la giustificazione sia della creazione che del peccato, Cristo è l’eidos dell’uomo, l’universale concreto. RAHNER: nella sua antropologia di cui la cristologia è inizio e fine, l’uomo si comprende comprendendo la dimensione cristica della sua esistenza. BARTH: vi è una tipica concentrazione cristologica in Barth, Cristo è la parola di Dio, dunque la prospettiva del discorso teologico non può che essere cristologica. CULMANN: riporta alla ribalta la centralità di Cristo nella storia, egli è il kairòs definitivo della salvezza. PANNENBERG: il personaggio storico Gesù di Nazaret risorto è la manifestazione prolettica (anticipatrice) della fine. MERSCH: Evidentemente la centralità di Cristo è fondamentale, ma il cristocentrismo obiettivo deve risolversi nel discorso sulla storicità singolare, efapax, di Cristo, cioè nel fatto che la sua individualità umana storica acquista valore universale, definitivo, per l’uomo-nella-storia. LA CRISTOLOGIA IL PROBLEMA CRITICO DI PARTENZA: LA LEGITTIMITA’ TEOLOGICA DI UNA CRISTOLOGIA DI GESU’ Cristologia di Gesù significa porre l’attenzione al Gesù storico per giustificarne l’assolutezza, l’universalità, la singolarità di quell’avvenimento. CAPITOLO 1. L’EMERGENZA DEL PROBLEMA NELLA CULTURA E NELLE TEOLOGIE ILLUMINISTICHE E POST-ILLUMINISTICHE A Kant non interessa la figura storica di Gesù, ma solo una cristologia che si riduce a descrivere l’ideale morale dell’uomo autonomo e per la quale non conta il come la cosa possa essersi realizzata, dato che l’uomo non ha bisogno di esempi, perché gli basta la ragione. Così anche per Lessing verità contingenti di tipo storico non possono diventare prove di verità di tipo razionale. Contro ciò Hegel che rilancia il tema dell’unicità dell’individuo soggetto unitario Gesù che non è persona storica del passato e Dio è unità di individuale e divino. Per Hegel l’unità del reale è rappresentata (solo rappresentata) nel Cristo storico, a scapito però dell’assolutezza di Cristo. Contro Lessing Kierkegaard sposta la questione perché non si tratta di comprendere come una verità storica e contingente possa diventare verità eterna, si tratta invece della fede, del rapporto esistenziale personale che il singolo instaura con Cristo in una situazione che è sempre contemporanea. Sarà necessario superare del tutto le posizioni bultmaniane, per recuperare il dato della storia, la singolarità dell’avvenimento Gesù e il suo valore rivelativo. Così Gogarten, Pannenberg, Barth, Culmann, Balthasar (Cristo è l’universale in re, nella storia), Rahner. Il rapporto tra Gesù, fede e rivelazione cristiana è strutturale e ruota attorno al tema della singolarità di Gesù e sulla sua storicità singolare, con l’avvertenza che: 1. Cristo non è semplicemente una figura storica di particolare interesse 2. Non è solo portatore di una assolutezza generale di contenuti. 3. Non è solo l’assoluto semplicemente divino. Non si può di fatto staccare il discorso sull’universale e sul normativo da quello su Gesù, così la cristologia non può che essere cristologia di Gesù (contro Bultmann), Gesù è l’universale del cristianesimo, si deve affermare il carattere assoluto dell’avvenimento-Gesù. Questa storicità singolare e quel carattere assoluto appartengono alla fede cristiana come ora vediamo. CAPITOLO 2. RIPRESA TEOLOGICA DEL PROBLEMA (93) 2.1. Linee di teologia biblica La consapevolezza dell’assolutezza del cristianesimo nel Nuovo Testamento è fuori discussione. A) Vi è la consapevolezza della definitività-ultimità di Gesù rispetto alla storia salvifica che lo precede, compimento della legge, dei profeti, (prospettiva di Matteo), rapporto con Mosè Elia, il Battista. I gesto di Gesù sono degli efapax compiuti una volta per tutti. B) Il tempo attuale è il tempo del dono dello Spirito (Luca, Giovanni) che è Spirito di Cristo donato da Cristo risorto. Atti 2; Gv 14-16. Paolo: noi siamo negli ultimi tempi (1Cor 10, 11), Cristo è l’ultimo Adamo (1Cor 15) Figlio e pienezza dei tempi (Gal 4,4). C) Nell’Apocalisse Cristo ha in mano le redini della storia. D) Il motivo dell’unicità di Cristo sta nel suo singolare rapporto con il Padre, manifestatosi soprattutto nella resurrezione. E) L’avvenimento di Gesù è unico, per affermare ciò non occorre svalutare il tempo successivo, quello della chiesa, al contrario, in riferimento al dono dello Spirito Santo ecco che il tempo attuale è strettamente legato al tempo ultimativo di Gesù. 2.2. Indicazioni sulla tradizione cristiana post-biblica Simbolo di Costantinopoli; il cui regno non avrò fine: