Skip to primary navigation Skip to content Skip to footer IL BARATTOLO DELLE IDEE LA FILOSOFIA PER TUTTI header-right Main navigation o o o o o o Filosofia Gli spilli Filosofia Pre-socratica Filosofia antica Filosofia medievale Filosofia moderna Filosofia post hegeliana Appunti traduzioni Claudia Rademacher Arte In cucina Ai fornelli il lievito Il pane pizza Poesie Rime e congiuntivi A corpo libero Dall’amore All’amore Rabbia e colpa Ricomporsi Disegni A Francoforte Primi disegni Ritorno A colori I parte A colori II parte A colori III parte o o o o o Il bianco Il nero Maxi Ultimi lavori Il diario Relazione Riflessioni Vecchi post Social plus+ Forum plus Libri, Film, Opere D’Arte Relazioni Pensieri Presentati Login Chi sono OTTOBRE 30, 2016 BY IL BARATTOLO DELLE IDEE LEAVE A COMMENT Jürgen Habermas: Azione e interazione Tweet Jürgen Habermas è l’erede della scuola di Francoforte. Si tratta di un pensatore che ha dietro di sé una produzione bibliografica immensa. Questa presenta non poche difficoltà nell’interpretazione del suo pensiero. I temi da lui trattati sono infatti vasti quanto l’intera storia della filosofia, della semiotica e sociologia. solo per citare i campi principali da lui trattati. Potremmo definirlo l’ultimo pensatore sistematico non sistematico. La sua conoscenza enciclopedica, viene sicuramente raccolta in degli schemi ricostruttivi, in linee genealogiche. Queste tuttavia non compongono un quadro organico e sistematico. Dentro il suo percorso filosofico si distingue solitamente un Habermas francofortese, più vicino ai temi classici della scuola e un Habermas più linguista. Per questa ragione si parla di svolta linguistica nel pensiero di Habermas. Uno sguardo più attento in realtà si accorgerà di come i concetti principali della sulla teoria dell’agire comunicativo sono in gioco fin dai primi anni della sua attività filosofica. La cosiddetta svolta linguistica in ambito filosofico consiste in uno slittamento dei temi tradizionali della pensiero dal piano logico-gnoseologico a quello pragmatico-linguistico. Il tentativo è quello di far piazza pulita dei finti problemi posti in essere dalla filosofia della coscienza.Già Wittgenstein aveva osservato come fosse l’impostazione filosofica occidentale in sé il problema. Questa non fa altro che costruire paradossi. Pone problemi piuttosto che risolverli. L’unico modo per liberarsi delle aporie della storia del pensiero occidentale è allora liberarsi della logica che le ha costruite. Habermas abbraccerà questa impostazione sin dai suoi primi scritti. Già in Conoscenza ed Interesse riterrà che il problema della filosofia critica consiste nella strategia del dubbio incondizionato. Senza scendere al momento nei dettagli, Habermas sostiene che l’unico modo per sciogliere il problemi della modernità è superarla dialetticamente. Bisogna cioè conservare la tensione critica, ma abbandonare la pretesa di una fondazione ultima. Cos’è la svolta linguistica nel pensiero occidentale La filosofia del linguaggio rompe alcuni degli schemi tipici dell’impostazione filosofica occidentale. Il linguaggio in quanto strumento di comunicazione è infatti anche un comportamento. Il parlare è anche un agire e l’azione è sempre orientata verso un fine. Il pensiero è dunque un pensiero che si esprime attraverso un linguaggio che è espressione di una visione del mondo. Esprime un comportamento che è mosso da un interesse pratico. Nell’impostazione della vecchia filosofia moderna, quella che inaugura Cartesio per capirci, il problema principale è individuare un criterio che ci permetta di far luce sulle nostre conoscenze. Tale criterio sarà il fondamento del metodo scientifico e definirà la scienza. Questa infine verrà distinta dalla mera opinione. L’ambito nel quale si svolge questa critica alla conoscenza è proprio quello filosofico. La filosofia moderna è perciò una teoria critica della conoscenza. Essa è il pensiero che indaga su se stesso e sulle proprie condizioni di possibilità. Questo livello di indagine è definito “metaconoscitivo”. E’ vale a dire oltre il piano della conoscenza. Qual’è il problema di questa impostazione? Il metodo resta quello cartesiano. Occorre innanzitutto depurare il pensiero dal suo oggetto. Se è vero che il pensiero pensa sempre l’essere, allora occorre “filtrare” il primo, sganciandolo dal secondo. Il movimento è quello dell’epoché, del sospendere la validità o mettere tra parentesi. L’epoché dunque solleva dal piano dell’esperienza la questione delle condizioni di possibilità dell’esperienza. Guadagna il piano metaconoscitivo che andavamo cercando. Conoscenza e meta-conoscenza Tolta la conoscenza empirica, tolte le scienze matematiche e logiche, messa in dubbio la mia stessa esistenza emerge dalle ceneri del dubbio il Cogito. Questo sarà il principio evidente fondante, ma non fondato. L’erede nel Dio cristiano creante, ma non creato. Questo è grosso modo il problema della modernità. Liberarsi dell’impostazione assiomatica del cristianesimo senza però rinunciare alla pretesa di una causa prima, di un ente sommo posto a guardia del pensiero stesso. Un’operazione più strutturata è compiuta da Kant. Nella sua critica alla ragion pura stabilisce il criterio trascendentale come garante della conoscenza sicura. Il trascendentale è in sé in quanto condizione di possibilità, oltre l’esperienza, pur essendo sempre legata ad essa. Come per il criterio dell’evidenza di Cartesio anche per Kant le condizioni trascendentali della conoscenza non vanno dimostrate. La giustificazione per loro non è sillogistica, ma descrittiva. Ciò che è evidente non necessità di alcuna dimostrazione proprio perché è evidente. Kant come Cartesio parte dal presupposto che ci sono delle conoscenze più certe di altre e che occorra piuttosto capire cosa le rende certe, per individuare il criterio con il quale produrre certezza per così dire. L’analogia con il cristianesimo dunque torna ancora. Neanche San Tommaso intese mai dimostrare l’esistenza di Dio. Per lui sarebbe stata una bestemmia. L’essenza