“Sono belli i teatri d’opera. Hanno un loro fascino. Ci sono gli ori, le luci, gli stucchi, i velluti, i tappeti, gli specchi; spesso anche i soffitti affrescati, come in certe chiese. Fanno spettacolo a sé, a sipario chiuso: ti danno un senso di opulenza, di protezione, di calore, di complicità. Pensi a che cosa poteva succedere nei palchi quando socchiudevano le tendine, discrete perfino nei colori: azzurro, avorio, un verde che si spegne nel giallo, oppure un rosso che non è più rosso. C’era una regia in questo molto rigorosa: le tendine dovevano essere armonizzate con i parapetti dei palchi, il sipario, la volta dipinta. Le stampe della Scala tramandano l’immagine di un teatro in cui tutto è ordine, simmetria, compostezza, conforto: il conforto del lusso. Ma che cosa succedeva dentro quei palchi? Sonnecchiavano, mangiavano, cospiravano, facevano l’amore, intrecciavano pettegolezzi? E quei poveri diavoli che stavano sotto a cantare, ballare, suonare? Per molto tempo, all’inizio di una vita che ha oltrepassato i due secoli, la Scala è stata tutto questo: teatro e luogo di ritrovo assolutamente necessari, più il secondo del primo, alla nobiltà milanese”. (G. Barigazzi, La Scala racconta, Milano, 2010) Giuseppe Verdi nella Milano del Risorgimento Il patriottismo italiano sul palcoscenico del Teatro alla Scala Tesi di Gianmarco Torrigiani Liceo Scientifico “Amedeo di Savoia Duca d’Aosta” – Pistoia Classe V Sezione D INDICE 1. Premessa. 3 2. Contesto ideologico del Risorgimento. 3 3. Forza di attrazione culturale, storica e politica di Milano. 5 4. Arti diverse, contributo comune alla causa risorgimentale. 5 5. Il Teatro alla Scala: il grande orologio che regola la vita di Milano. 8 6. Il giovane Verdi nei salotti e negli ambienti culturali milanesi. 9 7. Influsso del pensiero di Mazzini nella vita artistica di Verdi. 10 8. Il Nabucco: Verdi involontario portavoce di istanze patriottiche. 13 9. Rilievo politico e sociale del Teatro alla Scala al tempo del Nabucco. 15 10. Dal trionfo del Nabucco, un Verdi finalmente consapevole. 16 11. Dall’Ernani all’Attila: Verdi più vicino al popolo, più lontano dalla Scala. 17 12. Avvento dei moti del ’48 ed impegno politico del compositore. 19 13. Nuovi scenari politici: “Viva V.E.R.D.I.!”. 22 14. Non il fucile, ma le sue note: il contributo di Verdi alla causa nazionale. 24 Bibliografia 27 Sitografia 28 2 1. Premessa. Molteplici sono le ragioni che mi hanno portato a scegliere questo tema per la mia tesi, prima fra tutte la mia grande passione per l’opera lirica, nata, quasi per caso, all’età di 13 anni, dall’ascolto di un brano dell’indimenticabile tenore Luciano Pavarotti. Da quel momento il mio interesse per il melodramma si sviluppò giorno dopo giorno con sempre maggiore intensità, trasformandosi in vero entusiasmo dopo avere assistito per la prima volta, poco tempo dopo, alla rappresentazione del Don Giovanni di Mozart. Non ho più potuto farne a meno: fu così che decisi di sottoscrivere l’abbonamento annuale per la stagione operistica del Maggio Musicale fiorentino. E’ stata per me un’esperienza indimenticabile, che mi ha emozionato ed arricchito, tanto da volerla ripetere anche gli anni seguenti e da spingermi a desiderare di approfondire, in particolare, le opere dei principali compositori italiani, nonchè di visitare i più importanti teatri del nostro Paese. L’occasione è finalmente arrivata quest’anno: il 14 febbraio ho varcato le soglie di quello che, senza dubbio, può essere considerato uno dei teatri più famosi al mondo, la Scala di Milano, che da sempre mi aveva affascinato (anche grazie al contributo dei racconti di mia nonna, di origini milanesi), per assistere al Nabucco di Giuseppe Verdi. Questa rappresentazione mi ha conquistato particolarmente per la sua forza espressiva, al punto tale da decidere di conoscere meglio la vita e le opere del grande compositore, tenuto conto anche della straordinaria ricorrenza, proprio nel 2013, del bicentenario della sua nascita. La visita, il giorno successivo, alla biblioteca del teatro, ha dato il via definitivo a questo progetto, al quale mi sono dedicato con dedizione ed entusiasmo. La mia tesi analizza la produzione verdiana nell’arco temporale tra il 1839, data della prima rappresentazione del Nabucco alla Scala, ed il 1855: in questi sedici anni si concentrano tutte le opere del compositore bussetano aventi tenore patriottico. 2. Contesto ideologico del Risorgimento. In un’interessante intervista, il professor Francesco Bussi, già docente di Storia ed Estetica della musica presso i Conservatori di Piacenza e di Parma, invitato a ripercorrere il repertorio delle opere verdiane, ha dichiarato: “l’opera è anche un modo per andare dentro la storia, è come leggere un libro”. 3 Questo è profondamente vero: chi, ad esempio, come me, ha avuto l’occasione di ripercorrere il percorso personale ed artistico di Giuseppe Verdi (1813-1901), si accorge subito che approfondire la storia del compositore significa, di fatto, ampliare l’orizzonte di ricerca ed arrivare a cogliere, nel suo complesso, il ben più articolato contesto del Risorgimento, la cui esperienza si è basata su una serie assai complessa di fattori ideologico-culturali. La costruzione dello stato unitario, come è noto, è avvenuta attraverso moti popolari, guerre, sacrifici di singoli patrioti, lungo un arco di tempo durato più di sessanta anni, durante il quale, con tenacia straordinaria, sono stati trasmessi ideali profondi, che hanno reso, di fatto, il patriottismo ottocentesco italiano un fenomeno di grandissimo rilievo politico e storiografico. I più generali fattori ideologici che hanno influito sul processo risorgimentale riguardano l'elaborazione, specialmente da parte della cultura romantica, di nuovi concetti storicoculturali, filosofici, giuridici e politici come quelli di popolo, nazione, sovranità popolare. Tra il XVIII ed il XIX secolo, intellettuali e filosofi iniziarono a riflettere sull’influenza che il clima, la geografia e i costumi avevano sulle popolazioni, determinandone caratteristiche specifiche. Storici e letterati iniziarono così a studiare le lingue e le tradizioni popolari europee, e le loro ricerche giunsero ad individuare etnie distinguibili chiaramente le une dalle altre e ad alimentare la convinzione che ogni popolo avesse un diritto naturale a decidere il proprio destino, ad organizzare la propria vita politica nel territorio da esso abitato, diventando una nazione. In un’Europa ridisegnata dal Congresso di Vienna senza alcuna considerazione dei diritti delle nazioni, e governata di nuovo da sovrani assoluti, la lotta per l’indipendenza dagli stranieri, per l’unificazione di territori divisi e per l’ottenimento di costituzioni liberali si fusero assieme, in un generale programma di radicale rinnovamento. Queste idee iniziarono a diffondersi anche negli stati pre-unitari italiani, e diversi letterati, musicisti, intellettuali, filosofi e artisti, cominciarono a riconoscere una precisa identità etnica italiana, basata sulla memoria del glorioso passato latino, sulle specificità geografiche, sulla larga condivisione delle credenze religiose della sua popolazione, sulla straordinaria tradizione letteraria ed artistica. 