La Resistenza e la rinascita dello Stato italiano 1. La disfatta militare, la mobilitazione operaia nelle grandi fabbriche del nord, le trasformazioni avvenute in seno all’antifascismo, le peggiorate condizioni di vita della popolazione sono i fattori che in sintesi determinano la crisi del regime fascista in Italia. 2. Dell’andamento disastroso delle operazioni militari il dato macroscopico che emerge sempre è l’impreparazione dell’esercito. Agli appuntamenti non c’era un esercito attrezzato. Può essere sintomatico del clima vigente nell’esercito il fatto che solo dopo quattro mesi dallo scoppio della guerra Badoglio si era dimesso. I raccomandati del regime prevalevano. 3. L’antifascismo si attiva, se pure faticosamente ed in nuclei sparsi. Il Comitato del Fronte Nazionale di Azione (Pci, Psi, Dc, PdA, PLI, Movimento di unità proletaria) nel dicembre 1942 redige un manifesto in cui reclama la rottura dell’alleanza coi nazisti, una pace separata. Più significativi sono gli scioperi organizzati tra gli operai delle industrie del nord a partire dai primi di marzo 1943. La motivazione era economica, l’indennità di 192 ore per tutti e non solo per i capifamiglia sfollati dai centri colpiti da bombardamento, come deciso da un decreto del gennaio ’43. Nel giro di poco più di una settimana il movimento blocca 205 aziende in nove regioni con una partecipazione massiccia. Le reazioni politiche sono dure. Evidente il collegamento politico e la regia comunista. Gli scioperi sono l’inizio del colpo di grazia al regime. 4. La scarsità dei generi alimentari, il razionamento, l’aumentato costo della vita, il diminuito potere d’acquisto dei salari contribuiscono a far volgere le spalle al regime. 5. All’interno dei gerarchi del fascismo si pensa alla sostituzione di Mussolini. Tra l’altro Dino Grandi, il gerarca da sempre filobritannico e vicino alle potenze ed ai gruppi imprenditoriali pensava ad Alberto Pirelli come Ministro degli Esteri. 6. Di fatto le intenzioni di tali gerarchi coincidono con alcuni disegni che serpeggiavano nell’esercito e nell’entourage di Casa Savoia. 7. 25 luglio ’43 Gran Consiglio del fascismo, che non era più convocato dal dicembre 1939. Odg Grandi: richiamandosi all’art. 5 dello Statuto Albertino rimetteva al Sovrano l’iniziativa di destituire il Duce, chiedeva di riattivare il Parlamento e di restituire al Re il comando supremo delle FF.AA. L’odg passò con 19 voti contro 7. A firmarlo, oltre a Grandi, c’erano Bottai, De Bono, Ciano, De Vecchi, Federzoni, De Marsico, De Stefani ecc. 8. Mussolini arrestato; incarico di formare il governo al maresciallo Pietro Badoglio; esultanza generale nel paese. Comunque “la guerra continua…”; scoppiano disordini specialmente nel nord. Accorrono dirigenti comunisti per cercare di calmare le acque. 9. Mentre i tedeschi capiscono quale era l’orientamento dell’Italia, iniziano i preparativi per l’occupazione dell’Italia non appena vi vara l’annuncio dell’armistizio. 8 settembre. Il governo Badoglio nulla aveva fatto per fronteggiare il difficile trapasso. Mentre i tedeschi occupano, l’esercito italiano è in completo sfacelo. “Tutti a casa”. Il re e Badoglio fuggono a Brindisi dove viene ricostituito il Governo nel Regno del Sud. E’ formalmente il governo legittimo. 10.Il 12 settembre è liberato Mussolini sul Gran Sasso. Portato in Germania. Repubblica Sociale Italiana (RSI). Si hanno due Italie. Il Regno del Sud (re e Badoglio, ma grazie al sostegno degli Alleati). Il resto è occupato dai tedeschi, che hanno impiantato la RSI con Mussolini. 11.Subito il 9 settembre si costituisce il CLN (Comitato di Liberazione Nazionale) e negli stessi giorni si vanno costituendo gruppi di partigiani e bande che danno vita alla Resistenza. La resistenza è stata un evento importante per la storia italiana, perché da lì è risorto il paese dopo la dittatura del fascismo e dopo la catastrofe della guerra nazista. Sullo sfondo delle polemiche politiche contingenti, di recente anche sul piano storiografico si è tentato di delimitare la portata ed il ruolo del movimento partigiano, rilevando che il numero dei partigiani non ha oltrepassato qualche centinaia di migliaia e che la liberazione del paese è stata frutto dell'azione militare dell'esercito alleato. Al di là del fatto militare e di un presunto limitato apporto dei partigiani proprio sul versante militare, quello che risalta fu proprio la volontà di opporsi al nazifascismo quando manifestare tale opposizione era pericoloso. Dall'insieme di queste tante opposizioni, sparse e sempre più diffuse man mano che dal Meridione si risaliva la penisola, si è sviluppato un moto, che ha dato un contributo non decisivo ma significativo per la liberazione del paese e perché democrazia, libertà, diritto tornassero ad essere gli elementi costitutivi dello Stato. 