ANTICIPAZIONI – PUTTANOPÒLIS
Come lo “scandalo Aspasia” distrusse la Grecia
La disinvolta maniera con cui Pericle reggeva Atene seminava rabbia e odio fra i suoi nemici. Ma
non era sufficiente a farlo cadere, poiché l’abile politico sapeva come ottenere il favore del popolo,
abbellendo la città e portandola al suo massimo splendore. Fin quando uno scandalo sessuale non lo
mise con le spalle al muro: la relazione con la raffinata concubina Aspasia minacciò di far tracollare
il suo potere. E Pericle inventò una tragica via d’uscita: la guerra contro Sparta
di Daniela Mazzon
Nel 438 scoppiano scandali, continui, irrefrenabili, che coinvolgono Pericle e Aspasia e la cerchia
di amici più fidati. Uno dopo l’altro, i membri dell’élite intellettuale, che si era formata attorno alla
coppia, i più stretti collaboratori, gli amici più cari subiscono attacchi, calunnie, processi e
condanne. Aspasia stessa è trascinata in giudizio. In pochi sopravvivono a quell’incubo, a quel
girone infernale. Che cosa fece divampare la serie infinita di accuse?
Alcune decisioni prese da Pericle avevano suscitato un forte dissenso. Sappiamo che le scelte
politiche del leader erano state spesso criticate, da un’opposizione salda e irriducibile, fin
dall’inizio della sua carriera, anche quando, nella vita privata, aveva osservato i canoni abituali di
comportamento. Ora, però, dietro ad alcune risoluzioni, s’intuisce nettamente la mano di Aspasia e
questo, ovviamente, non piace. Nel 440 Pericle fa approvare dal popolo di Atene una spedizione
militare contro Samo, antica rivale di Mileto. Si dice che lo abbia fatto per compiacere Aspasia, la
quale era stata portavoce dei suoi concittadini. Le due città si contendevano il possesso di Priene. I
Sami stanno per vincere, ma Atene ordina loro di cessare le ostilità e di deferire la controversia al
suo arbitrato. I Sami non obbediscono. Pericle deve allestire numerose spedizioni navali contro
l’isola e cingere d’assedio la città per otto mesi, prima che i nemici si arrendano. Nel 439 lo stratega
ottiene la vittoria definitiva, fa abbattere la cinta di mura, s’impossessa della flotta navale e ordina
alla cittadinanza di pagare forti ammende. Si macchia poi di atti di una crudeltà inaudita, dietro ai
quali si vede l’ombra funesta e vendicativa di Aspasia. Fa condurre i comandanti delle navi [I
trierarchi: cittadini ricchi ai quali veniva assegnato l’onere di allestire una nave da guerra e di
comandarla NdA] e i marinai superstiti sulla piazza di Mileto e, dopo averli esposti legati alla gogna
per dieci giorni, ormai agonizzanti, ordina di finirli a colpi di bastone sulla testa. Nega quindi la
sepoltura ai corpi, che fa gettare via, come fossero carogne di animali.
Episodi di ordinaria follia, di guerra, di passione e potere, di cui sono zeppi i testi di storia. Questa
volta, però, il popolo di Atene non perdona il suo leader. Fino a quegli anni il premier era sempre
riuscito ad acquietare, ad ammansire i suoi concittadini, a vanificare gli attacchi dell’opposizione e i
tentativi di ostracizzarlo. Di che mezzi persuasori si era valso? Della parola. Di assegnazioni ed
elargizioni, mai viste in simili quantità, di beni e ricchezze. Ma proprio in ciò si trovano i semi di
molte delle accuse che saranno mosse a lui, alla sua compagna e ai loro intimi. La facilità di parola,
era, per Pericle, un dono di natura. Gli apparteneva fin dalla giovinezza. Da quando gli era vicino
Aspasia, poi, maestra famosa di arte retorica, si era addirittura tramutato in incantatore. Le
ricchezze, invece, non gli appartenevano. Certo, aveva fatto il bel gesto, in alcune situazioni, di tirar
fuori qualcosa dalle proprie tasche, ma, in genere, quello che sembrava donare al popolo di Atene,
già era del démos. Consigliato da Damone, l’abile sofista e dotto musicista, dopo l’ascesa al
governo, si era dato a distribuire i beni pubblici [Damone sarà la prima vittima di queste epurazioni.
