PARTE PRIMA – Appaiono nuovi mondi I (Capitolo 1) – Un inizio

PARTE PRIMA – Appaiono nuovi mondi
I (Capitolo 1) – Un inizio
Fisica è fondamentale tra le scienze sperimentali «perché indaga quelle leggi che permettono il
realizzarsi di tutti i processi che si svolgono nell’universo … Una scienza, dunque, con forte pretese
di universalità» (p.7)
Difficile «mantenere il vecchio schema che vede l’opposizione come la sola forma possibile di
rapporto tra fisica e religione. Il Novecento ha disegnato panorami assai più complessi» (p. 9).
Anche lui fa riferimento personale!!! (cf p. 10) Riferimento a partire dalla Rivoluzione Scientifica,
perché è da tale fase che «iniziano ad emergere alcune di quelle caratteristiche strutturali (metodo
sperimentale, matematizzazione, unitarietà d’approccio) che rendono la fisica una scienza nel senso
moderno. Si disegna, così, una distinzione – via via più cosciente – rispetto alla ricerca del periodo
classico e medievale, col suo approccio più direttamente legato alla tradizione filosofica» (p. 10)
Senza per questo «svalutare la riflessione sulla physis dei secoli precedenti» (p.15), ma se numerosi
sono, gli elementi di continuità, essi «non possono, però, sminuire quella novità fondamentale che è
la stessa Rivoluzione Scientifica» (p.16)
[Se prima però il rapporto scienze e filosofia era confuso, in epoca moderna si è separato ed ora
alcuni tendono di nuovo a confondere: necessità di dialogo/interazione ora. Coscienti o no infatti gli
altri saperi esercitano un forte influsso sulle scienze, e oggi si vede! Soprattutto con filosofia della
natura. Il problema è come si debba tenere conto della Vita, il rapporto del ragionare con essa! La
stessa filosofia infatti fino alla Rivoluzione Scientifica era diversa!].
Così il «problema di valorizzare i diversi linguaggi e la ricchezza concettuale di ognuno di essi
esige un’articolazione in un orizzonte epistemologicamente ricco, capace di valorizzare la
specificità dei singoli saperi nelle loro differenze di livello» (p. 11)
1. Un mondo geometrizzato (Dal cosmo al mondo geometrico). Il livello più evidente di questo
passaggio è che il reale perde il suo carattere di cosmos, perché «la fisica moderna vedrà nella
natura forze e movimenti, in una “geometrizzazione dello spazio”, visto ormai come continuo
infinito, omogeneo e matematizzato … il reale che appare agli sperimentatori è tutto caratterizzato
dall’imperfezione, dall’approssimazione e dalla contingenza» (p. 17). Passaggio chiaro in Keplero e
in Newton, in cui è sicuramente nuovo «lo sguardo sul mondo, visto come intreccio di leggi, di
movimenti e di forze, senz’altro descrivibili in termini di equazioni» (p. 19).
2. Leggere il libro della natura (Primato dell’esperimento). Cambio che però rimanda ad un altro
meno evidente «se il sapiente medievale tendeva a privilegiare il sapere tramandato nei libri, per
l’uomo della Rivoluzione Scientifica il primato va al libro della natura, da esplorare con
l’esperienza diretta» (p. 19). Caratteristica questa, che «non è peculiare della Rivoluzione
Scientifica, ma caratteristica tipica di un’epoca che vede un sapere strutturato messo in discussione
da un nuovo approccio culturale». «Vi è chi segna parallelismi tra l’istanza di una decifrazione del
gran libro della natura – scritto in caratteri geometrici, secondo la lezione del fisico Galilei – ed il
richiamo umanistico alla filologia per la comprensione di classici e della Scrittura. Il dato è
interessante: per nessun testo l’immediatezza dell’approccio garantisce la retta comprensione; solo
una corretta metodologia interpretativa può evitare pericolosi fraintendimenti» (p. 20). Dunque
«rilevante non sarà più tanto l’osservazione immediata del mondo – da descrivere e catalogare –
quanto piuttosto l’esperimento, da svolgersi in condizioni qualitativamente controllabili e da
interpretarsi entro leggi matematiche. Lo sperimentatore non è l’ascoltatore passivo di ciò che la
natura spontaneamente rivelerebbe, ma colui che la interroga con le sue ipotesi, costringendola a
svelarsi ed a mostrare la propria corrispondenza rispetto ad esse – o magari la discrepanza, essa
pure ricca di significato … Il valore delle nuove possibilità di osservazione del mondo procede,
cioè, di pari passo con un’elaborazione teorica capace di interpretarle» Gli sperimentatori di quel
periodo «sperimentano in “un mondo a strutture matematiche e razionali”, opera di un “Dio
geometra che compone il mondo numero, pondere et mensura”. C’è sì un richiamo alla tradizione
platonica, ma ad un platonismo nuovo, che cerca una razionalità dispiegata nella materialità di
questo mondo e non limitata alla sfera ideale. A chi conosce l’orizzonte disegnato dalla Scrittura,
anzi, tale prospettiva richiamerà la prospettiva biblica di un mondo creato nel Verbo ed in cui lo
stesso Logos prenderà carne – e che come tale è accessibile all’esame razionale» (p.21)
3. Spostamenti (Dio, spazio e creato). La distanza dal Medioevo non sta tanto in una diversa
partizione dello spazio, quanto nella diversa comprensione del rapporto tra Dio, lo spazio e gli enti
creati» (p. 22). «Il libro della natura, insomma, va studiato in sé: non per scoprirvi sensi allegorici,
ma per decifrarne quella “lettera”, che è essa stessa interessante, anche dal punto di vista teologico»
Comunque «l’affermazione della distinzione disegna anche lo spazio della ricerca comune: la
fisico-teologia del Settecento inglese sarà impegnata a riconoscere nell’ordine della natura scoperto
dalle scienze, l’opera del Dio creatore». Così Newton «è ben lontano dal meccanicismo posteriore e
vede la stessa stabilità dell’universo dipendente dalla continua azione divina» (p. 23) «Dio ha
insomma un ruolo ben preciso nel quadro concettuale della fisica nascente: quello di garante di una
razionalità del mondo, cui riferirsi pure per rinsaldare la trama delle spiegazioni causali, ove essa
vacilli. Un ruolo importante, che fonda una ricerca di comprensione libera e coraggiosa» (p. 25) [Ok
puntello, ma ocio a non trasformarlo in puntello di nostre razionalità, ma di sue razionalità!!! Errori
del passato sarebbe meglio non ripeterli: nostra razionalità da adattarsi alla sua, imparare a saper
stare al buio!]
4. Fisici e credenti. «Per i fondatori della scienza moderna lo studio del libro della natura si lega a
quello dell’altro Libro, nella convinzione che uno solo ne sia l’autore e che entrambi ne rivelino la
potenza e sapienza» (p. 27) «Sarà soprattutto il mondo anglofono – Bacone, Newton ed oltre – a
realizzare uno stretto intreccio tra fede religiosa e cultura scientifica, dai risvolti misticoalchimistici» (nota 29 a p. 27). Così «vedere nel rapporto scienza-fede al tempo della Rivoluzione
Scientifica solo l’opposizione, insomma, significa rimuoverne elementi qualificanti. Al contrario
Dio assume una positiva funzione di stimolo e di garanzia per la razionalità, che potrebbe offrire
argomenti a favore di un positivo contributo del cristianesimo al sorgere della scienza moderna –
sia pure come fattore tra altri, da non sopravvalutare unilateralmente. Certo è che una comprensione
del mondo come creazione razionale, donata dal Logos, ha avuto un ruolo significativo nell’avvio
dell’indagine scientifica» (p. 28)
II (Capitolo 2) – Tensioni: Galilei ed oltre
1. Natura e Scrittura: Galilei. Poi 2. Diverse posizioni. La posizione contraria all’eliocentrismo ed al
moto della terra del Sant’Uffizio nel 1616, ribadisce «una visione unitaria e gerarchica del sapere,
in cui le scienze devono limitarsi a riconoscere la superiorità della filosofia, delle rivelazione e della
teologia, in qualunque campo esse ritengano debba loro competere: eventuali discordanze di
contenuto vanno superate tramite l’abbandono della propria tesi da parte dello scienziato» (p. 34)
«Alla lucida distinzione galileiana fa riscontro un’unità tra saperi ribadita senza cedimenti – ma
anche senza prudenza, secondo una prospettiva che avrà conseguenze profondamente infelici per
rapporti tra scienza e fede» (p.34) Ma ci sono anche proposte diverse: il concordismo tipico di quel
tempo «che propone una lettura positivamente filo-copernicana della Scrittura» (p. 35); «trattare il
copernicanesimo come una pura ipotesi matematica, mirante a salvare le apparenze e priva di
implicazioni per l’effettiva configurazione fisica del mondo … una possibile ipotesi, tra le infinite
che l’onnipotenza di Dio avrebbe potuto realizzare, senza pretendere di vincolare ad essa la sua
sovrana libertà» [uuuuuhhhh come puzza di nominalista sta posizione! Memento teologia
nominalista allora dominante! Perché se fosse stata altra teologia forse, forse …] strada
quest’ultima, che sarà l’unica lasciata aperta dal papa Urbano VIII, ma che è troppo poco «per una
scienza cui il metodo sperimentale ed un nuovo rigore dimostrativo mettevano ormai dinanzi fatti e
concetti direttamente rilevanti per la struttura del sistema solare» (p. 36).
3. La posta in gioco. «Per la scienza è evidentemente in gioco la possibilità di una ricerca libera ed
autonoma, ma anche la teologia si trova sfidata a cogliere la distinzione tra ciò che è di fede e ciò
che non lo è; ad imparare la differenza tra ciò che è davvero offerto all’assenso credente e ciò che è
invece dominio dell’indagine scientifica. Chi non sa cogliere tale distinzione si espone al grave
rischio di elevare un sapere contingente … al rango di affermazione normativa sul piano teologico»
(p. 37) [ok, ma se la distinzione c’è a livello teorico, trovarla a livello pratico è dura! Anche perché
nel senso comune sta invischiato anche il sensus fidei/fidelium così importante per la teologia!] In
tutto ciò si deve fare attenzione a evitare di insistere sulla separazione tra le due, perché ciò
comporta ad approfondire la spaccatura tra soggetto ed oggetto. In Galilei invece si trova ancora
«uno schema di pensiero complesso e articolato: la diversità dei metodi di ricerca e la distinzione
dei saperi non infirma l’unità del cosmo, che viene compreso teologicamente come creazione di Dio
nel Verbo. … Se, dunque, è ben chiaro che la teologia non può arrogarsi competenze in materia di
ricerca scientifica, tuttavia essa deve tenere nella massima considerazione quanto quest’ultima le
propone. È una posizione scomoda, che colloca il teologo in una posizione di ascolto, in un dialogo
asimettrico, ma che sola gli permette anche una presa di parola efficace» (p. 40)
4. Un dialogo difficile. «Dopo il XVII secolo i rapporti tra scienza e fede non saranno sempre facili,
né sempre potranno riprodursi quelle condizioni che all’epoca avrebbero potuto consentire l’avvio
di un dialogo fecondo.» (p. 40) Così dal “Libro della Natura” si passa a parlare di machina mundi.
«È il paradigma meccanico ad imporsi come dominante, quasi assumendo la prospettiva
dell’ingegnere. Al centro sta cioè, adesso, colui che trasforma il mondo con la propria opera» (p.
41) [eccola qui l’emergere della predominanza ingegneristica!!!] Così già per Bacone «la scienza
nascente offriva un’opportunità unica per estendere il potere umano sul cosmo, fino a delineare
l’accesso ad un regno di felicità nuova. Il suo avvio sarebbe stato, anzi, solo un primo passo per il
recupero del benessere paradisiaco, di quella pienezza di potere e di conoscenza che solo il peccato
aveva tolto ad Adamo.» (p. 41) «Così, però, si sposterà il baricentro della relazione tra fisica e
teologia: più che nella lettura di libri – natura e/o Scrittura – esso starà in un’etica del servizio
all’umanità, tesa a preparare le condizioni per l’avvento di un regno di pace e benessere. Tale
accentuazione dell’umana attività, però, sembra quasi simmetricamente ridurre gli spazi per quella
divina: al pantrokrator newtoniano, il cui agire provvidente è necessario per la permanenza di una
creazione instabile, succede il Dio orologiaio, che fin dall’origine ha progettato un reale armonioso»
(p. 42). In fisica si pensa così avverabile il sogno di totale predicibilità deterministica ed è proprio
«la prospettiva di un ampliamento smisurato delle frontiere di intelligibilità del reale ad orientare la
scienza ad un cosciente ateismo metodologico. L’esperienza fisica va spiegata in termini di cause ad
essa omogenee – e quindi esse stesse fisiche, intramondane – mentre improbabili appaiono i
rimandi ad entità di altra natura» (p. 43) [Beh mi sembra che l’ateismo metodologico sia più che
sensato, era Newton un po’ grezzo! Solo passando attraverso questo crogiuolo si può poi parlare di
rapporto tra Dio e la creazione: sia per il soggetto che per le dottrine!] Così «la fisica avvertirà
sempre meno il bisogno di fondazioni forti per il proprio approccio, già sufficientemente
corroborato dai suoi risultati e da una storia che ha mostrato più volte l’efficacia di una razionalità
matematica e sperimentale» (p. 44). Proprio ciò però da la possibilità di delineare una traiettoria
diversa nel rapporto tra teologia e fisica «che si diparte dal meccanicismo analitico della ricerca
continentale, per accentuare invece la relazionalità caratteristica del mondo naturale» (p. 45).
III (Capitolo 3) – Pannenberg: una rilettura teologica
1. Un’istanza di razionalità. Alla dualità scienze della natura e scienze dello spirito, «Pannenberg
preferisce la visione di un intreccio articolato tra modalità di esplorazione del reale, tutte
caratterizzate – pur in misura diversa – da una dimensione interpretativa ed una esplicativa» (p. 48).
Così «Non basta dire che scienza e teologia descrivono realtà diverse o aspetti diversi del reale.
Occorre affermare che, se le loro descrizioni si riferiscono alla stessa realtà, le descrizioni che ne
offrono possono essere più o meno ampie, più o meno ricche. Specifico della teologia è
semplicemente confessare il Creatore – realtà che tutto determina e che chiama ogni ente a quel
compimento futuro, in cui mostrerà la propria verità piena; tale modesta affermazione implica, però,
anche la provvisorietà di ogni conoscenza che prescinda da tale dimensione» (p. 49s).
2. Prima domanda: l’inerzia. «Le scienze naturali possono e debbono essere metodologicamente
atee, o per lo meno neutrali, anche se in esse non si può mai prescindere dalla “mente” del
ricercatore che legge e quindi interpreta queste leggi» (nota 90 a pag. 52) [ecco qui l’importanza del
ricercatore!!! Ma certo bisogna capire come far quadrare le dottrine e Pannenberg c’ha un po’
ragione!]
«La teologia, però, sa bene che, nel conferire razionalità al mondo, Dio opera secondo una logica di
dono: egli offre gratuitamente un cosmo comprensibile, senza neppure scolpire in esso le tracce che
forzerebbero a riconoscere il donatore. Il dono, insomma, non mira ad imporre una presenza, ma a
creare quella distanza e quell’assenza, che permettono una dinamica memoria di riconoscenza, una
fede che fonda la speranza» (p. 53s). «Un’onesta accoglienza della chiusura linguistica del discorso
scientifico potrà esse per il credente e per il teologo un modo di confessare la bontà del mondo
creato, a lode della sapienza di colui che lo rende intelligibile. Dio non si annuncia tanto nelle
lacune della conoscenza fisica, quanto nell’orizzonte mutevole della (parziale) comprensibilità del
mondo. La sua azione potente non apparirà come supplenza ad una pretesa inadeguatezza delle
leggi, ma opererà nel nascondimento, per orientare il cosmo – attraverso le stesse leggi –
nell’intreccio di caso e di necessità» (p. 54)
3. Il campo e lo Spirito. [Se per attrito fa caos, qui analogia usata meglio, anche se Morandini la usa
ancor meglio, mostrando le dissimilitudini. Importanza dell’analogiaaa!] «Una teologia che voglia
misurarsi con la fisica contemporanea dovrà dedicare un’attenzione ben maggiore alla ricchezza dei
fenomeni quantistici» (p. 56).
4. Seconda domanda: contingenza, legge, futuro. «La contingenza che si evidenzia in una corretta
lettura del mondo fisico, infatti, rende più chiaro il significato del radicamento di ogni cosa in quel
Dio che contingente non è. Di più, l’istanza di una maggior attenzione della descrizione fisica del
mondo per la singolarità degli enti, trova una significativa corrispondenza in una teologia cristiana
della creazione. (p. 59s) «Le considerazioni di Pannenberg sono fondamentali per il dialogo tra
scienza e fede: la percezione di una dimensione di temporalità e contingenza profondamente
inscritta nel reale è essenziale per il discorso teologico. Essa, del resto, è fondamentale anche per il
discorso scientifico, espresso in linguaggio matematico e basato sull’esperimento» (p. 60) Detto
questo però «La corretta esigenza di superamento di una visione deterministica di causalità-dalpassato non basta a giustificare un completo ribaltamento della struttura temporale della fisica» (p.