è la definitività dell’economia di Cristo. Cristo è la pienezza della rivelazione (DV 2), l’economia cristiana non passerà mai, non si devono aspettare altre rivelazioni (DV 4). Il rapporto tra l’unicità di Gesù e il tema della circolarità indefinita fu già di Origene, per affermare l’irriducibilità di Dio al mondo si espresse il concilio Vaticano I. Si condannano quelle teologie trinitarie del XII-XIII secolo che pensavano ad una età dello Spirito dopo l’età del Figlio. Il non superamento di Cristo viene letto dai protestanti nei termini di una revelatio crucis e della sola Scriptura. Il mantenimento della Tradizione nella chiesa di Roma significa non certo superamento, ma solo diversa interpretazione della definitività di Cristo. Viene poi la contestazione illuministica e l’abbandono del riferimento storico in Loisy e Bultmann, con la risposta del magistero che afferma inscindibili il Gesù della storia e il Cristo della fede. La storia va intesa come un processo verso un compimento in un ermeneutica oggettiva degli avvenimenti. E’ la verità come storia è Gesù e “l’ermeneutica obiettiva della storia non è data dalla totalità futura, ma dalla singolarità avvenuta di Gesù di Nazareth” (102), in lui vi è la verità che è il mistero stesso di Dio. Il sapere della fede è così riferito all’avvenimento definitivo di rivelazione che è Gesù. E così la cristologia non può che essere cristologia di Gesù. L’ORIZZONTE SOTERIOLOGICO DELLA CRISTOLOGIA DI GESU’ Dal discorso soteriologico alla descrizione cristologica saltando la dicotomia manualistica tra cristologia e soteriologia. 1. GESÙ FIGURA DEFINITIVA E MEDIATORE DI SALVEZZA 1.1. Gesù come figura storica e definitiva di mediatore di salvezza (109) 1.1.1. Linee di teologia biblica (109) Sono rari ma significativi i testi nei quali si parla di Cristo mediatore di salvezza, soprattutto 4: 1Tm 2,5; Ebr 8,6; 9,15; 12,24. Ma un po’ tutta la lettera agli ebrei gioca sul rapporto alleanza-mediazione che si compie ed esaurisce in Gesù. “Nel piano di Dio Gesù è visto e voluto come avente un oggettivo riferimento al mondo ed alla sua salvezza” (109). Sono assenti nell’Antico Testamento prospettive mediatrici di tipo cosmico-salvifico-demiurgico tra Dio e il creato. E’ Dio stesso che si offre alla comunione e i mediatori che Dio si sceglie e di cui Dio si serve sono sempre uomini. Essi svolgono una funzione di intercessione presso Dio a favore del popolo, sono p. es. Abramo, Mosè, il Servo isaiano, il Messia. Sono mediatori umani i sacerdoti, i profeti e i re, ma anche l’angelo, lo spirito, la sapienza, la legge. Gesù porta tutto a compimento, per cui queste figura perdono, dopo di lui, la loro funzione che è esaurita. Vi è un rapporto di mediazione tra Gesù e il Regno: il Regno si instaura con Gesù che compie i segni del Regno (miracoli, perdono dei peccati, resurrezioni...), decidersi per Gesù è decidersi per il Regno. Il fatto che Gesù sia il mediatore definitivo dell’alleanza implica l’Antico Testamento e la creazione non possano essere affermati senza il riferimento a lui, del resto Dio crea per l’alleanza, si parla di alleanza creatrice all’interno della quale si collocano i vari momenti di alleanza fino a Gesù che è nuova ed eterna alleanza. Il ruolo di Cristo nella creazione non si può confondere con concezioni cosmiche, cosmogoniche, demiurgiche, in quanto è in Gesù agiscono prerogative divine che vengono dal Padre. 1.1.2. Indicazioni sulla tradizione cristiana post-biblica (113) Il riferimento è alla questione ariana e alle vicende nicena e post-nicena. Ario elabora proprio una visione mediatrice del Logos che preserva la trascendenza divina nel duplice senso della creazione e dell’incarnazione nelle quali entra in campo il Logos che non è Dio. A Nicea si mantiene il dato della mediazione, ma aggiunta al tema della omousia con il preciso intento di evitare tutte le figure cosmogoniche, cosmiche o demiurgiche. Per gli antiocheni e Agostino la mediazione avviene in forza dell’umanità di Gesù, per Cirillo la mediazione è opera del Verbo incarnato che è uno e non si può dividere. Ci si orienta così verso una ontologia dell’unità di Cristo che, nella teologia occidentale, porta con sé il rischio di una mancanza del riferimento storico e del carattere storico dell’unico mediatore. Su questa linea ontologica diventa problematica una fondazione trinitaria della mediazione di Gesù, qui infatti egli è il Figlio incarnato, ma manca il riferimento al suo rapporto con il Padre e con lo Spirito Santo, riferimento che sarebbe più chiaro con il recuperare riferimenti economico-biblici che meglio metterebbero in rilievo l’essere mediatore di Gesù (Gesù come Figlio, Parola, Sapienza, nuovo Mosè, il Servo, compimento del sacerdozio, della legge, del tempio). L’azione mediatrice di Cristo va allora letta nell’ambito dell’Alleanza e della storia, l’azione salvifica è infatti storica e storicamente situata. L’azione mediatrice di Cristo si realizza, in altre parole, in un agire, vivere, morire concreti. 