1. La Resistenza. Cosa fu, perché è ancora attuale parlarne. A oltre 60 anni dalla fine della seconda guerra mondiale è utile e necessario parlare della Resistenza, perché al di là della memoria o del fatto celebrativo, accanto a studi e convegni che hanno inteso ulteriormente far luce o approfondire o criticare il processo storico che ha portato alla nascita dell'Italia repubblicana, vi sono stati altri momenti di studio e di dibattito, oltre che interventi di politici, che hanno cercato di vanificare questo patrimonio ideale della nazione, quasi a voler espungere o declassare la Resistenza dalla nostra storia, o ponendo sullo stesso piano, per motivi politici e con un uso politico devastante della storia, fascismo e antifascismo e creando anche una grande confusione sul piano culturale. Ricordare comunque l’atteggiamento assunto dal Presidente Ciampi teso ad esaltare i valori della Resistenza. La Resistenza: cosa fu? La Resistenza, che è un fenomeno di dimensione europea, interessò l'Italia nell'ultima parte, quasi gli ultimi due anni, della seconda guerra mondiale: "una guerra che non ha precedenti nella storia umana, per caratteri ideologici, estensione geografica, numero di vittime, vastità di distruzioni" (Scoppola, 3) La guerra scoppia il 1 settembre 1939 per diverse ragioni, soprattutto perchè il nazismo, sotto la guida di Hitler, vuole la conquista del mondo ed instaurare un "nuovo ordine" basato sul dominio della razza ariana, eletta, e sull'asservimento dei popoli ritenuti di razza inferiore. Il nazional-socialismo affermava l'idea della superiorità germanica, della Grande Germania e del diritto del popolo tedesco allo spazio vitale, cioè a disporre del territorio per affermare la propria supremazia in ogni campo: la supremazia delle armi tedesche, dell'industria tedesca, della cultura tedesca, del popolo tedesco. Per l'attuazione di tale disegno non si ha timore di violare le regole della convivenza civile, di invadere nazioni, di mandare milioni di uomini donne e bambini, specie se ebrei, ad uno sterminio organizzato in modo scientifico. L'Italia con Mussolini entra in guerra nel giugno 1940, confidando in una guerra di breve durata e, in termini semplici, per spartirsi il bottino. Anche l'Italia era entrata in guerra per ambizioni di espansione. Quelle ambizioni che nel 1935 avevano condotto alla campagna d'Etiopia e nel 1936 alla proclamazione dell'Impero. quadro della guerra con alcuni dati sui morti. Settanta milioni di uomini furono impegnati come combattenti e diciassette milioni rimasero uccisi. Ma il prezzo in termini di vite umane, cioè di militari e civili, fu più pesante: più di 6 milioni e mezzo di tedeschi uccisi, il doppio di profughi, la divisione e la spartizione del paese; lo sterminio di circa 6 milioni di ebrei; in Francia circa 800.000 vittime; in Inghilterra circa 400.000; in Russia almeno 20 milioni furono i morti; 4 milioni e mezzo in Polonia; 1 milione e 700.000 in Jugoslavia; il Giappone perse più di 1 milione di uomini in battaglia e 600.000 civili sotto le bombe. L'Italia ebbe circa 300.000 morti, la metà combattendo a fianco dei tedeschi e l'altra metà combattendo a fianco degli Alleati come partigiani. Gli Usa ne uscirono meglio di altri paesi europei: circa 300.000 militari uccisi. Gli zingari dell'Europa orientale furono virtualmente sterminati come gli ebrei nelle camere a gas. Contrariamente alle guerre precedenti, persero la vita più civili che militari: alcuni in seguito ai bombardamenti aerei, altri giustiziati dai tedeschi perché partigiani od