Sarà ostracizzato prima dell’inizio vero e proprio del periodo dei processi, fra il 450 e il 440 NdA].
Aveva reso tutta la cittadinanza partecipe delle cleruchie, ossia dell’assegnazione di lotti di terre
conquistate fuori dall’Attica. Molti cittadini poveri di Atene erano stati inviati, per estrazione a
sorte, in quei territori, senza perdere alcun diritto, come invece accadeva ai coloni, che venivano
privati della cittadinanza. Ne avevano tratto benessere economico e stima, poiché svolgevano un
ruolo attivo nella tutela della sicurezza della madrepatria. Aveva dato ai meno abbienti i sussidi
necessari per assistere agli spettacoli pubblici. Anche gli appartenenti ai ceti più bassi avevano così
ricevuto un’educazione, che aveva fatto loro percepire una comunanza di pensiero, da condividere
con l’intera collettività, e di ideali, non più riservati a pochi aristocratici. Aveva erogato le
indennità, già contemplate dalla legge, per la partecipazione ai pubblici uffici [Il sussidio, per
assistere alle rappresentazioni drammatiche, era attinto dal theorikòn, ossia il fondo statale, con cui
si pagavano anche le feste pubbliche NdA]. Certo, tutti questi provvedimenti avevano avuto lo
scopo di rendere la democrazia effettiva e in tal modo li interpretavano e li vivevano parecchi
cittadini di Atene.
Si sentono però anche voci diverse, che influenzano sempre di più l’opinione pubblica. C’è chi
afferma che si tratta di manovre politiche, fatte da Pericle per guadagnarsi il popolo e contrastare il
favore di cui godono gli antagonisti di sempre, ossia i membri della famiglia dei Filaidi-Cimonidi. È
chiaro a tutti che Cimone lo supera per possedimenti e ricchezze. Offre quotidianamente a proprie
spese un pasto ai cittadini indigenti. Provvede che gli anziani abbiano vesti decorose. Fa togliere gli
steccati che circondano i suoi poderi, perché chiunque possa cogliere liberamente i frutti degli
alberi. Sebbene ricco, Pericle non può sostenere il confronto. Risolve la questione come detto:
diventa beniamino del popolo a spese pubbliche. Quando prende la guida degli aristocratici
Tudicidide di Alopece, stretto parente di Cimone, morto durante una campagna militare, Pericle
allenta ancora di più il freno, con cui tiene la folla. Bada che in città ci sia sempre qualche
spettacolo, processione o banchetto pubblico. Istituisce, a spese dello Stato, corsi di arte nautica,
della durata di otto mesi ciascuno, in cui impegna numerosi cittadini, i quali, durante
l’addestramento, vengono regolarmente retribuiti. Fonda nuove colonie. Ma ciò non è sufficiente
per tenere occupata la cittadinanza, per indirizzare e guidare l’opinione pubblica, sempre divisa,
sempre mutevole nel dare la preferenza. Con il suo circolo di fidati consiglieri, elabora nuovi
progetti, per cui occorrono cifre ancora maggiori. Le trova e riversa sulla città un tesoro quasi
inesauribile. Quale difficile missione bellica ha dovuto affrontare? Quale sovrano o despota di
lontani paesi ha assoggettato, vinto, spogliato? Nulla di tutto ciò.