1.2. La figura della mediazione di Gesù nello schema delle tre prerogative di profeta, re, sacerdote Non si può partire da considerazioni sul fatto che Cristo è l’unto e che nell’Antico Testamento vi è l’unzione sacerdotale, profetica regale, per evidenziare il rapporto tra Cristo e queste tre figure (l’ipotesi sarebbe così: Cristo è l’unto che pone la verità su tutte le precedenti unzioni. Ma non si può). D’altro canto è pur vero che la missione di Gesù compie le missioni sacerdotali, profetiche e regali. Cfr. lettera agli Ebrei. 1.2.1. Gesù profeta, maestro, legge Nei vangeli Gesù spesso si comporta come i profeti nel condannare l’ipocrisia religiosa, contro le false interpretazioni dell’alleanza, le distorsioni della legge. Gesù viene riconosciuto profeta (Mt 16,14; Gv 4,19; 7,40; Atti 3,22; 7,37), in Mt 13, 57 Gesù applica a sé il detto che il profeta non è disprezzato se non nella sua patria e in casa sua. Ma certamente Gesù è profeta in modo nuovo ed è comunque al vertice dell’istituzione profetica (Ebr 1,1-3). In particolare Matteo mette in risalto il fatto che Gesù è il maestro, da cui la qualifica magistrale. Gesù chiama i discepoli, ma parla anche alle fole, si esprime con un insegnamento nuovo dettato con autorità, è maestro universale ed unico. Gesù è legge perché nella sua attività magisteriale interpreta la legge nella logica di continuità e di rottura con l’Antico Testamento. Gesù è maestro e ha la coscienza di esserlo, lui è la Parola, dunque il suo insegnamento ha valore normativo ed universale. Tale insegnamento vive di una attualizzazione incessante ad opera dei discepoli grazie al dono dello Spirito e alla sia presenza in essi. “L’universalità singolare e di diritto di Gesù-Figlio, come maestro-legge, viene effettivamente universalizzata dalla presenza dello Spirito” (122). Perciò l’azione dello Spirito universalizza l’avvenimento singolare di Gesù-maestro, ma no nel senso che la legge dello Spirito supera quella di Gesù (senso medievale condannato di una età dello Spirito superiore ed ulteriore a quella del Figlio), non nel senso hegeliano, ma nel senso che lo Spirito mette nel tempo continuamente in rapporto il credente con Cristo-maestro, dato che lo Spirito consente la permanenza di una realtà storica quale la chiesa. Così la chiesa partecipa all’aspetto magisteriale della missione di Gesù, del resto la chiesa è fatta e costituita da Cristo nello Spirito, da qui la sua infallibilità-indefettibilità. 1.2.2. Gesù re, pastore, giudice “redentore” Il riferimento alla qualifica regale è un luogo comune nel Nuovo Testamento (Luca, Gv, Ebrei dove l’ingresso nel santuario è una intronizzazione. C’è il riferimento al re israelitico che giudica, guida fa le leggi, ma che è subordinato a Jahvè. Il re israelitico è mediatore della regalità di Dio. In questo senso Gesù porta a verità il significato regale. Nella fase pre-pasquale Gesù è il re servo, in essa vi è la dialettica regalità-servizio, nella fase post-pasquale abbiamo il servo esaltato. Entra in gioco il rapporto tra l’essere-figlio e l’essere-re. Ma Gesù è il Figlio dunque è la verità dell’essere-figlio, che porta a verità le figure del re israelitico quale guida, liberazione, legge, giudizio. Nello Spirito il Cristo diviene legge e guida della chiesa, dunque la regalità del Figlio è fondativa dell’esistenza della chiesa. Il tema della regalità fu molto trattato nel Medioevo., L’unione ipostatica fonda la regalità assoluta di Gesù il quale è un re che ci ha conquistati (acquistati a prezzo del suo sangue) e al quale siamo sottomessi. Pio XI nell’enciclica Quas Primas (1925) che tratta della regalità di Cristo la spiegava con lo schema dei tre poteri: legislativo, esecutivo, giudiziario, pur con un evidente limito metodologico che coglie il significato della regalità di Gesù a partire dalla regalità umana. La regalità di Cristo è funzionale alla salvezza soprannaturale degli uomini, essa è però universale, e finisce per riguardare anche l’ambito naturale dato che il Verbo è creatore. Il potere di Cristo nell’ordine naturale va visto in riferimento alla salvezza soprannaturale e definitiva, ciò vale anche per l’esercizio di tale potere da parte della chiesa. 