ostaggi, molti più sterminati arbitrariamente in applicazione della dottrina nazista, molti in seguito alle privazioni, alla fame, al lavoro obbligatorio in Germania (per quanto riguarda la situazione italiana cfr. G. Schreiber: dei 3.700.000 uomini sotto le armi all'8 settembre '43, ne vennero disarmati 1.000.700 e 600.000 costretti a lavorare nel Reich come schiavi; tra i 180.000 e 194.000 lasciarono i lager disposti a collaborare, mentre la massa ebbe la forza di resistere alle offerte e alle pressioni) [Rusconi, 65] o negli assedi di Stalingrado, Leningrado ed altre città. Questo è solo un quadro sommario. Bisogna distinguere tra una Resistenza in senso stretto, combattuta con le armi soprattutto nel centro-nord, da una significativa minoranza, ed una Resistenza in senso lato. di opposizione al fascismo, al nazionalsocialismo, all'occupazione ed alla guerra tedesco-fascista, che sono a fondamento della Repubblica e della Costituzione. Dopo l'8 settembre '43 si assiste allo spettacolo ignominioso dei vertici dello Stato che vengono meno al loro ruolo, fuggono, e ciò evidenzia la dissoluzione del rapporto tra Stato e popolo e la proliferazione di centri di potere nuovi. In questo contesto nasce la Resistenza armata, accompagnata ben presto dall'esaurirsi delle speranze di una rapida avanzata degli Alleati verso il Nord, mentre intanto si ha l'occupazione tedesca con la ricomparsa dei fascisti che fondano la Repubblica Sociale. Il consenso al fascismo, già un po' scosso con l'approvazione delle leggi razziali del 1938, aveva cominciato a subire gradualmente una caduta a partire dall'ondata di scioperi dalla primavera del 1943. Dopo l'8 settembre e dopo la costituzione della RSI, per gli italiani si ponevano tre soluzioni: la guerriglia partigiana (col massimo rischio), l'adesione alla RSI, l'attesa (la rinuncia a scegliere, l'imboscamento). Chi aderisce alla lotta partigiana lo fa per varie motivazioni: lotta contro i tedeschi e fascisti; fedeltà al giuramento alla monarchia; speranza di dar vita ad una società socialista; riappropriazione di un regime liberale. Chi aderisce alla RSI lo fa per una diversa fedeltà al giuramento, per reagire allo scempio dell' 8 settembre, per amor di patria, per chi ancora crede alla superiorità del fascismo. Diffusa vi è una esplosione della violenza, anche fine a se stessa. Ha scritto Scoppola: “Vi è odio profondo da entrambe le parti nella lotta di liberazione; ma vi è anche una tenace volontà di amore nella «preghiera del ribelle» di Teresio Olivelli. Molti di coloro che scelsero la Resistenza non avevano alcuna preparazione politica, non avevano una coscienza politica che, d’altra parte, si può avere solo in presenza di pluralismo di opzioni, di democrazia. Anzi, durante la vita partigiana, nelle bande, vi furono dei momenti di discussione, di confronto, di approfondimento di tematiche politiche. La figura del Commissario politico all’interno delle varie bande aveva anche l’obiettivo di stimolare un discorso di approfondimento politico, oltre che quello di radicare convincimenti più profondi sulla lotta di liberazione; serviva a tenere alto l’ideale della Resistenza tra la popolazione locale e particolarmente a preparare, sul piano morale e politico in senso nobile, i giovani volontari, per lo più renitenti alla leva, che si apprestavano a fare il grande salto nella lotta partigiana. Un aspetto importante di queste bande partigiane è il carattere localistico. Il radicamento in un luogo che i partigiani conoscevano e dove per gran parte erano conosciuti garantiva una solidità e solidarietà che altrimenti non vi sarebbero state. Si godeva spesso dell’appoggio della popolazione del luogo. Il radicamento territoriale era un incentivo alla lotta, quasi che si dovesse difendere o conquistare il proprio territorio. Accanto alle bande, talvolta con esse nemmeno collegate, però, operavano i GAP delle città, formati da piccoli nuclei. L’organismo di direzione politica del movimento resistenziale era il CLN, formato da sei partiti (p. comunista, p. socialista, p. d’azione, p. demolaburista, democrazia cristiana, p. liberale) con sede a Roma. Presidente fu I. Bonomi. Rilevanza assunse il