61) «Dalla contingenza dell’evoluzione cosmica … non sembra, insomma, discendere
immediatamente una completa contingenza della descrizione fisica del mondo. Al contrario, la
pretesa è quella di cogliere, a partire dagli eventi che sperimentiamo, leggi dalla validità estesa a
domini spazio-temporali ben più ampi, secondo la peculiare pretesa di tendenziale completezza che
caratterizza l’approccio fisico.» «Nel Novecento la fisica ha nitidamente esplicitato tutta la carica
probabilistica che caratterizza il suo approccio, mentre l’epistemologia ha evidenziato la
provvisorietà di ogni descrizione. Occorrerà valorizzare tali prospettive, per costruire un dialogo
significativo col sapere teologico» (p. 62)
5. Uno sguardo d’insieme. «Un sapere teologico che intenda confrontarsi con essa [la scienza] su un
piano non esclusivamente formale dovrà considerarsi esso pure provvisorio – almeno in quella parte
che più direttamente si interfaccia con l’immagine scientifica del mondo, mutevole e continuamente
latrice di nuove prospettive, talvolta assai stimolanti» (p. 63)
[Diciamo che a fine ‘900 ogni sapere pensava di essere assoluto e fondamentale e praticamente
concluso! Vedasi la filosofia di Hegel e gran parte della teologia neo-scolastica!]
PARTE SECONDA – Dadi, onde, universi nella fisica del ‘900
I (Capitolo 4) – Un secolo di fisica (→ più su spunti da meccanica quantistica)
1. La complessità di una scienza. Polarità in gioco: osservare e comprendere «Capiamo meglio ciò
che vediamo e insieme vediamo realtà sempre nuove e bisognose di ulteriore ricerca; territori prima
impensabili divengono campi di indagine fisica. È anche per questo che una mappa della fisica
contemporanea non può che essere dinamica e provvisoria … stratificata, a disegnare una realtà che
possiamo cogliere solo come sapere su più livelli» (p. 69); il miscroscopico e l’immenso,
ricordando che manca ancora «una teoria unificata, in grado di coordinare efficacemente la
meccanica quantistica – fondamentale alle piccole scale – e la teoria della relatività – determinante
per grandi valori della velocità» (p. 70); il fisico e il biologico «campi di studio distinti sempre più
si scoprono connessi in un fruttuoso scambio concettuale, che fa emergere categorie comuni, senza
che ciò vada a detrimento delle rispettive specificità» (p. 70); l’individuo e il sistema.
«Chi voglia dire “cos’è la scienza” (o anche solo “cos’è la fisica”) dovrà ricordare che le risposte a
tale domanda procedono coll’evolvere stesso della ricerca, in un continuo ridisegnarsi dei confini
tra le singole discipline scientifiche, come di quelle che le distinguono dalla tecnica – o, d’altra
parte, dalla filosofia e persino dal sapere pre-concettuale
2. Relatività. «Svaniscono qui alcuni elementi fondamentali dell’orizzonte newtoniano: ad uno
spazio ed un tempo assoluti e tra loro indipendenti si sostituisce l’intreccio delle due grandezze,
secondo le modalità dipendenti dallo stato di moto dell’osservatore» inoltre «quella che Newton
aveva interpretato come forza agente tra due corpi dotati di massa in uno spazio euclideo, appare
qui invece come l’effetto di una curvatura dello spazio stesso, determinata dalla presenza di masse e
determinante a sua volta le traiettorie delle masse. La nozione di spazio curvo presuppone una
comprensione non euclidea della geometria: apparentemente anti-intuitiva, essa sarà fondamentale
per la cosmologia novecentesca» (p. 73s).
3. I quanti. «L’onda non è un’entità materiale che si aggiungerebbe al corpuscolo o ne
determinerebbe il moto (“onda pilota”). Si tratta, invece, semplicemente di una funzione
matematica, che determina la distribuzione di probabilità dei possibili valori di posizione (o di
velocità) del corpuscolo». Più in generale «Un sistema fisico può essere descritto da un “vettore di
stato”, un’entità matematica in cui è contenuta tutta l’informazione che lo caratterizza» (p. 75)
«esso indica solo probabilità per i possibili valori che l’una o l’altra variabile potrebbe assumere …
massima informazione che può darsi sul sistema prima di effettuare misure: il non-determinismo
sembra essere una vera e propria caratteristica ontologica del reale microscopico». Inoltre «solo in
alcuni casi le grandezze caratteristiche dei corpi fisici variano in modo continuo, mentre spesso esse
sono “quantizzate”, caratterizzate cioè da una distribuzione a salti» (p. 76) Pian piano emergerà «la
centralità di quel fenomeno noto come entanglement (o “non separabilità”) quantistico, ad indicare
la presenza di un legame ineliminabile tra particelle anche molto distanti, se esse hanno interagito in
passato … solo il sistema complessivo ha una sua oggettiva esistenza» «Non stupisce, allora, che
oggi vi sia chi sostiene che un’interpretazione adeguata della meccanica quantistica debba essere
“esplicitamente cosmologica”, coinvolgendo almeno indirettamente l’intero universo. Il reale si
presenta, insomma, intessuto di connessioni non-locali, che costringono a ripensare il tradizionale
approccio riduzionista, nel segno di una maggior attenzione a legami e relazioni»(p. 78).
4. Sistemi complessi: caos ed ordine, non linearità, biofisica. Teoria del caos «non nasce da
un’inadeguata comprensione di fenomeni complicati, che sarebbe superabile tramite una teoria più
potente, ma rivela invece l’effettiva presenza di forme di disordine anche in sistemi regolati da
equazioni chiare e comprensibili – un caos che emerge dal cuore dell’ordine!» (p. 80) La dinamica
caotica «costringe ad articolare la nostra comprensione del reale, rivelandovi un intreccio di ordine
e caos, di complessità e semplicità, di determinismo ontologico e imprevedibilità conoscitiva» (p.
80s) «La stessa metodologia scientifica si trova interrogata dall’esistenza del caos; se da un lato le
difficoltà di predizione a lungo termine rendono problematico sottoporre a verifica sperimentale
talune teorie, dall’altro la non-linearità mette in discussione quel riduzionismo che ritiene di poter
sempre spiegare il comportamento di un sistema a partire da quello delle sue parti».
Molto interessanti poi i «comportamenti collettivi nei quali si realizza spontaneamente un ordine su
larga scala, che determina una variazione qualitativa nel comportamento del sistema. È il caso del
ferro» (p. 81), ma anche del caso di «sistemi lontani dall’equilibrio ed aperti a flussi di energia» in
cui «può aversi anche una generazione spontanea di ordine (autopoiesi). Non si tratta qui di
violazioni della legge generale dell’entropia, ma solo di una ridistribuzione tra il sistema e
l’universo, in modo tale che la crescita nel secondo bilanci la riduzione del primo».
«La complessità, insomma, inizia ad essere percepita come una componente essenziale del reale e
come un paradigma importante per l’approccio fisico ad esso» (p. 82)
5. Corpi, campi, contingenza. Tutto ciò ha «costretto la fisica a ripensare profondamente quella
prospettiva che tendeva a ricondurre la complessità del mondo sperimentato ad un reale
inaccessibile, ma fondamentalmente semplice. Se da un lato, infatti, si riscontra un’effettiva
tendenza all’unificazione tra leggi che regolano fenomeni apparentemente anche distanti, dall’altro
la dinamica della ricerca offre pure indicazioni di segno differente» (p. 83) Per le tre forze debole,
forte ed elettromagnetica, «quelle realtà che abitualmente chiamiamo materia … appaiono
strettamente legate ai campi, mentre i campi di forza rivelano caratteristiche “di tipo particella”» (p.
84) «A questo livello potrebbe sembrare persino difficile dar senso alla differenza tra enti
abitualmente associati al registro linguistico della “materia” (“fermioni”) e quelli legati all’area
“forze-campi” (“bosoni”): entrambi sono analizzabili in termini di particelle, ma anche associati a
campi di probabilità. In realtà la fisica quantistica rende adeguatamente ragione anche delle evidenti
differenze tra i due tipi di entità, sulla base del principio di esclusione di Pauli, valido solo per i
fermioni, che proibisce che due di essi abbiano lo stesso vettore di stato» (nota 26 a p. 84).
Ha senso così recuperare le intuizioni di Pannenberg sulla materia, perché «Ben più che
l’autonomia dei singoli enti, insomma, centrale è piuttosto l’interconnessione – più o meno forte –
tra i loro comportamenti». Prima di tirare conclusioni alla Pannenberg però, si deve tener conto che
«le forze fondamentali della natura sono quattro e solo per tre di esse è disponibile una
comprensione unificata, mentre la gravità appare a tutt’oggi irriducibile a tale schema concettuale».
(p. 85). Si può anche riprendere il suo discorso sulla contingenza, perché «è il tessuto stesso del
reale, fin dai livelli più fondamentali, ad essere impregnato di contingenza … ogni legge, ogni
previsione su eventi si esprime sempre in termini di probabilità e non potrà quindi inficiare la
fondamentale indeducibilità di ciò che è singolare». E così «La peculiare tendenza alla completezza
della descrizione fisica del mondo non andrà vista tanto come espressione di arroganza
epistemologica, quanto piuttosto come faticosa ricerca delle condizioni di possibilità che rendono
possibile un’interpretazione – sia pur limitata e provvisoria – dei fenomeni» (p. 86)
6. La conoscenza fisica ed i suoi limiti. A livello epistemologico si ha «una comprensione crescente
della storicità e della parzialità del sapere scientifico». «Non è un caso, allora, che la comunità dei
fisici riveli spesso un’attenzione forte per i limiti che proprio all’interno del loro sapere vengono a
disegnarsi, toccando talora la sola dimensione operativa, ma talaltra anche la stessa possibilità di
conoscenza». (p. 87) Le varie scoperte infatti «hanno messo in luce limiti conoscitivi intrinseci, che
rendono improbabile l’elaborazione di “teorie del tutto” capaci di ricostruire nel dettaglio l’intero
reale nella sua complessità. Essi, però, non dipendono da disomogeneità ontologiche del reale –
quasi che vi siano enti specifici o condizioni particolari irriducibili al discorso scientifico
matematizzato. No: ogni elemento del reale appare alla scienza conoscibile, ma solo di rado la
conoscenza che se ne può ricavare è di natura tale da permettere ricostruzioni globali e
deterministiche» (p. 87s). Così «la tranquilla sicurezza ispirata da una percezione del mondo come
libro dal senso garantito a priori torna a cedere il posto alla percezione di una realtà sorprendente,
che eccede la sua stessa descrizione scientifica». La fisica sembra «orientare al ri-emergere dello
stupore per il continuo manifestarsi di coerenza da parte di un reale di cui sempre di nuovo si
riscopre l’inattesa possibilità di interpretazione in termini di correlazioni e leggi matematiche» (p.
88) Detto ciò «accentuare il senso del limite del sapere fisico, non significa, comunque, rinnegarne
il grande valore, né dubitare della sua capacità di cogliere elementi ricchi di significato. Non è certo
immotivata la pretesa di realismo circa il proprio sapere del mondo che caratterizza in generale la
pratica dei fisici … Piuttosto occorrerebbe affinare la stessa nozione di realismo, per accogliere
tutta la complessità di cui viene a caricarlo la meccanica quantistica: il livello di realtà descritto
dalla fisica è intessuto di probabilità, di possibilità di eventi e di correlazioni statistiche, che
rendono spesso complesse le relazioni di causalità» (p. 89)
7. Il linguaggio della fisica ed i suoi limiti. «Si è fatta più chiara la varietà dei giochi linguistici in
cui si esprime l’umana esperienza del mondo, che non tollera di essere ridotta forzatamente ad
unità, né di essere interpretata semplicemente in base a principi fisici – anche se nessuna
interpretazione sensata potrebbe essere incompatibile con essi». In seguito poi al teorema di Godel,
per cui anche al linguaggio matematico «la prova della propria consistenza globale sfugge», allora
tornando alla fisica «si fa anche più evidente come la sua stessa espressione formale presupponga
sempre un’esperienza del mondo pre-formale, espressa in linguaggi anch’essi non formali. È un
dato che sembra dar forza a quegli autori che evidenziano come anche il dire poetico, come quelli
filosofico e religioso, non possa essere ridotto a fattore irrilevante per la ricerca scientifica, ma
occorra, invece, riconoscerne l’interazione con essa». Così la resistenza di Einstein alla sorgente
meccanica quantistica «potremmo leggerla in modo semplicistico, come esempio di rapporto
problematico tra precomprensioni extra-scientifiche e ricerca fisica: Einstein aveva torto e i suoi
oppositori avevano ragione; la sua “metafisica” pretesa di razionalità si sarebbe dovuta tenere
separata dalla concretezza fisica. In realtà la storia sembra orientare a un’immagine più complessa:
anche l’insistenza su una posizione storicamente perdente ha reso Einstein prezioso per la fisica
novecentesca, costringendo i suoi stessi oppositori ad affinare i concetti per essere all’altezza della
sua critica penetrante. L’interrogazione – posta con una forza ed un rigore che hanno trovato
alimento anche in fattori extra-scientifici – ha offerto stimoli di grandi rilevanza per la ricerca,
evidenziando tutto il peso di tali fattori per la scienza» (p. 91).
8. Un quadro stimolante. La scienza così «porta sempre al proprio interno – più o meno
consciamente – elementi significativi provenienti da altri saperi. Anche una prospettiva teologica
può in questo senso rivelarsi significativa, come elemento che dà da pensare e stimola il procedere
della ricerca. Di più, essa si porrà come interrogazione alla soggettività del ricercatore, invitandolo
a verificare l’intreccio dei saperi e precomprensioni che strutturano la sua esistenza». «È dunque un
quadro concettuale ricco di prospettive feconde e rischiose quello che si disegna e che interpella una
teologia che voglia porsi in dialogo con la fisica. Esso invita a interrogare la dimensione di
parzialità che caratterizza l’autocomprensione delle scienze fisiche, ma senza cedere nelle seduzioni
delle epistemologie deboli, che ne estenuano la portata conoscitiva» Vanno piuttosto colte quelle
interrogazioni poste, con linguaggi non tradizionali, su «il senso emergente entro la complessità, pur
senza rinnegare il tragitto percorso da una scienza che si sa e si vuole laica e disincantata» (p. 92).
«La teologia dovrà ascoltare con attenzione tali domande, per essere capace di testimoniare della
fede in Gesù anche in questo quadro culturale profondamente innovativo. O, in altre parole, dovrà
esplorare attentamente l’intuizione di Pannenberg: la comprensione del mondo come creazione
dovrà mostrare la propria fecondità anche all’interno dei mondi della scienza, anche in scenari
decisamente distanti rispetto all’immagine del mondo del tempo in cui è stata elaborata» (p. 92ss).
II (Capitolo 5) – Cosmologia (→ più su spunti da relatività)
Alla teoria della relatività «si deve in buona parte lo sviluppo di quell’area del sapere
particolarmente affascinante, che è la cosmologia, di cui la fisica novecentesca si è decisamente
impossessata, facendo suo un ambito di indagine tradizionalmente proprio di altri tipi di approccio»
(p. 95) «D’altra parte, la scoperta di un’evoluzione del cosmo, che proprio nella relatività generale
ha trovato fondamento ed interpretazione, ha suscitato un forte interesse anche nel grande pubblico,
fino a conferire alla cosmologia fisica una funzione quasi “mitica”. Non stupisce, allora, che proprio
in quest’ambito trovino espressione in forma nuova alcune grandi questioni di senso» (p. 96).