4 3. Forza di attrazione culturale, storica e politica di Milano. Alla fine del 1838 Verdi si trasferisce con la propria famiglia da Busseto, luogo natio, alla capitale lombarda, passata nel 1814, dopo l’esperienza napoleonica, sotto il dominio dell’impero austriaco. Milano, luogo tradizionalmente identificato quale importante snodo nel campo dei commerci e della produzione, sin dalle sue origini è stata anche una città caratterizzata dalla propensione ad accogliere le istanze di sviluppo e modernità. Ancora, nei primi anni dell’Ottocento, in piena epoca risorgimentale, Milano si era distinta, rispetto alle altre capitali italiane, per essere quella che, prima fra tutte, aveva spinto maggiormente verso l’unificazione e l’autodeterminazione dell’Italia, divenendo ben presto, per tali ragioni, vera e propria capitale morale e culturale dell’Italia unita in costruzione, e, al tempo stesso, “porta” naturale sull’Europa, centro ricettivo ed attrice protagonista delle grandi elaborazioni concettuali della letteratura, dell’arte e del pensiero. Il Palazzo di Brera (con la Pinacoteca e l’Accademia di Belle Arti) e il Teatro alla Scala sono i luoghi istituzionali in cui prende forma l’ideale unitario, che lì si trasforma in simbolo riconoscibile. La forza di attrazione culturale di Milano, all’epoca della venuta di Verdi, era da ascriversi sia all’effervescente attività dell’ambiente intellettuale, sia alle concrete opportunità professionali che tale ambiente sapeva offrire, rappresentando in quel momento il più vivace centro culturale della penisola, nonché centro operistico internazionale con una solida tradizione, tali da esercitare, specie sui giovani, un’eccezionale forza di richiamo. Fermamente decisa, dopo la svolta della Restaurazione, a non abdicare alla sua vocazione di capitale europea, Milano stava sperimentando, come sopra accennato, una veloce espansione in tutti i campi, che aveva il suo fulcro in una straordinaria e concorde mobilitazione delle forze culturali, convinte che il recupero dei valori nazionali e liberali potesse concretizzarsi in una decisa politica di sviluppo, di modernità economica e sociale. 4. Arti diverse, contributo comune alla causa risorgimentale. Non può perciò stupire che nella città fossero convogliati i maggiori rappresentanti della vita intellettuale italiana, i quali, elaborando originalmente i motivi illuministici d’Oltralpe, continuarono con le loro opere il processo iniziato durante il rinnovamento settecentesco, spesso partecipando attivamente anche alla vita politica ed occupando vari posti di responsabilità civile e militare, per una più rapida rinascita della patria italiana. 5 Come pure, che nella capitale lombarda fossero confluiti compositori provenienti da tutta la penisola, allettati da un ambiente musicale oltre modo stimolante; oppure esponenti dell’arte figurativa, fiduciosi di poter risultare tra i prescelti degli annuali concorsi di Brera, o comunque certi di trovare committenze grazie alla passione collezionistica di tanti aristocratici e ricchi borghesi. Ancor più considerevole era poi l’affluenza di letterati, dal momento che la città continuava ad essere non soltanto l’asse portante del dibattito letterario, ma anche la sede della pubblicistica più agguerrita e il principale mercato del commercio librario. In questa città, e nei suoi salotti, artisti di vari ambienti e di vari settori culturali cominciavano a sviluppare nelle loro opere tematiche ispirate agli emergenti valori patriottici, ed ivi, come detto, iniziavano ad ispirarsi, in un gioco scambievole di stimoli e suggestioni, politica, letteratura, arti figurative, teatro, melodramma e filosofia. A Milano, insomma, l’Italia non si costruiva solo con le armi, ma con l’arte la musica, la letteratura. L’idea nazionale, di cui discutevano intellettuali e politici, ispirò artisti, scrittori, musicisti, ancora prima della nascita dello Stato unitario, rendendo il Risorgimento, oltre che politico, culturale ed artistico. Come ben descritto, infatti, da un noto cronista dell’epoca, Massimo Mila, “questa nostra strana e meravigliosa patria, assai prima di essere una realtà nelle carte geografiche e nei trattati diplomatici, e persino nella coscienza stessa dei cittadini, viveva nell’arte di musicisti e poeti, nei colori e nelle forme della pittura”. Musica e letteratura, nello specifico, gareggiavano ad armi pari: ad autori del calibro di Foscolo, Manzoni e Leopardi, la prima ribatteva alla seconda colpo su colpo, opponendole, inizialmente, i nomi di Rossini, Bellini e Donizzetti (la grande triade del primo Ottocento), ed in seguito, quando la letteratura, rimasta a corto di risorse, sembrava ristagnare esaurita, stabiliva il proprio primato con Giuseppe Verdi. E, nella Milano risorgimentale, alla quale il compositore pervenne alla fine del 1838, le arti andavano appunto avanti parallelamente; insieme alla musica e alla letteratura un ruolo altrettanto determinante veniva rivestito dalla pittura, ed artisti quali Hayez (quest’ultimo considerato da Giuseppe Mazzini come il maggior artista del nostro Risorgimento) o Manzoni rappresentarono infatti, nei loro rispettivi ambiti culturali, il corrispettivo del maestro bussetano. 6 Hayez, pittore veneziano, approdato a Milano nel 1820 per insegnare a Brera, in breve conquistò la capitale lombarda con i suoi ritratti e con le sue tele a soggetto storico, in cui, servendosi di temi apparentemente innocui e di episodi di storia lontani nel passato, propagandò istanze ed aspirazioni risorgimentali, aggirando la censura austriaca: non a caso è considerato come principale rappresentante della corrente artistica denominata “Romanticismo Storico”. Manzoni, al tempo stesso, è, a buon diritto, considerato un simbolo dell’Italia, avendo inaugurato il romanzo moderno italiano e rappresentato un punto di riferimento, un vero faro, nella letteratura ottocentesca. Formidabile fu il sodalizio umano ed artistico tra i tre intellettuali (è infatti nota alle cronache la reciproca stima, la lunga amicizia e l’assidua frequentazione tra il pittore, il letterato ed il compositore), animatori di un vivace e fecondo laboratorio di idee, nonché promotori dell’idea di un’Italia da unificare sotto un medesimo progetto culturale. Essi furono patrioti non sui campi di battaglia, ma nella capacità di esprimere il senso patrio che sempre ebbero nell’animo e nella mente; interpreti della passione patriottica dei loro contemporanei, operando in favore di una lingua comprensibile a tutti e rispondente, in modo efficace e diretto, alla sensibilità comune; celebri per il loro genio e la tenacia e capaci, come nessun altro, di rappresentare con profonda umanità gli umili, con i loro sentimenti e le loro vicissitudini, con la loro ingenua bontà oppure con la loro aspirazione al riscatto e alla giustizia. Verdi, Manzoni e Hayez fornirono alla nazione in formazione i modelli culturali in cui riconoscersi, rispettivamente, con la tragedia e la poesia (Carmagnola, Adelchi e Marzo 1821), con il romanzo moderno (I Promessi Sposi), con la grande pittura storica, con il melodramma. Di ispirazione manzoniana fu l’esordio milanese di Hayez, il quale, giunto nella capitale lombarda nel 1820, proprio in quegli anni dedicò alcuni dipinti storici (ora distrutti) alla tragedia del Carmagnola, la storia del capitano di ventura al servizio della Repubblica Veneta che diede il via al Romanticismo in letteratura. Tali opere, esposte a Brera nel 1821, valsero al pittore i complimenti del Manzoni, il quale gli donò una copia dell’Adelchi con dedica in versi. Il rapporto tra scrittore e pittore proseguì negli anni successivi dando luogo a lavori memorabili quali il celeberrimo Ritratto di Alessandro Manzoni (1841) e il bellissimo Ritratto dell’Innominato (1845), ispirato dalle pagine dei suoi Promessi Sposi. 7 Quanto al rapporto tra Hayez e Verdi, quest’ultimo, più giovane del pittore, lo definì: “Il grande artista, il perfetto onest’homo, che resterà nella memoria di tutti per le insigni opere d’arte, e per le sue virtù”. Il compositore, ancora, si avvalse sistematicamente della consulenza del pittore, docente a Brera dal 1823 al 1880, per la messinscena dei suoi melodrammi, in particolare per gli allestimenti scaligeri. Si instaurò, tra i due, un circolo virtuoso sugli stessi temi di ispirazione patriottica. Testimone dell’affinità tra i due è la straordinaria coincidenza tra il melodramma verdiano e la pittura di Hayez, individuata, in pittura come in musica, delle rispettive opere, ispirate dalle medesime fonti letterarie: I Lombardi alla prima crociata, I due Foscari (Hayez fu scelto dal Verdi quale “revisore dei figurini” per l’allestimento di quest’opera) e I Vespri siciliani. 