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Le tipologie del combattente
Perché combatterono i soldati nella prima guerra mondiale? Con quale atteggiamento psicologico
affrontarono la durissima vita di trincea e attraversarono quella che ben presto si rivelò una
carneficina di dimensioni catastrofiche?
Combattere per solidarietà o per rassegnazione
Lo storico Duroselle esclude che la massa dei soldati fosse mossa da entusiasmi patriottici – ché
anzi, dopo i primi mesi di fronte incominicarono a odiare guerra, patria e gerarchie – ma anche dalla
pura costrizione disciplinare: «Se si è combattuto è stato per una solidarietà fra compagni, che è
vicina al sentimento dell’onore». A questa prima spiegazione, poi, ne affianca una seconda, non con
essa incompatibile, ma piuttosto complementare, la rassegnazione, citando un passo degli Appunti
di un combattente di Louis Mairet (caduto sul fronte occidentale): «Il soldato del 1916,» scriveva
questi, «non combatte né per l’Alsazia, né per rovinare la Germania, né per la patria. Si batte per
onestà, per abitudine e per forza. Combatte perché non può fare altrimenti e perché, dopo i primi
entusiasmi, dopo lo scoraggiamento del primo inverno, è venuta… la rassegnazione».
Le ribellioni e i processi per diserzione
E tuttavia questi diversi ordini di ragioni non devono far dimenticare il ruolo della costrizione né
devono oscurare il fatto che strati consistenti di soldati si ribellarono e tentarono con ogni mezzo
(dalla renitenza alla diserzione all’autolesionismo) di sottrarsi alla morte: centinaia di migliaia
furono, nel solo esercito italiano, i processi intentati dall’autorità militare per atti di
insubordinazione, abbandono dei reparti ecc.: «I morti per ferite nel 1915-19» scrive a questo
proposito lo storico Giorgio Rochat, «ammontarono a 402 000 […] i militari alle armi processati nel
medesimo periodo a 340 000. Vale a dire che i tribunali militari colpirono quasi altrettanti militari
italiani che il piombo austriaco!» A essi vanno aggiunti oltre 100 000 processi per renitenza alla
leva, 370 000 per sottrazioni agli obblighi militari a carico di emigranti, 60 000 a civili per reati
militari.
L’esaltazione della guerra
Eppure, al polo opposto, esistette una minoranza “bellicista” che visse e combattè la guerra come
espressione più alta e più bella dell’esperienaza umana, in una dimensione “eroica” e per molti
aspetti “mistica”.
Ernst Jünger, scrittore tedesco ed eroe di guerra (ferito ben sette volte e pluridecorato) futuro
teorico del nascente movimento nazista, è forse quello che con maggior chiarezza ha teorizzato la
guerra come momento costitutivo di una «nuova razza», di un nuovo genere umano, l’Homo
bellicus, infinitamente superiore a tutti i precedenti in quanto dotato di capacità straordinarie
(istinto, ferocia, rapidità) e di una inesauribile «volontà di potenza», maturata là dove il momento di
«massima liberazione di energie vitali», l’azione bellica, può coincidere col momento estremo di
distruzione, la morte.
Estranea al combattente medio e al militarismo classico, questa ideologia esprimeva lo spirito di
quei limitati settori sociali che individuarono nella guerra lo strumento di emancipazone e di
realizzazione inviduale; il mezzo per evadere dalla opprimente «medietà» (o meglio mediocrità) e
per innalzarsi alla dimensione elitaria del «superuomo», e che costituirono la base naturale di una
nuova concezione politicizzata e aggressivamente moderna della guerra. Le «truppe d’assalto»
tedesche “inventate” e impiegate in misura sempre più significativa nel corso del conflitto, furono
assunte come l’esempio più significativo di questo tipo di mentalità guerriera.
La “diversità” degli arditi
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Dell’equivalente italiano di esse, gli «arditi», Giorgio Rochat, in un libro dedicato specificamente a
Gli arditi e la grande guerra, offre un’immagine esemplare, individuandovi un modello di
«combattente di tipo nuovo», capace di rovesciare le regole tradizionali del combattimento perché
espressione di tecniche e di atteggiamenti inediti.
La «diversità» rispetto alla massa «amorfa» dei soldati è un tema ricorrente nella memorialistica
degli arditi. «Il coraggio degli arditi,» scrive il capitano Mario Carli, citato da Rochat, «non è quello
di tutti gli altri. Sembrerà paradossale ma è così. E’ un fenomeno di selezione, un fenomeno
esssenzialmente aristocratico».
Da questo senso di assoluta superiorità derivava lo spirito «eroico» e prevaricatore degli arditi:
parole che bene sintetizzano quel senso «demoniaco» di onnipotenza e di antiumanesimo totalitario
che ben presto caratterrizzerà i movimenti fascisti.
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