1. Un universo dinamico. Attualmente «l’universo in espansione è il quadro di riferimento per la
ricerca cosmologica. Tale passaggio segna, però, una significativa modifica nel rapporto teoriaesperimento rispetto alla fisica tradizionale: la cosmologia non può avere per oggetto fenomeni
riproducibili in laboratorio. … Ciò non significa che non si tratti di una scienza sperimentale, ma
solo che i suoi dati saranno solo le tracce degli eventi di cui essa si occupa, le conseguenze fisiche a
noi oggi accessibili» (p. 97) «Notiamo, comunque che la cosmologia rientra a pieno titolo nella
fisica: se può apparire problematico cercare leggi per il comportamento di un ente unico qual è
l’universo, ciò che conta è l’opzione fondamentale di una “subordinazione della cosmologia alla
fisica”» (nota 42 a pag. 98)
«Dal punto di vista epistemologico, va anche sottolineato che tale quadro introduce una tensione tra
l’invarianza temporale delle leggi fisiche e la direzionalità globale che caratterizza l’universo che
osserviamo. Di per sé, infatti, le equazioni della relatività generale e della meccanica quantistica –
come del resto anche della meccanica newtoniana – sono simmetriche rispetto al tempo, che
potrebbe tranquillamente cambiare di segno; è nelle specifiche soluzioni che la simmetria si rompe
ed emerge la descrizione di un’evoluzione orientata dal passato al futuro. Ecco, allora, che il Big
Bang appare come un’inizio assoluto per il nostro universo, a partire dal quale esso prende origine –
nella sua contingenza, nella sua direzionalità temporale, con l’emergere di strutture capaci di
generare ordine e vita. La stessa presenza della materia appare in questo quadro profondamente
caratterizzata dalla contingenza, se pensiamo che si tratta solo di una quantità residuale,
sopravvissuta alla sua (quasi) completa annichilazione con l’antimateria, avvenuta nelle fasi iniziali
della storia dell’universo» (p. 98ss)
2. Il Big Bang ed i quanti. Il Big Bang pose però seri problemi epistemologici, perché essa è
«l’espressione di una singolarità. Si tratta di una situazione inevitabile per una descrizione
relativistica-ma-non-quantistica, ma anche di un luogo in cui essa viene meno, ponendoci di fronte a
quantità infinite del tutto intrattabili». Presto però il problema venne risolto tenendo conto degli
effetti quantistici. «Le fasi molto iniziali dell’universo sono caratterizzate da grandi valori di
temperature e di energia, ma anche da dimensioni molto piccole e un esplicito riferimento alla
meccanica quantistica diviene inevitabile almeno per l’“era di Planck” (i primi 10-43 secondi di vita
dell’universo, quanto le sue dimensioni erano inferiori a 10-33 cm)»(p. 99). «È evidente, quindi,
che tale teoria dovrà incorporare nella cosmologia del Bib Bang elementi qualificanti della
meccanica quantistica, aprendo prospettive ancora tutte da esplorare» (p.100)
Il Big Bang apre poi «la possibilità di un’origine dello stesso cosmo per effetto tunnel da un “vuoto
quantico” preesistente. Il Big Bang potrebbe essere “senza causa” fisica, legato ad una fluttuazione
dei campi che permeano il vuoto quantico, che evolverebbe così – per “effetto tunnel” – ad una
configurazione ben lontana dal vuoto stesso. Interessante è pure notare che, secondo le teorie più
accreditate, a prendere origine da tale fluttuazione non sarebbe solo la materia, ma le stesse strutture
spazio-temporali, cosicché parlare di un prima rispetto al Big Bang sarebbe semplicemente un nonsenso da un punto di vista fisico». Nel caso le teoria delle stringhe fosse esatta invece, avrebbe
senso parlarne, perché l’universo «si sarebbe evoluto a partire da uno stato fondamentale di vuoto»
(p. 101).
3. Cosmologia e teologia. «Il proliferare della divulgazione scientifica dedicata alla cosmologia
sembra andare di pari passo con l’uso – non sempre appropriato – di termini come “Dio” o “divino”
nei loro titoli. … Chi parla dell’inizio del tutto evoca sempre – sia pur spesso solo implicitamente,
sia pure in forme talvolta logicamente discutibili – anche il problema della sua origine e qui la
parola Dio sembra assumere significati rilevanti». «Proprio per questo, d’altra parte, è necessario
accentuare alcune distinzioni linguistiche … Analizzare le proprietà del “vuoto quantistico” – in
realtà estremamente pieno di figure dinamiche – non è la stessa cosa che parlare del nulla. Studiare
il Big Bang non è la stessa cosa che parlare di creazione» (p. 102). «È cioè l’oggetto formale ad
essere profondamente differente: mentre il Big Bang indica semplicemente l’inizio temporale
dell’universo (o di una sua fase), la nozione di creazione si riferisce piuttosto alla sua origine,
indicandone la dipendenza da Dio». Così molte cosmologie autosufficienti che sembrano non
lasciare spazio a Dio, come quella di Hawking, non disegnano «tanto un universo eterno, quanto un
mondo che viene all’essere col tempo, piuttosto che in esso, secondo la prospettiva già ben nota ad
Agostino nella sua considerazione sulla creazione» (p. 104).
4. Riflessioni antropiche. «I dati a partire dai quali è stato formulato il PA [principio antropico]
appaiono certo di un forte rilievo … vi sono numerosi parametri indipendenti tra loro per i quali una
variazione anche abbastanza limitata renderebbe impossibile lo sviluppo di vita – o quanto meno
della vita basata sul carbonio, l’unica a noi nota» Alcuni di questi vincoli «si modificano nel corso
della storia dell’universo e segnalano, quindi, solo il fatto che la vita non potrebbe svilupparsi se
non in una fase ben determinata dell’evoluzione cosmica. Altri però appaiono strutturali – legati
cioè a caratteristiche fisiche che, a quanto ne sappiamo, appaiono invarianti» (p. 105). «Ad essere
coinvolte sono, in particolare, quelle costanti dimensionali – indipendenti, cioè, dalle unità di
misura – cui sono proporzionali le forze fondamentali della natura» e le loro combinazioni (p. 106).
Molti sono dunque gli «esempi di “coincidenze”, che rendono l’universo “finemente sintonizzato”
sulla vita … È questo prima di tutto un fatto (o meglio un controfattuale), ma un fatto che dà da
pensare, che esige di essere interpretato, per coglierne il significato … L’interpretazione, però, può
collocarsi almeno su due livelli, cui corrispondono differenti enunciati del PA» (p. 107)
«Il primo livello estende la metodologia scientifica tradizionale nel segno di una sostanziale
continuità: è il principio antropico debole (PAD), così enunciato da Brandon Carter (1942- ): “Ciò
che noi possiamo aspettarci di osservare deve essere delimitato dalle condizioni necessarie per la
nostra presenza come osservatori”» (p. 107): ciò ha permesso ad Hoyle di fare una serie di scoperte.
«Da un punto di vista epistemologico va comunque osservato che il PAD assume soprattutto una
funzione euristica, quale indicazione di ambiti di valori possibili e di linee di ricerca. La
spiegazione scientifica procede poi secondo vie tradizionali, basate su una ricostruzione in termini
di cause ed effetti, espressi da equazioni differenziali. Rispetto all’abituale metodologia fisica,
l’estensione più significativa sta nel considerare come explanandum l’intero universo ed, in
particolare, la presenza in esso della vita. Le coincidenze rilevate, d’altra parte, non sono necessarie
solo per la vita umana, ma per ogni forma di vita conosciuta; più che di un “principio antropico”, si
potrebbe parlare di un “principio biotico”» (p. 108).
Invece il “principio antropico forte” (PAF) afferma «che “l’Universo (e, quindi, i parametri
fondamentali su cui esso si fonda) deve essere tale da consentire la creazione di osservatori al suo
interno a qualche stadio”. Qui non si parla di vita in generale, ma specificamente di osservatori, di
vita intelligente – cioè umana, per quanto sappiamo. Rispetto al PAD, poi, si introduce una
dimensione di finalità: la stessa struttura dell’universo sarebbe orientata al sorgere della vita
intelligente». «Nel PAF la dimensione antropica è, dunque, esplicita, ma un’analisi epistemologica
deve rilevare che è l’uso del termine principio ad essere assai meno appropriato – almeno se si
intende affiancarlo agli altri principi, abitualmente utilizzati in fisica» (p. 109) Infatti «nelle
discipline scientifiche una caratterizzazione di questo tipo potrebbe essere applicata al più a nozioni
come “ipotesi” o “modello euristico”; a quella di principio, generalmente si associa la capacità forte
di porsi come fattore strutturante di una robusta rete di fatti sperimentali e deduzioni teoriche» (nota
63 a pag. 109). Così da un punto di vista formale «il PAF si pone come affermazione letteralmente
meta-fisica, che eccede largamente quanto offerto dai dati … non stupisce, allora, che esso sia ben
lungi dall’essere unanimemente condiviso nella comunità scientifica, che, anzi, è decisamente
divisa» (p. 109). Molti sono infatti gli autori che «evidenziano la distanza tra i fatti cui il PAF si
riferisce e l’ampiezza della sua formulazione. Basta una pur impressionante serie di coincidenze per
affermare la presenza di una finalità operante attraverso di esse? Sono esse abbastanza stringenti per
determinare un’affermazione così forte?». Innanzitutto la nostra conoscenza della fisica non ci
consente «di ritenere che l’attuale combinazione delle costanti di forza sia l’unica che rende
possibile la vita: un’analisi fisico-matematica non permette di escludere che ne esistano altre
equivalenti». «Un secondo interrogativo, anche più consistente, guarda in una direzione opposta,
alla possbilità che alcune tra quelle che appaiono come mere coincidenze indipendenti tra loro,
possano in realtà rivelarsi collegate in un quadro teorico più ampio – una possibilità verificatasi più
volte nella storia della scienza» (p. 110) «Lo status epistemologico del PAF appare, insomma,
delicato; per poter essere qualificato come principio esso presupporrebbe un livello di conoscenza
tale da quantificare il grado di improbabilità del nostro universo – una sorta di “teoria statistica del
tutto”, ben lungi dell’essere attualmente disponibile». C’è poi «anche una terza argomentazione
(certo più problematica) legata ad una pluralità di universi (p. 111)», in questo caso le coincidenze
antropiche «esprimerebbero semplicemente il fatto che, tra gli infiniti universi caratterizzati da
infinite possibili combinazioni di valori delle costanti fisiche, ve né uno (almeno) che permette al
vita ed a noi tocca in sorte di abitarvi», anche se la difficoltà di verifica sperimentale di questa
teoria «colloca tale ipotesi molto vicino alla metafisica – nella stessa area del PAF: i ragionamenti
antropici inducono una stimolante contaminazione tra livelli del sapere allontanatisi troppo» (p.
112)
5. Il principio antropico in teologia. Il PAF «fa riemergere al cuore della ricerca scientifica più
avanzata quella centralità umana che la cosmologia moderna sembrava aver eliminato» (p. 112) e
così «sembrerebbe, dunque, che proprio il tempo della scienza trionfante faccia riemergere la
necessità di un’azione divina operante nel cosmo, accanto ed oltre alle leggi fisico-chimiche» (p.
113). La dimostrazione avrebbe, in effetti, una singolare forza, laddove fosse possibile considerare
dimostrato lo stesso PAF, ma – come visto nelle pagine precedenti – ciò non può essere dato per
scontato. Il dubbio, insomma, non si colloca tanto sul versante filosofico e teologico, quanto su quel
primo passaggio, più specificamente legato alla fisica, che assume, però, un ruolo critico per l’intero
schema dimostrativo» (p. 113s) «Non è affatto evidente, allora, che la credibilità della fede venga
accresciuta da tale percorso dimostrativo, specie se, per perseguirlo, la teologia deve entrare nel
dibattito tra le diverse ipotesi fisiche, assumendosi, ad esempio, l’improbo compito di una critica
filosofica della cosmologia a molti mondi. Visto in tale prospettiva, tra l’altro, l’uso teologico del
PA colloca Dio in un ruolo imbarazzante, quello di spiegazione non-fisica alternativa ad altre
possibili spiegazioni basate sugli abituali principi scientifici; il rischio è quello di introdurre una
figura di “Dio tappabuchi”, già ampiamente criticata dalla teologia novecentesca» (p. 114)
Ciò che il PA comunque «richiama allo sguardo del teologo è soprattutto che nell’universo come lo
conosciamo la vita – la vita umana – trova uno spazio accogliente ed ordinato, un’improbabile
possibilità di svilupparsi e di fiorire. Nelle parole di Paul Davies (1946-), l’esistenza di un mondo
“ordinato contingentemente” è “il grande mistero della contingenza”» (p.114) «Le coincidenze
antropiche mettono, dunque, in luce in primo luogo una dimensione antropologica – la stretta
relazione tra l’essere umano ed il cosmo, l’imprevedibile abitabilità dell’universo per la vita ed in
particolare per la vita umana. L’essere umano non è straniero al suo interno, ma vi trova una casa da
abitare come spazio accogliente e compensibile». «In questa direzione si apre un intreccio di
prospettive teologiche, che diversi autori hanno esplorato. È stato sottolineato, così, che
“l’interpretazione teologica può andare oltre e sostenere che in tale contesto si annuncia
un’economia dell’opera del Creatore che è riferita all’incarnazione del Logos divino in un essere
umano”. Il valore specificamente teologico delle argomentazioni antropiche non starebbe nella
pretesa di dedurre la fede come “conseguenza logicamente inattaccabile”, ma nell’offerta di “una
comprensione più profonda e completa” dell’esistenza di un cosmo antropico. Non cioè, una
“dimostrazione scientifica dell’esistenza di un Creatore personale, ma l’indicazione di una
consonanza tra fisica e teologia della creazione”. Non, dunque, un inserimento forzato di un
finalismo in una scienza programmaticamente afinalistica, ma la proposta di un’altra possibile
interpretazione dei dati della scienza, l’indicazione di un altro senso, di una finalità che eccede il
discorso scientifico – etimologicamente, di una meta-fisica» (p. 116) [Ok, tutto vero, ma fare
attenzione alla frase di Pannenberg che toglie il finalismo dalla fisica, ma lo inserisce
(esageratamente?) nella visione teologica della creazione dandole una visione scotista! Ecco allora
anche l’eterno problema del finalismo rivelativo! Vi è qui sottesa una visione di “economia” su cui
ci sarebbe tanto da discutere. Ricordarsi anche del legame tra incarnazione e peccato!]
6. Un interrogare inesausto. «Una prospettiva teologica dovrebbe accogliere il PA soprattutto come
espressione di stupore per la possibilità di esistere che ci è data – al di là della contesa circa
l’evidenza o meno di una finalizzazione del cosmo alla vita. Essa si esprimerà nel segno della
domanda: perché esiste qualcosa? perché non si da piuttosto il nulla? Perché la vita e non invece
quella non-vita che pure apparirebbe tanto più probabile? Risuona qui soltanto la fragilità di una
domanda, ma non certo una domanda che possa essere tranquillamente lasciata aperta. Nel suo porsi
essa invoca una risposta; nel suo stesso interrogare essa evidenzia la limitatezza di un dire
puramente scientifico, quando le questioni in gioco coinvolgono la totalità dell’essere e la
soggettività di chi interroga. In senso positivo, essa rivela, anche allo sguardo della scienza sul
mondo, la necessità di ripensare il valore di nozioni come finalità e senso, che il progredire della
ricerca scientifica sembrava aver espunto dal proprio vocabolario» (p. 116ss) «Nel passaggio a
questo ulteriore livello di interrogazione si disegna una transizione che Cristoph Theobald (1946-)
descrive ad un tempo non-necessaria e non-arbitraria – espressiva di quella complessa articolazione
che costituisce il senso. A questo stesso livello si collocano, del resto, anche altri interrogativi che
emergono al cuore della traiettoria scientifica, ma che sembrano eccederne lo spazio delimitato.
Pensiamo alla questione della sofferenza, tema classico della teodicea, ma che assume forme
particolarmente acute in un contesto segnato dalla biologia evoluzionista» (p. 117) «Non credo sia
solo una patologia degli esseri umani il non riuscire ad “ammettere che gli eventi della vita possano
essere né positivit, né negativi, né spietati, né compassionevoli, ma semplicemente indifferenti alla
sofferenza, mancanti di scopo”. Lo shock della sofferenza – quella umana come quella degli altri
viventi – mette in gioco il valore del nostro esserci ponendo domande ineludibili anche per la
scienza, che solo in parte è però in grado di rispondervi» (p. 118). C’è poi l’impostazione «che
considera la storia dell’umanità come unico possibile spazio del senso … E tuttavia anche
quest’orizzonte, così segnato dalla prospettiva esistenzialista – Monod cita più volte il Sisifo di
Camus – dovrà misurarsi col problema della qualità del senso da instaurare, nelle direzioni cui
orientare il proprio agire. Nel tempo dell’impresa tecnologica, quando la scala dell’agire umano si
fa globale, anche chi ritenga il mondo privo di significati e finalità, lo scopre comunque coinvolto
nel proprio operare – nel senso della promozione o in quello del danno ambientale ed ecologico»
(p.119)
7. Libertà della teologia. «Se la teologia assume qui, in primo luogo, il ruolo di chi pone domande,
tuttavia essa non può rinunciare ad esplicitare il punto di vista dal quale lo fa. Si tratta, cioè di
chiedersi se per il pensiero teologico non sia opportuno partire “dal fatto che già c’è il credente,
anziché voler mostrare la plausibilità della sua fede a partire dalle crepe e dalle aporie della
conoscenza immanente”» (p. 119s) «È alla soggettività interrogante del ricercatore che l’universo
può apparire misterioso; è ad essa – più che alla nuda oggettività dei risultati della sua ricerca – che
andrà rivolta la parola che interroga e apre il discorso» (p.120).
«Dal punto di vista epistemologico, d’altra parte, potremmo dire che il vero punto di forza della
teologia –anche quando parla di cosmologia – sta nel saldo riferimento al proprio specifico statuto.