della fede non è la dimostrazione ma la fede. Quelle che indicò dunque non erano prove dell’esistenza come spesso si dice, ma “vie”. Occorreva individuare il cammino che conduce alla verità, pur sapendo che quella verità esiste già a prescindere dal fatto che io la scopra. Cartesio, ma anche Kant vivono la modernità. La scienza con cui hanno a che fare loro è la fisica e poi la biologia. Questa ha già celebrato storicamente la sua vittoria sulla fede. Sono state già fatte scoperte sorprendenti che hanno cambiato la storia. Come prima per Dio, nessuno in altre parole mette in discussione che ci sia un fare scientifico che abbia portato a tali risultati. Occorre solo individuare come si sono ottenuti. L’indagine di questo tipo è dunque un indagine ricostruttiva ed è questo il terreno proprio della teoria critica o criticismo. Linguaggio è meta-linguaggio di se stesso e di tutti i metalinguaggi possibili Qual’è dunque il problema? L’indagine sulle condizioni di possibilità della conoscenza non sono forse già conoscenza? L’operazione del sospendere il giudizio non è forse un esercizio retorico? Possiamo sul serio smettere di pensare e respirare e parlare? Insomma possiamo davvero sospendere la validità delle nostre conoscenza per indagare sulle sole strutture della conoscenza? Possiamo davvero sospendere la validità del principio di non contraddizione per dimostrarne la validità? La risposta è No. Tant’è che Aristotele fa parlare per primo il sofista lasciando che sia lui ad essere catturato da questa contraddizione: “Non si può negare il principio di non contraddizione, senza affermarlo”. Insomma la teoria critica della conoscenza usa già i criteri che deve ancora dimostrare e cade nel vizio della petitio principi che Aristotele semplicemente scansò mediante l’artificio retorico di “includere” l’obiezione di un presunto oppositore. La verità è che se avesse cominciato lui affermandolo sarebbe caduto nello stesso errore: Esso è già da sempre in uso ancora prima di affermarlo. Ma che vuol dire che lo usiamo? Vuol dire innanzitutto che la conoscenza è un comportamento e che non possiamo smettere di averne uno. Siamo l’insieme delle nostre conoscenze e credenze e convinzioni sulla realtà. L’interno è l’esterno. L’io è il risultato delle relazioni che costituisce con il mondo esterno e con l’altro Io. Tutti questi ragionamenti che la filosofia del conoscenza guadagna con fatica e a prezzo di forti contraddizioni costituiscono le premesse della filosofia del linguggio. L’idea principale che subentra con la svolta linguistica è infatti che il linguaggio è metalinguaggio di sé stesso. Le condizioni di possibilità del discorso sono infatti da individuare essere stesse in un discorso. Comunicare è un comportamento che non si può non assumere. Il discorso non necessità di una fondazione ultima perché il linguaggio non ha una struttura piramidale. Tutto è centro e tutto è periferia. Dalla base del linguaggio ogni tanto si stacca un pezzetto di verità messo in questione e analizzato in un discorso. La teoria del linguaggio in questo senso dissolve un paradosso che ha permeato tutta la filosofia moderna, il paradosso della fondazione ultima. Un inizio senza presupposti, senza che cioè i principi primi vengano mostrati e non dimostrati non è possibile dentro lo spazio della vecchia filosofia. Habermas: La teoria degli interessi guida della conoscenza Alla riflessione critica di matrice kantiana va sottoposto un altro livello di riflessione fenomenologico che indaga sul processo di sviluppo di quelle stesse strutture trascendentali. Habermas parla perciò di Tiefenstruktur, struttura profonda. Occorre indicare questo livello di inabissamento del trascendentale, dentro la storia dello sviluppo del genere umano. I quadri trascendentali non sono strutture perenni, ma evolvono. Si passa da una ragione solitaria separata dal soggetto empirico ad individui in carne ed ossa. Questi in quanto concreti sono interessati orientati verso un oggetto desiderato. Nessun uomo è un’isola. Ogni individuo costruisce la sua identità rapportandosi agli altri. Si parla perciò di costruzione sociale del sé e di interazione. Lavoro e Interazione, sono dunque i due movimenti che compie l’individuo. Sono le due forme di razionalità cui sottostanno due diversi interessi della conoscenza. «l’interesse conoscitivo alla disposizione tecnica su processi oggettivanti (EuI 10)» e «l’interesse al mantenimento e all’estensione dell’intersoggettività di una possibile intesa che orienti l’azione (EuI 11)». Agire strumentale, agire comunicativo ed emancipazione Gli interessi più un dato di fatto della ragione sono un risultato e in quanto risultato non possono più anticipare ciò da cui provengono, ma vi susseguono. Gli interessi della conoscenza emergono dallo sviluppo materiale della storia del genere umano e risalgono dallo stato di inconsapevolezza via via che lo sviluppo del pensiero guadagna i livelli corrispettivi di riflessione. L’agire strumentale e l’agire comunicativo sono in sé una ricomposizione dei due livelli della razionalità pratica e teorica insieme. La ragion pura è infatti interessata e nella misura in cui lo è e calata nel particolare. Quello che non è chiaro tuttavia è se l’agire comunicativo si ponga come superamento dell’agire strumentale o semplicemente gli si accosti accanto. Agire emancipativo La mediazione tra le due forme di razionalità è perciò tentata attraverso un modello di razionalità emancipativa. L’emancipazione è legata dai tempi di Socrate ad una conoscenza di sé attraverso l’altro. Un dialogo nel quale uno dei due individui conosce l’illusorietà delle verità dell’altro e per questa ragione è in grado di individuarne i punti deboli. L’espressione moderna di questa attività è la psicoanalisi. Habermas immagina che l’emancipazione sia il movimento di emersione della razionalità dalle tracce lasciate dal dissonante. Freud a detta di Habermas sarebbe il primo grande pensatore ad aver posto le basi per un recupero definitivo dello spazio