5. Il Teatro alla Scala: il grande orologio che regola la vita di Milano. Dopo che un incendio, divampato nel 1776, aveva distrutto il teatro di corte, l’imperatrice Maria Teresa d’Austria, regnante tra il 1740 ed il 1780, decise di far costruire un nuovo teatro, aderendo alla proposta dell’architetto Giuseppe Piermarini di realizzarlo sull’area della chiesa di Santa Maria della Scala. Il nuovo edificio, che prese il nome di Teatro alla Scala, divenne ben presto per Milano uno dei punti focali d’attrazione intorno a cui si intrecciavano mondanità e dinamismo culturale. Sin dalla sua inaugurazione, avvenuta il 3 agosto 1778, il teatro aveva svolto nella città un ruolo sociale non indifferente, rappresentando non soltanto un luogo di spettacolo. La platea era spesso destinata al ballo, i palchi venivano usati dai proprietari per ricevervi degli invitati, mangiare e gestire la propria vita sociale; nel ridotto, ed in un altro spazio in corrispondenza del quinto ordine di palchi, si giocava d’azzardo. Durante gli anni di dominazione austriaca e francese, la Scala era finanziata, oltre che dagli introiti provenienti dal gioco, dalle stesse famiglie che avevano contribuito alla costruzione del teatro e ne conservavano la proprietà attraverso le quote dei palchi. La titolarità della gestione, in particolare, rimase a lungo principalmente in mano ad esponenti della nobiltà milanese. Intorno al 1800, la Scala rappresentava il grande orologio che regolava la vita dell’aristocrazia milanese: nelle case si riceveva soltanto il venerdì, quando il teatro era 8 chiuso; erano anni in cui il governo austriaco, per mezzo di esso, amministrava disciplinatamente l’intera Lombardia. All’arrivo di Verdi, nel 1838, la Scala continuava ad essere il vero centro di gravità della società milanese. “A Milano”, scriveva il compositore Franz Liszt, “si è riconosciuti come stranieri solo per questa domanda: “andate alla Scala questa sera?”. E’ una domanda superflua, oziosa, inutile, che i milanesi non si rivolgono mai. Per essi, non c’è dubbio, sarebbe come chiedersi se si è ancora vivi”. Ma, rispetto agli anni precedenti, c’era stato un salto di qualità nel pubblico: non più solo l’aristocrazia, bensì tutte le classi della società si interessavano a quanto succedeva alla Scala: “dal gran signore che va a sbadigliare magnificamente in un palco di prim’ordine, fino all’ultimo commesso della drogheria, che con 75 centesimi riesce a trovare il suo posto in loggione”. Nello specifico, mentre i primi tre ordini di palchi rimasero per molti anni di proprietà dell’aristocrazia, il quarto ed il quinto vennero per lo più occupati dall’alta borghesia, che aveva fatto il proprio preponderante ingresso in teatro; la platea, ed ancora di più il loggione, infine, furono destinati ad un pubblico misto di militari, giovani aristocratici, borghesi, artigiani. 6. Il giovane Verdi nei salotti e negli ambienti culturali milanesi. Verdi, come detto, arrivò a Milano con la famiglia nel 1838, e cominciò sin da subito a prendere contatto con i luoghi attorno al teatro, dove si davano convegno tutti i protagonisti, diretti o indiretti, del mondo del melodramma. Sulla piazza della Scala, più piccola dell’attuale, si intrattenevano maestri, cantanti e impresari, ed aprivano i battenti le sedi dei due più importanti editori musicali, Ricordi e Lucca. Rituali punti di incontro e di intrattenimento erano pure i numerosi caffè del centro. Nei loro ambienti eleganti non ci si limitava a discutere di novità musicali e a commentare la rivalità tra le prime donne della scena lirica, come la Pasta e la Malibran; si parlava anche degli ultimi eventi culturali, economici e sociali e – magari a bassa voce - di politica. Fu grazie alla frequentazione assidua dei luoghi in cui si ritrovavano riunite tutte le “voci” che contavano, che il giovane Verdi riuscì a entrare in contatto con i personaggi che gli avrebbero permesso di uscire dall’anonimato. Poco distante dal Teatro alla Scala, sulla Corsia del Giardino, c’era anche il più modesto negozio musicale di Giovanni Canti, presso il quale il Verdi avrebbe pubblicato, già nel 9 1838, il suo primo album di romanze, propiziandosi l’accesso a quei privati ed esclusivi luoghi di aggregazione naturale che erano i salotti, ambienti liberali frequentati da patrioti, politici e, soprattutto, uomini illustri della cultura. Verdi, divenuto ben presto il nuovo genio da onorare, entrò come tale nei salotti che allora contavano a Milano, tra cui quello, il più ambito di tutti, della contessa Clara Maffei (al quale il compositore fu introdotto nell’estate del ’42), alla quale fu legato per tutta la vita da profonda amicizia, nota per aver fatto della sua casa un luogo di incontro di poeti, artisti e letterati e, più in generale, di personalità della cultura italiana e forestiera, tra cui molti musicisti illustri. Ivi, tra gli altri, furono ospitate le forze migliori degli intellettuali italiani dell’epoca: Massimo D’Azeglio, Giulio Carcano e Tommaso Grossi (autore, quest’ultimo, del poema I Lombardi alla prima crociata), come pure personalità quali Listz, Rossini e Balzac, tanto per citare. In particolare, dal 1846, dopo la separazione dal marito (il celebre poeta Andrea Maffei, traduttore di Shiller e Byron, e molto legato alla cultura tedesca), il salotto della contessa divenne anche centro di elaborazione di idee politiche, ispirandosi a principi marcatamente anti-austriaci ed indipendentisti. In tale salotto, in particolare, giunsero a confluire le idee e le opere di uomini, come il patriota genovese Giuseppe Mazzini, i quali si richiamavano ai valori di indipendenza, di unione, di libertà, in una parola di nazione, da far valere in nome della tanto agognata Costituzione. Secondo quest’ultimo, in particolare, la vita doveva essere concepita come missione e come attuazione della legge di Dio attraverso la Patria, da intendersi come una fede, come un ideale senza il quale nessun popolo poteva concepirsi né adempiere alla missione che Dio gli aveva assegnato. Il farsi nazione del popolo italiano, dunque, secondo Mazzini, si inseriva proprio in un processo in cui a rivelarsi era la Provvidenza divina: una redenzione nazionale che poteva avvenire per opera di tutto il popolo italiano, perché in esso tutto Dio si rivelava ed esprimeva. 