Il suo punto di riferimento è cioè in primo luogo la confessione di fede nel Dio che crea il mondo e
lo redime in Gesù Cristo, per condurlo al suo compimento nello Spirito: da qui essa pensa il cosmo
e l’uomo … più che una teologia naturale è, dunque, una teologia della natura quella che essa
presenta, con modestia ed in forma testimoniale» (p. 120). «In questo quadro il credente
testimonierà di un senso che illumina l’intreccio di comprensibilità e caoticità che caratterizza la
nostra esperienza del mondo. Ai suoi occhi, infatti, il mondo è creazione di Dio, donata nel suo
Verbo nel segno della finitezza, dono che giunge ad espressione solo gradualmente, casa abitabile e
comprensibile. È una realtà indeducibile dalla sola razionalità delle leggi scientifiche, ma
profondamente coerente con essa e portatrice di un di più di significato». Si apre così un «mondo in
cui gli occhi della fede possono riconoscere un disegno potente, un mondo, anzi, graziosamente
disegnato per consentirci di vivere al di là di ogni disegno, in libertà di autosviluppo e coevoluzione» (p. 121). «In questo senso, se la considerazione del PAF può certo essere attraente da
un punto di vista apologetico, occorrerebbe evitare di dare l’impressione di un suo legame troppo
stretto con la teologia cristiana. Non potremmo forse pensare la fede in un mondo in cui la finalità è
reale, ma nascosta? Anche in questo ambito la teologia dovrebbe ricordare la propria libertà rispetto
alle forme del sapere umano: da tutte si lascia interrogare e a tutte pone una domanda di senso
radicale, ma con nessuna di esse si lascia identificare, sempre memore dell’alterità di Dio» (p. 122)
«La situazione del nostro essere nel mondo – esaminata con lo sguardo delle scienze fisiche –
sembra piuttosto essere simile a quella descritta nel teorema di Godel per i sistemi d’assiomi della
matematica. Proposizioni come “Dio esiste” o “Dio non esiste”, infatti – così ricche di implicazioni
per il mondo nella sua globalità – eccedono la possibilità di dirette dimostrazioni a partire da ciò
che possiamo sperimentarne» (p. 123). «Il teologo, insomma, deve confessare coraggiosamente l’
“amor che muove il sole e l’altre stelle” – come Dante chiamava Dio nell’ultimo verso della
Commedia – ma anche sapere che le forme di tale movimento restano spesso misteriose, anche per
l’indagine scientifica. Il nostro sguardo non è quello di Dio, non coglie la totalità del cosmo, nitida
nel suo significato; a noi è dato di abitare quell’opacità del senso, che caratterizza osservatori finiti.
Così, talvolta la Sua azione apparirà piuttosto allo sguardo stupito di chi osserva il cielo stellato o
all’interrogazione sull’essere delle cose, piuttosto che nell’analisi sistematica delle leggi che ne
regolano il funzionamento. Questo non significa rinunciare al confronto della teologia con la
cosmologia scientifica, ma solo disegnare un altro approccio, una diversa strategia» (p. 124).
III (Capitolo 6)– Futuro del cosmo
«La fisica, insomma, sembra lasciare ben poca speranza ai viventi per il futuro cosmico, se non in
alcune prospettive – abbastanza ipotetiche – degli ultimi decenni». (p. 126) Ricca di implicazioni
per la nostra ricerca è «la proposta, elaborata da Frank Tipler (1947 - ) nel contesto del Big Crunch,
di un “principio antropico terminale” (PAT).
1. Tipler: l’emergere di Omega. Egli «privilegia quelle soluzioni che prevedono la presenza di
osservatori intelligenti fino al termine della storia dell’universo» (p. 126). «L’ipotesi base è che in
un futuro remoto la vita intelligente possa giungere a controllare la struttura del cosmo … Sarebbe
così possibile la realizzazione di un computer di portata cosmica (“Punto Omega”), non materiale,
ma fatto di campi elettromagnetici, e quindi in grado di sopravvivere anche al collasso finale».
«Certo, vi sono numerose estrapolazioni fisiche che suscitano dubbi nell’analisi fisico-logica di
Tipler, ma anche più forti sono gli interrogativi sull’effettiva realizzazione storica della traiettoria
disegnata» (p. 127). Vanno però analizzate alcune sue considerazioni legate alla Meccanica
Quantistica, perché per lui ogni misura realizza più che una “scelta”, una multi-forcazione, «del
reale, che vedrebbe realizzarsi un diverso valore della grandezza in ognuno dei diversi “mondi” che
vi si genererebbero. In altre parole, gli eventi che sperimentiamo non realizzerebbero una possibilità
a scapito di un’altra, ma tutte, parallelamente: ogni possibile fisico accade, ogni evento non
contraddittorio è realizzato in qualche mondo possibile» (p. 128). Dunque «se Omega non è
logicamente contraddittorio, né fisicamente irrealizzabile, allora – in qualche modo possibile – deve
giungere a realizzarsi; gli sarà, allora, certo possibile, grazie alla sua immane capacità di gestire
dati, accedere alle informazioni relative a tutti gli altri mondi, recuperando le vite vissute in essi e
rendendole immortali» (p. 128s) «È, dunque, dal futuro ultimo di un cosmo radicalmente segnato
dall’azione umana che emerge un più-che-umano capace di redimere anche il negativo presente nel
proprio passato. È una prospettiva quasi fantascientifica, sulla base della quale la fisica rivendica a
sé elementi qualificanti della fede religiosa. Non a caso, lo stesso Tipler nel suo testo più ampio
presenta la propria elaborazione come superamento delle religioni, che sottrae loro valore» (p. 129).
Così «”La teologia o è assolutamente priva di senso, una materia senza contenuti oppure deve finire
per identificarsi con una branca della fisica”. Infatti “l’universo è definito come la totalità di ciò che
esiste, l’insieme della realtà. Pertanto, per definizione, se Dio esiste, Egli/Ella o è l’universo o ne fa
parte. La fisica ha l’obiettivo di scoprire qual è la natura fondamentale della realtà: e se Dio è reale,
finirà per trovarLo/La”» (nota 108 p. 129) «Ad una pretesa di tale portata, però, non corrisponde
un’argomentazione di pari forza: l’interpretazione a molti mondi della meccanica quantistica –
centrale per la sua argomentazione – è congetturale e inverificabile, né potrebbe offrire
quell’esperienza di fiducia fondamentale che sta al centro dell’esperienza religiosa» (p. 129) «Da
sola, insomma, la prospettiva di Tipler non regge: la fisica dell’immortalità, che vorrebbe sostituirsi
alle fedi religiose, ne presuppone in realtà tacitamente numerose affermazioni, senza però poterle in
alcun modo dimostrare». «Certo, si potrebbe pensare di valorizzare il PAT come una sorta di
“modello fisico” per l’escatologia cristiana, come uno scenario che darebbe concretezza alle sue
affermazioni» (p. 130), certo «l’accentuazione della contingenza di un creato costantemente
dipendente da Dio è ben distante dalla forte dimensione di necessità disegnata dal PAT – come, del
resto, dal PAF» (p. 131).
[Il grande problema di Tipler è la sua visione panteistica più che altro, di Dio nel cosmo alla
maniera del cosmo, mentre OK è nel cosmo, ma alla maniera divina! Insomma l’Io-Noi-Gaia di
Asimov è portato a conseguenze divine: ne può essere l’attacco e il terreno, ma non il seme! Cioè
dice cose interessanti sull’aspetto creaturale della redenzione, ma confondendole un po’.]
2. Tipler: quale salvezza? A sollevare interrogativi è però «soprattutto la qualità della salvezza
prospettata dal PAT, con simulazioni computerizzate che sostituiscono persone fisiche (verrebbe da
pensare ad un gioco di parole tra salvezza religiosa e salvataggio di un file su PC). Sostenitore
dell’Intelligenza Artificiale forte, Tipler ritiene, del resto, le due condizioni indistinguibili: l’essere
umano non sarebbe “nient’altro che un dispositivo per l’elaborazione dell’informazione e l’anima
umana nient’altro che un programma che gira su un calcolatore chiamato cervello”. Omega si
limiterebbe ad offrire a tali software un hardware migliore, trascendendo l’evoluzione del cosmo in
un’esistenza quasi-divina, non più soggetta alla caducità spazio-temporale: ecco la “fisica
dell’immortalità”. Ancora, Omega recupererebbe le tracce elettromagnetiche di coloro che sono
vissuti prima del suo avvento, salvando anch’essi dall’oblio: ecco la ‘risurrezione della carne’, per
ogni generazione dell’umanità» (p. 131). Ma carne è inteso qui solo in senso debole, e Tipler «si
colloca in quella tradizione cartesiana che rivive nella ricerca sull’Intelligenza Artificiale forte,
affascinata dal trascendimento della corporeità in un’immortalità post-biologica e quasi gnostica.
Non stupisce, allora, che ad essere realmente salvati in Omega siano solo i pensieri e le esperienze
pensate, mentre i corpi, le vite non coscienti, la storia del cosmo siano lasciati alla perdizione. Il
PAT rivela, in effetti, uno scientismo illimitato poco sensibile alla vita biologica, una fede
tecnologica incurante delle vite concrete, come dell’ecosistema planetario» (p. 132).
[In fondo ‘sto Omega è il Matrix di cui l’omonimo film ha mostrato il limite e la necessità di un
Redentore, anche se nel film è di caratteristiche solo umane!]
3. Mitologie scientifiche per un futuro incerto. «Forse la prospettiva disegnata da Tipler può essere
piuttosto interessante come sintomo, rivelatore di un profondo bisogno di dar senso al cosmo, ma
anche dell’impossibilità di farlo in modo credibile col solo linguaggio della scienza e della tecnica».
Ma la sua stessa istanza è riscontrabile in altri autori «che ri-narrano la storia cosmica con pathos
religioso, a disegnare una sacra comunità eco-planetaria, che nell’umanità giungerebbe a celebrare
l’intero processo evolutivo. Le implicazioni per l’etica e l’ecologia sono ben diverse, ma comune è
l’uso mitologico della cosmologia evolutiva, contro lo spaesamento suscitato da un universo in cui
l’uomo appare casuale. Un’analoga esigenza è pure presente nel variegato arcipelago New Age, con
la sua ricerca di unità tra scienza e spiritualità, tra l’energia che fa vivere le stelle e la forza
spirituale presente in ognuno di noi». Vedi F. Capra, P. Davies. «Non è difficile individuare in tale
ricostruzione aspetti decisamente semplicistici. C’è in primo luogo un uso superficiale della nozione
di paradigma, che non basta a giustificare la riconduzione ad una stessa figura concettuale di autori
decisamente differenti tra loro» (p. 135). «Si ha, insomma, l’impressione che la lettura della storia
della fisica sia condotta soprattutto sulla base di una precomprensione legata alla stessa escatologia
New Age. Il cambiamento – anche quello scientifico – appare, cioè, come netta transizione tra
posizioni radicalmente diverse, quasi anticipando quella grande transizione che dovrebbe introdurre
l’umanità all’attesa era dell’Acquario» (p. 136). «Legata a fattori extra-scientifici sembra essere
anche la forte accentuazione dell’interconnessione del reale, che – per gli autori cui ci stiamo
riferendo – caratterizzerebbe la fisica del Novecento, distinguendola nettamente da quella
meccanicistica» (p. 136s) Detto ciò «la tendenza alla semplificazione e persino al riduzionismo può
essere una virtù tutta positiva, se solo conserva memoria della propria valenza metodologica, senza
trasformarsi in rigido schema ontologico di comprensione del reale». Cosa che il New Age non fa,
come nell’uso ad esempio di nozioni come “energia” o “campo” «centrali per una descrizione fisica
del mondo, ma ben difficili da ricondurre a quella realtà interiore che si dice essere sperimentabile
nelle pratiche di medicina alternativa New Age» (p. 137). «Il bisogno di una lettura unitaria del
cosmo, capace di superare al dualità di senso ed esperienza per garantire futuri ospitali sembra,
dunque, esporre gli autori della New Age al rischio di dimenticare il peso delle differenze, di cui
invece già più volte abbiamo sottolineato l’importanza» (p. 137s). Eppure è proprio ad esse che la
scienza – e la fisica in particolare – continua tenacemente a volgere il suo sguardo, per indagarle
nella loro specificità; non riconoscerlo significa condannarsi ad una lettura parziale di tale pratica.
Un’onesta interazione col discorso scientifico esige il sereno riconoscimento delle sue
caratteristiche di rigore, anche quando esse esigano un’articolazione non facile per le affermazioni
sul senso. In riferimento al destino cosmico, in particolare, la logica della conoscenza scientifica si
basa su ciò che è sperimentabile e dimostrabile: essa non può pensare il futuro dell’universo che
come interrogativo, su cui non è disponibile alcuna certezza definitiva per orientare la nostra
esistenza» (p. 138). [Perciò distinzione dei campi, ma non separazione, perché solo stando insieme
emerge quel non so che di contingente e di relativo al tutto caratterizzante ogni campo.
Ricordandosi in tutto ciò del peccato che segna ogni ricerca e dunque delle inevitabili tensioni e
uscite di campo, ma anche sempre del felix culpa! Bisognerebbe iniziare un’apologia dell’errore,
perché se non ci fossero spesso la ricerca non andrebbe avanti, assestandosi sempre sul Dejavu!]
4. Per uno sguardo teologico sul futuro. «Del resto, la tradizione cristiana sa che un discorso
teologico sul futuro non può esprimersi in una logica millenaristica tesa a descriverne le forme
fattuali, ma nell’espressione simbolica di un senso promesso ed atteso» (p. 138). «La teologia del
NOvecenteo, del resto, conosce bene la complessità dell’umana temporalità e la sua direzionalità,
mentre anche dal punto di vista fisico la termodinamica sottolinea l’impossibilità di assimilarla alla
simmetria delle variabili spaziali. Che l’esplorazione del futuro venga, dunque, condotta alla luce
della fede o mediante categorie scientifiche (o magari in un intreccio delle due prospettive), essa
sarà comunque espressione di un sapere profondamente intriso di non-sapere, di una finitezza che
impedisce modelli sistematizzati ed onnicomprensivi» «Neppure nelle sue fasi iniziali, del resto, la
tradizione cristiana offre un’elaborazione organica o la chiarezza di una risposta senza ombre circa
il futuro incerto e la sofferenza» (p. 139), «illuminante, in questo senso può essere uno sguardo
all’Apocalisse – testo complesso, intessuto di una logica simbolica suscettibile di diversi percorsi
interpretativi. Un testo per la speranza di una comunità perseguitata, che mobilita i grandi temi della
tradizione biblica – l’Esodo, la profezia, la creazione: tutto viene ripreso in una rilettura della storia
centrata sull’Agnello immolato, sul Crocifisso vincitore della morte, fonte di speranza per
l’umanità. Non una teodicea, né un mito, né una cronologia salvifica miracolosamente disgelata sta
al cuore della tradizione cristiana, ma il grido fiducioso nella continuità della benedizione di Dio: è
la persona di Gesù Cristo – la sua pratica di amore senza limiti, la sua condivisione della sofferenza
– a dare speranza alla creazione. In Lui la fede scopre un Dio che si fa carico del creato tutto, per
condurlo alla città senza morte né dolore. Il futuro, allora, non è più orizzonte temibile, ma promette
una risurrezione dei morti carica di una radicale dimensione mondana» (p. 140) «La riscoperta della
dimensione mondana della speranza cristiana è un guadagno di grande portata; difficilmente, però,
essa potrà offrire immediati riferimenti al dialogo scienza-e-teologia. La ricerca contemporanea sta
recuperando la cristologia cosmica di Colossesi ed Efesini (Col 1,15-20; Ef 1,3-14), declinandola
anche in una dimensione temporale; difficilmente, però, essa potrebbe essere trasportata sull’asse
che porta all’Omega tipleriano, il cui significato appare problematico anche per la scienza» (p 140s)
5. Speranza per i perduti. «Il primo riferimento – la scala dei tempi più corretta – per una teologia
che parla del futuro sarà, dunque, la nostra storia di uomini sulla terra, segnata dal dolore e dalla
speranza, dalla violenza e dalla ricerca di comunione, dall’ingiustizia e dai problemi legati alla crisi
ecologica. Ben prima che con la cosmologia terminale, essa dovrà confrontarsi con la negatività che
toglie speranza all’esistenza di tanta parte dell’umanità, ad uno biosfera violata da uno sviluppo
privo di criteri» (p. 141s). Così «il discorso teologico assume qui una connotazione etica, invocando
stili di vita rinnovati che testimonino speranza di fronte all’immane massa del negativo: la promessa
di salvezza si fa percepibile in un gioco di chiamata alla responsabilità e al dono di sé entro la storia
che abitiamo. L’apertura messianica del cosmo, di cui testimonia la teologia, esprime la gratuità di
un dono di vita che sa trascendere l’autocentramento, per aprirsi alla pro-esistenza». Detto ciò «la
verifica dello spessore della confessione di fede è sì collegata ad una prassi attuale, ma essa
testimonia ed annuncia di un senso che resta sempre escatologico»; in accordo con le epistemologie
più avvertite, per cui «per numerose teorie scientifiche le anomalie vengono superate tramite ipotesi
che rendono la teoria “aperta”, rimandando alla pratica della ricerca ed a conferme ancora da
venire» (p. 142). Così «l’orizzonte della promessa non può che eccedere le possibilità dell’etica:
l’eschaton ha da essere salvezza piena anche per i perduti, come per l’intera creazione, finalmente
liberata dalla vanità (Rom 8,20). Se la pratica storica è un riferimento essenziale per la promessa,
tuttavia essa invoca un orizzonte più ampio, che coinvolga anche le storie apparentemente senza
futuro – dei viventi e del cosmo tutto» (p. 143). «È una prospettiva ad ampio raggio, che sta in una
relazione complessa con la fede: Pannenberg ne ha richiamato più volte il radicamento nella
prolessi realizzata sulla Croce. Là incontriamo l’inaccettabilità del patire e lo scandalo della vita
spezzata, ma anche l’albero della vita, che nell’alba di Pasqua anticipa la pienezza di luce diffusa
sull’universo – primizia che tutto rivela e tutto lascia celato nella speranza. Là si fonda un’attesa
attiva, che opera anche quando non vede frutti di salvezza, fiducia nello Spirito d’amore che opera
nel cosmo e nel Padre – fonte e radice della prima creazione, come di quella nuova, dove anche i
perduti troveranno un mondo nuovo» (p. 143s). «Compare, così, ancora una volta un riferimento
trinitario, come orizzonte davvero adeguato ad un discorso teologico sul futuro. Il primo linguaggio
della speranza sarà quello della lode e dello stupore silenzioso, che riconosce una dimensione
apofatica anche nel futuro donato da Dio. Sarà, ancora, quello della profezia, che scopre nella storia
e nel tempo il venire di Dio, pur senza pretendere di trovare in esso il disegno del futuro. Sarà,
infine, quello del simbolo, della lode e della celebrazione cui anche l’Apocalisse attinge
abbondantemente per illuminare la storia umana» (p. 144)
6. Futuro delle vite, futuro del cosmo. Conviene ancora approfondire alcuni presupposti teologici,
per verificare se l’ampia riflessione sull’escatologia personale della tradizione cristiana, non abbia
spunti di riflessione da offrirci nel campo degli scenari che si delineano per il cosmo. Ad es. K.