della critica. La razionalità emancipativa è ad un tempo riflessiva. “Lo spirito può ripiegarsi sulla connessione di interesse, che ha in partenza annodato soggetto e oggetto; e ciò è riservato unicamente alla riflessione (EuI 15)». La razionalità emancipativa scopre e dissolve la contraddizione interiorizzatasi nell’individuo e resasi manifesta nel sintomo. Il linguaggio formale L’analisi del linguaggio assume un ruolo centrale a partire dallo scorso secolo, quando autori raggruppatisi nel famoso circolo di Vienna tentarono l’elaborazione di un linguaggio formale. Autori come Carnap, Russell e lo stesso Wittgenstein furono coinvolti nel tentativo di individuare la struttura universale del linguaggio. Questa infatti era la stessa a dare forma ai pensieri, ma anche alla realtà. Pensiamo attraverso le parole e queste sono in grado di condizione i nostri ragionamenti. Si dice che il linguaggio esprime una visione del mondo. allo stesso modo la realtà non è l’insieme di oggetti, ma di fatti che possono accadere come non accadere. L’albero è un oggetto, che l’albero sia piantato per terra è un fatto, ovvero una relazione. A dare significato alle parole, come i fatti allora non è nient’altro che l’insieme delle relazioni che queste parole o concetti o fatti intrattengono tra loro. Per spiegare la parola “albero” userò altre parole e molto probabilmente alla fine farò anche degli esempi nei quali uso la parola, per mostrarne il significato. I primi filosofi del linguaggio erano persuasi che i problemi storici della filosofia dipendessero dalla filosofia stessa. L’approccio tradizionale non poteva non concludere che in paradossi irrisolvibili. Nel linguaggio invece la filosofia lascia tutto com’è, esso semplicemente funziona. Per certi versi esso è pensato un po’ come il LOGOS per gli stoici. E d’altra parte linguaggio deriva anch’esso da logos. Le aporie del linguaggio formale Il problema nel quale si arena il tentativo di individuare un linguaggio formale è chiaramente espresso da Wittgenstein alla fine del suo Tractatus. Proprio la riduzione della realtà a insieme di fatti (relazioni) e non cose (sostanze) induceva a pensare il linguaggio nella sua unica funzione rappresentativa. I problemi di natura etico-religiosa venivano dunque scartati perché non compatibile con la struttura dei “fatti”. L’etica e l’estetica non sono fatti del mondo. Tuttavia come ebbe a concludere lo stesso autore per questa via: 6.52. Noi sentiamo che persino nell’ipotesi che tutte le possibili domande scientifiche abbiano avuto risposta, i nostri problemi vitali non sono ancora neppure stati sfiorati. Wittgenstein Il tentativo di individuare un linguaggio formale, perfetto, cristallino conclude infine al silenzio. Se solo ciò che può dirsi, può dirsi chiaramente. Se le uniche verità che si possono affermare sono quelle scientifiche basate su fatti, alla filosofia non resta alcuno spazio. Il metafisico, il mitico, l’etico, il bello non sono fatti del mondo. Essa può solo mostrare l’insensatezza delle sue proposizioni:”Su ciò di cui non si può parlare si deve tacere“. Questa è la conclusione parossistica del cosiddetto positivismo logico. La funzione rappresentativa del linguaggio è preceduto da un primato direi quasi antropologico della “vista” su tutti gli altri sensi. “vedere per credere” si suol dire. Questo per indicare il fatto che la certezza assoluta, la prova ultima può essere data soltanto da ciò che ci sta di fronte. La verità è un adeguamento delle cose e dell’Intelletto diceva San Tommaso. La conoscenza rappresenta il mondo. E’ piuttosto indifferente da questo punto di vista se sia il mondo ad adattarsi alla nostre strutture di pensiero (gnoseologia) o il pensiero a “copiare” i fatti del mondo “ontologia”. Resta il fatto che viene ingigantita la funzione rappresentativa della conoscenza. La prima analisi del linguaggio risente di questo problema. La teoria “rappresentazionista” del linguaggio ha come primo problema, dunque, quello di lasciar fuori da sé tutto ciò che non può essere ridotto alluso descrittivo. “La funzione rappresentativa del linguaggio fornisce l’immagine fuorviante di un pensiero che rappresenta oggetti o fa presenti fatti soltanto se la si distacca da questo contesto di esperienze riferite all’azione e di giustificazioni discorsive” (WR, 31). Come afferma lo stesso Habermas, «lo “Specchio della natura” – la rappresentazione della realtà è il modello errato del conoscere, perché la relazione a due membri di immagine e riproduzione – e la relazione statica tra asserzione e stato di cose – chiude in dissolvenza la dinamica dell’accrescimento del sapere mediante soluzione di problemi e giustificazioni» (WR, 31). Con il linguaggio tuttavia non rappresentiamo soltanto oggetti. Facciamo promesse, preghiamo, esortiamo e così via. Detta alla buona il linguaggio non rappresenta qualcosa, ma serve a qualcosa. Parlare è un azione, un atto linguistico più precisamente, esprime dunque delle intenzioni. Parlare è innanzitutto parlare con qualcuno di qualcosa. Il linguaggio ridotto a rappresentazione di fatti, innalzava l’asserzione a forma pura ed escludeva ad un tempo le altre funzioni del linguaggi e i suoi molteplici criteri di validità. Rappresentava inoltre il soggetto linguistico come un soggetto solitario. Lo astraeva dal suo contesto Il linguaggio ordinario e la filosofia analitica Pensandoci bene cosa rende valida un asserzione? Ed è possibile sostenere che le sue condizioni di validità siano identiche alla promessa? Al domandare? Al dubitare? Al giurare e così via? Non si tratta forse di atti linguistici diversi che pertanto hanno condizioni di validità diverse? L’uso comune del linguaggio esso rivela piuttosto le sue infinite potenzialità. La vita quotidiana ci mostra come anche quando di afferma qualcosa la si afferma di fronte a qualcuno. Questo qualcuno può accettare o rifiutare la nostra versione dei fatti. Può rispondere o non rispondere alla nostra domanda. Può credere meno al nostro dubito ecosì via. l’analisi del