7. Influsso del pensiero di Mazzini nella vita artistica di Verdi. Il contatto di Verdi, specie nel periodo tra il 1842 ed il 1848, con ambienti così ideologicamente impegnati nella causa nazionale e la frequentazione indiretta degli 10 aderenti alla Giovine Italia, aveva consentito al giovane compositore, in modo forse inizialmente inconsapevole, di recepire via via, fino a renderli inevitabilmente propri e a tradurli nella propria produzione artistica, gli ideali ed i valori patriottici conosciuti nelle parole e nelle opere degli uomini di politica e di cultura confluiti in quegli ambienti culturali. Pur non essendo milanese, egli aveva respirato infatti nella capitale meneghina, come tutti gli Italiani liberi, l’aria del rinnovamento e dell’assoluta libertà, giungendo, come ci apprestiamo a vedere, a testimoniare questa sua volontà tramite quello che aveva di più caro e di sicuro effetto: la musica. La sincera ammirazione nutrita nei confronti di Giuseppe Mazzini e del suo pensiero, facilitò ulteriormente la penetrazione dell’apparato ideologico del Risorgimento nelle trame delle principali creazioni del compositore, destinate ai palcoscenici italiani: non è un caso che, proprio in quegli anni, il maestro compose soggetti dalle forti allusioni patriottiche. E’ documentato che il compositore subì, per buona parte della propria vita artistica, il fascino e l’influsso del Mazzini: non sappiamo, infatti, se Verdi avesse letto la sua Filosofia della musica, apparsa nel 1836, ma possiamo affermare, con grado di sufficiente certezza, che fosse nel carattere del giovane bussetano l’impulso a raggiungere la meta indicata dallo scritto, ossia, rendere il melodramma italiano opera nazionale. Sulla scena alla quale Verdi si affacciava, campeggiavano infatti personalità di una italianità luminosa, che tuttavia, come esplicitamente denunciato dal Mazzini, non la rappresentavano fino in fondo. Il sostenitore dell’idea repubblicana sollecitava, in particolare, nel suo saggio, un profondo rinnovamento della musica e del melodramma italiano, ovvero dell’opera teatrale, giungendo ad asserire che “se il melodramma deve diventare nazionale, urge emanciparsi da Rossini”. Quando Verdi aveva appena 23 anni, infatti, Rossini giungeva all’apice della propria parabola artistica con l’opera Guglielmo Tell, che già preannunciava temi cari al Risorgimento (l’idea di un popolo oppresso in lotta per la libertà, di una salvezza che si conciliava con il sogno di una pace universale): non rappresentava però, l’ideale di compositore che Mazzini andava cercando in quegli anni, ritenendolo più un innovatore della forma che dei contenuti. 11 Rossini era troppo poco rivoluzionario, privo di quei gesti di rivolta che il patriota invece attendeva. Neanche Bellini incarnava il suo ideale, mancando la sua musica di potenza e varietà, come pure il Donizzetti, il quale non era giudicato all’altezza di un così incisivo cambiamento. Nelle opere di questi ultimi si trovavano l’entusiasmo, la passione, la generosità, ma tali qualità venivano espresse soprattutto a livello amoroso, non estendendosi (come invece avverrà in Verdi) alla coscienza della situazione politica dell’Italia. Come riportato, ancora, dal cronista Massimo Mila, “occorreva un linguaggio comune che non fosse quello troppo maestoso del Rossini spirituale, né quello celestialmente dilatato di Bellini, e neanche quello così ben misto di Donizzetti. Verdi lo inventò o scoprì: e questa fu opera d’arte”. Mazzini voleva, infatti, che la voce ed il pensiero patriottico arrivassero fino al popolo risvegliandolo all’azione rivoluzionaria, e per questo gli sarebbe stato prezioso, in tale opera di propaganda, l’ausilio di un’arte che, con la sua potenza, giungesse a trascinare le folle ed a infiammarle di quell’amore di Patria che sentiva bruciare nel proprio cuore. Solo la musica, ed il melodramma in particolare, avrebbe potuto conseguire un tale scopo: ma una musica nuova, trascinante, che acquistasse una funzione pratica e non fungesse più soltanto da occasione di divertimento, contribuendo piuttosto all’affermazione degli ideali politici e civili, che erano in cima a tutti i suoi pensieri. L’enunciazione di tali principi era accompagnata da suggerimenti pratici: perché, si chiedeva, non dare sviluppo al coro, inteso come massima espressione e rappresentazione dell’elemento naturale, per innalzarlo “dalla sfera e secondaria e passiva che gli è oggi assegnata, alla rappresentanza solenne ed intera dell’elemento popolare?”. Era la voce del popolo quella che doveva innalzarsi nei cori, erano le grida di coloro ai quali Mazzini si appellava perché prendessero parte attiva nel processo di indipendenza dell’Italia. Il patriota riteneva che il luogo su cui meglio poteva esprimersi quell’urgenza di rappresentazione diretta dei sentimenti e delle passioni era la scena teatrale, ma era altrettanto consapevole che, nonostante l’importanza del teatro come veicolo di diffusione culturale e di propaganda patriottica, ben raramente i letterati erano riusciti ad imporre la loro presenza sulle ribalte teatrali. 12 Fortunatamente, oltre al teatro di prosa c’era quello musicale: quale altra manifestazione artistica era infatti in grado di raggiungere, per di più con tanta immediatezza, così vasti strati di pubblico, oltre tutto non necessariamente alfabetizzato? Ebbene, l’uomo che il Mazzini invocava e che avrebbe “restituito alla Scala la magnificenza dei giorni più belli” era dietro l’angolo: Verdi sembrò immediatamente capace di rispondere alle sue sollecitazioni, come riconosciutogli, ad esempio, da Giuseppe Giusti, il quale, in una lettera inviata al compositore, affermava: “la musica è favella intesa da tutti e non v’è effetto grande che essa non valga a produrre”. Nella musica verdiana, per la prima volta, si sarebbe riconosciuto un popolo nella sua abbozzata etnia di sentimenti naturali, semplici, inostacolabili perché dilatabili in una nuova espressione più di quanto potessero mai fare la letteratura, il romanzo, il teatro di prosa. 8. Il Nabucco: Verdi involontario portavoce di istanze patriottiche. Fu il Nabucco a rappresentare, nel senso anzi detto, la vera svolta nella carriera di artista e di patriota di Giuseppe Verdi. Nell’inverno del 1840-41, l’impresario della Scala, Bartolomeo Merelli, imbattendosi per strada nel compositore che andava a teatro, propose a quest’ultimo di rappresentare un libretto di Temistocle Solera, il Nabucodonosor, consegnandogli, seduta stante, il relativo manoscritto. Rincasato, il giovane bussetano gettò il libretto sul tavolo della cucina, e questo si aprì su una pagina che riportava il verso: “Va’, pensiero, sull’ali dorate”, che destò in lui grande impressione, al punto da indurlo a leggere d’un fiato l’intero manoscritto e a convincerlo a mettere in scena l’opera nella imminente nuova stagione della Scala, con debutto il 9 marzo 1842. Tale rappresentazione segna il filo rosso che legherà i suoi melodrammi all’avventura patriottica nazionale: nell’opera – paradossalmente dedicata all’Arciduchessa austriaca Maria Adelaide d’Asburgo, figlia del vicerè del Regno Lombardo-Veneto, Arciduca Ranieri – Verdi fa istintivamente propri i suggerimenti del Mazzini quanto all’uso del coro, attraverso il quale giunge ad esprimere quei sentimenti patriottici ed anti-austriaci maturati grazie alla continua frequentazione dei salotti della Milano risorgimentale. 13 Il “Va’, pensiero”, famosissima sezione corale affidata al popolo ebraico raccolto sulle rive dell’Eufrate, contiene i tratti di una accorata elegia, ricca di rimembranza di una età felice oramai tramontata. Il potenziale patriottico del Nabucco, con le sue musiche capaci di coinvolgere profondamente l’animo degli ascoltatori e di instillare nei cuori un nuovo calore di fraternità nazionale, di solidarietà, di unità e di indipendenza, si rivelò al primo ascolto in maniera clamorosa. Tutta l’Italia era una polveriera, e parole come esule, patria, libertà, possedevano in quel frangente capacità esplosive inimmaginabili. Le allusioni spiccatamente patriottiche, l’analogia tra la situazione di infelicità del popolo ebraico e la sottomissione italiana, furono colte al volo. “Và, pensiero, sull’ali dorate”, segnò infatti il primo di quegli incontri incendiari tra il genio melodico di Verdi e le speranze nazionali d’Italia, che dovevano fare di lui il maestro del Risorgimento italiano. Anche perché quel coro, rispetto ad altri, aveva una particolarità non da poco: era cantabilissimo, era costruito in maniera estremamente semplice, basato su voci che cantano all’unisono. Subito il pubblico lo percepì come qualcosa di suo, come un respiro della propria anima, accorgendosi di potersene appropriare con insolita facilità. La Gazzetta Musicale di Milano scrisse, a proposito del coro: “ben poco ha la critica da osservare in biasimo al compositore. Siamo sulle sponde