Rahner «colloca già al momento della morte personale l’ingresso nell’eschaton. Si disegna qui una
temporalità altra, in cui la risurrezione dei corpi avviene “subito”: la fine dell’esistenza individuale
è uscita dai limiti della storia e del cosmo, per accedere alla nuova creazione promessa per la fine
dei tempi … prospettiva stimolante, per la complessa percezione della temporalità che la
caratterizza, per la distinzione tra la sequenzialità frammentata della nostra storia e l’essere di Dio
nell’unità comunionale dei tempi» (p. 145) [solito discorso, sembra non dare peso alla consistenza
della temporalità, per salvare Dio e ragione. E così anche lo stato intermedio, in cui già molti
vivono “parzialmente” la fine dei tempi, viene a saltare!!! E si finisce poi per spiritualizzare
eccessivamente la carnalità del regno finale dove cielo e terra si incontreranno!!!]
«Una prospettiva analoga crediamo vada elaborata anche per la riflessione sul futuro del cosmo. La
parousia, infatti, non può essere semplicemente pensata come culmine dell’evoluzione, né la vita
donata in Gesù Cristo come prolungamento dell’umana capacità di controllo del cosmo. La
prospettiva della teologia è segnata da una ineludibile “riserva escatologica” nei confronti di ogni
orizzonte di significato che voglia porsi come definitivo: Dio certo è il futuro dell’uomo, ma quel
futuro assoluto, che eccede e supera ogni umano progettare. Per questo alla speranza cristiana non è
dato di tradursi immediatamente in sintesi filosofica o in principio di evoluzione delle dinamiche
cosmologiche. L’escatologico, infatti, è il novum di Dio, che viene, senza farsi precedere da tracce
accessibili agli strumenti delle scienze fisiche e alla cosmologia quantistica. Né il “principio
antropico” – con tutta la sua fragilità epistemologica – può fungere da collante, raccordando in un
sistema esteso conoscenza scientifica e speranza biblica. Il discorso scientifico sul futuro non è
opposto alla promessa di Dio, ma semplicemente altro da essa» (p. 145ss) [Ok i “non è questo”, ma
poi si deve anche dire cosa nella creazione manifesta il venire di Dio, la cui logica sacramentale lo
richiede! Ma vediamo come l’autore prosegue …] «Tale presa d’atto, però, non è puramente
negativa, né rinuncia al significato della materia e neppure abbandona la vita ad un mortale destino
di non essere. Anzi, è piuttosto un fiducioso riconoscimento de Creatore più grande, unico
misterioso senso di un cosmo che esiste per la gloria del nome – e che proprio per questo può da Lui
attendere la salvezza» (p. 146). [Ok fiducia nel Creatore, basata sulla fede, ma deve trovare dei
riscontri nella creazione stessa! Non si può trovare o fondarsi a partire da essi, ma si deve tentare di
trovarli e di indicarli] «È quanto ci pare di poter cogliere anche dalla lezione rahneriana: tutto
questo si realizza nel mistero, nella fiducia in Colui che sa condurre ognuno di noi all’eschaton,
oltre la morte, per vie ed in modi a lui noti». «La confessione della comune destinazione al novum –
del singolo, della storia comune degli uomini e di quella del cosmo – non comporta, però, la
necessaria coestensione dei percorsi che vi conducono … è l’agire di Dio a segnare la continuità tra
questo tempo e l’eschaton». (p. 147) [E ok perché l’agire di Dio è sempre altro dal nostro modo di
intenderlo, ma questo agire, anche se difficile da trovare e da ricomprendere, è già “fossilizzato” in
qualche modo embrionale nella creazione e su questo si innesta: gratia supponit e perfecit natura!!]
«Tutto, dunque, è salvato nell’eschaton, anche se oggi appare destinato alla perdizione; tutto è
accolto da Dio nella nuova creazione, anche se le scienze non disegnano vie verso di essa» (p. 148)
[E qui entra il problema rahneriano della sua tendenza all’apocatastasi che si riflette anche su questo
punto: ok la fatica a trovarlo e l’indipendenza delle vie, ma ocio alla separazione! La distinzione
implica che in qualche modo i vari elementi siano comunicanti! Il principio analogico non può
saltare: ok che la dissimilitudine è maggiore, ma la similitudine c’è e resta!]
7. La differenza e l’unità. «Il futuro, insomma, è lo spazio in cui la distanza tra il discorso teologico
e quello scientifico appare più manifesta, rivelando logiche differenti». «Quando parliamo del
futuro – del futuro ultimo – non possiamo che estrapolare la struttura profonda delle esperienze
vissute nel presente e nel passato, proiettandole fino all’estremo orizzonte. In questa tensione, modi
diversi di sperimentare il mondo non potranno che manifestarsi nella propria differenza – non
necessariamente nella contrapposizione, ma certo nella scoperta di registri di discorso diversi» [E
qui la lezione di Vallania sui fit e sui modelli appare più che mai attuale!] «C’è una “docta
ignorantia futuri” (K. Rahner) della teologia, che in cosmologia appare ancor più essenziale che
altrove. Essa non inventa nuovi futuri, diversi da quelli della fisica, ma indica “come vivere in
modo salvifico, secondo la fede escatologica” quel futuro che essa ci prospetta, “perché questo
unico futuro è intimamente innervato dalla presenza salvifica di Cristo» [ok, soprattutto e
principalmente, ma non SOLO, perché come avviene questa presenza salvifica?]
«L’unità della vita non è l’unità delle traiettorie e degli scenari con cui la descriviamo; la promessa
di una nuova creazione non identifica un legame tra il futuro disegnato dalle sapienze degli uomini
e quello promessoci dalla Scrittura. Al contrario la sapienza della croce ricorda che solo a chi
abbandona la propria vita – ma anche le storie, la terra ed il cosmo – è dato di ritrovare tutto salvato
nel Regno, nella presenza luminosa del Dio che ama i viventi. Allora, nella piena realizzazione della
speranza, troveremo innanzi a noi “un Universo totalmente sacramentale, la cui ‘materia’ pervasa
dal divino sarà liberata dalla transitorietà e dal decadimento inerenti all’attuale processo fisico» (p.
149) [solito discorso di prima: ma questa presenza che lì sarà massima è operante anche adesso in
maniera non così piena e in qualche modo è percepibile, certo limitatamente e come in uno
specchio, ma troppa apofaticità è semplicemente non voglia di fare teologia, di rischiare. Trincerarsi
dietro un “Dio sa come” e al volontarismo è negare la pensabilità della Rivelazione]
PARTE TERZA – Il Creatore e il mondo della scienza
I (Capitolo 7) – Per dire Dio. Modelli
«La teologia non può essere solo esercizio di apofatismo, ma deve esser capace anche di una
propria presa di parola – anche nello spazio linguistico disegnato dalle scienze. Certo non si tratta di
un compito facile: la fisica è scienza in evoluzione e spesso, più che un sapere completo e
consolidato, offre una varietà di ipotesi, talvolta in competizione tra loro. Che fare allora? Tacere,
finche il dibattito scientifico non sia giunto ad un punto fermo? … Far propria una tra le ipotesi
disponibili, facendone il quadro in cui inserire una riflessione teologica? … Abbandonare il dialogo
con le scienze della natura, per concentrarsi sull’humanum, nella speranza di trovare in esse un
campo più accessibile?» (p. 153ss).
«Vorremmo proporre una via diversa per superare tale distretta metodologica, facendo riferimento
ad uno strumento concettuale che ci viene offerto dalla stessa riflessione scientifica. Esso è in grado
di garantire correttezza epistemologica, ma anche possibilità di espressione; in esso si disegna una
strategia che ben risponde all’istanza pannenberghiana di una teologia capace di presentare in forma
articolata, nel contesto dei saperi – inclusi quelli scientifici – il senso testimoniato dalla fede.
Intendiamo riferirci al concetto di modello, quale è stato elaborato dall’epistemologia novecentesca:
esso può offrire anche alla ricerca teologica uno strumento prezioso, specie nel delicato campo
scienza-e-teologia» (p. 154).
«Una definizione abbastanza generale potrebbe vedervi la struttura che risulta dall’individuazione
di una corrispondenza tra un insieme di enti (fisici o matematici), supposti noti nelle loro relazioni,
ed un altro insieme che si intende invece indagare … La definizione potrebbe essere resa più
formale, ma già evidenzia una prospettiva lontana da facili illusioni di immediata rappresentabilità:
la descrizione in termini di modelli evidenzia la corrispondenza di alcuni aspetti tra determinati enti,
ma non pretende di inferirne la completa identità» (p. 155)
[Su bontà modelli, vedere il loro legame con analogia e con parabole! “Il Regno di Dio è come …”]
1. Modelli in matematica. «È quanto emerge, ad esempio, per la matematica da un essenziale
riferimento alla storia delle geometrie non euclidee» (p. 155). «La viabilità di nuove direzioni di
ricerca – problematiche perché irriducibili ai “vecchi” quadri di riferimento – è stata, infatti, più
volte provata proprio tramite la costruzione di modelli interni ai vecchi sistemi. In matematica,
dunque, la logica del modello serve in primo luogo a mostrare la coerenza – l’effettiva rilevanza
matematica – di sistemi, di enti e di proposizioni. Essa si realizza nel riferimento a corrispondenze
con altri enti – simili per determinati aspetti a quelli considerati, ma non identificabili ad essi. Non
si tratta di un dato casuale: se il teorema di Gödel implica l’impossibilità logico-matematica di
dimostrare dall’interno la coerenza di un sistema di assiomi, essa potrà essere realizzata solo tramite
modelli e riferimenti “esterni”» (p. 156).
2. Modelli in fisica. In fisica ha un uso sensibilmente differente, «infatti, accade spesso che la
costruzione di un modello serva piuttosto a mettere a fuoco qualche aspetto di un fenomeno troppo
complesso per essere studiato globalmente. L’approccio alla complessità del reale sarebbe spesso
impossibile se non muovesse da qualche assunzione semplificatrice, capace di individuare in
problemi apparentemente intrattabili parallelismi con situazioni già note, che assumono così valore
paradigmatico per la teoria. Certo, tale mossa può essere solo un punto di partenza: la complessità
rivendica i suoi diritti e ricorda i limiti epistemologici del modello; la sua funzione è sempre
provvisoria, ma comunque irrinunciabile». «Più che la logica della piena coerenza formale opera
qui quella della conoscenza provvisoria, tesa a comprendere elementi di entità (ancora) inaccessibili
a partire da altre già note» (p. 157). «Per la fisica, dunque, la logica del modello dice la
corrispondenza parziale, la similitudine intrecciata con la dissimilitudine, l’intreccio tra il sapere su
ciò che sperimentiamo e la ricerca di comprensione circa entità non immediatamente
sperimentabili» (p. 157s). «Un’epistemologia centrata sui modelli sarà certo realista (si fanno
modelli per un reale percepito e pensato come tale), ma di un realismo critico, che rifiuta l’ingenua
identificazione scientista di modello e realtà. Quando la fisica pensa per modelli, afferma un reale
che in alcuni aspetti rilevanti è così – componente essenziale dell’esperienza scientifica – senza
però dimenticare che, quanto ad altri, esso non è così, quasi a rinnovare in un campo nuovo l’antica
dialettica teologica di apofatismo e catafatismo» (p. 158)
3. Modelli teologici. «Non stupisce allora che tale prospettiva possa offrire utili spunti di riflessione
al discorso teologico, che da sempre confessa la trascendenza – anche linguistica – di Dio ed
assieme la sua profonda connessione con ogni elemento del nostro mondo: Dio è il Santo ed
assieme colui che si è fatto vicino, è l’indicibile, che pure chiede di essere detto ed annunciato in
ogni tempo. Neppure stupisce che il riferimento ai modelli venga proposto proprio mentre si
evidenzia la chiusura linguistica del discorso scientifico, che sottolinea la distanza tra la nostra
esperienza intramondana e il mistero di Dio. Fare un modello in teologia, significa, allora, parlare di
Dio valorizzando le corrispondenze tra quanto Egli rivela di Sé ed enti e categorie di un sapere
condiviso – pur nella coscienza della differenza concettuale dei due ambiti» (p. 158).
«L’indicibilità del Santo viene così a collocarsi in dialettica con la percezione del suo essere un Dio
di parola (rivelato, ma anche fedele, affidabile), che si lascia dire senza timore anche entro
linguaggi diversi» (p. 158s). «La costruzione di modelli adeguati ad ogni epoca diviene allora
imperativo, esigenza forte per la vita di fede di chi – ben conscio della precarietà di ogni umano
sapere – non sopporta di racchiudere Dio all’interno di immagini del mondo superate. Un modello
teologico viene cioè a caricarsi anche di una dimensione pratica, che coglie, promuove o sottopone
a critica determinati atteggiamenti vitali, all’interno di un modo di essere al mondo». «Certo, nella
costruzione della corrispondenza che fonda un modello teologico, sarà pure essenziale evidenziare
l’eterogeneità tra gli elementi che lo costituiscono: giustamente Paul Ricoeur (1913-2005) evidenzia
che in esso, come in una metafora, i termini subiscono una “torsione” di significati quando vengono
messi in corrispondenza, ma tale torsione è essa stessa produttiva. Tramite essa, infatti, siamo
condotti ad esplorare in tutta la loro ricchezza elementi del reale, che livelli di significazione più
immediati potevano lasciare in ombra». (p. 159) «Certo, talvolta l’operazione avrà una portata
limitata, esprimendosi in specifiche analogie o metafore per micromodelli entro una riflessione più
ampia; in altri casi l’estensione potrà essere maggiore, fino a generare macromodelli [vicina alla
concezione kuhniana di paradigma, ma sottolinea maggiormente il ruolo attivo e cosciente di chi lo
elabora], in cui una metafora fondatrice si estenderà ad articolare un intero sistema teologico» (p.
159s). «Comunque sia, un modello andrà sempre valutato nella sua totalità: non l’uno o l’altro
elemento ha significato proprio, ma la costruzione concettuale che emerge nel loro accordo.
Espressioni che, prese isolatamente, possono sembrare prive di significato, si rivelano ricche di
senso nel contesto appropriato». «È anche interessante notare come nel discorso teologico si
possano incontrare caratteristiche analoghe a quelle dei due tipi di modello esaminati nelle pagine
precedenti (matematico e fisico). Talvolta, infatti, il modello offrirà testimonianze di coerenza e
credibilità del discorso di fede – non prove – evidenziando la possibilità di “tradurlo” in categorie
mentali diverse da quelle che gli sono abituali, secondo la ben nota dinamica dell’inculturazione. In
altri casi, invece, esso sarà utile a focalizzare aspetti del discorso di fede ancora bisognosi di
comprensione o approfondimento, permettendo di cogliere sotto una luce diversa qualcosa del
mistero di Dio. Talvolta, infine, esso metterà in luce aporie del contesto stesso in cui esso si
inscrive, offrendone una nuova interpretazione alla luce della fede. In realtà le tre funzioni si
presentano sempre in qualche modo intrecciate: non si dà creazione di nuovi modelli vitali in nuovi
contesti culturali senza che essi li interroghino nella loro struttura, ponendo contemporaneamente
pure interrogativi all’immagine di Dio e stimolando ad approfondirne la comprensione» (p. 160).
«Un modello teologico fedele alla sua origine è, dunque, sempre un arricchimento per la comunità
ecclesiale ed anche un simbolo, che dà da pensare anche al di là di essa: una ricca pluralità di
modelli appare così come fattore di ricchezza teologica» (p. 160s). «Essa, però, costringe anche a
porre in forme sempre rinnovate il problema della compatibilità e della traduzione possibile.
L’attenzione metodologica e il rigore teologico dovranno vigilare, ad evitare il decadere della
pluralità in mera eterogeneità; quando ciò viene fatto correttamente, però, la ricchezza di una
pluralità di modelli teologici interagenti appare con forza particolare. Lo testimonia, ad esempio, il
dialogo ecumenico, nei suoi momenti di convergenza più alta» (p. 161).