Quei talenti appartengono alla Lega delio–attica, ossia alla confederazione di città-stato, che si era
formata negli anni 478–477, durante la fase conclusiva delle guerre persiane. Ad Atene, per il ruolo
avuto contro il nemico comune, era stato subito dato il comando supremo. Il tesoro, invece, era stato
custodito nei luoghi sacri dell’isola di Delo, con lo scopo di finanziare e mantenere una flotta navale
ben agguerrita in funzione antipersiana. Ogni anno gli Stati che avevano aderito alla lega avevano
versato il tributo stabilito e avevano partecipato all’assemblea, in cui tutti i membri, messe da parte
mire e pretese individualistiche, avevano preso le decisioni in base agli interessi comuni. Anche lo
spostamento del tesoro era avvenuto per scelta concorde. L’Egitto stava diventando sempre più
potente e Delo non sembrava più un posto sicuro. Nel 454, Pericle aveva accolto nella sua città
l’ingente somma, che ammontava ormai a migliaia di talenti, per proteggerla. Ma, dopo poco
tempo, quella che era stata la leader, la paladina della democrazia, colei che più eroicamente di tutti
si era battuta contro il persiano, si trasforma in despota. Con un colpo di mano, Pericle, infatti,
decide di usare il tesoro per la propria città. A nulla valgono le proteste degli alleati. “La Grecia
intera si deve ritenere gravemente offesa”, dicono concordi i governi degli Stati federati. Anche gli
Ateniesi, in un primo momento, si oppongono alla manovra. Con parole dure e decise dichiarano
che si tratta di un’azione apertamente tirannica nei confronti delle altre libere città, alleate e amiche.
Nulla da fare. Pericle rimane fermo nelle proprie decisioni. Risponde a tutti in modo sprezzante. “Il
governo di Atene” dice “non è affatto tenuto a rendere conto agli alleati di ciò che fa con i loro
contributi, poiché erano i cittadini ateniesi a combattere e a tenere lontano il barbaro re, mentre i
confederati non davano neppure un cavallo, una nave, un fante, ma si limitavano a versare dei soldi.
E ora è deciso: il denaro non è più di chi lo versa, ma di chi lo riceve, se questi fornisce le
prestazioni per cui lo riceve”. Comunica che, con quell’immenso tesoro, ha stabilito di terminare il
Partenone, di incoronare l’acropoli con altri edifici di bellezza mai vista. “Non vogliamo che i
contributi, versati obbligatoriamente dai confederati per la guerra, servano a noi per rivestire d’oro e
adornare in modo vistoso la nostra città, come se fosse una donna vanitosa”, gli rispondono i
concittadini riuniti nelle assemblee. Anche queste ulteriori proteste sono inutili. Come un amante
appassionato ricopre di oro e gioielli la sua innamorata, Pericle vuole per lei, Atene, una veste di
pietre preziose, statue, templi da mille talenti. Tutte le categorie di operai, artigiani e artisti sono
chiamate a cooperare, in un’opera che, già sulla carta, appare di uno splendore quasi divino. Tutti
hanno la possibilità di avere parte della smisurata somma, di cui il loro governo si è fatto padrone. I
grandi progetti architettonici e artistici hanno, per chi li propone, un duplice scopo: rendere Atene
immortale e far partecipare la massa dei lavoratori, non inserita nell’esercito, dei vantaggi portati
dall’afflusso del nuovo capitale.
Pericle non vuole, infatti, che la gente comune ne usufruisca senza merito, passando il proprio
tempo nell’inerzia e nell’ozio. Importatori e trasportatori per terra e per mare sono coinvolti per
primi, quando la città viene rifornita di marmi, pietre, bronzo, oro, avorio, legno di svettante
cipresso e di esotico ebano. Ad accogliere questo ben di dio sono chiamati manovali, lavoratori non
specializzati e artigiani specializzati, per trattare nel modo opportuno ciascun tipo di materiale. La
cittadinanza, di fronte a un’offerta di lavoro così ricca, che garantisce un benessere facilmente
raggiungibile, concede di nuovo l’appoggio al suo leader e inizia a collaborare attivamente ai piani
del governo. Anche se ciascuna costruzione ha dei propri grandi architetti ed esecutori, Pericle dà la
direzione e la sovrintendenza dell’intero complesso a uno degli artisti più grandi di tutti i tempi,
Fidia, il quale aveva già creato, a giudizio unanime, una delle Sette Meraviglie del mondo: il
colosso in oro e avorio di Zeus per il tempio di Olimpia. Sotto la sua esperta guida, gli edifici
cominciano a sorgere ovunque magnifici. Costruzioni, per la cui realizzazione sembra necessario
l’impegno di più generazioni, sono terminate in pochi anni. Gli artigiani, infatti, gareggiano fra di
loro in velocità, senza, per questo, che le opere compiute portino i segni della fretta. Perfetto nella
tecnica e raffinato nelle proporzioni, costruito di fine marmo bianco pentelico dal basamento alle
tegole, in cima alla collina dai fianchi scoscesi dell’acropoli, per primo risplende il Partenone. La
costruzione era cominciata nel 447 e ora, dopo nove anni è pronto per ricevere il simulacro della
Dea. Suscita ammirazione e invidia. L’intero suo perimetro è circondato da colonne doriche, che,
nelle mani del sommo architetto Ictino e sotto la magistrale direzione di Fidia, hanno preso forme
più morbide e aggraziate. Tutto il tempio è un inno alla Dea Atena e alla città, cui ha donato il suo
nome e la sua protezione. È raffigurata la sua nascita prodigiosa dalla testa di Zeus e la contesa con
Posidone per il possesso della città. Lungo il perimetro esterno della cella, che, ben presto, ospiterà
la sua statua, corre un fregio di 150 metri. Su di esso, gli Ateniesi vedono rappresentata la
processione che compiono annualmente, per portare alla vergine figlia di Zeus, il giorno della sua
nascita, una veste preziosa, tessuta e ricamata dalle donne più nobili. Sono poi narrati i trionfi della
civiltà contro la barbarie: la lotta tra Greci e Centauri, tra Greci e Amazzoni, tra Dei e giganti, la
guerra di Troia.