linguaggio ordinario permette dunque la funzione assertiva delle proposizioni entro il quadro più ampio del riferimento intersoggettivo della comunicazione. “Il riferimento al mondo e alle cose della componente proposizionale si intreccia con il riferimento intersoggettivo della componente illocutoria” (WR, 31). La pragmatica universale E’ in questo spazio di analisi che si inserisce l’elaborazione di una pragmatica universale. Secondo Habermas infatti la funzione principale del linguaggio, quella cui possono essere subordinate tutte le altre è il consenso. Possiamo usare la ragione come uno strumento per rapportarci alla Natura, per emanciparsi da essa, guadagnare livelli sempre superiori di indipendenza (sviluppo tecnologico). Questo equivale all’uso strumentale della ragione che privilegia l’uso rappresentativo del linguaggio. Insieme alla nostra disposizione tecnica verso il mondo, esiste anche un esigenza comunicativa e relazionale rispetto agli alti. L’agire comunicativo è l’espressione originaria dell’Io: «Se concepiamo “l’intesa” come il telos intrinseco alla lingua, la pari originarietá di rappresentazione, comunicazione e agire risulta evidente. Ci si intende con un altro circa qualcosa nel mondo» (WR, 5). «Come rappresentazione e come atto comunicativo – sottolinea lo stesso Habermas – l’espressione linguistica guarda contemporaneamente in entrambe le direzioni: verso il mondo e verso il destinatario» (WR, 5). Se l’uso principale del linguaggio è la comunicazione, ovvero la regolamentazione dei rapporti intersoggettivi, l’intesa è il telos originario di ogni atto linguistico. C’è di più. Per Habermas l’intesa universale è la condizione originaria dell’uomo, che nasce immerso nel suo mondo linguistica. Ogni individuo nasce in sintonia con il suo ambiente familiare e sociale, perché da esso trae i suoi quadri trascendentali, ovvero, le sue convinzioni di fondo. Solo dopo uno sviluppo individuale e sociale completo è in grado di entrare in conflitto con questo sistema di valori costruito socialmente. Questi gradi di sviluppo dell’Io sono analizzati da Habermas attraverso gli studi di Piaget e Kohlberg. A noi basti sapere che c’è una fase in cui l’individuo è chiamato ad appropriarsi del grado di sviluppo sociale e culturale prodotto dalla sua comunità e dalla sua epoca e uno stadio più evoluto, definito postconvenzionale nel quale l’individuo può entrare in conflitto con queste convinzioni di sfondo per rielaborarle in modo autonomo La filantropia di Habermas Habermas è dunque un ottimista. Un filantropo convinto che lo scopo ultimo della contesa sia la collaborazione. Egli è persuaso del senso comunitario e collettivo dell’Io e del fatto che per ogni discussione sia sempre possibile raggiungere un’intesa se non fattuale almeno ideale. Ma quando si discute di qualcosa per Habermas? Come dicevamo per lui siamo sempre in accordo. I partecipanti di una comunità, proprio perché membri di quella comunità esprimono un tacito assenso alle convinzioni di quella stessa comunità. Di questo noi non ci rendiamo effettivamente conto. Quando parliamo tuttavia stiamo dando per scontato che l’altro ci capisca. Anche quando tentiamo di convincerlo su qualcosa, facciamo appello ad un insieme di convinzioni che riteniamo siano condivise e indiscutibile. Sarebbe impossibile infatti discutere di qualcosa senza che tutto il resto delle nostre convinzioni non venisse dato per accettato e condiviso. Non si può discutere su tutto contemporaneamente, ma su qualcosa volta per volta. Tutto il resto però è dato per vero, per giusto e per corretto. Direi di più. Se tentiamo di convincere qualcuno di qualcosa è proprio perché siamo convinti che lui ragioni come noi. Siamo persuasi che io e lui siamo fatti della stessa pasta. Questa è l’essenza dell’universalismo habermasiano, che alla lunga è erede dell’universalismo cristiano. E’ erede della convinzione che siamo tutti figli di Dio e che pensiamo tutti allo stesso modo, perché imitiamo i suoi pensieri. L’obiettivo del successo dell’azione è subordinato a quello del coordinamento privo di coercizione. «Nell’agire comunicativo i partecipanti non sono orientati primariamente al proprio successo, essi perseguono i loro fini individuali a condizioni di potere sintonizzare reciprocamente i propri progetti d’azione sulla base di comuni definizioni della situazione» (WR, 394). Le pretese di validità della comunicazione La funzione rappresentativa ha come obiettivo la verità ed è su questa che gli interlocutori debbono cerca un consenso. La verità di cui tanto discute la filosofia è dunque soltanto una delle condizioni di validità del linguaggio. Quali sono dunque le altre funzioni del linguaggio? Locuzione, illocuzione e perlocuzione All’interno della struttura proposizionale è possibile inoltre distinguere una componente locutiva, una illocutiva e una perlocutiva. La prima è riferita al contenuto delle proposizioni. Con essa il parlante esprime situazioni di fatto. La componente illocutiva si riferisce al tipo di azione che il parlante compie quando dice qualcosa. Con gli atti perlocutivi, infine, il parlante raggiunge un effetto presso l’uditore. l’atto perlocutivo potrebbe essere inteso come il fine della comunicazione. “I tre atti distinti da Austin sono quindi caratterizzabili secondo le voci seguenti: dire qualcosa; agire mentre si dice qualcosa; produrre qualcosa mediante il fatto di agire mentre si dice qualcosa” (TKH, 399). Posso affermare che l’albero è piantato per terra (asserzione). Posso chiedere se l’albero sia piantato per terra (domanda). Posso pregare qualcuno di piantare l’albero per terra. Giurare di aver visto un albero piantato per terra. Comandare qualcuno di piantare un albero per terra è così via. Il fatto che ci sia un albero piantato per terra è un fatto o locuzione. Il modo con cui questa locuzione si presenta nella relazione intersoggettiva tra parlanti è l’illocuzione. Il risultato che voglio ottenere comunicando è la perlocuzione. La perlocuzione e l’agire strategico “Con quest’atto io vi dichiaro marito e moglie!”