4. Modelli teologici nel tempo della scienza. Così «la possibilità che si apre oggi davanti al teologo
è piuttosto quella di una cosciente costruzione di modelli, tramite i quali esplorare la pensabilità di
Dio nel contesto offerto dal discorso scientifico». (p. 162) «È in questo steso che andrà riletta anche
la riflessione di un autore come P. Teilhard de Chardin: al di là di un’identificazione talvolta troppo
stretta tra evoluzione biologica e tensione escatologica, il grande guadagno concettuale portato dal
gesuita francese sta nella costruzione di un modello che evidenzia la piena coerenza tra la fede
cristiana ed una forma di pensiero evolutivo. Dopo di lui è impossibile pensare la creazione come
mero atto puntuale, che avrebbe portato all’essere un reale già strutturato nelle forme attuali: il
divenire cosmico e biologico è componente essenziale di una teologia della creazione nel tempo
della scienza» (p. 162s). «Lo stesso riferimento a Teilhard de Chardin evidenzia, però, anche la
necessità per il teologo di essere ben conscio della provvisorietà e della parzialità dei modelli
costruiti: la mutevolezza del contesto scientifico ci ha resi più attenti alla diversa valenza del nucleo
teologico da esprimere rispetto alla descrizione del mondo cui lo si riferisce». «Un pensare per
modelli sembra oggi particolarmente ricco di prospettive per una riflessione teologica in contesto
cosmologico – un ambito segnato da interrogativi di portata globale, ma anche dall’incertezza delle
prospettive scientifiche» (p. 163). «Il teologo, insomma, rispetta l’autonomia della scienza e non
mira all’affermazione dell’una o dell’altra cosmologia fisica, ma solo alla confessione dei dati
costitutivi della fede cristiana, qualunque sia il contesto cosmologico in cui essa debba realizzarsi»
(p. 164) [Ok, ma la possibilità stessa di fare modelli su piani così ontologicamente differenti dice di
una qualche comunanza che va approfondita e che assicura anche l’identità dell’oggetto, ad es. la
Rivelazione, che si sta prendendo in analisi. E poi ci sono contesti più “completi” di altri!]
II (Capitolo 8) – Modelli per un Dio attivo
«Gli ultimi capitoli ci hanno condotto a confessare una volta di più il mistero del Dio salvatore, che
eccede le nostre parole: esse stanno dinanzi a Lui come dossologia, come offerta e sacrificio. …
Anche nell’accostare il senso offerto dalla fede alle differenti possibili prospettive disegnate dalla
scienza, il teologo fa, dunque, memoria della Sua novità, irriducibile alle nostre descrizioni.
Irrinunciabile, però, qualunque modello egli assuma, è la confessione di un Dio che agisce nel
mondo: non si tratta di un elemento particolare, ma di una dimensione strutturale della fede biblica.
Essa pone però anche un problema per il dialogo scienza-fede» (p. 165)
1. Azione di Dio. Pur tenendo conto di ciò che è emerso nella modernità, oggi più che mai è chiaro
che «l’idea di un’azione efficace di Dio nel mondo – anzi sul mondo stesso – sia irrinunciabile per
una teologia cristiana. L’idea di provvidenza si troverebbe svuotata di ogni contenuto, laddove non
potessimo in qualche modo riferirla ad un Dio operante in modo reale ed efficace sul mondo. La
stessa confessione del mondo come creazione ne risulterebbe estenuata, ridotta a mera espressione
formale della dipendenza dell’humanum da un’alterità fondatrice. Anche il vissuto della fede si
troverebbe messo a rischio in alcune componenti importanti» (p. 168). «Una considerazione attenta
all’agire di Dio sul reale biofisico, insomma, appare essenziale per una teologia che voglia parlare
di Lui in modo sensato» (p. 168).
2. Un agire impossibile? «La possibilità di una finalità operante nel cosmo eccede decisamente
l’ambito fisico, per entrare piuttosto nel campo della metafisica. Certo, la fisica esclude
programmaticamente dal proprio discorso la nozione di intenzionalità, per concentrarsi sul solo
gioco della casualità e del caso; proprio per questo, però, si preclude la possibilità di affermazioni
apodittiche circa la sua effettiva presenza o meno nel reale». L’autore più che un approccio
filosofico, si muove «da quel “teorema di Chaitin”, che afferma l’impossibilità di dimostrare la
completa casualità di una sequenza – una prospettiva sconcertante, ma altrettanto forte di quella
disegnata dal teorema di Gödel» (p. 169): esso afferma «l’impossibilità – per ogni analisi
matematica – di dichiarare una qualunque successione puramente casuale e priva di schemi, solo
perché non si riesce a coglierne alcuno. Tale prospettiva, inoltre, implica pure l’impossibilità di
affermare l’unicità di un singolo schema di regolarità eventualmente colto: sarà sempre possibile
che accanto ad esso ve ne siano altri, magari meno evidenti, ma più profondi» (p. 169s). Ora la
stessa “impossibilità” che interessa entità relativamente semplici come le sequenze di numeri «val a
maggior ragione per dati di complessità tanto più grande, come quelli offertici dall’evoluzione
cosmica … Chi, dunque, esclude la possibilità di elementi di intenzionalità nel cosmo, non sta
traendo le necessarie conseguenze da una logica scientifica, ma piuttosto operando una precisa
opzione meta-fisica, che al dato scientifico è del tutto irriducibile» (p. 170) Così toccherà al teologo
ribadire con decisione «che l’affermazione o la negazione di Dio implica sempre un’eccedenza
rispetto ai dati sulla base dei quali la si fa; implica un impegno personale; implica un’opzione. Le
argomentazioni pro o contro di essa, quindi, non potranno essere cogenti, né ambiranno allo status
forte della dimostrazione logico-matematica, ma si struttureranno piuttosto secondo una logica di
testimonianza». Così una prima considerazione sulle proposte che seguiranno è che «non andranno
lette come se mirassero alla costruzione di un sistema fisico-teologico, ma – più modestamente –
come proposte di modelli per affrontare una questione centrale per il campo scienza-e-teologia. Una
linea teologica “debole”, che non ambisce a esibire una necessità cogente per le proprie asserzioni,
ma solo ad additare una possibilità di lettura dell’orizzonte del mondo nell’ottica della fede. Ciò non
le impedirà di indicare i propri riferimenti fondatori, né di evidenziare la fecondità delle proprie
prospettive nel rispondere a domande di senso e neppure di mostrare la coerenza della propria
posizione rispetto ad altre forme di sapere condiviso. Nemmeno la sua “debolezza” indica
sottovalutazione della posta in gioco: i modelli mirano all’ostensione di una coerenza – ed
eventualmente di una positiva consonanza – del dato di fede con le forme del pensiero scientifico
attuale, superando lo stereotipo dell’opposizione di principio o della mutua insignificanza» (p. 171).
Una seconda considerazione invece è che «l’approccio caratteristico di scienza-e-teologia può
offrire condizioni semplicemente necessarie, ma non certo sufficienti per cogliere lo spessore del
tema dell’azione di Dio nella tradizione ebraico-cristiana. Esso, infatti, trova il suo pieno significato
solo in riferimento a narrazioni di storie, a tradizioni di esperienze ed ai quadri interpretativi in cui
esse sono state rielaborate (p. 171s). «Tale complessità è, del resto, legata al tema dell’azione in
quanto tale – anche quella di un essere umano: mai riducibile a mera concatenazione di eventi, né
ad un operare mirante ad un prodotto, esse è davvero comprensibile solo in un contesto di
narrazione interpretante». «Nell’affrontare le prossime pagine, allora, occorrerà tener presente che il
nostro intento non è quello di limitare la considerazione teologica dell’azione di Dio alla questione
della sua compatibilità con le leggi fisiche – sarebbe una riduzione ad un livello davvero troppo
basso. Tale analisi disegna piuttosto un approccio di primo livello ad un tema su cui torneremo più
ampiamente nel capitolo 9, per alcune considerazioni di teologia fondamentale circa le relazioni tra
i diversi livelli di interpretazione. Le pagine immediatamente seguenti non vanno viste, comunque,
come una semplice deviazione, che potrebbe essere trascurata: una via lunga, che sa soffermarsi con
attenzione anche sui livelli di analisi più elementari, è spesso feconda anche per la comprensione di
quelli più complessi» (p. 172).
3. Modelli per un Dio attivo: duplice causalità e struttura del cosmo. Il primo modello è quello che
«fa semplicemente riferimento ad una causalità prima, trascendentale, che opererebbe entro ed
attraverso le cause seconde. Così Adolph Geschè (1928-2003), raffinato interpretee di tale
prospettiva, vede Dio, come la “Causa” che “fa che le cose si realizzino come si realizzano”, in
modo tale che ad opera Sua “tutte le cose […] sono state poste nel divenire – nel loro divenire”. È
una prospettiva che affonda le sue radici nel pensiero medievale e che certo va mantenuta, ma che
forse abbisogna di esplicitazione» (p. 173). «In che senso le causalità intramondane, descritte dal
linguaggio della scienza possono essere dette seconde – e quindi disponibili all’azione di altre
causalità, che attraverso di esse si renderebbero presenti? O, in un linguaggio piuttosto biblicoteologico, come rendere ragione, nel tempo della descrizione scientifica, della confessione di un
braccio potente che opera per la salvezza, senza ridurre Dio ad una tra le cause intramondane?».
«Un altro importante modello colloca il luogo primario dell’azione di Dio nella fissazione di leggi
fondamentali che strutturano la nostra realtà, di quei principi fondamentali che regolano il farsi del
mondo, il suo venire all’essere e il suo divenire – cosmico, bilogico, antropico. […] Dio appare,
così, colui che pone in essere un reale benedetto e ricco di potenzialità e ne attende l’evolversi,
come un agricoltore che aspetta il frutto della terra preparata per la coltivazione» (p. 174). «La
stessa metafora agricola, però, mostra la necessità di un affinamento del rapporto tra Dio e le leggi:
l’agricoltore è colui che pone le condizioni per lo sviluppo del raccolto, ma anche colui che si
prende cura delle sue piante, seguendone lo sviluppo ed eventualmente difendendole da ciò che le
minaccia. Così, anche l’azione divina nella prospettiva biblica non può essere ristretta al momento
iniziale del tempo e neppure alla fondazione del tempo stesso; un reale posto in essere nel segno del
non-determinismo e della libertà non è contenuto che in parte nelle leggi-quadro e nelle condizioni
iniziali. Sembra ben difficile pensare ad un Dio che – in un solo atto – definisca deterministicamente l’intero evolversi del mondo e della storia; difficile pensare che l’esperienza umana della libertà
ed il non-determinismo di tanti fenomeni fisici siano puramente illusori» (p. 174ss). «Ma, allora, se
c’è davvero un agire intramondano caratterizzato da reale contingenza, da indeterminatezza, da
imprevedibilità, come pensare l’agire di Dio rispetto ad esso? O, in linguaggio biblico, come
risponde il Signore alle parole ed ai gesti delle sue creature? La fede cristiana ha da sempre parlato
di provvidenza, ad indicare quella presenza premurosa che è pronta ad assistere i suoi figli nel
momento del bisogno, con azioni che sono strettamente connesse a quella iniziale fondatrice, ma
anche distinte da essa» (p. 175) «Il riferimento alle strutture di base del cosmo va, dunque, integrato
da quello all’emergere di elementi di novità, magari potenzialmente presenti nella struttura del
creato, ma che giungono ad attualizzarsi solo in momenti specifici» (p. 175s).
4. Modelli per un Dio attivo: la teologia del processo. «Tra i movimenti teologici più attenti
all’interazione con la riflessione scientifica si colloca la “teologia del processo”. Essa offre alcuni
spunti di rilievo per il confronto con la fisica, ma i suoi riferimenti principali stanno nella biologia e
nell’ecologia». Suoi elementi di spicco sono J.B. Cobb, Ch. Birch, D.M. Griffin e J.M. McDaniel.
Essa «riprende dalla “filosofia del processo” di Alfred Norton Whitehead (1861-1947) e Charles
Hartshorne (1897-2000) una comprensione dinamica della realtà, come trama di rapporti in cui i
singoli eventi sono collegati in un flusso di esperienza centrato sulla nozione di “vita”» (p. 176).
Essa così «attribuisce ad ogni entità – vivente e non – una propria “esperienza interna”, che si
realizzerebbe negli eventi che la coinvolgono. L’indeterminismo della meccanica quantistica viene
interpretato, infatti, come espressione di una quasi-libertà che pervaderebbe l’intero reale. Si
disegna così una “metafisica ecologica”, in cui il reale appare radicalmente relazionale, una rete di
libertà interagenti, in cui l’azione di un ente pone le condizioni per quella degli altri. È, allora,
possibile pensare all’azione piena di amore di Dio nel mondo come “causalità invitazionale” (e non
coercitiva): Egli è l’appello che sempre si rivolge alle creature, chiamandole ad andare oltre se
stesse verso un di più di vita. Il divenire del reale non è il semplice frutto del caso o di un farsi
meccanicistico della materia, ma neppure realtà totalmente determinata dall’agire divino. C’è un
dialogo, che attraversa l’intero dinamismo evolutivo, in un gioco di chiamata e risposta tra Dio e le
creature» (p.177). Facendo il bilancio, la teologia del processo è «un interessante tentativo di
pensare teologicamente il non-determinismo quantistico, realizzato, però, in termini fragili, che
conducono ad una comprensione poco mediata del rapporto Dio-mondo» (p. 178).
5. Modelli per un Dio attivo: Peacocke. Anche la ricerca di Arthur Peacocke (1924-), biochimico
inglese, teologo e pastore anglicano «muove dalla considerazione dell’indeterminismo
microscopico legato alla meccanica quantistica, ma solo per segnalarne la limitata rilevanza sugli
eventi macroscopici attorno ai quali si realizza la vita – anche per lui un riferimento centrale per
pensare la considerazione del rapporto tra Dio e il cosmo» (p. 178s). «Il suo interesse cade invece
piuttosto su quei fenomeni di causazione “dall’alto verso il basso” (top-down), nei quali “la
specificazione di livelli di organizzazione più alti è necessaria per spiegare il livello più basso”». (p.
179) «In questo quadro possiamo pensare Dio come “il fondamento ultimo e la sorgente sia della
legge (“necessità”) che del caso”, come colui che nella storia del cosmo attualizza progressivamente
le potenzialità presenti nell’universo che lui stesso ha posto in essere. Ma occorre essere attenti:
l’azione di Dio non annulla in alcun modo la componente indeterministica presente nel cosmo, che
anzi appare essenziale per l’evoluzione di un universo caratterizzato dalla varietà, dalla ricca vitalità
che sperimentiamo e soprattutto dalla libertà» (p. 179s). «Dio, insomma, non dispone di ‘variabili
nascoste’, che rendano deterministico ai suoi occhi ciò che ai nostri non lo è. Piuttosto, secondo
Peacocke, Egli sceglie nella sua sovrana onnipotenza di creare un mondo con un alto grado di
impredicibilità, apertura e flessibilità, per potervi far nascere vita e libertà». «Peacocke propone così
un modello in cui l’azione divina si serve del caso come di un radar, con cui esplora e fa emergere
gradualmente le potenzialità vitali dell’universo creato». Ora porre in essere un reale non
deterministico significa «anche aprire la possibilità del realizzarsi di eventi non rispondenti allo
stesso amore creatore. Dio prende un rischio nel suo operare nel cosmo, si espone, si rende
vulnerabile alla frustrazione del suo amore, ma anche a quel male mortale, che giunge a colpirlo
fino alla croce» (p. 180s). «Il gioco gioioso della creazione è anche mortalmente serio: in esso ne va
della vita; nella croce incontriamo un Dio che accetta di essere toccato da ciò che ha creato, di stare
nel tempo, persino di dirsi nel tempo. Un Dio che accetta di stare nella solidarietà con ciò che passa
(e passare è sempre anche un patire), per condurre ogni cosa ad un futuro che sta oltre il passare».
Il modello di Peacocke ci offre pure un’altra prospettiva «Egli sottolinea con forza come la
dinamica cosmica dell’azione di Dio giunga ad esplicitarsi in modo del tutto speciale nella persona
umana – caratterizzata da mente e linguaggio. Da teologo cristiano, poi, egli confessa il ruolo
particolare che riveste la vicenda di Gesù Cristo, come le parole e i gesti che lo testimoniano. In
questo senso, ritroviamo al cuore di questa riflessione così attenta al dialogo con la scienza, la
prospettiva di un universo sacramentale» (p. 181). Così se «l’orizzonte dell’agire vivificante di Dio
è il cosmo tutto, esso giunge però ad affiorare in modo visibile in quelle figure ed in quegli eventi
specifici, per i quali usiamo in senso più stretto la terminologia sacramentale». «In Peacocke
l’attenzione allo specifico cristiano giunge, così ad intrecciarsi con la meditazione delle prospettive
offerte dalla scienza contemporanea. Se, infatti, solo “Gesù Cristo è la definitiva comunicazione da
parte di Dio all’umanità del profondo significato di ciò che Dio sta operando nella creazione”,
d’altra parte, ciò che in lui si manifesta risulta del tutto consonante con quell’immagine di un Dio,
vulnerabile e autosvuotantesi che il teologo vede operante nelle stesse dinamiche del divenire
cosmologico» (p. 182)
6. Modelli per un Dio attivo: Polkinghorne. «Anche John Polkinghorne (1937-) appartiene al
mondo anglicano e, prima di divenire pastore e teologo, ha operato fino al 1979 come fisico delle
particelle» (p. 182). «Anch’egli esamina la questione dell’azione di Dio nel mondo, sottolineandone
la forte carica spirituale: come dar senso alla preghiera di invocazione, se fosse indirizzata ad un
Dio che agisce solo nel cuore dell’orante? Perché rivolgerci a Lui, se egli fosse in linea di principio
impossibilitato ad aiutarci? Come parlare di provvidenza, se Egli fosse solo il Dio debole, che può
solo condividere la sofferenza? […] Occorre trovare, dunque, anche nel dialogo scienza-e-teologia,
strumenti concettuali per pensare l’agire potente di Dio, pur senza abbandonare il quadro disegnato
dalla fisica contemporanea, col suo intreccio di legalità e indeterminismo» (p. 183).