1.2.3. Gesù sacerdote unico della nuova alleanza (131) E’ la linea della interpretazione sacrificale della morte di Gesù e del nuovo culto che egli intende instaurare, il tema è soprattutto presente in Ebrei. La novità e definitività del sacrificio rimanda alla novità e alla definitività del sacerdozio di Cristo. Ora la nuova alleanza è definitiva in quanto fondata su un sacerdozio e un sacrificio definitivi. Tutto questo risponde ad un piano divino e ad una sua risposta libera di Cristo, l’eletto. L’unicità del sacerdozio di Cristo si basa, ancora una volta, sull’unicità del suo essere-Figlio. La nuova alleanza costituisce poi tutto un popolo sacerdotale (1Pt 2,1-10; Ap 5). Nella tradizione successiva il tema del sacerdozio di Cristo ha preso il sopravvento rispetto a quelli del profeta e del re. Lui è l’unico mediatore e l’unico sacerdote a motivo della sua umanità\divinità per cui la mediazione sacerdotale si fonda sull’ontologia di Cristo, nella unione ipostatica. Gesù così conclude l’alleanza antica inverando le sue figure più significative, quelle del re, del profeta, del sacerdote, che si realizzano così nel dono dello Spirito Santo. 1.3. Figura di “mediazione” e figura di “sacramento” o di “simbolo” (139) Si tratta dell’interpretazione simbolico-sacramentale della realtà di Cristo. Già Agostino interpreta Cristo come sacramento, cioè signum sacrum: Gesù uomo-Dio è sacramento in quanto in lui si visibilizza la divinità. 1.3.1. Modelli di cristologia cattolica (141) sacramentale nella recente teologia Lo stimolo nasce dall’esigenza di ricomprendere i sacramenti, lo stesso Vaticano II parla della chiesa quale sacramento di salvezza. SCHILLEBEECKX: Cristo è il sacramento primordiale in quanto esprime in sé la duplice dimensione discendente\ascendente: l’amore di Dio per gli uomini e il culto umano per Dio. Gli atti di Cristo, atti personali del Figlio di Dio in forma umana sono causa di grazia: i miracoli, la redenzione. L’incontro umano con Gesù è il sacramento dell’incontro con Dio. RAHNER : si parte dalle considerazioni sulla simbolicità dell’essere che si esprime e si autorealizza così: ogni ente è simbolico, si realizza esprimendosi nell’altro, ponendo l’altro. Se l’ente si dà nel suo esprimersi, nel suo simbolizzarsi, si conosce l’ente nel simbolo. Così il Logos incarnato è il simbolo assoluto di Dio nel mondo e l’umanità di Cristo è l’apparizione del Logos, suo simbolo reale e radicale, l’umanità del Logos è l’estrinsecarsi di Dio. BALTHASAR: Gesù è la forma oggettiva di rivelazione, egli è un unicum che giustifica le cose che sono. In queste prospettive la mediazione di Cristo fondata ipostaticamente diventa il simbolizzarsi e il prendere forma del Figlio in Gesù. 1.4. Punti conclusivi Gesù è il mediatore definitivo di alleanza. Ciò motiva la sua storicità. In riferimento all’alleanza antica la mediazione di Gesù si concretizza attraverso l’inveramento delle figure di profeta, re e sacerdote e si realizza attraverso il dono dello Spirito Santo nella Pasqua. La crisi circa la mediazione di Gesù è stata l’eresia ariana risolta con la confessione dell’omousia che vita il pericolo di riduzionismi cosmico-demiurgici della figura di Cristo-mediatore. E’ nell’ontologia (vero Dio e vero uomo) di Gesù che si coglie la ragione profonda del suo essere mediatore nel duplice senso, quello per cui Cristo è mediatore in quanto uomo ipostaticamente unito al Figlio di Dio e quello che Gesù è mediatore in quanto sacramento-simbolo della presenza del Figlio di Dio salvatore (oggi più seguita e più biblica). 2. GESU’ DI NAZARETH, MEDIATORE PASQUALE (151) Nella Pasqua Gesù realizza la sua missione di mediatore. In passato l’attenzione era focalizzata sulla morte, sul sui valore salvifico letto nei termini di soddisfazione, riscatto, sacrificio, merito, mancava la visione unitaria a le da considerare anche il fatto della resurrezione. Si pensava la redenzione come realizzata per la soddisfazione vicaria, ma va rilevato che anche la Pasqua ha valenza soteriologica 2.1. il rapporto tra salvezza e morte di Gesù (153) 2.1.1. La morte salvifica di Gesù: sacrificio, redenzione, soddisfazione, merito. Approccio tipologico (154) La Scrittura afferma chiaramente che Cristo è morto per i nostri peccati, ha dato la vita per noi, è la lettura soteriologica della sua morte. La morte di Gesù ha una dimensione sacrificale che