. Questo è forse l’esempio di perlocuzione più chiaro. Mentre dico qualcosa, faccio qualcosa. Il dire è un fare, nel senso di creare, manipolare la realtà. L’atto illocutivo dunque è interno alla comunicazione e si accompagna in modo inscindibile al contenuto. La perlocuzione al contrario orienta la comunicazione verso un fine, che non è deducibile dalla comunicazione stessa: “il fine illocutivo, che un parlante persegue con un’espressione, scaturisce dal significato stesso di quanto viene detto ed è costituito da azioni linguistiche” (TKH, 399). Il destinatario deduce i fini perlocutivi del parlante dal contesto. Posso domandare perché accrescere le mie conoscenze, per fare una bella figura a lezione, perché voglio conoscere una ragazza, per mettere in difficoltà qualcuno, per spingerlo a confessare e così via. Il fine perlocutivo del parlante non sempre è manifesta e determina per altro la differenza tra un fare autentico ed uno strategico. Rispetto alle interazioni strategiche l’agire comunicativo si contraddistingue per il fatto che tutti i partecipanti perseguono senza riserve i propri fini illocutivi per raggiungere un’intesa che costituisce la base per un coordinamento unanime dei progetti di azione perseguiti di volta in volte in modo individuale (TKH, 406). Lo scopo performativo di ogni comunicazione dovrebbe essere il raggiungimento di un accordo o la dissoluzione di un dissenso. Questo distingue l’agire autenticamente comunicativo, da un fare strategico. I tipi di iterazione si differenziano in primo luogo in base al meccanismo di coordinamento delle azioni, in particolar modo a seconda che il linguaggio naturale debba valere soltanto come mezzo per la trasmissione di informazioni, oppure anche come fonte dell’integrazione sociale (ND, 66). Rendere manifeste le proprie intenzioni è sempre possibile. L’atto con il quale si sotterrano i proprio reali obiettivi, qualunque sia il motivo è un atto strategico. Se ci pensiamo bene esso è reso possibile proprio perché è presupposta la nostra buona fede. Si può aggirare qualcuno che è in buona fede, solo in quanto questo pensa che noi siamo come lui. In questo senso per Habermas «l’uso linguistico latentemente strategico è parassitario, poiché esso funziona soltanto se perlomeno una delle due parti dà per scontato che il linguaggio viene usato nel senso di un orientamento rivolto all’intesa» (TKH, 130). Nell’agire strategico il fine dell’intesa intrinseco ad ogni atto comunicativo è subordinato al raggiungimento di uno scopo. I tre modelli di razionalità nella comunicazione Se l’agire non subisce influssi strategici, se esso epurato da interessi personali occulti è allora possibile distinguere tre piani di reazione ad un’azione linguistica in base ai quali l’uditore deve: 1) comprendere l’espressione, 2) prendere posizione con un «sì» o con un «no» su una pretesa avanzata con un atto linguistico, 3) in conseguenza dell’intesa raggiunta, orientare il proprio agire. I tre atti non rappresentano, però, tre momenti separati, come fossero fasi distinte e successive l’una all’altra, ma si compenetrano vicendevolmente quali aspetti diversi di uno stesso processo. Comprendere un proposizione è un chiedere ragioni per la sua validità, si comprende una proposizione solo se si capisce a quali condizioni è vera, giusta e avanzata con veridicità: «Comprendiamo il senso di una proposizione se sappiamo che cosa la rende accettabile» (TKH 419). La posizione habermasiana riduce i criteri di validità della proposizione a condizioni di accettabilità, le quali impongono il confronto dialettico con l’altro; le regole linguistiche non possono essere seguite in modo solipsistico. Se, infatti, l’accettabilità è legata all’intesa la validità si lega alle condizioni intersoggettive necessarie affinché un uditore possa prendere posizione sulle pretese almeno avanzate dal parlante. Tali condizioni non possono essere soddisfatte unilateralmente né in relazione al parlante, né in relazione all’uditore; si tratta piuttosto di condizioni per il riconoscimento intersoggettivo di una pretesa linguistica che, in modo tipico all’atto linguistico, fonda un’intesa contenutisticamente definita circa vincoli che sono rilevanti per le conseguenze dell’azione (TKH 409). Se si considera, inoltre, la valutazione intuitiva che un parlante comunica per intendersi con un uditore su qualcosa, rendendo perciò comprensibile se stesso, allora, si potranno ricavare dall’analisi delle strutture illocutive i tre piani d’azione in cui è inserita la prassi umana. Fa parte dell’intenzione comunicativa del parlante a) compiere un’azione linguistica corretta in relazione al contesto normativo dato, affinché si realizzi una relazione interpersonale riconosciuta legittima fra lui e l’uditore; b) formulare un’enunciazione vera (ovvero di presupposti di esistenza appropriati) affinché l’uditore assuma e condivida il sapere del parlante; e c) esprimere opinioni, intenzioni, sentimenti, desideri ecc. in modo veridico affinché l’uditore presti fede a quel che viene detto (TKH 419-420). Correttezza o giustezza normativa, veridicità e verità sono dunque le tre pretese di validità avanzate da una proposizione. 