CLNAI con sede a Milano, vero organo dirigente della lotta di Resistenza nel Nord (Pizzoni, Parri, Longo, Mattei). A fianco si ebbero tanti CLN provinciali e locali, costituiti in vario tempo sul modello di quello nazionale. Queste bande fecero la guerra a fianco degli Alleati. Spesso si è parlato di una Guerra nazionale, civile e sociale o tre guerre. A questa tripartizione G. Enrico Rusconi ha proposto di indicarla come guerra frontale sul campo, una guerra del terrore ed una guerra per la forza lavoro (47): cioè che tiene conto dei caratteri oggettivi dello scontro: la distruzione del nemico; l’attacco selettivo per demoralizzare il nemico, esercitando terrore nell’ambiente in cui si muove; lo sfruttamento delle energie umane e di lavoro della popolazione con cui il nemico è in stretto contatto. Sarà questa Resistenza una esperienza dura di lotta, di maturazione, ma anche di valutazione dei valori o disvalori che l’una o l’altra parte incarnavano. Ed allora sarà il punto di arrivo di una vicenda drammatica, ma anche il punto di partenza della democrazia in Italia. Sarà anche la via per riabilitare il paese, riaccreditare la sua immagine di fronte agli Stati democratici e per gettare il ponte per rientrare nella comune casa europea. Fu la Resistenza un fatto di popolo? La storiografia di sinistra e la Sinistra stessa hanno cercato di accreditare tale ipotesi fin dagli anni Cinquanta, perché in tale interpretazione emergeva meglio l’apporto dei comunisti. Quello dei comunisti fu l’apporto maggiore e più organizzato; accanto vi furono tutti gli altri, dai socialisti agli azionisti, dai cattolici ai liberali. Se ancora nel febbraio 1945 i partigiani erano più di 100.000, alla fine di aprile risulteranno circa 300.000. Una guerra di minoranza. Ma accanto ci fu il consenso del popolo, dei contadini delle campagne, dei lavoratori. Senza il loro appoggio, la Resistenza non avrebbe durato. Erano i fascisti di Salò che si sentivano stranieri in patria, che erano braccati, tanto che cantavano: “le donne non ci vogliono più bene, perché portiam le camice nere”. Importanza anche della presenza femminile. Pur con tanto consenso popolare, l’Italia era una nazione vinta e la guerra, si deve ben dire, fu vinta dall’esercito Alleato. La Resistenza contribuì; se fosse stata insignificante, perché di piccole dimensioni, non si capirebbe l’ossessione delle autorità alleate per l’immediato disarmo dei partigiani dopo la Liberazione e perché i tedeschi si accanirono tanto contro costoro. Fu guerra civile o meno? La categoria di guerra civile fu usata da taluni resistenti e soprattutto da Giorgio Pisanò nella Storia della guerra civile in Italia per rifiutare la Resistenza. Claudio Pavone l’ha messa al centro del suo volume del 1991 (Una guerra civile. Saggio storico sulla moralità della Resistenza, Bollati Boringhieri). Tale categorie è stata rifiutata da Ermanno Gorrieri, ricostruendo nel 1966 le vicende della repubblica di Montefiorino. Certo col recupero della categoria di “guerra civile” Pavone, sforzandosi di essere il più obiettivo possibile, cerca di cogliere le incertezze, le contraddizioni, gli aspetti più criticabili dei comportamenti dei partigiani e nel contempo cerca di dare conto anche alle motivazioni dei fascisti, alla buona fede di alcuni, al loro richiamarsi al tradimento che con l’armistizio si era compiuto nei confronti dell’alleato tedesco. “Nella guerra civile – ha scritto Rusconi – si scontrano due progetti di costruzione della nazione tra loro incompatibili”. Anche se tale categoria può generare perplessità, ormai è entrata nel lessico comune nella storiografia della R., come ha notato Scoppola (80), osservando anche che più dell’applicazione della categoria, ha fatto breccia nell’opinione pubblica la trasmissione di alcuni filmati girati dagli Americani, mettendo sotto gli occhi di tutti le atrocità, le crudeltà della guerra, da entrambe le parti. Si è parlato anche di rivoluzione tradita, mancata per sottolineare la frattura tra le speranze che la R. incarnò e le attuazioni successive. Il problema venne fuori dopo la costituzione del governo De Gasperi senza le sinistre alla fine del maggio 1947. Si interrompeva