Per fare ciò vengono realizzate oltre quaranta statue a tutto tondo, da collocare nei frontoni e
novantacinque formelle scolpite a rilievo. Seguono altre mirabili costruzioni, erette a scopo
strategico, come la terza cinta di Lunghe Mura, che rende l’intero sistema più difendibile;
l’allestimento di porti militari; le migliorie al porto mercantile; la pianificazione ordinata e
simmetrica del porto del Pireo, opera inconfondibile dell’architetto Ippodamo di Mileto. Altre sono
state progettate allo scopo di creare nuovi luoghi di culto o di svago, come i Propilei, ossia
l’ingresso monumentale all’area sacra, il santuario per i misteri ad Eleusi, oppure il raffinato
odeìon, ossia l’edificio destinato agli spettacoli musicali. In realtà, denuncia la satira politica, il
muro va avanti solo a parole, mentre, di fatto, è fermo e la costruzione dell’odeìon è stato uno
stratagemma di Pericle per evitare l’ostracismo. Quando Fidia presenta la sua opera più
straordinaria, ossia la statua colossale in oro e avorio dedicata ad Atena Pàrthenos, gli avversari
politici e i nemici personali decidono di sperimentare, tramite l’artista, quale sarebbe stato un
eventuale giudizio del popolo nei confronti di Pericle. La maestosa bellezza del simulacro, alto 12
metri, che compare sapientemente inquadrato dal colonnato interno della cella, non basta a sedare le
feroci calunnie. Uno degli artigiani suoi collaboratori viene convinto a presentarsi in piena agorà e,
dopo aver ottenuto l’immunità dal popolo, denuncia Fidia per furto. Afferma che lo scultore ha
sottratto parte dell’oro, che aveva ricevuto dallo Stato per ornare la statua. Fidia, però, su consiglio
di Pericle, che stava già da tempo all’erta, aveva progettato che le parti in oro fossero disposte tutte
intorno al simulacro, in modo da poterle staccare e pesare. Si constata così che nulla manca. La
fama acquistata con le sue opere, l’evidente stima di Pericle, i prestigiosi incarichi che gli sono stati
affidati espongono però Fidia a un’invidia inestinguibile. Si insinua che, nella parte esterna dello
scudo della Dea, dove è rappresentata la mitica lotta fra Greci e Amazzoni, l’artista abbia ritratto se
stesso, nelle vesti del vecchio Dedalo e, in quelle di Teseo, Pericle, seminascosto dal braccio
sollevato. In molti riconoscono i loro volti. È dunque condotto in prigione, dove muore, come
alcuni sostengono, avvelenato dagli avversari di Pericle, che avevano intenzione di muovere una
nuova, ignobile accusa contro l’uomo di Stato.