1) La correttezza si riferisce alle relazioni interpersonali regolate non in conformità ad attribuzioni di potere, ma secondo il principio del successo; 2) la verità si riferisce all’insieme delle condizioni che il parlante assume riguardo alle circostanze materiali della situazione in cui avviene la comunicazione, circostanze identificabili in un sapere di sfondo per lo più intercondiviso; 3) la veridicità si riferisce invece alla condizione principe della comunicazione, ovvero, alla buona fede dei parlanti, buona fede dalla quale, come visto, dipende la differenza tra un’agire comunicativo, o al più impegnato all’accordo, da un’agire strategico. La razionalità comunicativa, dunque, si sostituisce quale completamento delle forme di razionalità epistemica e teleologica, quale diverso modo di concepire l’azione e il linguaggio. La comunanza intersoggettiva di un’intesa raggiunta mediante la comunicazione sussiste sui piani differenti della conformità normativa, del sapere proposizionale condiviso e della fiducia reciproca nella sincerità soggettiva: Chi respinge un’offerta d’atto linguistico comprensibile, contesta almeno una di tali pretese di validità. Respingendo un atto linguistico in quanto giusto, non vero, non veridico, il destinatario comunica con il suo «no» che l’espressione non soddisfa le sue funzioni di assicurare una relazione interpersonale, di rappresentare degli stati di cose o di manifestare esperienze vissute, poiché non è in sintonia con il nostro mondo di relazioni interpersonali regolate in modo legittimo o con il mondo degli stati di fatto esistenti o con il rispettivo mondo di esperienze soggettive (TKH 420). I tre principi sono l’uno implicato nell’altro. E’ sufficiente che l’ascoltatore critichi almeno uno dei tre criteri di validità per confutare il senso intero della proposizione. In questo modo però affinché la mia proposizione possa raggiungere il fino illocutivo dell’intesa è necessario che venga (in quanto giusta e veridica) accompagnata da pratiche d’azione ad essa coerente. In questo senso l’agire comunicativo è da intendersi come meccanismo non coercitivo di coordinamento dell’azione: Le relative pretese di validità, della verità, della giustezza e della veridicità possono allora servire da filo conduttore per la scelta dei punti di vista teorici sotto i quali si possono fondare le modalità basilari dell’uso linguistico o funzioni linguistiche e si possono classificare le azioni linguistiche che variano a seconda del singolo linguaggio (TKH 386). Verità, veridicità e giustezza sono le pretese che avanziamo anche solo implicitamente in ogni nostra affermazione. Presupponiamo che con le nostre affermazioni ricerchiamo il vero, il giusto e che siamo in buona fede in questa ricerca. Se non esistesse un’idea comune di verità, di giustizia e se non presupponessimo che il nostro interlocutore sia in buona fede nell’avanzare queste due pretese, non avvieremmo neanche una discussione. Vale la pena dunque chiarire che il Discorso (Diskurs) rappresenta per Habermas la forma riflessa dell’interloquire (Rede) è perciò la forma emancipativa della razionalità di cui abbiamo già parlato, declinata nella teoria del linguaggio. Essa subentra solo in caso di conflitto interno alla razionalità strumentale o comunicativa, ovvero solo quando le cose non funzionano. Si agisce senza badare alle condizioni per cui si agisce. Al contrario si sospende l’azione e riflette sui principi dell’azione, quando qualcosa corto-circuita l’azione e quindi non abbiamo ottenuto il fine per cui abbiamo programmato l’azione (agire strumentale) oppure un interlocutore ci muove un’obiezione (agire comunicativo). Il Discorso La Teoria del discorso recupera il problema della critica radicale in un senso rinnovato. Così come l’atto terapeutico aveva il compito di indagare l’inconscio esplorarne i momenti di incoerenza e attraverso questi ricostruire i tratti salienti della razionalità, il discorso ha il compito di riannodare i momenti critici della comunicazione, risolvere la negatività venutasi a creare nel fraintendimento o nell’obiezione e al contempo ricostruire le condizioni di possibilità del discorso stesso, in modo immanente ovvero sulla base dei suoi stessi presupposti. Il linguaggio è metalinguaggio di se stesso, nel senso che il punto di vista critico non è esterno al linguaggio quotidiano ma entro lo stesso, così come il soggetto trascendentale non è un dato ma un risultato. Dall’analisi delle storture del linguaggio comune è possibile individuare i modi corretti di comunicare. Le ricostruzioni razionali sono quindi costruzioni ex-post (Nachkonstrutionen), che vengono dopo l’azione, quando l’azione viene sospesa in attesa di un chiarimento argomentativo. Le ricostruzioni razionali, nella misura in cui esplicano le condizioni di validità di enunciati, possono spiegare anche casi anomali, e con questa autorità indirettamente legislatrice assumono funzione critica (TKH 46). Detto altrimenti l’intesa intersoggettiva è ad un tempo lo spazio dentro il quale siamo continuamente immersi, presupposto implicito di ogni comunicazione, il fine della comunicazione stessa e la condizione di risoluzione di ogni contesa. L’intesa è l’alfa e l’omega di ogni azione e interazione, il fondamento e il fine di ogni azione, presupposto e risultato della stessa. Universalizzazione comunicativo e fondamento etico dell’agire In questo senso è possibile parlare di un’etica del discorso. Il problema intrinseco ad ogni teoria della morale che non si arrende alle minacce dell’oggettivazione del pensiero strumentale è quello di trovare un adeguato strumento di misura, che le permetta di avanzare pretese di universalità. «Soltanto la pretesa di validità universale – argomenta Habermas – conferisce ad un interesse, ad una volontà o a una norma la dignità di un’autorità morale» (TKH, 55). Habermas per affrontare simile problema riprende il noto concetto d’universalizzazione kantiana: Tutte le ricerche sulla logica dell’argomentazione morale conducono ben presto alla necessità di introdurre un principio morale che svolga, quale regola argomentativa un ruolo equivalente a quello che nel discorso scientifico– sperimentale è svolto dal principio di induzione (TKH, 71). Secondo l’autore «il principio ponte che rende possibile il consenso deve dunque assicurare che vengano accettate come valide soltanto quelle norme che esprimono il consenso di tutti gli interessati» . L’universalizzazione costituisce dunque per Habermas la soluzione del problema morale: «una norma può pretendere di avere valore soltanto se tutti coloro che possono essere coinvolti raggiungono, come partecipanti ad un discorso pratico, un accordo sulla validità della norma» (TKH, 71). Data questa organizzazione dell’argomento morale, che guarda ad un livello