il processo verso la “democrazia progressiva” e mentre la sinistra sottolineava questo aspetto, la DC stigmatizzava questo uso politico della Resistenza. Cioè anche il contesto dei valori della Resistenza si andava lacerando nel pieno di un aspro conflitto. Bobbio ha parlato allora di Resistenza incompiuta non di R. tradita o fallita. “Purché si intenda la incompiutezza propria di un ideale che non si realizza mai interamente, ma ciononostante continua ad alimentare speranze, a suscitare ansie ed energie di rinnovamento” (anche Bocca condivide, 609). E il problema del terrore, dei delitti politici anche dopo la fine della guerra: come si inquadrano?. Di recente è stato riproposto il problema, dal momento che tali delitti continuarono per molto tempo dopo la Liberazione. E’ una ferita rimasta nella memoria, che per alcuni conferma l’ipotesi della guerra civile. Le cifre sono impressionanti. All'incirca sui 15.000. Pisanò ha parlato di 34.000. Pansa indica 15-30.000 uccisi. Si è spesso sottolineato che non c’è stata l’autocritica del PCI, che spesso ha protetto e nascosto tutto. Si è cercato di capire, individuando due tipologie: a) una vera e propria devianza criminale, tollerata, camuffata o addirittura utilizzata; b) per la frustrazione per le attese rivoluzionarie smentite, il deviato prende la strada della giustizia diretta, sommaria, pensando che latita quella vera. Galli della Loggia ha parlato di “mitologia della Resistenza”, cui la cinica intelligenza degli italiani fa finta di credere, e di menzogna originaria dell’intera classe politica per legittimare la Resistenza e soprattutto la propria azione politica. Cioè la conclusione di Galli è che la colpa e la responsabilità della sconfitta militare è del fascismo e che la Resistenza e la Repubblica avrebbero portato un grosso colpo al sentimento fragile dell’identità italiana. E’ attuale ancora parlare della Resistenza? Dopo il 27 marzo 1994 si è parlato di riconciliazione, di mettere sullo stesso piano i morti dell’una e dell’altra parte. Si è risposto che già conciliazione fu l’amnistia di Togliatti del settembre 1946 e che per i morti si doveva uguale rispetto. Ma non si possono porre sullo stesso piano le ragioni ideali prevalenti della Resistenza (liberazione dall’occupazione tedesca per ideali di libertà e democrazia) da quelle che sostenevano la lotta nella RSI, per soggiogare il paese al nazismo. C’è pur sempre da tenere conto l’ambiguità esistente in taluni esponenti del PCI che fecero la Resistenza nella speranza di continuare la rivoluzione come in URSS. La scelta dei Resistenti furono superiori e vincenti rispetto a quelle dei fascisti. Dal valore della Resistenza è nata la Costituzione e la democrazia, naturalmente con l’appoggio dei Governi Alleati. In questo senso l’antifascismo è un valore in sé che va preservato, certo nella misura in cui si coniuga con la libertà e la democrazia. Non coglie bene l’evoluzione degli eventi De Felice, quando afferma che il senso di identità nazionale del popolo è andato smarrito con l’8 settembre. L’identità di un popolo ha senso se si coagula intorno a valori quali libertà, democrazia, affermazione e rispetto della dignità della persona. Ciampi ha insistito sul fatto che la Resistenza, cioè l’opposizione al nazifascismo, ha ridato una sua identità alla nazione italiana. Riparlare della Resistenza, della Costituzione è importante per capire che nei valori della Resistenza c’è il fondamento della Costituzione, della democrazia e ciò su cui può basarsi l’identità nazionale del nostro popolo. Anzi è fuorviante parlare di seconda repubblica, come si è fatto, fino a quando è in vigore la Costituzione del 1948. Il problema è quello di favorire il passaggio dalla repubblica dei partiti alla repubblica dei cittadini, i quali abbiano il sacro rispetto dello stato di diritto. Quindi è importante parlare di Resistenza, storicizzare la Resistenza; cioè collocarla nel quadro storico in cui si formò, significa arrivare alla formulazione di un patrimonio condiviso di valori su quella storia, che aiuti un’evoluzione autenticamente democratica e contribuisca su questi binari al consolidarsi di un’identità nazionale. dalla