dell’Eufrate. Gli ebrei incatenati e costretti al lavoro sciolgono un canto patetico, una preghiera, un addio alle rive del Giordano, alla patria sì bella e perduta. La melodia con cui staccasi all’unisono e a mezza voce questo coro non può essere più toccante. Non esageriamo che ci commosse quasi alle lacrime. Crediamo di non aver bisogno di tesserne ulteriori elogi”. Ancora, quel coro, che ricoprirà un ruolo di rilevanza sempre maggiore nelle opere “risorgimentali” di Verdi, ne sancì la sua elezione a portavoce delle istanze patriottiche del popolo, della generazione del Risorgimento italiano, rappresentando non un personaggio all’interno dei melodrammi, bensì un vero e proprio sentimento presente nella coscienza del pubblico. Eppure, quasi certamente, il caso del Nabucco fu estraneo a qualsivoglia premeditazione da parte del compositore, che in quegli anni, impegnato com’era alla ricerca di sé stesso e del conseguimento del successo in campo musicale, non aveva una vera e propria coscienza 14 politica: né lui, né il librettista Solera, avevano probabilmente considerato la possibilità di riferimento alla condizione politica italiana. Pur non sapendo con certezza, dunque, se Solera e Verdi ebbero in mente ben chiara fin dal principio, l’analogia tra la situazione politica italiana e quella degli ebrei in schiavitù, o se si trattò, piuttosto, di un accostamento inconscio ed istintivo, certamente, come riportato dal Folchetto, noto cronista dell’epoca, “quella sera del 9 marzo del 1842 il pubblico capì al volo l’antifona: gli eleganti ufficialetti austriaci in divisa bianca che frequentavano le “prime” della Scala, dovettero sentire, forse per la prima volta, l’odio del popolo oppresso come qualcosa di solido, spesso, concreto, da toccare con mano”. 9. Rilievo politico e sociale del Teatro alla Scala al tempo del Nabucco. Ciò premesso, non può non risultare quanto meno singolare la circostanza che Verdi abbia rappresentato il Nabucco proprio alla Scala di Milano, teatro costruito per volontà di un’imperatrice austriaca, nonché sovvenzionato dallo stesso governo austriaco, che contribuì alla spesa per la sua costruzione con 240.000 lire milanesi, tenendo per sé il palco reale, un palco di proscenio ed altri quattro palchi. Ebbene, proprio quel palco vedeva la rappresentazione di un’opera, il Nabucco appunto, evocatrice, come detto, di forti istanze patriottiche, trasformandosi così, da docile strumento a disposizione dei governanti che lo avevano progettato, a strumento di persuasione occulta e luogo atto a innescare le prime, convinte, dimostrazioni antiaustriache. Trasformazione, questa, talmente imprevista ed inattesa, che la censura, già operante in quegli anni, fu di fronte al Nabucco decisamente moderata, se non pressoché nulla. Il Teatro alla Scala, del resto, non faceva eccezione: in piena epoca risorgimentale, tanto più quanto ci si avvicinava ai moti rivoluzionari del 1848, in tutti i teatri italiani dell’Ottocento, a maggior ragione in quelli situati nei territori ancora sotto il dominio dell’Impero Asburgico, era norma che la rappresentazione di un’opera lirica divenisse il pretesto per scatenare accese manifestazioni di carattere patriottico, e che la musica, insieme al testo cantato a pieni polmoni, costruisse le fondamenta di una identità nazionale ancora incerta. Basta guardare Senso, film girato nel 1954 dal celebre regista Luchino Visconti, per documentare e far prendere coscienza della funzione politica e sociale dei nostri teatri all’epoca dell’Italia oppressa. 15 10. Dal trionfo del Nabucco, un Verdi finalmente consapevole. Vista la trionfale accoglienza tributata dai milanesi al Nabucco, in Verdi si fece avanti la consapevolezza delle enormi potenzialità comunicative del melodramma. Seppe, in particolare, giocare con le aspettative del pubblico, creando un’arte attenta alle esigenze del destinatario, capace di accostarsi alla sensibilità comune, e si inserì perfettamente, con la sua musica, nell’ambito del processo di creazione di una coscienza nazionale. Verdi, infatti, operò una vera e propria trasformazione del melodramma italiano, non solo quanto alla forma musicale, ma, soprattutto, quanto al senso nuovo da dare all’opera d’arte: quello di svolgere una funzione formativa delle coscienze. Seguì perciò la scelta deliberata di seguire sempre più da vicino le allusioni alle impazienti aspirazioni della nazione, sfidando con sottigliezza simbolica e metaforica le diffidenti maglie della censura politica. La genialità del compositore sta, infatti, nell’aver reso la propria arte un vettore privilegiato per la diffusione di istanze patriottiche ed indipendentiste, attraverso le quali, come vedremo, seppe guadagnarsi il favore sempre crescente del pubblico, che lo venerò come icona ideologica della riscossa nazionale, come maestro della rivoluzione italiana, e lo rese presto l’autore italiano per eccellenza nella fase decisiva della lotta risorgimentale. Attraverso le sue successive opere, in particolare, Verdi fu in grado di leggere i segni dei tempi e di parlare con i suoi connazionali ed in loro nome come nessun altro seppe fare. Si muovessero verso destra o verso sinistra, le sue convinzioni furono sempre all’unisono con il sentimento popolare; egli reagì in maniera profonda e personale ad ogni svolta e frangente della lotta italiana per l’unità e la libertà. Temi portanti del repertorio verdiano divennero, da questo momento in poi: l’eroismo, l’amor di patria, la provvidenza divina, l’onore, la lotta contro il potere in nome della libertà e della pace. A dimostrazione di ciò, e della maturata consapevolezza raggiunta dal compositore, la successiva opera I Lombardi alla prima crociata (tratta ancora da un libretto di Temistocle Solera e rappresentata alla Scala l’11 febbraio 1843) è tutta una esaltazione del valore italiano, tanto da venire concepita, sin dall’inizio, come una vera e propria replica del Nabucco, un tentativo, riuscito, di ripeterne il successo. Anche in quest’occasione, l’italianità trovò evidenza in un coro, il celebre “O Signor che dal tetto natio” - dal testo più popolare dell’aulico “Va’, pensiero” – ricco di elementi rivelatori 16 di un sincero amor di patria (la terra natia, le amate sponde), e pittura vivida di una massa che, in terra straniera, implora l’aiuto divino e rivolge un pensiero accorato di amore e nostalgia verso la patria lontana. L’opera, poi divenuta la bandiera emozionale del Risorgimento, si presentava infatti con un motivo molto caro allo spirito nazionale, e si prestava efficacemente ad alludere alla situazione politica del tempo, cogliendo, nella vicenda dei Lombardi, una volontà di riscatto che ben si addiceva allo stato d’animo degli italiani, che immediatamente compresero il messaggio verdiano quale invito a preparare una “crociata” contro lo straniero oppressore. Non si può peraltro non cogliere una differenza di fondo che rende, in realtà, molto diverse tra loro le due opere del Maestro, rappresentata dall’approccio psicologico del popolo, protagonista in entrambi i componimenti. Ne I Lombardi, esso si presenta con un ruolo diverso, opposto, rispetto a quello che contraddistingue lo sfortunato popolo ebraico di Nabucco. Una prova di tale diversità ce la offre il coro “O Signor che dal tetto natio”, simile al “Va’, pensiero” nel ruolo emotivo, ma antitetico nella psicologia di fondo. Nel “Va’, pensiero” gli ebrei sognano la loro terra natia; nel coro de I Lombardi,i milanesi sognano le loro belle colline nebbiose, fresche e attraversate dai fiumi. Ma, mentre nel “Va’, pensiero” gli ebrei sono conquistati ed oppressi dai cattivi assiri, nel coro “O Signor che dal tetto natio” i lombardi sono ad Antiochia, durante una Crociata, a giocare il ruolo di invasori, di conquistatori. Piccola differenza, che comunque mostra quanta diversa intenzione ci sia fra le due opere: Verdi comincia, infatti, ne I Lombardi, a porre i buoni fra gli attivi, i belligeranti; i buoni non sono più gli Ebrei rassegnati, ora sono i lombardi battaglieri. 