porta a compimento la dimensione sacrificale del culto di Israele. E’ possibile leggere il sacrificio di Gesù alla luce dei vari sacrifici del culto di Israele: sacrificio di alleanza, di olocausto, pro peccato del Servo di Jahvè, di espiazione (citazioni a pag. 155). Nell’offerta di sé che Gesù realizza, si attua secondo il disegno di Dio il significato profondo dell’istituzione sacrificale antica, per la quale, nella logica anche dell’alleanza i sacrifici erano sacrifici di comunione. L’offerta di Gesù è così il sacrificio della Nuova Alleanza, il gesto da cui dipende e per cui si realizza la comunione definitiva dell’uomo con Dio per iniziativa di Dio. Non si deve allora pensare il sacrificio come la pena per il peccato, ma bensì, più semplicemente, ad una purificazione: in quel sangue espiatorio abbiamo la riconsacrazione a Dio del popolo, perciò la morte espiatrice di Cristo non agisce nei termini di una soddisfazione penale, una punizione pagata al posto degli altri. LA PASSIONE-MORTE DI GESÙ COME VERITÀ DELLA REDENZIONE O DEL RISCATTO E’ necessario applicare la figura biblica di salvezza-riscatto per comprendere la vicenda di Gesù senza fare ipotesi non accettabili (tipo quella dei diritti del diavolo). Nell’esodo Jahvè appare come il redentore di Israele, il goel (Es 6, 6-7) in un progetto che si compie in Gesù la cui morte è morte redentrice: Mt 20,25-28; 1Tm 2,6; Tt 2,14: “Ha dato se stesso per noi, per riscattarci da ogni iniquità e formarsi un popolo che gli appartenga”; 1Pt 2,9 (popolo acquistato, il riferimento è al sangue di Cristo); Ef1,14; Ap 5,9-10 (“hai riscattato per Dio con il tuo sangue”). Nella logica del goel torna più volte l’immagine dell’acquisto: in questo modo, da acquistati, si entra ora nell’alleanza. TRASCRIZIONE TEOLOGICO-SCOLASTICA DEL RAPPORTO TRA MORTE DI GESÙ E SALVEZZA: LA SODDISFAZIONE E IL MERITO E’ la messa in atto della tematica biblica della riparazione del peccato, ma essa non mette sufficientemente a tema la libertà del dono di Cristo (l’incarnazione come conseguenza del peccato, tale da costringere Cristo a salvarsi) e neppure che comunque la passione-morte di Cristo fu ben di più di quanto non fosse necessario (Tommaso), ma fu sovrabbondante. In effetti la teologia post-tridentina si orienta per una interpretazione penale della soddisfazione di Cristo: Cristo paga la pena del danno compiuto dagli uomini (anche se non si accettavano, su questo punto, le esagerazioni calviniste). Per ciò che riguarda il merito, va detto che biblicamente c’è una correlazione tra l’obbedienza del Figlio e la sua resurrezione-esaltazione-glorificazione, a partire da Is 53, Fil 2: è la risposta del Padre al Figlio in una logica del dover essere fondata sulla superiore libertà di Dio . Nella prospettiva anselmiana la retribuzione non può riguardare il Figlio dato che lui non ne ha bisogno, ma deve pur esserci, ecco dunque che riguarda tutti gli uomini, così la soddisfazione di Cristo diventa soddisfazione per noi. La teologia ha giocato con le categorie di merito e di soddisfazione che anche il magistero ha fatto proprie: bolla Unigenitus Dei filius del 1343 di papa Clemente VI che teorizza il thesaurus ecclesiae e le indulgenze sulla base dell’infinità del merito di Cristo. A Trento il merito di Cristo è funzionale a definire il primato di Cristo per la nostra salvezza. Soddisfazione o sacrificio ? Si comprende la riduzione della categoria di sacrificio a quella di redenzione nel caso di Cristo, ma biblicamente sacrificio dice molto di più, indica anche riscatto, oppure acquisto, dal sangue del sacrificio scaturisce l’alleanza. Così nell’unico e definitivo sacrificio di Cristo noi siamo stati riscattati, essendo poi quello sacrificio di alleanza, siamo anche diventati popolo di Dio, perdonati dal peccato (è anche sacrificio di espiazione). Abbiamo così una tipologia interpretativa biblica di tipo culturale\rituale e una scolastica di tipo giuridico. Sono posizioni non sovrapponibili o riducibili una all’altra, ma è evidente che prevale quello biblico. Nei due tipi resta comunque il dato della valenza salvifica della morte di Cristo, tale dimensione presenta due poli, l’uomo salvato e Dio che salva. Nel primo caso la morte di Cristo che salva realizza ciò per sostituzione o per solidarietà? Il servo di Jahvè non si pone nel quadro di una vicarietà sostitutiva, quanto in quello di una rappresentanza solidale, da unico agisce a favore di tutti (personalità corporativa), non si tratta di sostituire gli altri, ma di includerli nella