Resistenza: il riscatto democratico dell'Italia, la legittimazione tra le nazioni civili, il contributo più significativo a rafforzare o a rendere meno precaria l'identità nazionale. LA RESISTENZA IN ITALIA Con il termine Resistenza si indicano tutti i movimenti di opposizione che diedero vita, nel corso della Seconda guerra mondiale, a forme di lotta armata e non armata contro il nazifascismo. Si tratta di un fenomeno di rilevanza europea che tocca, seppur in forme diverse, tutti i paesi che conobbero l’occupazione militare nazista e/o fascista. Nel caso italiano di resistenza si parla a partire dall’8 settembre 1943 quando, dopo il fallimento della guerra fascista e la manifesta impossibilità di proseguire le ostilità contro gli Alleati anglo-americani, che avevano conquistato dal luglio 1943 gran parte del Meridione d’Italia, per iniziativa di quelle forze politiche e sociali (monarchia, gerarchie militari, ceti dirigenti) che si erano riconosciute nel regime fascista e che avevano estromesso Mussolini il 25 luglio 1943, si giunse ad un armistizio che segnò la fine delle ostilità con gli Alleati. La monarchia e il governo guidato dal gen. Pietro Badoglio condussero l’iniziativa con somma inettitudine, abbandonando la capitale e le forze armate ancora distribuite sui diversi fronti di guerra senza ordini precisi, ponendole alla mercé dell’ex alleato tedesco, che in pochi giorni occupò militarmente il centronord dell’Italia, procedendo all’arresto di circa 650.000 soldati italiani, che vennero internati in campi di concentramento in Germania. A partire da quella data, militari sbandati, antifascisti politicamente consapevoli, cittadini contrari all’occupazione e all’azione repressiva dei Tedeschi e degli apparati della Repubblica Sociale Italiana (RSI) – il rinato stato fascista che nel centro-nord del paese collaborò attivamente con l’occupante tedesco – si rifugiarono sulle montagne o in zone disabitate con l’obiettivo di intraprendere azioni di contrasto rispetto alle forze nazifasciste. Il fenomeno resistenziale presentò caratteri particolari nelle diverse aree del paese: fu pressoché assente nel Sud (vanno però ricordate le 4 giornate di Napoli) occupato dagli Angloamericani e soggetto al neocostituito governo Badoglio (che del resto visse sotto la tutela alleata dell’Allied Military Governement e dell’Allied Control Commission), fu presente nel Centro Italia, dalla Linea Gustav (dal fiume Garigliano al fiume Sangro) a quella Gotica (Appennino tosco-emiliano) dall’autunno 1943 all’inverno 1943-44, si sviluppò nel Nord fino alla fine delle ostilità nei primi giorni di maggio del 1945. La presenza e l’operatività del movimento partigiano fu ovviamente condizionata dai tempi e dai modi dell’avanzata angloamericana lungo la penisola, avanzata che ebbe due fasi di interruzione in corrispondenza dei periodi invernali lungo le due suddette linee difensive tedesche. Fin dall’inizio la formazione delle bande partigiane fu il risultato di esperienze e moventi diversi, in molti casi non fondati su scelte chiaramente definite in termini ideali e di prospettive d’azione: se infatti vi furono gli antifascisti organizzati, legati a partiti e movimenti che avevano espresso la loro opposizione già negli anni del regime e che ora si riorganizzavano in vista della lotta finalmente possibile, c’erano anche nuove manifestazioni di un antifascismo spontaneo o di guerra, fenomeno evidente sia tra i reduci e i renitenti alla leva, sia tra gli operai e i contadini, legato ai disagi e alla sofferenza bellici, nonché conseguenza delle chiamate alle armi da parte della RSI, dell’arruolamento forzato dei lavoratori per la Germania, dell’azione repressiva a opera di nazisti e fascisti. In questi uomini quindi si trovavano al tempo stesso consolidate ragioni politiche e sociali di opposizione al fascismo e più recenti motivazioni esistenziali ed etiche, quando non più semplici ragioni di opportunità. L’antifascismo politicamente organizzato ebbe comunque un ruolo di coordinamento e di guida del movimento partigiano, sia a livello militare che politico. Le stime più attendibili sulla rilevanza quantitativa dei partigiani combattenti nelle