11. Dall’Ernani all’Attila: Verdi più vicino al popolo, più lontano dalla Scala. Al trionfale successo dei Lombardi alla prima crociata seguì un periodo di brusco declino delle relazioni tra il compositore e il teatro milanese, determinato da attriti insorti tra lui e l’impresario della Scala, Bartolomeo Merelli, e motivati, in particolare, dal convincimento del musicista di un evidente peggioramento del livello artistico del teatro: famose erano le sue critiche per gli “allestimenti assai trascurati o addirittura ignobili”. Allo stesso tempo, quali che fossero gli standards del teatro, le rappresentazioni di Verdi venivano accolte con accresciuto entusiasmo da un pubblico che lo venerava. 17 Del resto, le opere rappresentate tra il 1844, data della “prima” dell’Ernani, ed il 1846, data della messa in scena dell’Attila, incarnavano sempre più le istanze ed i sentimenti patriottici del popolo italiano (tutte le opere verdiane sino al 1855, come già rammentato, saranno di stampo patriottico) e le melodie ed i cori verdiani, sempre più acclamati, rappresentavano, in modo ormai indiscusso, la voce della coscienza nazionale. Su invito del Teatro La Fenice, Verdi scrisse Ernani, ispirato all’omonimo dramma di Victor Hugo che, apparso nel 1830, aveva costituito il manifesto del Romanticismo francese. Accolta entusiasticamente alla prima del marzo 1844 a Venezia, e successivamente rappresentata in molte città italiane (alla Scala il 3 settembre dello stesso anno), l’opera è ambientata in Spagna al tempo di Carlo d’Aragona. Nella fattispecie, il coro “si ridesti il Leon di Castiglia”, è quello dei ribelli contro il re, poi divenuto imperatore col nome di Carlo V, e nei suoi versi è evidente il richiamo all’esigenza di indipendenza e di unità, che andava riferito alla situazione italiana. In questa occasione le allusioni patriottiche erano talmente evidenti, precise e circostanziate da assumere l’aspetto di una vera e propria istigazione insurrezionale. Anche nella successiva tragedia lirica I due Foscari, tratta da un romanzo di Byron, e rappresentata per la prima volta sul palco del Teatro Argentina di Roma nel novembre 1844, è presente, come in ogni opera del periodo, un tocco di patriottismo, neppure troppo velato, tipico della produzione giovanile verdiana, e rappresentato, in tale componimento, da temi quali l’esilio straziante e la giustizia infame. Il patriottismo è ancor meglio incarnato in Giovanna d’Arco, tratta ancora da un libretto di Solera, allestita alla Scala di Milano nel febbraio del 1845, anno in cui la fama del giovane Verdi come operista rampante si spargeva ormai a macchia d’olio. Per comprendere l’efficacia e l’impatto di quest’opera sul popolo italiano, nell’ambito della lotta comune per l’unità e l’indipendenza della nazione, appare significativo riportare il passo di una lettera scritta da Emanuele Muzio, allievo e collaboratore del compositore, ad Antonio Barezzi, suocero di quest’ultimo: “Sono alcuni dì che è sortito un organo ambulante di gran dimensione, il più grande che si sia fatto quì a Milano, ove c’è quasi per intero la Giovanna d’Arco... la polizia non permette che lo facciano girare di sera, perchè fa riunire troppa gente e le carrozze non possono andare, ma solamente di giorno. Ma già è lo stesso: quello che succedeva di sera succede anche di giorno: tutti vi corrono ed ingombrano la strada ove si trova l’organo”. 18 In apertura del prologo, il coro del popolo nella Giovanna d’Arco commenta la presenza dell’oppressore e, ispirato ai cori patriottici delle opere precedenti, anticipa l’angoscia e la forza del “Patria oppressa” che si ascolterà di lì a breve nel Macbeth: l’invettiva contro gli stranieri è clamorosa, ma altrettanto sentito è il pianto delle donne. Pochi mesi più tardi, nell’agosto del 1845, Verdi mette in scena al Teatro San Carlo di Napoli, senza peraltro ottenere enormi consensi, l’Alzira, tragedia lirica ambientata nell’antico Perù all’epoca dei “conquistadores”. Splendido, nella parte iniziale, il coro “O fratelli caduti pugnando”, che ben avrebbe potuto stare nella Giovanna d’Arco o nel terzo atto dell’Ernani, innestandosi tra i grandi temi del Risorgimento musicale italiano; purtroppo, rappresenta solo una nuvola di passaggio che non produce il temporale. Il successo ritornò con Attila, certamente l’opera più risorgimentale di tutte per la sua potente irruenza, rappresentata nel marzo 1846 alla Fenice di Venezia ed ispirata alle vicende dell’Unno che aveva invaso il Veneto e saccheggiato Aquileia. Per la critica, che l’ha recentemente rivalutata, l’opera, dalla musica veemente ed aspra, riveste l’archetipo di melodramma risorgimentale. Il tema patriottico si fa più evidente nell’intreccio complessivo, e se ne profilano tutti i motivi più classici: la patria come madre, ora in preda alla sofferenza e alla decadenza, eppure destinata alla riscossa; l’italianità guerresca e mobilitata alla causa nazionale; la guerra contro l’invasore; l’eroe che, cadendo da forte, lega per sempre il suo nome alla storia dell’adorata patria. Anche in quest’occasione il pubblico non mancò di trovare pretesti per manifestazioni patriottiche: alla famosa frase di Ezio, il protagonista: “Avrai tu l’Universo/ resti l’Italia a me!”, il pubblico reagì infatti gridando: “Resti l’Italia a noi!”. 12. Avvento dei moti del ’48 ed impegno politico del compositore. Il conflitto con l’impresario Merelli si protasse e giunse al suo apice all’inizio della stagione di carnevale 1846-1847: lo stato di guerra aperta tra i due contendenti poneva in gioco sia l’aspetto economico sia quello artistico, col Verdi che continuava a lamentarsi, in particolare, della qualità della messinscena. La faccenda si concluse alla metà di marzo del 1847, quando il compositore, dopo aver più volte minacciato “che fino a che ci sarà Merelli, egli non metterà più piede sul palcoscenico della 19 Scala”, abbandonò Milano e si recò a Firenze per sovrintendere alla “prima” di Macbeth; subito dopo partì per un lungo soggiorno a Parigi. Sarebbero passati davvero molti anni prima che egli rimettesse piede nel maggior teatro di Milano. Si rileva, peraltro, che a partire dalla fine del 1846, fra le notizie di carattere teatrale si inseriscono nella vita dell’artista, sempre più intensamente, le questioni politiche. Più ci si avvicinava ai moti rivoluzionari del 1848, più le rappresentazioni operistiche diventavano un momento centrale dei disordini civili. Vale la pena citare un episodio, riportato dalle cronache ed occorso nella primavera del 1847, allorchè il giovane direttore Angelo Mariani fu rimproverato dal commissario di polizia di Milano per le sue esecuzioni di Nabucco al Teatro Carcano, “per aver dato alla musica di Verdi un espressione troppo evidentemente rivoltosa ed ostile all’imperial governo”. In questo periodo, la contessa Maffei e il Verdi (ormai pienamente colto da contagio rivoluzionario) si scambiarono spesso opinioni convergenti sull’evoluzione storico-politica italiana. Il 19 marzo 1847, il poeta Giusti inviò al suo omonimo Giuseppe una testimonianza affettuosa che toccava, con la “corda del dolore”, anche il discorso politico-patriottico: “il tuo lavoro più sarà riprodotto, più sarà inteso e gustato, perché il buono di certe cose non s’afferra alle prime. Prosegui, che non ti può fallire un bel nome; ma, se credi ad uno che vuol bene all’arte e a te, non ti togliere l’occasione d’esprimere quella dolce mestizia nella quale hai dimostrato di poter tanto. Tu sai che la corda del dolore è quella che trova maggior