Nell’avvio della sua elaborazione teologica c’è «uno schema di ragionamento analogo a quello de
principio antropico: la struttura del reale deve essere compatibile con la nostra esistenza di
osservatori liberi e coscienti. Egli non se ne serve, però, per mettere in discussione il tradizionale
linguaggio dell’esplicazione tramite cause ed effetti, ma come strumento euristico, come stimolo
per l’elaborazione di un modello che proprio da tale linguaggio prenda le mosse» (p. 184). «Nello
stesso senso, anche il pur significativo riferimento di Peacocke ad una causalità top-down esige per
Polkinghorne chiarimenti, a mostrare come quella causalità “dal basso verso l’alto”, che opera nelle
interazioni elementari, consenta pure un’azione “dall’alto”» (p. 184s).
«Da fisico delle particelle, egli considera particolarmente rilevante quell’apertura ontologica che il
reale rivela se colto alla luce del principio di incertezza di Heisenberg, specie se combinato con
l’amplificazione dei suoi effetti operata dal caos. […] Nessuna descrizione fisica del mondo,
insomma, per quanto completa, potrebbe essere completamente deterministica». «Tra l’altro,
Polkinghorne sostiene un realismo critico, che massimizza la correlazione di epistemologia ed
ontologia, e rifiuta quindi un’interpretazione puramente epistemica del non-determinismo. La
combinazione di meccanica quantistica e teoria del caos determinerebbe cioè una rottura di quello
schema di descrizione che tutto esprime tramite funzioni continue, disegnando invece un’apertura
ontologica alla novità ed alla discontinuità» (p. 185). «È, allora, possibile pensare un Dio che agisce
sul mondo tramite inputs di informazione, che selezionano un comportamento particolare tra gli
innumerevoli compatibili con le condizioni iniziali e con i valori di energia disponibili» (p. 185s).
Così il modo di agire di Dio col mondo «non violerà alcuna legge fisica, ma ciò non gli impedirà di
essere efficace nel suo operare per la vita. La compatibilità col sistema delle leggi fisiche renderà,
anzi, necessariamente impossibile identificare come tale l’intervento divino, la cui causa ultima
resterà quindi implicita». «La tradizione della teologia naturale inglese appare qui in una veste
elegante e raffinata; la stessa istanza apologetica si declina nel senso migliore del termine, come
tentativo di rendere ragione dell’esperienza di fede all’interno di categorie vitali di un mondo
profondamente segnato dalla riflessione scientifica» (p. 186).
7. Confronti. Tutti questi modelli «condividono l’esigenza di una comprensione teologica della
natura, che rifiuta la mera ritirata nella soggettività umana, per fare invece proprio di essa il punto
di partenza per interpretare l’intero reale» (p. 186). Se però i primi due lasciano «sullo sfondo
un’analisi puntuale delle possibilità di interazione scienza-e-teologia in quest’ambito, così non è
negli ultimi tre», che cercano «di cogliere anche entro il mondo della scienza le possibilità di
pensare più efficacemente Dio». «Importante è, allora, ribadire come l’analisi condotta si collochi
sul piano dell’ermeneutica teologica dei dati scientifici: essa deve essere vista come “una creativa
metafora teologica e non come una spiegazione scientifica alternativa”».
In questo senso la valorizzazione dell’indeterminismo della meccanica quantistica non va visto
come «un ritorno ad una teologia delle “lacune epistemologiche”, che invocherebbe Dio come
necessario tappabuchi per colmare l’incompletezza della nostra conoscenza … Qui, infatti, è dalla
stessa descrizione fisica che viene la positiva indicazione di alcune “lacune ontologiche” del reale,
che la teologia indica come luoghi possibili (solo possibili!) per l’agire divino» (p. 187).
Detto ciò le differenze tra i restanti tre modelli rimangono: sulla scienza di riferimento, sulla
considerazione del mondo tecnico-scientifico e sulle modalità di interazione Dio-mondo. Morandini
«ritiene che l’analisi di Polkinghorne sulle potenzialità di un determinismo quantistico amplificato
caoticamente offra una prospettiva estremamente efficace per dare significato alla nozione di agire
di Dio. Un approfondimento in questo senso potrebbe, tra l’altro, venire dal riferimento al
fenomeno quantistico dell’entanglement quantistico, che segnala la possibilità di correlazioni anche
non locali tra eventi microscopici; esso renderebbe più facile anche ad un fisico delle particelle
come Polkinghorne pensare un’amplificazione di eventi locali non deterministici fino a quell’azione
top-down cui faceva riferimento Peacocke. In questa direzione sarebbe pure possibile esplorare la
possibilità di leggere il reale con uno sguardo ispirato alla fede trinitaria, come luogo di una
comunione relazionale, che sostiene e fa essere ogni singolo vivente» (p. 188).
«Tale stimolante prospettiva non dovrebbe, però, comportare una riduzione a mera apparenza della
realtà dell’indeterminismo stesso, che non può essere trasformato in mero strumento
dell’intenzionalità divina. Al contrario, la normale dinamica del reale dovrà essere pensata come
libero gioco, che intreccia determinismo e in determinismo, caso e necessità» (p. 188s). Riguardo
poi all’interessante distinzione introdotta da Peacocke, «tra una condizione di onniscienza e
onnipotenza di cui Dio potrebbe disporre e la sua positiva scelta di creare un reale caratterizzato da
libertà e creatività – limitando così, per amore, le proprie prerogative» [*vedi alla fine], occorre
comunque «pensare in modo più articolato la stessa libertà di Dio rispetto alle proprie deliberazioni:
quell’amore che sceglie di fissare un quadro di legalità non-deterministica e di attenersi ad esso, può
anche – in momenti specifici – agire in forme più dirette, portandolo al limite delle sue potenzialità
e valorizzandone l’apertura, per farvi sorgere novità. [Sì, più o meno … meglio forse parlare di
agire di Dio a livelli diversi, ma guai a dire che non c’è agire di Dio, anche perché cosa si intende
per “azione”? Importante ricordarsi dell’analogia fidei, ogni categoria sarebbe meglio chiedersi a
cosa è legata del mistero di Dio! Meglio forse parlare di “azione carsica” che ogni tanto è visibile e
ogni tanto no, ma che sempre c’è!].
«L’intreccio e la diversità dei modelli è così a servizio di una logica del dono, che lo sguardo
credente scopre e testimonia anche nelle pieghe dell’universo esplorate dal PA, nelle ere e nelle
profondità dell’evoluzione cosmica. Il cosmo non è mero sfondo neutrale per l’interazione tra Dio e
gli uomini, ma appare invece orientato alla vita, e non solo a quella umana; la creazione è già, in
radice, opera di salvezza, aperta ad una pienezza per il tempo finale» (p. 189) [impressionante come
tutto ciò si può dire anche e di più della Chiesa, inno ai Colossesi sempre più attuale!].
«Proprio mentre tale agire viene confessato nella sua efficace potenza creatrice, però, ne viene pure
riconosciuto il nascondimento: l’affermazione teologica di una finalità cosmologica non si riflette
immediatamente nei linguaggi delle scienze naturali. Il riferimento ad un’azione di Dio è un
postulato del discorso teologico e sa certo produrre senso per la nostra esperienza de mondo; non
genera, però, specifiche proposizioni sperimentalmente verificabili. Secondo le parole di
Polkinghorne, insomma, la “presenza velata di Dio” è reale, ma resta “discretamente nascosta” agli
occhi umani finiti: il passare di Dio non lascia tracce univoche, né immette in uno spazio di
trasparenza senza riserve» (p. 189ss). [su “presenza velata” un teologo dovrebbe sempre sussultare
ricordando il velo del tempio scisso eco del velo che sarà tolto, annunciato da Isaia.]
«È un dato che non stupisce chi abita il mondo della scienza, abituato ad una verità che si mostra
solo alla ricerca metodica, ben più che ad un’univocità che si imporrebbe da sé. Anche la tradizione
cristiana conosce bene tale logica: non l’evidenza che costringe al riconoscimento, ma il “vento
delicato”, che un ascoltatore attento può cogliere. Per la Scrittura, il Dio salvatore è colui che non si
impone; il Dio misterioso sfugge alle pretese di sequestro nei suoi confronti e proprio per questo
può essere atteso come salvatore come tutti. Forse, più ancora che con la metafora della traccia,
l’agire di Dio sul mondo andrebbe letto nel segno del solco. Più che la visibilità evidente esso
richiama l’azione in profondità, al cuore del reale; più che l’evidenza, dice la fatica di un intervento
attivo da parte di chi ara, ma anche la promozione di una fecondità, celata nella terra, ma destinata a
svilupparsi fino a manifestazione piena» (p. 190).
[Mi sembra manchi una sana pneumatologia e cristologia. Cioè sono tenute conto solo nelle loro
dinamiche strutturali, logiche e linguistiche, ma non personali, rischiando di limitarsi ad un discorso
teistico: ora la Creazione è per/con/in Cristo e nello Spirito e proprio per questo ne ha le dinamiche
… guai però a sbilanciarsi su uno dei due lati! Bisogna fare un discorso il più possibile completo!]
III (Capitolo 9) – Rendere ragione
1. Domande. «Attenti alla lezione galileiana, ci siamo attenuti nelle prime fasi della nostra ricerca a
una puntuale accentuazione della differenza di prospettive – il dato della rivelazione versus il frutto
dell’osservazione della natura … In fondo la Scrittura non è altro che la tradizione – ispirata,
secondo i credenti – di alcuni specifici gesti e parole, in una storia di uomini e donne. Perché
cercare proprio là i luoghi del dirsi di Dio, privilegiandoli così fortemente rispetto ad altri eventi
della storia cosmica, nei quali pure confessiamo la sua presenza? Potrebbe sorgere un sospetto di
indebito antropocentrismo; potrebbe sembrare che la dualità epistemologica della nostra riflessione
sottenda qualche forma di dualismo ontologico, che contraddirebbe l’unità della creazione come
spazio dell’agire di Dio» (p. 193s). «Per il teologo la fede della chiesa e la Scrittura sono apriori
immodificabili. Il suo dire sta sempre all’interno di una tradizione ricevuta come dono e che come
tale va trasmessa; egli non potrà alterare testi ed eventi che stanno come fonti del discorso teologico
– come assiomi fondativi, che informano di sé l’intera riflessione. Tale affermazione, però, non
esclude la possibilità di altri livelli di argomentazione – come per un sistema fisico e matematico
l’assiomatizzazione, certo momento qualificante, non è la chiusura dei problemi» (p.194). «Tramite
il dialogo con la fisica il nostro domandare si trova condotto a questioni tradizionali per la
riflessione specificamente teologica (per la teologia fondamentale)». «Due, in effetti, sono i gruppi
di domande, ben correlati tra loto, ma anche distinti. Il primo verte soprattutto sulla coerenza tra la
nostra epistemologia teologica e la nostra teologia della creazione, sulla relazione fra la dualità delle
forme del discorso, più volte ribadita, e l’unità della creazione di Dio, che pure riteniamo
qualificante. Il secondo apre, invece, una questione più radicale: perché una teologia cristiana?
Perché un logos che pretende di dire Dio alla luce della fede? Perché, in fondo, la fede, nel tempo
della scienza?» (p. 195)
2. Il dirsi di un agire. «La prima questione interroga la teologia della rivelazione dal punto di vista
di una teologia della creazione, che pensa il creato come spazio dell’agire di Dio, anche alla luce
della riflessione fisica. Non si tratterà di ricostruire l’una sulla base dell’altra, ma di pensarle
insieme, a mostrare la coerenza di una prospettiva entro la quale sta (o, eventualmente, cade) il
nostro discorso» (p. 195s). [La carenza cristologica si vede proprio a p. 196 «È un’azione
vivificante che si manifesta nella sua universalità in Gesù Cristo» Ok è culmen, ma è anche fons!!!]
Innanzitutto tutto il cosmo «vivente e non vivente, intelligente e non; tutto è luogo della Sua
presenza e del Suo agire salvifico. Non è, allora, solo linguaggio poetico quello che confessa la
gloria divina narrata dalle stelle, la provvidenza che sostiene la lode degli uccelli, il braccio potente
cantato da chi ne ha sperimentato la forza. Poiché in tutto opera il creatore, tutto dice il creatore.
Tutto; e tuttavia in modo diverso. Chi parla di una diafania, di una trasparenza del cosmo, di una
dimensione simbolica sacramentale del creato, deve affrettarsi ad aggiungere che essa non si
realizza in un regime di evidenza indifferenziata» (p. 196), «chi voglia pensare un’intenzionalità
divina che attraversa il cosmo tutto, deve elaborarne una topologia, indagando i luoghi e le forme
diverse in cui essa giungerà ad espressione. È questa, del resto, un’esigenza che si pone ad ogni
discorso teso a cogliere un senso emergente attraverso una realtà pluriforme» (p. 197). «È dunque
un discorso articolato, quello che seguiremo nelle prossime pagine, che intreccerà livelli e linguaggi
diversi» (p. 197s).
«Un primo essenziale grado di differenziazione nel manifestarsi di senso entro il cosmo è quello che
si disegna tra il vivente e il non-vivente» [Io opto decisamente per un’altra distinzione: tutto è
vivente, pure i minerali, l’acqua ecc. a modo loro. Il problema è la “profondità” di tale vita, perciò
meglio dire, che ne so, “viventi mobili e non”], volgendo così lo sguardo «a quei luoghi in cui
nell’essere si manifesta qualcosa di più di una semplice presenza. Proprio nel vivente, d’altra parte,
si mostra una tensione esplicita, una tendenza all’autoaffermazione, un’autoteleologia, che ci fanno
parlare di una finalità presente in esso». La vita infatti «dice fini e significati, fossero pure soltanto
quelli della vita stessa; il mondo della vita è spazio privilegiato per lo sguardo di chi cerca il
manifestarsi di un senso che attraversa il cosmo» (p. 198). Del fenomeno della vita «il fisico può
esaminare soprattutto le condizioni di possibilità. Egli può indagare tappe e dinamiche attraverso le
quali il non-determinismo della meccanica quantistica giunge a declinarsi come autonomia; può
evidenziare quelle correlazioni tra la vita e la struttura del cosmo che abbiamo colto nel capitolo 5.
Tale indagine potrà essere preziosa per comprendere le grammatiche espressive del vivente, ma
resterà – programmaticamente – al di sotto di una piena percezione del senso espressovi. Non
stupisce, in questo senso, che al teologo la descrizione fisica del cosmo possa talvolta apparire
ostica, chiusa alla percezione del senso. Egli, però, dovrà resistere alla tentazione di cercare di
inserirvela a forza – come a quella, simmetrica, di considerare semplicemente irrilevante tale spazio
per la propria riflessione». Detto questo la fisica spesso coglie elementi in cui l’analisi della vita
«già in qualche modo si annuncia – quelle strutture dissipative che mostrano la possibilità
termodinamica del fenomeno vita; quei fenomeni d’ordine che sorgono da fluttuazioni
apparentemente casuali» (p. 199).
«D’altra parte, se è la vita che va pensata come luogo principale di manifestazione del senso,
occorre pure dire che ciò avviene secondo modalità a loro volta differenziate» (p. 199s), ma
siccome per dire significati non elementari «c’è bisogno di una matrice simbolica più articolata per
dare espressione ad un senso tutto giocato nel segno della libertà», così ecco che «il nostro sguardo
si volge all’humanum, come lo spazio (unico, per quanto ne sappiamo attualmente) in cui esso può
dirsi, indicando una complessità che ha raggiunto un grado più alto. Là, infatti, ci appaiono
adeguatamente dispiegate quella capacità di parola e quella dimensione culturale dell’evoluzione
che sono indispensabili per dirsi di un Dio che proprio il libero incontro dei volti pone al cuore del
suo esserci» (p.200). «Se la considerazione di ogni vita può orientarci a cogliere qualcosa di Dio …
tuttavia un’espressione pienamente significativa della sua azione richiede quel codice ricco, che
riscontriamo solo nell’esperienza di donne e uomini» (p. 200s). «Il Dio della fede cristiana,
insomma, si annuncia nel cosmo, si lascia intravedere nella vita e nella sua multiforme diversità, ma
solo nell’humanum giunge a parola, solo là può essere incontrato come realtà personale. Questo è
certo uno dei significati più forti della nozione di essere umano “creato ad immagine di Dio” (Gen
1,27): quello linguistico, epistemologico, che indica lo spazio cui guardare per cogliere l’essere di
Dio. Il tema acquista maggior consistenza alla luce dell’Incarnazione». Così «la storia degli uomini
e delle donne, con le loro parole e le loro azioni, si presenta come luogo in cui può esprimersi
adeguatamente quel senso, che altrove può farlo solo parzialmente. L’universalità dell’agire
creatore di Dio, non contraddice affatto l’affermazione di una rivelazione che si dà specificamente
nelle esistenze di donne e di uomini. È questo, del resto, un dato consonante con la Scrittura» (p.