propria azione. La morte di Cristo è l’espressione massima della solidarietà di Cristo con il mondo peccatore. La linea della sostituzione vicaria è improponibile se non nell’ambito di una dimensione più fondamentale, quella della solidarietà. Questa rappresentatività deriva forza anche dalla singolarità di Gesù in quanto egli è centrale nel piano di Dio ed è quindi universale nella storia, singolare ed universale, così è Gesù, e così è la sua morte redentrice. Accanto alla polarità umana vi è quella teocentrica, del teocentrismo di Gesù che coincide con il suo mistero di Figlio, in questo caso Gesù in quanto Dio offre a Dio un sacrificio, ma questo non ha senso. Si pensava allora al sacrificio fatto da Gesù in quanto uomo, ma qui si rischia di cadere nel nestorianesimo che nega una reale unità interiore di Gesù. In realtà più che di Dio e dell’uomo in Cristo si deve più semplicemente parlare di Gesù. L’ESIGENZA DI UNA VERIFICA E DI UNA TEMATIZZAZIONE CRITICA DEL RAPPORTO TRA “TIPOLOGIA DELLA MORTE SALVIFICA” E “MORTE DI GESÙ” (178) La cristologia non deve parlare di una morte salvifica, ma della morte di Gesù quale morte di salvezza, una morte singolare, senza analogie (Balthasar) ma anche un caso particolare di morte del giusto che diventa modello etico. La particolarità della morte di Gesù deriva dal suo essere Dio, dal chiamare il Padre Abbà e la singolarità della cosa si coglierà poi a partire dalla resurrezione. LA QUESTIONE FONDAMENTALE: PERCHÉ UN RAPPORTO TRA MORTE DI GESÙ E SALVEZZA; ANZI TRA QUELLA MORTE E LA SALVEZZA (186) Biblicamente la cosa è affermata con grande rilevanza. Si cerca di spiegare perché la solidarietà si debba esprimere nella morte. La logica di Dio è quella di agire nella debolezza e nell’umiliazione, è lì che Dio esprime, con la resurrezione, la sua potenza gloriosa. A monte di questa solidarietà sta una duplice consegna divina che è atto d’amore: il Padre consegna il Figlio e il Figlio si consegna al Padre (Gal 2,20; Rm 3, 32; 5,8; Gv 3,16). Lo sforzo di Anselmo è quello ci cogliere una ratio necessaria alla morte dell’uomo-Dio. Essa è il segno massimo di libertà, è l’abbassamento più totale condiviso, dà senso al morire dell’uomo che è un con-morire con Cristo, è la conseguenza dell’essere Messia del Cristo. Ma il tema della morte va sempre letto nell’ottica della resurrezione accaduta dopo, che esprime bene il tema della liberazione. DESCENSUS AD INFEROS E SALVEZZA (193) Atti 2,24.27; Rm 10,7; Ef 4, 8-9, 1Pt 3,18; 4,6. Il tema della discesa agli inferi afferma la realtà della morte di Gesù, dunque è entrato nel Regno dei morti. La sua morte ha dimensioni salvifiche universali. E’ tema che collega bene il fatto della morte con l’effetto della salvezza. Per Balthasar il descensus sta piuttosto ad indicare il massimo della kenosi, negli inferi vi è il massimo della distanza dal Padre. Qui Gesù trasforma la morte degli uomini da un con-morire dei peccatori ad un con-morire con Cristo che porta salvezza. ESALTAZIONE DI GESÙ E SALVEZZA (195) Per esaltazione si intende l’insieme di morte, resurrezione, ascensione, pentecoste, parusia, così Gesù di Nazaret, il crocifisso è fatto Cristo e Signore ed effonde lo Spirito. Tommaso parla della resurrezione e dell’ascensione come causa di salvezza, non nel senso del merito, ma quale causa efficiente strumentale. La resurrezione di Cristo è modello esemplare della nostra resurrezione. Anche l’ascensione per Tommaso sarebbe causa efficiente. Questa sensibilità prepone per una visione unitaria del mistero pasquale. LA PASQUA DI GESÙ COME UNITÀ SALVIFICA (202) In vista della salvezza degli uomini la morte e la resurrezione vanno visti in unità, non separati. La morte di Gesù ha valore salvifico per la sua singolarità per la singolarità di quella morte che è un morire in solidarietà con i peccatori, inoltre è una morte singolare perché sfocia poi nella resurrezione, la quale sarà poi condivisa con noi, e così sarà salvezza. In effetti però la teologia occidentale ha messo in rilievo solo il rapporto della morte di Gesù e la nostra salvezza, anche se con l’eccezione di Tommaso. PUNTI CONCLUSIVI Vi è un rapporto fondamentale tra salvezza dell’alleanza e pasqua di Gesù. Il momento pasquale di Gesù è il momento operativo per eccellenza della salvezza, esso dice la verità sull’esistenza pre-pasquale e la conferma nella sua validità normativa per il credente. Nella Pasqua si manifesta l’unicità del rapporto filiale di Gesù con Dio, ma anche la sua solidarietà con l’uomo. L’effetto pasquale è il