post-convenzionale della norma, il principio universalizzante dell’intesa è ad un tempo condizione dell’agire comunicativo e principio di legislazione universale. Considerando che l’agire comunicativo guarda all’insieme delle pratiche quotidiane inserendo l’azione umana ad un livello precedente la razionalizzazione del mondo della vita, allora, allo stesso livello, si trova la morale, che intende ricavare proprio dall’azione le norme dell’azione stessa. Nella misura in cui l’agire comunicativo è razionale solo in quanto ricava entro sé i termini della propria razionalità, la morale habermasiana può ancora dirsi autonoma. «Coloro che partecipano all’argomentazione – infatti – non possono fare a meno di presupporre cha la struttura della comunicazione escluda, per via di caratteristiche da descrivere formalmente, qualsiasi coazione che, oltre quella dell’argomento migliore, influisca dall’esterno sui processi d’intesa» (MKH, 91). Il discorso morale, infatti, aggancia le altre due pretese di verità che in un discorso semplicemente assertivo venivano occultate. In questo modo, un’argomentazione che intenda rispettare prima ancora che il valore di verità, quello di giustezza normativa e di veridicità, per un verso non può sfuggire all’idea di concreto confronto di tutti gli interessati, in linea di principio, all’argomentazione e per altro verso, non può non sottostare al principio etico dell’equità, quale risultato stesso di una simile inclusione. I principi idealizzanti L’intesa universale è l’obiettivo estremo di ogni discorso, ma anche il presupposto implicito di ogni relazione. Nel nostro agire e parlare presupponiamo sempre di essere d’accordo con tutti su tutto, in modo implicito e rassicurante per le nostre azione. Quando il fraintendimento scatta nella discussione veniamo posti di fronte a delle obiezioni, che sospendono lo stato di quiete assoluta, di assoluta concordanza su tutto. Le obiezioni richiedono un chiarimento e questo deve poter ricondurre all’intesa universale che in questo senso è presupposta dal Discorso e raggiunta tramite questo stesso. Affiché l’intesa sia universale essa deve avvenire secondo delle condizioni che possiamo, come visto, definire etiche, Habermas analizza nel dettaglio i tre livelli di presupposti inevitabili dell’argomentazione, immediatamente desumibili dal principio U. Egli distingue tra il livello logico dei prodotti, quello dialettico delle procedure e quello retorico dei processi . Per riassumere il senso di una simile classificazione e dunque il nucleo fondamentale delle implicazioni immediatamente connesse al principio di universalizzazione, possiamo semplificare utilizzando un resoconto fornitoci dallo stesso Habermas: Tra l’altro [il parlante che agisce in modo comunicativo] deve presumere che gli interessati: a) perseguano senza riserve mentali i loro fini illocutivi; b) subordino la loro intesa al riconoscimento intersoggettivo di pretese di validità criticabili, c) si mostrino disponibili ad accollarsi obbligazioni che, scaturite dal consenso, influenzino l’ulteriore sviluppo dell’interazione (FG, 12). Al livello retorico dei processi inoltre è necessario che: (3.1) Ogni soggetto capace di parlare e di agire può prender parte a discorsi (3.2) a Chiunque può problematizzare qualsiasi affermazione. b. Chiunque può introdurre nel discorso qualsiasi affermazione c. Chiunque può esternare le sue disposizioni, i suoi desideri e i suoi bisogni (3.3) Non è lecito impedire a un parlante, tramite una coazione esercitata all’interno o all’esterno del discorso, di valersi dei suoi diritti fissati nei punti (3.1) e (3.2) (FG 21). Intesa e riconciliazione È richiesto inoltre che i parlanti debbano «accordarsi tutti insieme circa quali norme debbano secondo loro regolare legittimamente la loro convivenza» (WR 179). Ciò che riteniamo vero deve inoltre «potere essere difeso non solo in un altro contesto, ma in tutti i possibili contesti, dunque in ogni momento contro chiunque» (WR 252). L’intesa universale recupera quindi in modo indiretto il punto di vista morale, che è un punto di vista inclusivo e totalizzante. La prospettiva dell’uomo impegnato in un agire comunicativo non strategico è dunque una prospettiva impegnativa Egli dovrebbe infatti includere nel discorso tutti i potenziali interessati, in ogni tempo e luogo, dar loro diritto di parola e pari opportunità di ragionare teoriche e materiali. Il discorso con loro dovrebbe completarsi quanto l’intesa universale è raggiunta. Ogni discorso avanza pretese di validità che sono presupposte almeno implicitamente dai parlanti e dimostrate solo ex-post al momento della loro messa in discussione. L’impossibilità di dimostrare l’esistenza di alternative ai principi della comunicazione è prova sufficiente della loro inevitabilità pratica. Il loro fondamento è perciò nell’azione e non nel ragionamento. Esiste un livello di indagine dei quadri trascendentali che è spiegabile in termini di ricostruzione ex-post o Discorso. Il Discorso è il luogo dove le pretese di validità possono essere esse stesse contestate, l’unica regola è l’intesa universale, per cui anche sulle regole di discorso è possibile aprire un discorso in caso di obiezione a patto che si ricerchi comunque l’intesa universale. La Verstaendigung è dunque il luogo della riconciliazione. La domanda che ci si pone è la seguente: è possibile considerarla alla stregua di un ideale regolativo di kantiana memoria? Si tratta di uno sforzo, tensione costante che è prova ad un tempo della finitudine umana e allo stesso tempo della sua aspirazione alla trascendenza? Oppure la Verstaendigug è di per sé un ideale negativo? L’impossibilità di raggiungere l’intesa universale nei fatti, dei configurarsi come limite inalienabile di una tensione pur positiva o piuttosto come una clausola di salvaguardia? Nella tensione perenne tra individuale e universale, singolarità e collettività, non è forse che l’Intesa cela gli stessi interrogativi della riconciliazione (Versohnung), sottratta la quale, Adorno prima