consonanza nell’animo nostro, ma il dolore assume carattere diverso a seconda del tempo o a seconda dell’indole e dello stato di questa nazione o di quella. La specie di dolore che occupa ora l’animo di noi italiani, è il dolore di una gente che si sente bisognosa di destini migliori; è il dolore di chi è caduto e desidera rialzarsi; è il dolore di chi si pente e aspetta e vuole la sua rigenerazione. Accompagna, Verdi mio, colle tue nobili armonie, questo dolore alto e solenne; fa di nutrirlo di fortificarlo, di indirizzarlo al suo scopo”. Ebbene, Verdi accolse incondizionatamente questo appello, proponendo ancora, fino al 1855 compreso (con l’opera i Vespri siciliani), melodrammi contenenti espliciti riferimenti di stampo patriottico. Ed ecco, proprio nel marzo del 1847, al Teatro della Pergola di Firenze, andava in scena Macbeth, tratto da un’opera di Shakespeare, ricevendo gli elogi proprio del Giusti, grato al musicista per la sua sincerità nell’interpretare il “dolore alto e solenne” degli italiani servi, che in scena erano del tutto riconoscibili anche se in abbigliamenti scozzesi, attraverso il 20 coro “Patria oppressa”, che costituì indubbiamente una forte incitazione alla mobilitazione collettiva per la causa nazionale. In questo frangente, Verdi dovette iniziare a confrontarsi con una censura divenuta sempre più propriamente politica ed attenta, in quanto tale, a prendere provvedimenti nei confronti di tutte le manifestazioni atte ad assumere una posizione contraria al regime costituito. A conferma di come il teatro d’opera venisse considerato dal censore un luogo sempre più pericoloso, la Gazzetta Privilegiata di Milano, l’unico giornale autorizzato a riferire eventi politici, riportava spesso comunicati del governatore della capitale lombarda che minacciava severi provvedimenti nei confronti di eventuali dimostrazioni, menzionando, in particolare, “il portare certi colori, o il metterli in vista, il portare certi distintivi o segnali, il cantare o declamare certe canzoni o poesie, l’applaudire o il fischiare certi passi di un azione drammatica o mimica”. Il compositore, frattanto, diventava sempre più noto e conteso in tutta Europa: nel luglio del 1847 fu a Londra per l’allestimento de: “I Masnadieri”; poi si trasferì a Parigi, dove già da due anni viveva insieme alla nuova compagna, Giuseppina Strepponi. Qui Verdi visse con animo contraddittorio: lavorava con intensità e soddisfazione, ma rimpiangeva l’Italia; poi, proprio a Parigi, lo colsero gli avvenimenti decisivi della storia d’Europa: ivi assistette alla caduta di Luigi Filippo mentre, sul teatro politico italiano, stava per andare in scena il famigerato Quarantotto. Dal 18 al 22 marzo, Milano venne liberata dagli austriaci da parte dei patrioti italiani, in occasione delle note Cinque giornate: Verdi alla notizia si entusiasmò e, partecipando con animo appassionato alle sorti alterne della riscossa nazionale, partì per Milano, arrivandovi peraltro il 5 aprile, a cose già finite, a quanto pare anche per le difficoltà di attraversamento delle frontiere. Significativa, al riguardo, una lettera-manifesto inviata al librettista Francesco Maria Piave, nel frattempo a difendere la liberata Venezia, il 21 aprile: “Caro amico, figurati s’io voleva restare a Parigi sentendo una rivoluzione a Milano. Sono di là partito immediatamente sentita la notizia, ma io non ho potuto vedere che queste stupende barricate. Onore a questi prodi! Onore a tutta l’Italia che in questo momento è veramente grande! L’ora è suonata, siine pure persuaso, della sua liberazione. E’ il popolo che la vuole, e quando il popolo vuole non avvi potere assoluto che le possa resistere. Potranno fare, potranno brigare finchè vorranno, ma non riusciranno a defraudare i diritti del popolo. Sì, sì; ancora pochi anni, forse pochi mesi, e l’Italia sarà libera, una e 21 repubblicana. Cosa dovrebbe essere? Tu mi parli di musica! Cosa ti passa in corpo? Tu credi che io voglia ora occuparmi di note, di suoni? Non c’è, né ci deve essere che una musica grata alle orecchie delli italiani del 1848, la musica del cannone!”. Una indubbia dichiarazione di fede patriottica, per quanto Verdi non avesse mai considerata l’ipotesi di una sua personale mobilitazione attiva, nella consapevolezza di contribuire maggiormente alla causa patriottica con le proprie opere, piuttosto che sul campo di battaglia. Così, sollecitato da Mazzini, conosciuto personalmente durante il soggiorno londinese, giunse a comporre l’inno patriottico Suona la tromba. C’era tutto l’entusiasmo del momento: ma, tra la costernazione dei milanesi, ed in particolare dei repubblicani che mai avrebbero affidato i loro destini al re di Sardegna Carlo Alberto, ora promotore della capitolazione di Milano, la rivolta anti-austriaca fu soffocata ben presto nel sangue, ed il 6 agosto segnò l’estinzione della fiammata rivoluzionaria con il ritorno, nella capitale lombarda, degli austriaci. 13. Nuovi scenari politici: “Viva V.E.R.D.I.!” Tornato a Parigi, l’esperienza vissuta in una città di Milano in piena tempesta rivoluzionaria, lo incoraggiò a mettersi alla ricerca di un soggetto “altissimo e grandioso”, trovandolo nel progetto patriottico prospettatogli dal librettista Salvatore Cammarano, componendo, a tal fine, La battaglia di Legnano, l’unica opera di Verdi con un deliberato intento di propaganda risorgimentale, incentrata su un argomento di attualità, ossia “su un momento dell’epoca più gloriosa della storia italiana”. Il compositore la scrisse ad una velocità pazzesca, perché desiderava rappresentarla a Roma nel gennaio del 1849: ed è facile sottolineare i motivi della scelta di tale città, soprattutto rammentando che ormai a Milano erano tornati gli austriaci, e che gli amici di Verdi, tra cui la Maffei e Muzio, stavano ormai in esilio. L’opera è ambientata a Milano nel 1176, ove i Comuni lombardi, riuniti nell’omonima Lega, difendono la città dalla minaccia rappresentata dalle truppe di Federico Barbarossa, e a Como, dove i cittadini gli dichiarano guerra. L’argomento del melodramma in questione non fu scelto a caso: il Maestro si augurava, infatti, che il popolo italiano riportasse sull’Austria la stessa clamorosa vittoria ottenuta nel 1176 dall’esercito della Lega sul Barbarossa. 22 Per la prima volta, il tema della sacralità della patria veniva indissolubilmente connesso, senza mezzi termini, alla compagine italiana, attraverso un coro iniziale maestoso, trionfale, coinvolgente; un canto che si leva al grido: “Viva l’Italia!”. L’opera si rivela una vera e propria innodia patriottica, in cui sono prevalenti le scene politiche, e nella quale si riscontrano tutti gli ideali risorgimentali del repertorio verdiano: eroismo, amore, amor di patria, provvidenza divina, onore. Rappresentata al Teatro Argentina di Roma per la prima volta il 27 gennaio 1849, qualche giorno avanti la proclamazione dell’effimera Repubblica Romana, fu accolta trionfalmente dal pubblico, la cui partecipazione fu tutt’altro che passiva: una verace esplosione di entusiasmo popolare, colorato da un apparato coreografico formato da uomini che portavano la coccarda tricolore sul petto e da donne che avevano adornato i palchi di sciarpe e di nastri tricolori. Il pubblico, applaudendo calorosamente i diversi brani, acclamava l’autore al grido di “Viva Verdi! Viva l’Italia!”; il coro iniziale venne entusiasticamente ripetuto a piena voce dalla platea e dai sei ordini di palchi, ed il quarto atto fu bissato. Non fu semplice, successivamente, poter mettere in scena l‘opera in altre parti d’Italia senza correre il rischio di subire tagli o rimaneggiamenti: ciò, in conseguenza di una possibile azione della censura, pronta ad intervenire di fronte a qualunque riferimento diretto alla situazione politica del