dono dello Spirito che significa remissione dei peccato, nuova alleanza e nuova creazione. IMPLICAZIONI CRISTOLOGICHE DELLA MEDIAZIONE PASQUALE DI GESU’ (211) GESÙ DI NAZARET FIGLIO UNICO DI DIO I riferimenti biblici vanno ai testi del battesimo di Gesù, della trasfigurazione, della parabola dei vignaioli omicidi (Mc 12,6) dove si parla del figlio prediletto e a quelli dove si parla del Figlio suo (Gal 4,4), proprio (Rm 8,32) e unigenito (Gv3,16 e 1Gv 4, 9-10). C’è un continuo riferimento sia al sacrificio di Isacco che ai testi del servo di Jahvè, come anche alla passione stessa di Gesù. Ciò significa che la, passione ci definisce i contorni del Figlio di Dio, o meglio la pasqua che comprende la passione-morte-resurrezione ma anche l’ascensione-esaltazione e il dono dello Spirito. E’ affermata l’assoluta originalità dell’essere-figlio del Figlio. I temi della divinità (Nicea-Costantinopoli) e dell’unità uomo-Dio (Calcedonia) furono oggetto delle riflessioni dei padri, unità ma nella distinzione. Il soggetto è la persona del Figlio. Nella teologia scolastica e manualistica si intendeva l’incarnazione come l’assunzione della natura umana di una natura divina, a questo punto era indifferente quale delle tre natura si sia incarnata, si diceva però che vi era una convenienza per l’incarnazione del Figlio: sono discussioni astratte (come quella della possibile assunzione di una natura non umana de potentia Dei absoluta), ciò che conta è il fatto storico di quella incarnazione. L’uomo-Dio Gesù di Nazaret è l’Unigenito dal Padre, della stessa sostanza, ciò per la communicatio idiomatum, ma oggi la teologia cerca soluzioni diverse cercando una cristologia senza la dualità delle due nature, per esempio recuperando la strada biblica della kenosi. Tutto Gesù (umano e divino) ha un rapporto filiale con il Padre, da qui bisogna partire. (tale discorso sarà ripreso più avanti) SCIENZA E COSCIENZA DI GESÙ (220) Il Nuovo Testamento presenta la coscienza filiale di Gesù ed anche la coscienza della sua missione fino alla morte. La scolastica pensava ad un triplice livello di conoscenza di Gesù, uno beatifico (scientia visionis) uno infuso (scientia infusa), un acquisito, sperimentale (scientia acquisita). Il terzo livello faceva problema con soluzioni anche di spinta monofisita finendo per ridurre l’umanità di Gesù. Tommaso evita il pericolo anche se si intese sempre la conoscenza umana di Gesù almeno superiore per eccellenza a quella degli uomini. Comunque Gesù, uomo vero, ha acquistato conoscenza, vi è stato un cammino umano che coesisteva però con la scienza infusa. Di fatto Gesù conosceva le cose ben più di un uomo da qui il valore delle sue previsioni, dei suoi giudizi, valore che non ammette possibilità di errore, quindi Cristo aveva già acquisito (scienza infusa) ciò che andava acquisendo (scienza acquisita). Ma la ragione ultima della verità del suo insegnamento sta nella visione beatifica che indica il suo rapporto di comunione con il Padre. C’è però evidente un problema di composizione tra le tre scienze la cui esistenza viene però ribadita nel documento del S. Uffizio del 1918 (DS 3645-3647). Si è cercato di parlare della visione beatifica come di una visio immedita, della scienza infusa come di una illuminazione profetica della scienza acquisita da mantenere nel campo delle conoscenza umane. Con queste riduzioni ci si è un po’ avvicinati al Cristo secondo la carne che fa una esperienza umana pur vedendo di essere il Figlio di Dio. Cristo ha come uomo la coscienza di essere il Figlio di Dio, ma in una forma chiara solo grazie alla visione beatifica. Gesù è la unità e la totalità della rivelazione, ora, per salvare l’umanità si deve concepire la possibilità di un suo errore? Ma in Cristo vi è la verità sotto forma di kenosi (il Cristo pre-pasquale) e sotto forma di esaltazione (il Cristo post-pasquale). “Così la maturità umana del Gesù pre-pasquale comporterebbe una maturazione reale della coscienza che egli ha di sé e della sua missione: più completa e profonda di quella che, per esempio, egli avesse nella prima fanciullezza e nell’adolescenza. Senza però mai incontrare la contraddizione: e in tensione reale verso il compimento e la verità finale della esaltazione” (231). Il problema della visione beatifica si risolve in quello della intuizione-coscienza del suo essere Figlio di Dio. Ridimensionata così la visione beatifica si può anche parlare di una fede in Cristo come intuizione del senso del piano divino e una speranza da lui vissuta quale abbandono nelle