In questo periodo di tempo anche Aspasia è trascinata in giudizio, dietro denuncia del
commediografo Ermippo, per rispondere al reato di empietà. In ciò è accomunata al filosofo
Anassagora, il quale, accusato anche di medizzazione [idee filo-persiane NdR], temendo il peggio,
fugge da Atene con l’aiuto di Pericle. Le viene contestato un secondo reato: corruzione di donne
oneste. A tutta la città erano ben noti gli appetiti sessuali smodati di Pericle, che erano oggetto
frequente di battute salaci, commenti piccanti e pettegolezzi. Ma ora si formula una precisa
denuncia. Lei, la sua depravata compagna, sotto la copertura del collegio per signore perbene, offre
al suo amante, innamoratissimo, ma non per questo fedele, di che saziarsi. C’è da tremare. Per
entrambi i reati è prevista la pena capitale. A rappresentare Aspasia compare davanti ai giudici
Pericle in persona. Usa tutte le arti della parola. Rivolge calde suppliche ai giudici. Versa lacrime
senza ritegno, molte di più di quante ne abbia mai versate per se stesso, nei momenti in cui erano in
gioco la sua vita e le sue sostanze. Sa commuovere, coinvolgere, convincere. Ottiene ciò che vuole:
l’assoluzione della sua donna. Lei può riprendere le attività abituali. Farsi baciare sulla soglia di
casa, ogni mattina e ogni sera, dal suo innamorato. Coltivare i suoi studi. Insegnare svariate
“materie” nella sua scuola per mogli. Ricevere coppie eterosessuali e favorire amori, matrimoni,
riconciliazioni e tresche. Intrattenere brillantemente amici e amiche durante i salotti culturali.
Mostrarsi a fianco del suo potentissimo compagno in simposi e banchetti. Scrivere alcuni dei grandi
discorsi che Pericle pronuncerà pubblicamente davanti al popolo ateniese. Dare consigli politici allo
statista. Aspasia comincia nuovamente a regnare in Atene e tiene ancora il suo amante in pugno.
Soggioga lo statista come la bella Onfale e la fatale Deianira avevano soggiogato Eracle, il mitico
eroe che, costretto, dall’amore e dalla magia, aveva abbandonato le sue armi virili, per indossare
abiti femminili e dedicarsi a lavori donneschi. È castrante, petulante e intrigante come Era nella
corte degli Dei. È ancora generatrice di guerre sanguinose, come la fatale Elena, la mitica figlia di
Zeus e Leda, l’arcana sacerdotessa di Afrodite, che era stata causa della leggendaria guerra di Troia.
Certo questi versi di commediografi, queste osservazioni di sofisti e filosofi non sono capi
d’accusa da esibire in tribunale, ma queste sono, per il popolo ateniese le vere colpe di Aspasia
e del suo compagno. Pericle avverte che la situazione non è tranquilla, che si profilano nuovi
scontri con il popolo. Decide allora di far divampare la guerra contro i Peloponnesiaci, il cui fuoco
già covava sotto le ceneri. Esibisce in assemblea, in un lungo e articolato discorso, motivazioni
politiche ed economiche per non abrogare un decreto di embargo contro Megara, alleata di Sparta.
Accoglie l’accusa dell’uccisione di un araldo, atto sacrilego, per vietare a qualsiasi Megarese di
mettere piede in Attica, pena la morte. Per i Peloponnesiaci, gente di poche parole, le responsabilità
sono tutte di Pericle e Aspasia. La causa immediata del conflitto è quella che sintetizzerà in quattro
versi famosi e assai noti il commediografo Aristofane. “Certi giovanotti di Atene, andati a Megara,
rapiscono, sbronzi, la puttana Simeta. I Megaresi, allora, irritati e furiosi rapiscono in cambio due
puttane di Aspasia”. Enunciano il fatto in risposta all’orazione di Pericle, ricca di argomentazioni e
principi democratici, in cui, ovviamente non compare la minima traccia di questo episodio.
Prendono atto che lo statista nega loro ogni altra possibilità di trattativa. Accettano il conflitto e
tornano in patria. Ecco perché scoppiò il catastrofico evento che, come dice il testimone più illustre
dell’epoca, Tucidide, “si presentò subito, agli occhi dei contemporanei, come il più grave mai
combattuto fino a quel tempo”, sulla cui causa gli storici dibattono ancora. Ecco come iniziò per
Atene la rovina, in cui la città trascinò con sé l’intera Grecia.
Daniela Mazzon
[Per gentile concessione
delle EdizioniAnordest]