201) e ben visibile nella figura della Sapienza [primo riferimento per un aggancio cristologico!!!].
«Fin qui, dunque, il riferimento alla prima questione che aveva orientato la nostra riflessione: il
rapporto tra l’azione universale di Dio e il riferimento privilegiato del pensare teologico a specifici
gesti e parole di esseri umani. L’azione con cui Dio si manifesta entro ed attraverso il cosmo lo
attraversa certo nella sua totalità, ma si esprime nel segno della differenza, per divenire davvero
intelligibile laddove il Logos, tramite l’evoluzione, ha realizzato libertà ed espressività nel grado
più alto: nelle parole e nelle opere di esseri umani» (p. 202).
3. Quali parole? «Neppure il riferimento alla storia degli uomini, però, ci colloca in un regime di
limpida univocità. La possibilità di esprimere senso da parte degli esseri umani, infatti, è – grazie a
Dio – ampia, e numerosissime sono le percezioni del mondo emerse nelle storia della cultura:
abitiamo nel conflitto delle interpretazioni, nella pluralità ineliminabile» (p. 202s), dunque «perché
privilegiare queste parole, queste Scritture, questa tradizione entro la storia umana, così plurale?».
Già all’interno del solo mondo scientifico ci sono «prospettive profondamente differenziate circa il
significato da attribuire a quel reale che si mostra allo sguardo del ricercatore» e così «al di là della
koinè offerta dal discorso scientifico, gli spazi dell’etica, della filosofia, della teologia sarebbero
semplicemente il regno dell’opinabile, incapaci di effettiva conoscenza del mondo, ma mere
espressioni di orientamenti soggettivi. È questa certo un’opinione legittima, ma non certo l’unica: se
si prende sul serio, essa stessa deve riconoscere la possibilità di altre opzioni. Essa stessa, cioè, nel
suo dirsi, afferma l’impossibilità di farlo con quella coerenza logica necessitante che potrebbe
renderla davvero unica» (p. 203). «Esistono altre possibilità, esse pure coerenti; ne esiste, in
particolare, una, che è progressivamente emersa attraverso la nostra riflessione» (p. 203s) «È la
possibilità di vedere questa nostra realtà – cosmica, biologica, umana – come lo spazio in cui si
realizza un’esplorazione di possibili da parte di un’intenzionalità creatrice e, attraverso di essa, un
emergere di significati da parte del suo agire. [da qui …] Il nostro cosmo e la nostra storia di uomini
andrebbero allora pensati come segni espressivi finiti di un Dio che limita la propria onnipotenza
per aprire spazi alla libertà delle creature, fiducioso nelle loro potenzialità. Di un Dio che non le
abbacina con un’evidenza senza mistero, ma che al contrario sceglie di limitare la propria dicibilità
alle loro parole, di limitare il proprio dirsi ai significati che esse – attraverso le leggi e le dinamiche
del cosmo stesso – possono esprimere. [… fino a qui * vedi alla fine] E tuttavia si tratta di
significati espressi da un cosmo ed una storia interpellati dalla Parola, investiti dallo Spirito e
dall’azione potente del Padre». «L’emergere dei significati si gioca, dunque, in una storia di
interpellazione e di risposta, che interessa in qualche modo l’intero mondo della vita, ma che – ove
sorgono coscienza e libertà nel senso più forte del termine – si fa dialogo. In un dialogo tra libertà,
però, non stupisce certo che non tutte le risposte siano eguali, come non tutte le esistenze umane
esprimono con la stessa forza quei significati che lo Spirito continuamente offre» (p. 204).
«Confessare la definitiva rivelazione di Dio nella storia di Israele ed in Gesù, però, significa credere
che in questo popolo ed in quest’uomo la risposta al divino dono di vita e di senso sia stata così
piena da poter dire che in essa giunge a noi una parola che non è solo di donne e di uomini» (p.
204s). Ciò implica che nella dinamica di parola e di ascolto tra Dio e l’umanità possono «emergere
talvolta elementi di singolare chiarezza, nei quali il dirsi di Dio giunge a parola con tale efficacia da
poter essere detto “rivelazione”. Certo, è pur sempre parola detta e scritta da donne e da uomini, con
i limiti di un tempo e di una condizione culturale – e biologica, e fisica; da un punto di vista storico
potremmo anche considerarla simile ad altre. La sua forza ci spinge, però, a confessare che
attraverso questo dirsi e questo farsi scrittura giunge a noi la Parola di Dio; che attraverso di essi si
dice il Verbo di Dio, fatto uomo per opera dello Spirito». «La fede cristiana ritiene, dunque, che
nella parola che risuona – che cerca risonanze – nell’eternità del cosmo, quella parola che cerca
espressione attraverso le vicende e le vite di tutti gli uomini, abbia trovato in questa storia ed in
questa esistenza una dicibilità piena. È quasi un micro-modello, fatto di eventi della storia e del
mondo, un universale concreto, nella cui particolarità trova espressione definitiva il volto di Dio,
colui che è il Santo, altro rispetto al mondo. In esso prosegue quella dinamica di “focalizzazione”
della Sapienza» (p. 205s) «Di più, le Scritture cristiane riprenderanno lo stesso linguaggio, quando
parleranno del Verbo che si fa carne nella storia di un uomo. Quella stessa luce che fin dal principio
era presso Dio (Gv 1,1), quella che illumina ogni uomo (Gv 1,9), si mostra, così, splendente in
un’esistenza particolare, nella quale si rivelano la grazia e la verità donate dal Padre (Gv 1,16). In
questa luce, che confessiamo definitiva, possiamo tornare a rivolgere lo sguardo sul mondo e sulla
storia, per scoprirli tutti pieni di quello stesso soffio dello Spirito vivificante, che lì si rende
manifesto: “È in te la sorgente della vita, alla tua luce noi vediamo la luce” (Sal 36,10)» (p. 206).
4. Dialogo e testimonianza. «Certo, anche l’espressione del Verbo, intensa e trasparente nella sua
particolarità, si realizza comunque in un’esistenza umana – ed in questo senso, ancora nel segno
dell’opacità» (p. 206), «ancora una volta, il Dio che si dona e si dice non lo fa nel segno
dell’evidenza che abbaglia, quasi chiudendo lo spazio dell’interrogare o negando la possibilità di un
libero rispondere da parte dell’interlocutore. No, l’orizzonte è piuttosto quello di una parola che
richiede un ascolto» (p. 206ss). Ascolto che «è libero, chiede attenzione e disponibilità ad entrare in
dialogo, chiede disponibilità alla fatica dell’interpretazione, chiede disponibilità – persino – a
lasciarsi interpretare dai significati dell’interlocutore. Né, del resto, tale fatica riguarda uno solo dei
due interlocutori: l’oikonomia attraverso la quale giunge a noi la comunicazione del senso è un
dialogo a caro prezzo».
«Un dialogo oneroso, dunque, ma pur sempre un dialogo. È per questo che la confessione della
pienezza di rivelazione in Gesù Cristo non toglie in alcun modo valore ad altre percezioni del
mondo, ad altri punti di vista, ad altre elaborazioni di senso. Ciò che confessiamo essere emerso in
pienezza in Lui attende ancora di essere interpretato, approfondito, compreso appieno: c’è
un’eccedenza di senso della rivelazione rispetto alla teologia e persino rispetto al vissuto ecclesiale.
L’ascolto delle sapienze – della poesia, delle culture o ancor più, per questa ricerca, del portato
della ricerca scientifica – non è per la teologia mera strategia apologetica, ma nasce dalla
convinzione che lo stesso dialogo di Dio con le donne e gli uomini è ancora in corso» (p. 207).
«La ricerca, l’interrogazione: parole essenziali per un’esperienza che si pone nella logica della fede
– e quindi della non-evidenza, dell’interpretazione di segni luminosi e pure oscuri. … Da questo
punto di vista, anzi, le nostre conclusioni potrebbero apparire insoddisfacenti: se ci chiediamo
perché dovremmo credere nel tempo della scienza, la nostra risposta è che non ci sono motivi per
cui dovremmo credere: né la ragione scientifica, né la rivelazione ci collocano in un regime di
evidenza, dal quale la nostra risposta possa essere univocamente determinata» (p. 208). «Non c’è
solo questo, però: con forza anche maggiore occorre affermare che il tempo della scienza non dice
neppure che non dovremmo credere; non vi è alcun elemento nell’approccio fisico al mondo che ci
costringa a questo. […] Di più – proprio all’interno di un dialogo – crediamo di poter testimoniare
ottimi motivi per i quali possiamo credere, anche nel tempo della scienza, affermando la
consistenza, la fecondità e l’efficacia della fede cristiana e della sua speranza» (p. 209).
«Torniamo allora ancora un momento sulle domande e sulle risposte che sono emerse in questa
sezione. Rivelazione nell’humanum – in un ente così particolare, all’interno del cosmo studiato
dalle scienze? Certo, solo là ciò sarebbe stato davvero possibile in modo pieno; solo l’esistenza
umana (personale e comunitaria) ha una gamma simbolica abbastanza ricca da dire Dio.
Rivelazione in quest’uomo – in Gesù, in una storia così particolare? Questo è quanto crede chi
scrive; questo è quanto amerebbe potesse essere condiviso anche da altri. Non ci sono però
argomenti cogenti per dimostrare questa tesi, non si dà una religione che sorga e si mantenga nei
limiti della pura ragione» (p. 209). In fondo dal teorema di Gödel si capisce come «anche la pratica
del contare si fonda solo su se stessa. Così, in forma certo assai più evidente, è anche il discorso di
fede: un discorso coerente – o che, almeno, viene sperimentato e vissuto come tale da molti – ma
per il quale non si da fondazione cogente. C’è solo l’invito ad uno sguardo su questa storia e questa
vita: «Venite e vedete» (Gv 1,39)» (p. 210).
5. Gesù: una vita espressiva. Alcuni elementi della vita di Gesù vanno richiamati come «qualificanti
per il nostro percorso teologico» (p. 210). Ciò che emerge ad esempio è il suo «amore per la vita
potente ed efficace, ma contemporaneamente fragile, vulnerabile», «un agire vivificante senza
incertezze, ma anche esposto al rifiuto ed alla negazione. È questo un dato che spesso è stato
presentato come segnale della novità assoluta di Gesù, quasi indicatore inequivocabile della sua
trascendenza rispetto alle dinamiche dell’humanum». In lui «la creatività e la novità si intrecciano
qui con l’inserimento all’interno di una dinamica umana, culturale e religiosa che in nessun modo
viene svalutata, ma piuttosto portata alla pienezza» (p. 211). Così Gesù manifesta un Dio «nel cui
Regno c’è spazio per la vita, per ogni vita, anche per quella che la logica naturale vedrebbe
destinata a morte; un Dio non selettivo, che fa vivere anche i piccoli. In Gesù, però, troviamo anche
la lucida percezione della difficoltà di un’instaurazione, che eccede il tempo e la possibilità
presenti» (p. 212). Così nella croce, in modo sommo, si rivela «il senso della missione di Gesù:
nella fedeltà solidale alla missione, nell’ascolto accogliente della volontà del Padre,
nell’identificazione piena con essa, qualunque sia il prezzo da pagare. Nella Pasqua si mostra, poi,
un’identificazione più profonda, che ha le sue radici nello stesso mistero divino: nell’esistenza di
Gesù il credente scopre presente lo stesso Verbo divino, che nella carne e nella vita di un uomo dice
un Dio che si fa vicino ed opera nel reale intero» (p. 213).
6. Un volto che si mostra, un mondo ridisegnato (professione di fede dello scrittore). «Un Dio che
sta al servizio della creazione con un amore potente e vulnerabile, per mantenere stabile la casa
della vita. Un Dio che trova gioia, che si delizia in essa, che la vuole ricca, abitata, lussureggiante:
la biodiversità e la varietà delle strutture del cosmo appaiono l’espressione di un’azione che nasce
essa stessa dalla diversità – una e trina assieme, nella comunione d’amore. Un Dio abitato dalla
diversità e che proprio per questo ama ed apprezza la differenza e la novità; che si esprime entro le
leggi, ma che cerca e promuove la libertà. Un Dio che vuole partners liberi e che pure non cessa di
interpellarli; che costantemente si dice e che pure non forza l’ascolto né la risposta. Un Dio che si fa
vicino, solidale con la sua creazione anche nella contraddizione e nella sofferenza; che patisce in
essa, vivendo la Passione, per rendere possibile la Pasqua, il passaggio, l’esodo oltre la sofferenza,
promettendo un futuro in cui anche le esistenze ed i corpi sfregiati troveranno pienezza di vita. È
questo ciò che confessiamo: al cuore del reale c’è un volto di misericordia – vulnerabile, attivo,
carico di futuro. È questo il senso di cui il libro cerca di parlare – proprio nel mondo descritto dalla
scienza» (p. 213ss).
«Il cerchio si chiude, dunque: parlare di Dio significa anche volgersi al mondo con uno sguardo
diverso […] perché rilegge l’universo tutto alla luce delle fede e della relazione a Dio, scoprendovi
la casa per la vita e la parola, il luogo della gioia. È questo una realtà che ben conosce l’artista:
spesso una nuova percezione del mondo non nasce da una più nitida comprensione dei dettagli, ma
dalla scoperta di una nuova relazione tra di essi, come illuminati da luci diverse. La fede appare,
così, come una nuova Gestalt, che non coglie nel mondo altri enti – Dio non è un ente, ma la fonte
dell’essere – ma che tutti li scopre in una diversa prospettiva» (p. 214s). «Il mondo appare così
creazione, dono dato per la gioia e la meraviglia, prima che come punto d’avvio di un’ascesa
razionale ad altro» (p. 215).
«In prospettiva cristiana, d’altra parte, esso è anche “pieno del Verbo”, abitato fin dall’inizio da una
luce che lo illumina. In esso intravediamo quell’agire vivificante, che ne fa la casa donata agli
uomini e alle donne, perché la abitino e ne comprendano i dinamismi. È il mondo datoci senza
riserve, aperto alla ricerca ed alla comprensione razionale; il mondo datoci perché ne traiamo ogni
potenzialità, esplicitando senza riserve tutte le risonanze della parola creatrice. È il mondo studiato
dalla fisica, come una componente essenziale di quel “dare nomi” che è parte della vocazione
umana (Gen 2,20). È anche il mondo opaco e trasparente, ricco di senso ed ospitale, ma anche
violento e imperscrutabile, che stimola la ricerca del filosofo e del teologo. Ad esso abbiamo
cercato di volgere lo sguardo, per portare a parola ciò che ne abbiamo colto alla luce della Parola»
(p. 215s).
Mie osservazioni teologiche finali.
Ottimo il tentativo di tenere insieme creazione e rivelazione senza confonderli. Io l’avrei impostato
diversamente, ma il suo è comunque solido e profondamente dialogico. Certo forse un po’ troppo
irenico nello stile e ad esempio del rapporto peccato-creazione dice un po’ poco!
Inoltre buona teologia e gesuologia con accenni di pneumatologia nella creazione (anche se mai
troppo approfonditi), ma necessita un po’ più di cristologia nel rapporto con la creazione e di
pneumatologia generale e quindi anche di ecclesiologia (vedi inni paolini). A tal proposito …
[*] Su p. 188s e discorso di limitazione di Dio per la creazione. Ma chi lo dice che limita la sua
onnipotenza e qualità e stop?! Ok le limita, ma per recuperarle più forti: ci si ferma sempre alla
croce, senza ricordarsi mai della risurrezione che ne è l’elemento fondamentale e dove si mostra
l’onnipotenza ed onniscienza di Dio! Qui l’idea Rahneriana della presenza di Dio è quanto mai
utile: maggiore è la presenza di Dio e maggiore è la libertà dell’uomo. E inoltre l’onnipotenza di
Dio si manifesta proprio nella sua misericordia!!! Da p.204 poi il discorso del “limitarsi” di Dio, ci
può stare nel gioco della contingenza, ma occhio alla deriva buonista del “mi limito” per far posto a
te! Ci può stare è un tentativo di lettura kenotico, ma che ripeto non rende giustizia alla Pasqua: la
grandezza di Dio sta nel sapersi far piccolo, nel farsi servo! E dirò di più. Qui si fa un discorso su
Dio in generale, ma guardando alla croce stiamo parlando della persona del Figlio. Ora o
l’onnipotenza o è una caratteristica solo della persona del Padre (Credo in un solo Dio, Padre
onnipotente) oppure lo è divina, ma in questo caso lo sarà in modi diversi: un’onnipotenza paterna,
una filiale ed una vivificante. Ora sulla croce si manifestano tutte e tre e non una sola, e nel Figlio si
in particolare si mostra il suo riceversi totalmente, l’essere continuamente generato, il fare la
volontà del Padre e quale modo migliore per mostrare questa sua capacità (veramente onnipotente)
se non morendo e lasciando che il Padre onnipotente lo risusciti, nell’onnipotenza vivificante dello
Spirito Santo? Questo è il segno massimo dell’onnipotenza divina! Bisogna insomma fare
attenzione a evitare discorsi pseudo-patripassiani!