L’UNIONE SARDA EUTANASIA O RISPETTO DELL’ULTIMO SOFFIO DI VITA Si liberi il paziente dalla solitudine Mario Silvetti * Molto si discute, soprattutto in rapporto al caso Welby, sulla liceità e sulle modalità di intervento nelle malattie che non hanno una speranza di soluzione positiva e che si accompagnano a uno stato di grave sofferenza psichica e spesso fisica. «È di grandissima importanza, in questo contesto, distinguere fra eutanasia e astensione dall’accanimento terapeutico, due termini spesso confusi» scrive il cardinal Martini in un intervento apparso sul supplemento culturale del Sole 24 Ore. La prima si riferisce ad un gesto che intende abbreviare la vita, causando positivamente la morte; la seconda consiste nella «rinuncia... all’utilizzo di procedure mediche sproporzionate e senza ragionevole speranza di esito positivo» (Compendio catechismo della Chiesa cattolica, n° 471). Evitando l’accanimento terapeutico «non si vuole procurare la morte, si accetta di non poterla impedire» (Catechismo della Chiesa cattolica, n° 2278). C’è quindi l’esigenza di elaborare una normativa che consenta di riconoscere la possibilità del rifiuto (informato) delle cure in quanto ritenute sproporzionate dal paziente che protegga il medico da eventuali accuse, senza che questo implichi in alcun modo la legalizzazione dell’eutanasia. Vorrei inserire nella discussione una riflessione che trae lo spunto dallo stesso scritto e che ritengo di importanza fondamentale. Dice ancora Martini: «La crescente capacità terapeutica della Medicina consente di protrarre la vita pure in condizioni un tempo impossibili... I casi che necessitano di una adeguata assistenza saranno sempre più frequenti... L’assistenza deve continuare, commisurandosi alle effettive esigenze della persona, assicurando per esempio la sedazione del dolore e le cure infermieristiche. Proprio in questa linea si muove la medicina palliativa che riveste quindi una grande importanza. Mentre si parla giustamente di evitare ogni forma di accanimento terapeutico, mi pare che in Italia siamo ancora al contrario, cioè a una forma di negligenza terapeutica». Questo il punto sul quale vorrei attirare l’attenzione. È giusto discutere su quale debba essere l’eventuale intervento risolutore e in quali casi possa essere applicato. Nel frattempo, occorre però garantire alla persona malata i servizi che consentano di allontanare la sofferenza e di trovare vicinanza negli affetti e nella cura da parte della famiglia, supportata dalla sanità pubblica responsabile. L’organizzazione sanitaria deve adeguarsi alle esigenze del malato terminale e dei suoi familiari e garantire così la continuità assistenziale anche quando il malato lascia l’ospedale per tornare al proprio domicilio. Assistenza ospedaliera e domiciliare dunque devono svilupparsi in un rapporto di stretta collaborazione. Mi pare che attualmente si sia scarsamente preparati a questo modello di assistenza. In alcune nazioni, ad esempio l’Inghilterra, sono nati centri e case di accoglienza (hospice) che si pongono come alternativa all’assistenza ospedaliera tradizionale e a quella domiciliare, di cui vogliono mantenere o ripetere le fondamentali caratteristiche. Ne esiste qualcuno anche in Italia, molti altri se ne dovrebbero costituire. Un ruolo fondamentale nell’assistenza a queste situazioni estreme ha infine la terapie del dolore. Ma i centri antidolore in Italia sono appena 110, di cui soltanto cinque nel Mezzogiorno (così si legge in un articolo di Stefano Rodotà, “Civiltà del testamento biologico”, pubblicato su la Repubblica il 24 gennaio scorso). Sono queste alcune delle modalità di intervento nella gestione della malattia terminale che andrebbero potenziate perché hanno lo scopo di rendere il paziente libero dal dolore e ne attenuano la solitudine, la sensazione di essere stato abbandonato. In realtà questa assistenza è necessaria soprattutto oggi, che è profondamente cambiato il modello di rapporto medicopaziente. Negli ultimi decenni è avvenuta una trasformazione per cui si è passati da una concezione paternalistica ad un’altra, che vede la persona malata sempre più autonoma. Si afferma oggi, a ragione, che il pazienta ha diritto di conoscere il programma diagnosticoterapeutico e di esprimere il proprio consenso informato. Questa nuova situazione rende il paziente più fragile se lo si lascia solo con le sue responsabilità decisionali. Scrive ancora Martini: «È responsabilità di tutti accompagnare chi soffre, soprattutto quando il momento della morte si avvicina...». Purtroppo, l’attuale organizzazione sanitaria troppo spesso non offre ai pazienti un’assistenza che permetta di vivere “in modo umano” la morte. A me pare che a questa grave carenza si debba rimediare. (ex Primario di Pediatria all’ospedale Giuseppe Brotzu di Cagliari) martedì 20 febbraio 2007