mani del Padre. Recuperando questi dati si fa una cristologia di Gesù, di quel preciso Gesù. LA LIBERTÀ DI GESÙ (233) Il Nuovo Testamento ci presenta un Gesù libero che è obbediente e segue la sua missione affidatagli: vince le tentazioni, si sottrae alla facile popolarità. Nell’epoca patristica il tema della libertà è quello della conciliazione tra la libertà umana di Gesù e il suo essere Figlio, negando la peccabilità e attaccando il monotelismo con Massimo il confessore e il concilio di Costantinopoli III. Era necessario salvare l’integrità dell’umanità di Gesù. Per gli scotisti Cristo poteva peccare, ma non peccò per l’azioni di grazie efficaci. Altro problema è il rapporto tra libertà e visione beatifica. In Cristo ci appare la libertà umana autentica, ne è come l’archetipo, la libertà di fare il bene, in lui si esprime la verità dell’umano. LA CARNE VERA DI GESÙ (238) Carne intesa qui come corporeità. Ma carne indica anche la fragilità della condizione umana e segnala il dramma vero della passione. Da qui l’attacco ai doceti e agli gnostici, ma anche quello contro chi limitava la dimensione umana come Apollinare. A Calcedonia si parlerà di consustanzialità con noi secondo la carne. Così Gesù è vero uomo e uomo perfetto, in tal modo salva l’uomo (prospettiva soteriologica). CONCLUSIONE. UMANITÀ VERA E SINGOLARE DI GESÙ (245) Gesù è l’umano vero e singolare, presente in una situazione esistentiva unica, lo afferma il Nuovo Testamento e tutta la tradizione successiva. La misura di questa umanità viene espressa nella figura del giusto e del servo di Jahvè. E però evidente che in Cristo vi è una eccedenza che è il suo rapporto con Dio., l’umano di Gesù deve esprimere un rapporto unico con Dio. Gesù-vero-uomo è consustanziale a noi a livello etnico-culturale-storico. Gesù è così consustanziale con i peccatori, ma senza peccato. In questa situazione vive la sua rappresentatività solidale redentiva. Dire Gesù non è dire l’umano perché la sua singolarità storica presenta una eccedenza che consiste nell’unione ipostatica. Ma dire Gesù non è uscire dall’umano, bensì indicare l’umano realizzato, aperto a Dio, obbediente a lui. Nello studiare l’umano di Gesù non si può però mai dimenticare il divino, l’umano conduce verso questo suo mistero singolare. Sezione terza IL MISTERO DELL’UNITA’ DI CRISTO: QUESTIONE RADICALE DELLA CRISTOLOGIA (253) La singolarità dell’uomo Gesù si esprime nel suo rapporto personale e particola, singolare, con il Padre, un rapporto che lo pone sulla sua stessa linea. Perciò l’esserci di Gesù Figlio unico di Dio non si esaurisce nello spazio storico tra la concezione e la resurrezione. La sua storicità è il luogo definitivo ed insuperabile del manifestarsi del Dio santo, in lui opera lo Spirito Santo. L’unità Dio-uomo fu cointestata da Apollinare da qui la necessità della teologia di mantenere il dato dell’umanità di Gesù e della differenza tra umano e divino che resta pur nella loro unità. Si elaborò così il concetto di natura (diverse) e ipostasi (unica) nel Figlio e a Calcedonia e poi al Costantinopoli III si chiarì che il partecipare del divino non annulla né assorbe l’umano data la distinzione. L’unità nel Figlio ci dice della partecipazione del Dio trascendente all’umano e rappresenta una rivoluzione per la cultura ellenistica. Essa va descritta con la precisazione che vi è una differenza irriducibile tra l’umano e il divino, in Gesù l’unica persona è quella del Figlio. Nella riflessione calcedonese e post-calcedonese ormai la teologia ha preso il posto della economia. La linea scotista (260ss) non accetta nell’esistenza una distinzione reale tra essenza ed esistenza, perciò la natura umana di Cristo è un esistente umano distinto dal Verbo, ma non indipendente dal Verbo e dunque non persona in quanto ordinato al Verbo, perciò l’uomo Cristo Gesù non è persona, cosicché la persona è il Verbo incarnato, ma resta la perfezione dell’esistente umano. La linea tomista distingue tra essenza ed esistenza per cui si è persona nell’esistenza ed è l’esistenza che fa sussistere la persona. Perciò la natura umana di Cristo (essenza) non è persona in quanto non è in atto in modo tale da essere esistenza, non sussiste. E’ invece il Verbo ad essere in atto-esistente, perciò la persona in Cristo Gesù è il Verbo che da unità della natura umana e divina. Ma questi e il Billot, il tomismo avrà anche altre interpretazioni. Gaetano: l’uomo Gesù non ha sussistenza propria, dunque non è persona, è solo natura umana la cui sussistenza è quella del Verbo.