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LE MOTIVAZIONI DELLA CORTE di Franco Astengo
Non ha provocato particolare sorpresa la lettura delle motivazioni addotte dalla Corte Costituzionale
per pronunziare, lo scorso 25 Gennaio, la sentenza nel merito del ricorso avverso la legge elettorale
“Italikum”.
Nel testo, infatti, si ravvedono i principali elementi già contenuti nel comunicato che aveva –
appunto- annunciato l’emanazione della sentenza stessa, con la conferma di due elementi di fondo:
la legge elettorale così come modificata dalla sentenza è immediatamente utilizzabile per l’elezione
della Camera dei Deputati ma stante la bocciatura della modifica del Senato nel referendum, la
legge stessa è da “armonizzare” con quella che regge il meccanismo elettorale per la Camera Alta.
Su questo elemento si è scatenato il politicismo di basso profilo che contraddistingue l’insieme dei
soggetti presenti nel sistema politico italiano: un politicismo di basso profilo alimentato anche dalla
mediocre qualità dei commenti giornalistici tutti improntati al tema della “governabilità” ancora una
volta erroneamente intesa come punto esaustivo dell’agire politico.
Invece l’occasione sarebbe buona per riprendere altri due elementi fondamentali: il primo
riguardante la necessità che la legge elettorale si inquadri in un discorso complessivo di filosofia
politica, com’era avvenuto del resto da parte dell’Assemblea Costituente nel tracciare le linee
dell’impianto istituzionale della nuova Italia Repubblicana: senza che, del resto, la stessa
Assemblea includesse la legge elettorale all’interno del testo costituzionale.
Il secondo che concerne la necessità che la legge elettorale stessa non risponda alle esigenze del
momento delle forze politiche, o addirittura (com’era avvenuto sia per la legge del 2005 sia per
l’Italikum) della maggioranza di governo.
L’elaborazione di una legge elettorale richiede quindi l’espressione di una filosofia politica e deve
muoversi su di un asse strategico di valutazione sistemica.
La legge elettorale rappresenta il cardine del sistema politico e come tale andrebbe trattata
attraverso valutazioni di respiro “storico” traguardando le prospettive di un’intera fase politica.
Invece si esprime proprio questo appena definito “politicismo di basso profilo: si tratta
dell’ennesima dimostrazione di un ritardo accumulato da anni nella capacità di sviluppare un’analisi
di fondo sulle forme e le strutture dell’agire politico.
Un’analisi di fondo che pare proprio impossibile riuscire a far decollare.
La realtà della profonda crisi economica e sociale richiederebbe, prima di tutto, un salto di qualità
sul piano culturale, attraverso l’avvio di un serio tentativo di ricostruzione di una sintesi progettuale.
Una sintesi da realizzarsi riuscendo a oltrepassare le espressioni correnti dell’individualismo
dominante (frutto dell’approccio neo-liberista ormai introiettato, fin dai primi anni’90 del XX
secolo, anche dalla sinistra italiana di tradizione socialista e comunista: salvo alcune eccezioni
rimaste minoritarie).
E’ stato attraverso le espressioni dell’individualismo che si sono affrontate, almeno fin qui, le
cosiddette contraddizioni “post-materialiste”.
Quelle contraddizioni “post-materialiste” che Inglehart, fin dal 1997, ha definito come “le scelte
sullo stile di vita che caratterizzano le economie post-industriali”.
Oggi, proprio nella realtà della crisi globale (della quale, almeno in questa sede, non enucleiamo le
caratteristiche specifiche per evidenti ragioni di economia del discorso) reclama il ritorno
all’espressione di valori orientati, invece: “ alla disciplina e all’autolimitazione, che erano stati tipici
delle società industriali”.
Appaiono evidenti le esigenze che sorgono nel merito della programmazione, dell’intervento
pubblico in economia, della redistribuzione del reddito, dell’eguaglianza attraverso l’espressione
universalistica del welfare, del ritorno anche ad una diversa dimensione concettuale sul terreno
della geopolitica e del rapporto fra le dinamiche che si stanno muovendo in questo senso e i
processi di monetarismo e di finanziarizzazione dell’economia venuti avanti nel corso degli anni
che ci separano dalla caduta del bipolarismo tra le superpotenze fino al rimescolamento del quadro
internazione oggi già in atto.
Dal nostro punto di vista il tema della legge elettorale risulta, così, strettamente collegato a quello
di una presenza politico-istituzionale capace di elaborare quel “progetto di sintesi” cui ci siamo già
riferiti.
Perché questo stretto legame?
Ripercorriamo velocemente le caratteristiche dei due principali sistemi elettorali: il maggioritario
(nella cui direzione ci si è rivolti, In Italia, al fine di costruire un artificioso bipolarismo) e il
proporzionale.
L’idea del maggioritario è stata frutto, al momento dell’implosione del sistema politico nei primi
anni’90 del XX secolo, di una vera e propria “ubriacatura ideologica”, strettamente connessa alla
già citata ondata liberista: non si sono avuti risultati sul terreno della frammentazione partitica e su
quello della stabilità di governo.