di lui preferì parlare di Dialettica negativa? La vittoria definitiva del “Noi”, della comunità, della totalità, dello Spirito Assoluto, non è forse la fine della coscienza individuale? Non succede come già nella Fenomenologia che se il fine dichiarato della dialettica è il superamento del negativo, la coscienza lavora contro se stessa per eliminare il suo stesso punto di vista, finito e contradditorio? La violenza del punto di vista universale è allora quella che si abbatterebbe sul singolo che si ostina a mantenere aperta la discussione a muovere obiezioni contro l’argomento migliore. Così come la riconciliazione non è auspicabile né da un punto di vista teorico né da un punto di vista storico, allo stesso modo l’intesa universale, deve continuare a sussistere come ideale negativo e non regolativo, presupposto all’inizio di ogni comunicazione, fondamento infondato nella dialettica aperta al divenire. Il fraintendimento resta il luogo inaspettato di incontro autentico con l’altro, il punto prezioso, che va salvaguardato in cui si incontra l’altro nella sua assoluta alterità e che proprio per questa ragioni viene frainteso. Piuttosto che aprire all’intesa, compito di un agire etico e persistere nel fraintendimento, abitarlo come spazio neutro di coabitazione delle differenze, crocevia di scambi, come luogo autentico dell’inter-essere, ovvero “essere in mezzo”, “stare tra”. INDICE DELLE ABBREVIAZIONI: J. HABERMAS: EI – Erkenntnis und Interesse, Suhrkamp, Frankfurt a. M., 1968, trad. it. a cura di E. Rusconi, Conoscenza e interesse, Laterza, Bari, 1970. TP – Theorie und Praxis. Sozialphilosophische Studien, Suhrkamp, Frankfurt a. M. 1971, trad. it. a cura di C. Donolo, Teoria e prassi nella società tecnologica, Laterza, Bari, 1969. TKH – Theorie des kommunikativen Handelns, Bd. I, Handlungsrationalität und gesellschaftliche Rationalisierung, Suhrkamp, Frankfurt a. M., trad. it. a cura di P. Rinaudo, Teoria dell’agire comunicativo, vol. I, Razionalità nell’azione e razionalizzazione sociale, Il Mulino Bologna, 1981. – Theorie des kommunikativen Handelns. Bd. II. Zur Kritik der funktionalistischen Vernunft, Suhrkamp, Frankfurt a. M., 1981. trad. it. a cura di P. Rinaudo, teoria dell’agire comunicativo vol. II, Critica alla ragione funzionalistica, Il Mulino, Bologna 1986. MKH – Moralbewusstsein und kommunikatives Handeln, Suhrkamp, Frankfurt a. M., 1983, trad. it. a cura di E. Agazzi, Etica del discorso, Laterza, Roma-Bari, 1989. DM – Der philosophische Diskurs der Moderne. Zwölf Vorlesung, Suhrkamp, Frankfurt a. M. 1985, trad. it. a cura di Emilio e Elena Agazzi, Il discorso filosofico della modernità, dodici lezioni, Laterza, Roma-Bari, 1997. ED – Erläuterungen zur Diskursethik, Suhrkamp, Frankfurt a. M., 1991, trad. it. a cura di V. E. Tota, Teoria della morale, Laterza, Roma-Bari, 1994. ND – Nachmetaphysisches Denken. Philosophische Aufsätze, Suhrkamp, Frankfurt a. M. 1987, tr. it. a cura di M. Caloni, Pensiero Post-metafisico Laterza, Roma-Bari 1991. FG – Faktizität und Geltung. Beiträge zur Diskustheorie des Rechts und des demokratischen Rechtsstaats, Suhrkamp Verlag, Frankfurt a. M., 1992, trad. it. A cura di L. Ceppa, Fatti e norme. Contributi a una teoria discorsiva del diritto e della democrazia, Guerini e Associati, Verona, 1996. WR – Wahrheit und Rechtfertigung, Philosophische Aufsätze, Suhrkamp, Frankfurt a. M., 1999, trad. it. a cura di M. Carpitella, Verità e giustificazione, Laterza, Roma–Bari, 2001. EA – Die Einbeziehung des Anderen, Suhrkamp, Frankfurt a. M., 1996. trad. it. a cura di L. Ceppa, L´inclusione dell´altro, Feltrinelli, Milano, 1998. More from my site Claudia Rademacher: “La svolta paradigmatica” in “riconciliazione o Intesa?” La svolta comunicativa: Il mutamento di prospettiva Riconciliazione o Intesa: Introduzione Parmenide: riassunto. Il primo degli eleati Eraclito: riassunto. La contesa è madre di tutte le cose Bugie e Verità (sul fondo di “troppo buono”) Condividi: Fai clic qui per condividere su Twitter (Si apre in una nuova finestra) Fai clic per condividere su Facebook (Si apre in una nuova finestra) Fai clic qui per condividere su Google+ (Si apre in una nuova finestra) Fai clic qui per condividere su Tumblr (Si apre in una nuova finestra) Fai clic per condividere su WhatsApp (Si apre in una nuova finestra) Fai clic qui per condividere su LinkedIn (Si apre in una nuova finestra) FILED UNDER: APPUNTI TAGGED WITH: CONOSCENZA E INTERESSE, DISCORSO, ETICA DEL DISCORSO, GIUSTEZZA NORMATIVA, HABERMAS, PRETESE DI VALIDITÀ, SCUOLA DI FRANCOFORTE, TEORIA DELL'AGIRE COMUNICATIVO, VERIDICITÀ, VERITÀ Previous Post Next Post Pingback: Lo scetticismo: conclusione o punto di partenza? – Il barattolo delle idee() I liked a @YouTube video https://t.co/udppbepvKA farina: come sceglierla | impastiamo | CasaSuperStar About 8 hours ago Footer Filosofia Appunti Gli spilli o Filosofia antica o Filosofia medievale o Filosofia moderna o Filosofia post hegeliana Percorsi Traduzioni o Claudia Rademacher Più letti Ludwig Wittgenstein: giochi linguistici e immagini del mondo Feuerbach: Riassunto. La critica alla dialettica Jürgen Habermas: Azione e interazione Schelling: riassunto. L'identità di Spirito e Natura Aristotele: riassunto. La Logica Friedrich Nietzsche Epicureismo: riassunto. Filosofia post-aristotelica Tempo opportunità o condanna? Eutanasia: Il caso di DJ FABO Gnosticismo: riassunto. Il nemico giurato del cristianesimo Tweets I liked a @YouTube video https://t.co/udppbepvKA farina: come sceglierla | impastiamo | CasaSuperStar About 8 hours ago Si certo :). Ovviamente ha un gusto molto particolare sia per l'impasto che pe ril condimento.... Ma veramente buon… https://t.co/RWmFzUMAG7 giugno 1, 2017 8:20 pm Posts MALATO TERMINALE IO ROM AL PROFESSORE CHANGE GITANI LA FORMA DELL'ACQUA ARTICOLO 32 IL DUBBIO FELICITA' E DOVERE GLI SPILLI I CAVALIERI DELLO ZODIACO Copyright © 2017 Il barattolo delle idee Il barattolo delle idee WordPress.org o Documentazione o Forum di supporto o Riscontro LoginRegistrati