momento. Non a caso, per aggirare l’ostacolo, essa venne riproposta con il titolo di La battaglia di Arlem, l’azione trasferita nelle Fiandre e Federico Barbarossa trasformato nel Duca d’Alba. Gli anni tra il 1848 ed 1849 rappresentarono, peraltro, nella storia politica di Verdi, un periodo di importanti cambiamenti: l’esito negativo dei moti del ’48, e la delusione connessa al soffocamento nel sangue della rivolta anti-austriaca, spinsero il musicista a modificare la propria linea politica, trasformandosi da mazziniano convinto (qual’era prima e durante il Quarantotto) ad acceso sostenitore della linea politica di Camillo Benso Conte di Cavour. Il musicista, come pure gran parte degli italiani, iniziava infatti a vedere nel Piemonte di Vittorio Emanuele II e nella sua tenace e lungimirante classe politica, guidata dal medesimo Cavour, una risposta concreta alle speranze della nazione. Fu così che anche la drammaturgia verdiana fu segnata da un’ulteriore svolta, ed in specie, da un ampliamento dei propri obiettivi: dal giugno del 1855, infatti, data in cui a Parigi vennero messi in scena I Vespri Siciliani, Verdi intese sviluppare, all’interno dei propri 23 melodrammi, il tema centrale della passione politica e della Ragione di Stato, che acquisirà una importanza via via sempre maggiore. I Vespri rappresentano forse l‘ultimo, importante, melodramma di specifico argomento patriottico: l’azione si svolge nel 1282 a Palermo, dove sta per scoppiare la rivoluzione del popolo siciliano contro l’occupante dominatore francese. Nella bellissima sinfonia si rappresentano ancora tematiche patriottiche care al compositore, quali l’immagine di una rivoluzione vittoriosa, e si esprimono sentimenti di libertà e di giustizia; per ragioni di censura, nel successivo dicembre 1855, l’opera, alla sua prima apparizione in Italia, venne rappresentata con il titolo Giovanna di Guzman, ottenendo l’ennesimo, grande, successo di pubblico. Verdi, infatti, intrecciò sempre e profondamente la propria vita con quella del proprio Paese: pertanto, si muovessero verso destra o verso sinistra, verso Mazzini o verso Cavour, verso i democratici rivoluzionari o verso la monarchia, le sue convinzioni furono sempre all’unisono con il sentimento del popolo italiano, che continuò ad inneggiare a lui, rendendolo simbolo delle manifestazioni patriottiche ed una delle guide morali più significative nel panorama risorgimentale. Sintetizza in modo emblematico il forte legame tra il compositore ed il suo popolo, la citazione di Gabriele D’Annunzio, riportata sulla cripta del Maestro a Busseto: “ Pianse ed amò per tutti”. Il suo nome diventò, in qualche modo, il simbolo stesso del Risorgimento: non è un caso, dunque, che nel 1859, agli albori della proclamazione dell’unità d’Italia, il suo nome, tradotto in sigla, fosse stato utilizzato dai partigiani della monarchia sabauda per tracciare sui muri delle città occupate dagli austriaci, un acronimo inneggiante alla persona di Vittorio Emanuele come futuro re d’Italia. L’espressione: “Viva V.E.R.D.I.!” stava per “Viva Vittorio Emanuele Re d’Italia”, ed eludeva così i sospetti della polizia, peraltro ben consapevole che, già di per sé, il nome del musicista rappresentava un vessillo provocatorio. 14. Non il fucile, ma le sue note: il contributo di Verdi alla causa nazionale. Il percorso artistico, civile e politico del musicista proseguì anche nei decenni successivi a quelli sin qui descritti, anche se è indubbio che, nell’immaginario comune, Verdi rappresenti un vero e proprio emblema nel panorama risorgimentale italiano soprattutto per il contributo offerto al nostro Paese negli anni giovanili oggetto della mia indagine. 24 Resta da valutare, a completamento del presente lavoro, quale ritratto di Giuseppe Verdi si può definitivamente delineare sulla base di quanto emerso nelle pagine della presente tesi: ebbene, l’immagine che se ne può ricavare è quella di un uomo che ha rappresentato un vero e proprio simbolo nella storia dell’Italia, un punto di riferimento per la musica, la cultura e la politica del XIX secolo. Il compositore, ancora, appare come un’artista assolutamente non chiuso nel proprio universo musicale, bensì perfettamente calato nella viva realtà del suo tempo, e pronto a condividerne le attese ideali e gli orientamenti. Proprio perché attento alla realtà, Verdi è stato vivamente partecipe delle ansie e dei problemi connessi alla situazione storica in cui viveva, caratterizzata in quel tempo dal movimento politico risorgimentale, di cui il grande musicista fu, a ragione, considerato una delle guide morali più significative, contribuendo grandemente con la sua musica ad accendere nel popolo lo spirito patriottico, esponendosi in prima persona in più occasioni, e sfidando apertamente la censura politica, particolarmente persecutoria nei suoi confronti. Di lui è stato detto: “parlare di Verdi, per noi italiani, è come parlare del padre”, ossia di un uomo che, “lungo i sessant’anni della sua carriera artistica, accompagnò la nascita della nazione e vi si inserì come autentica spina dorsale”. Verdi, perfettamente cosciente dell’importanza sociale del melodramma, seppe giocare con le aspettative del pubblico, creando un’arte attenta alle esigenze del destinatario. La sua genialità sta nell’aver reso la propria arte un vettore privilegiato per la diffusione di istanze patriottiche ed indipendentiste, attraverso le quali seppe guadagnarsi il favore sempre crescente del popolo, che lo venerò come profeta, come icona ideologica della riscossa nazionale, definendolo “Maestro della rivoluzione italiana”, e, ancora, “vate” o “bardo del Risorgimento”. Con la sua musica, ed in particolare con i suoi cori, fu capace, infatti, di rappresentare il dolore di un popolo desideroso di un profondo rinnovamento, di una rigenerazione, di un destino migliore. Ai critici che hanno riconosciuto in lui un artista poco attivo nei confronti della causa risorgimentale, non essendosi egli arruolato come tanti suoi coetanei e non avendo rappresentato un patriota militante in congiure, né sopra i campi di battaglia, si può facilmente opporre che, ciò nonostante, ebbe la patria nell’animo e nella mente più di molti altri, esprimendo e divulgando il proprio senso patrio tramite le proprie opere. 25 Del tutto condivisibile, dunque, appare, in proposito, il pensiero del musicologo Francesco Bussi: ”forse, per compiere al meglio la missione a cui ognuno è chiamato, è bene che si mettano a frutto i talenti, le facoltà ricevute in dote, e Verdi era un grande compositore. Pertanto, è possibile che lui stesso ritenesse di poter servire meglio la causa nazionale, non tanto con il fucile, quanto piuttosto con le opere. E’ la musica che parla anche per l’uomo Giuseppe Verdi, per il politico Giuseppe Verdi, per il patriota Giuseppe Verdi. Questi esplica il suo patriottismo con le note anziché con l’azione carbonara. Questa è la sua concretezza alla causa risorgimentale: il grande messaggio che riceviamo oggi da Verdi sono appunto le sue opere, una testimonianza straordinaria”. In conclusione, il mito di Giuseppe Verdi continua tuttora, perché, come affermò l’allora Presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi in occasione del centenario della morte del Maestro, “se l’Italia divenne una sola nazione lo si deve anche a lui e alla forza del suo linguaggio musicale”. 26 Bibliografia Abbiati F., Giuseppe Verdi, Milano, 1963 Abbiati F., Storia della musica, Milano, 1957 Baldini G., Abitare la battaglia. La storia di Giuseppe Verdi, Milano, 1970 Barbiera R., Il salotto della contessa Maffei, Milano, 1925 Barigazzi G., La Scala racconta, Milano, 2010 Budden J., Le opere di Verdi, Torino, 1985-1988 Cambiasi P., La Scala 1778-1906. 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