Inoltre il maggioritario ha aperto la strada allo svilimento nel ruolo delle istituzioni, alla crescita
abnorme della personalizzazione (fenomeno che ha colpito duramente a sinistra, al punto da
renderla in alcune sue espressioni di soggettività del tutto irriconoscibile), alla costruzione di quella
pericolosissima impalcatura definita “Costituzione Materiale” attraverso l’esercizio della quale si
tende verso una sorta di presidenzialismo surrettizio, all’allargamento del distacco tra istituzioni e
cittadini.
Si è poi tentato, arbitrariamente, di tradurre quella “Costituzione Materiale” in un’idea, del tutto
raffazzonata dei modifica costituzionale nel tentativo di superare la centralità del Parlamento e di
imporre un regime personalistico, ma com’è ben noto il voto popolare ha respinto questa ipotesi
aprendo una grave crisi nei soggetti che in maniera del tutto arbitraria avevano provato questa
pericolosa forzatura.
Il sistema proporzionale, quello “vero” (non certo quello viziato dal premio di maggioranza) è stato
accusato d rappresentare, nel passato recente della storia d’Italia, il veicolo di quel consociativismo
considerato l’origine di tutti i mali del sistema politico, inefficienza e corruzione “in primis”.
Rivolgiamo, allora, a tutti una domanda: il sistema misto usato, in due diverse formule, tra il 1994 e
il 2013 ha forse contribuito a ridurre inefficienza e corruzione? Non crediamo proprio, considerata
l’attenta lettura delle cronache di questi anni. Anzi, alla fine, dopo la chiusura di una esperienza di
egemonia del populismo di estrema destra si è avuto addirittura quel tentativo di stretta autoritaria
cui si è già fatto cenno.
Cogliamo quindi l’occasione per esprimere una valutazione del tutto favorevole al sistema
proporzionale: facciamo riferimento, tanto per intenderci, al sistema elettorale usato in Italia dal
1953 al 1992, che pure presentava all’interno una soglia implicita d’accesso con i 300.000 voti da
conseguire sul piano nazionale e un quorum pieno in una circoscrizione e un vantaggio per i partiti
maggiori. La DC e il PCI pagavano infatti un deputato circa 50.000 voti mentre i partiti “minori”
all’incirca 100.000 voti per deputato.
Quello proporzionale rappresenta un sistema fondato necessariamente sul ruolo dei partiti, quali
componenti fondamentali di una democrazia stabile.
Adottato oggi costituirebbe fattore non secondario di ricostruzione di un sistema politico ormai
imploso e impazzito, non più credibile per la grande maggioranza dei cittadini.
Inoltre lo scrutinio di lista con preferenza esige, necessariamente, un diverso equilibrio tra le
candidature, affrontando così il tema del decadimento complessivo della classe politica.
Interessa, però, soprattutto il legame tra sistema elettorale e struttura dei partiti.
E’ questo il punto fondamentale del discorso che intendiamo sostenere in questa sede: il sistema,
per recuperare il dato fondamentale della capacità di rappresentanza, ha bisogno di adeguate
soggettività politiche che, proprio alla presenza di un’articolazione così evidente nelle richieste
della società, produca reti fiduciarie più ampie e meno segmentate, più aperte verso le istituzioni, in
grado di essere produttrici e riproduttrici di capitale sociale, di allentare la morsa del particolarismo
dilatando anche le maglie delle appartenenze locali e rilanciando il “consolidamento democratico”.
Un’ultima annotazione riguardante le motivazioni rese pubbliche dalla Corte nel merito del premio
di maggioranza che viene giudicato congruo in quanto subordinato “ a una soglia di sbarramento
non irragionevolmente elevata”.
Sotto quest’aspetto è necessario ricorrere a un precedente storico: il premio di maggioranza previsto
dall’Italikum è lo stesso che era stato previsto dalla “legge truffa” del 1953, il 15%.
Con una differenza fondamentale: in questo caso, dell’Italikum a turno unico si tratterebbe di un
“premio di minoranza” in quanto legato al raggiungimento del 40% (e se si pensasse di ricorrere
alle coalizioni anziché alla lista il 40% rimarrebbe comunque intatto); nel caso della “legge truffa”
del 1953 si trattava, invece, di un vero e proprio “premio di maggioranza” in quanto la coalizione
vincente avrebbe dovuto superare il 50% dei voti validi.
In quel tempo si pose il problema dell’attribuzione del 65% dei seggi come fu previsto dalla legge e
non si verificò per l’esito del voto, una percentuale che avrebbe potuto consentire alla DC di
mantenere la maggioranza assoluta dei seggi.
Un fattore decisivo per provocare la scissione di socialdemocratici, repubblicani e liberali con la
conseguente formazione di Unità Popolare di Parri e Calamandrei e dell’Alleanza Nazionale di
Epicarmo Corbino, due soggetti che con l’USI di Cucchi e Magnani contribuirono – appunto – al
mancato conseguimento da parte dell’alleanza centrista del premio pur non realizzando il “quorum”
necessario per poter aver accesso ai seggi parlamentari.
Tutto questo a futura memoria, ribadendo l’assoluta contrarietà a qualsivoglia premio di
maggioranza predeterminato.
Serve, in ogni caso, anche sul terreno delle regole istituzionali una proposta di vera alternativa.