diverse formazioni, escludendo quindi fiancheggiatori, simpatizzanti e le forze – in genere reparti militari – operanti all’estero, specie nei Balcani (circa 65.000 uomini), sono le seguenti: autunno 1943: 9.000/10.000 primavera 1944: 20.000/30.000 estate 1944: primavera 1945: 120.000/130.000 80.000 (Ad essi possono essere aggiunti i 100.000 uomini del Corpo Italiano di Liberazione che combatterono al fianco degli Alleati). Quanto alla coloritura politica delle diverse formazioni partigiane, le più numerose, pari al 40-50% del totale delle forze, furono le Garibaldi di ispirazione comunista, seguite con circa il 30% dalle GL espressione del Partito d’Azione a sua volta erede della lezione ideale e morale del movimento Giustizia e Libertà dei fratelli Rosselli; di minor rilevanza quantitativa furono le formazioni indipendenti (militari, monarchici, ma anche cattolici come nel caso delle Osoppo in Friuli) e le Matteotti di ispirazione socialista. A tale organizzazione militare corrispose uno sforzo di rappresentanza e di guida politica unitaria con la creazione dei Comitati di liberazione nazionale (CLN) a cui aderirono tutti i partiti antifascisti. In particolare il CNL Alta Italia assunse la guida politica e militare del movimento clandestino nel settentrione. La guerra partigiana per bande si tradusse, soprattutto nell’estate del 1944 e nella primavera del 1945, in azioni di sabotaggio e in attacchi alle forze nazifasciste, fino alla liberazione di interi territori, le repubbliche partigiane o zone libere, tra l’estate e l’autunno del 1944, nelle quali vennero condotte le prime esperienze di vita democratica dopo vent’anni di dittatura fascista. La reazione delle forze nazifasciste all’offensiva partigiana fu molto dura, con una strategia repressiva volta a colpire non solo le formazioni partigiane ma anche le popolazioni civili delle zone dove esse operavano, applicando una tattica del terrore già sperimentata nell’Europa orientale. Ciò determinò crescenti difficoltà di rapporto con le popolazioni civili che non erano chiamate soltanto a sostenere da un punto di vista logistico le bande, ma finivano per subire pesanti ritorsioni a seguito della presenza sul territorio del movimento resistenziale. La Resistenza italiana ebbe fine con l’insurrezione generale alla vigilia dell’arrivo delle forze anglo-americane, tra la fine di aprile e l’inizio di maggio del 1945. Le cifre relative ai caduti, proporzionalmente molto rilevanti, danno la misura di un fenomeno che solo per ragioni legate ad orientamenti ideologici recentemente riemersi (revisionismo) può essere giudicato come trascurabile, e non certo alla luce delle fonti tedesche o alleate che segnalano come la Resistenza italiana sia tra le più rilevanti nel quadro dei paesi dell’Europa occupata dalle forze nazifasciste. Partigiani caduti in Italia: Caduti italiani all’estero contro forze tedesche dopo l’8 settembre: 32.000 Italiani morti nei lager: 40.000 Internati militari morti nei campi di prigionia in Germania: 40.000 Caduti del Corpo Italiano di Liberazione: 25.000 Caduti civili: 10.000 45.000 Contro la tendenza recente della storiografia revisionistica a svalutare la Resistenza e a ridimensionarne la portata, condannandone l’azione o dichiarando la sua inutilità ai fini della vittoria nel conflitto, si possono muovere decisive obiezioni: 1. è certo che mai il movimento resistenziale avrebbe potuto sconfiggere le armate tedesche, tuttavia facilitò ed accelerò con la propria azione l’avanzata delle truppe alleate; 2. fu un fenomeno nuovo nella storia d’Italia, in quanto per la prima volta le masse popolari, nella forma di grandi e attive minoranze, furono protagoniste nello ristabilire le condizioni della democrazia nel paese; 3. con la sua eredità la Resistenza impedì alle forze compromesse con il regime dittatoriale fascista di condizionare la vita dello stato repubblicano sorto alla fine del conflitto; 4. essa segnò un momento di rigenerazione e di riscatto civile, politico e morale degli Italiani, tale da presentarli agli occhi degli Alleati non solo come un popolo nemico sconfitto, ma anche come un popolo di combattenti per la libertà e la democrazia.