Lezione 8 Archivo

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Lezione 8. La disoccupazione
1. Definizioni. Abbiamo già visto che i disoccupati sono le persone che vorrebbero lavorare ma non
trovano lavoro; e che l'incidenza della disoccupazione è misurata dal rapporto fra numero di
disoccupati e forza lavoro. Abbiamo anche visto che in periodi di crisi la disoccupazione tende a
essere sottovalutata. Esiste una sorta di tassonomia della disoccupazione che è bene conoscere, in
quanto ad ogni voce di essa corrisponde una situazione sostanzialmente diversa e quindi è
importante il peso relativo, oltre che assoluto, delle diverse componenti.
Più precisamente si distingue, più o meno in ordine di gravità, fra:
1. Disoccupazione frizionale, dovuta alla necessità del "normale" adeguamento dell'occupazione
alla domanda di un'economia in evoluzione;
2. Disoccupazione stagionale, dovuta alla stagionalità di certe mansioni, tipicamente in agricoltura
e nel turismo;
3. Disoccupazione nascosta, costituita dai lavoratori scoraggiati, che sono usciti dalle forze lavoro
a causa dell'impossibilità di trovare lavoro;
4. Sottooccupazione: un lavoratore è sottooccupato quando svolge un lavoro con un orario inferiore
a quello che vorrebbe. E' un concetto importante, perché è evidente che se una quota consistente di
lavoratori è sottooccupata l'offerta di lavoro è superiore alla domanda, ma questa differenza è
qualitativamente diversa dal caso in cui i cittadini sono o occupati al tempo voluto o disoccupati.
5. Disoccupazione ciclica, cioè la disoccupazione tipica delle fasi basse del ciclo economico.
destinata a riassorbirsi nella successiva fase espansiva;
6. Disoccupazione strutturale, dovuta a importanti cambiamenti macroeconomici o tecnologici, che
rendono certe mansioni o certe categorie di lavoratori obsolete (nel caso di mutamenti della
tecnologia si usa anche il termine disoccupazione tecnologica);
Su un altro piano si distingue spesso fra disoccupati e persone in cerca di prima occupazione: la
cosa ha senso, perché la problematica di chi entra sul mercato del lavoro è per molti aspetti diversa
da quella di chi vi è già ma ha perso il lavoro; e su un altro ancora si distingue fra disoccupati di
breve e di lungo periodo (convenzionalmente si considera tale di solito una durata >12 mesi),
nuovamente perché le problematiche economiche, psicologiche e umane sono sostanzialmente
diverse nei due casi.
Infine, è evidente che gli aggregati di cui sopra possono essere definiti con lo stesso significato
per gruppi specifici (titolo di studio, genere, area geografica, ecc.).
Un altro criterio di classificazione, ovviamente meno suscettibile di essere utile per la lettura dei
dati, riguarda le cause della disoccupazione. Si distingue allora fra disoccupazione keynesiana,
dovuta a insufficienza della domanda, e disoccupazione classica, dovuta a vincoli monopolistici o
oligopolistici (ma non monopsonistici...) imposti all'equilibrio del mercato del lavoro. Questa
distinzione è importante dal punto di vista normativo, torneremo su di essa nel paragrafo 7.
Infine, una distinzione di cui gli economisti discutono molto è fra disoccupazione volontaria e
disoccupazione involontaria. Il problema nasce dal fatto che nel grafico dell'equilibrio di mercato, e
in assenza di comportamenti monopolistici, non si può avere disoccupazione, e quindi se c'è è
volontaria. A mio avviso è un falso problema; ne discuteremo più avanti in questa lezione.
2. La classificazione ISTAT/Eurostat. Da quanto sopra emerge che fra la disoccupazione pura e la
occupazione a pieno tempo esiste in realtà un continuo di casi; le statistiche ufficiali europee
adottano la classificazione che compare nella figura 1, relativa al 2012 e tratta dall'annuario
statistico italiano. E' evidente che il numero di disoccupati e il tasso di disoccupazione variano, e di
molto, a seconda degli aggregati che si considerano. La cifra che si legge sui giornali è quella delle
persone in cerca di occupazione; ma tale cifra più che raddoppia se si includono I lavoratori
1
scoraggiati, approssimati dalla prima e dalla seconda casella degli inattivi in età lavorativa. Più
difficile è la stima della sottooccupazione: i sottooccupati sono ovviamente conteggiati fra i
lavoratori a tempo parziale, ma occorre distinguere fra chi è occupato a tempo parziale
volontariamente e chi no; si può stimare che in Italia i secondi siano grosso modo la metà, e questo
è un valore molto alto se confrontato con altri paesi, come risulta dalla figura 2, di fonte BIT.
Figura 1 La classificazione della popolazione italiana
2
Figura 2: la sottooccupazione involontaria
3. I costi della disoccupazione. I costi della disoccupazione possono essere enormi. E' sensato
dividerli in diverse categorie.
1. Costi personali. Un disoccupato di solito è anche povero, ma a ciò si aggiungono ulteriori costi
che possono essere molto seri. Il disoccupato, sopratutto se di lungo periodo, perde capacità
lavorative, sia tecniche che psicologiche. Perde autostima e anche eterostima; abbiamo visto che
secondo Ehrenreich un lavoratore sfruttato, e a fortiori un disoccupato, non può essere un "vero"
cittadino.
2. Costi sociali. Un disoccupato è tipicamente povero; in assenza di qualche aiuto non è in grado di
mantenersi da solo. A meno che non venga lasciato morire di fame o di malattia egli impone quindi
un costo per la società. Questo costo può essere diretto (mediante qualche forma di assistenza o di
sussidio) o indiretto, mediante delinquenza.
Qui si presenta un problema molto serio e di non ovvia soluzione. Se si ammette che un
disoccupato debba comunque essere mantenuto, e se, essendo disoccupato, il valore di ciò che
produce è tipicamente zero, perché esistono i disoccupati? E' evidente che fare loro produrre
qualcosa è comunque Pareto-efficiente, per poco che lo sia. Discuteremo fra poco di questo
problema.
3. Costi politici. Abbiamo appena citato il testo di Ehrenreich; ricorderete che in esso si sottolinea
come un lavoratore sfruttato, e a maggior ragione un disoccupato, sono estremamente ricattabili.
Difficilmente possono per esempio votare sulla base di quale politica vorrebbero, se per loro è
essenziale che le elezioni vengano vinte dal boss locale che garantisce loro l'unica occupazione
possibile. Nella storia più o meno recente la disoccupazione di massa ha tipicamente preceduto
l'avvento al potere di regimi fascisti o lo scoppio di guerre. E' il caso per esempio dell'interventismo
di Roosevelt, poi come sappiamo coronato da successo, e dell'avvento al potere di Hitler, che non
sarebbe stato possibile senza l'accumularsi di una enorme massa di disoccupati a causa delle
politiche di austerity stupidamente intraprese come rimedio alla grande crisi del 19291.
1
Oggi stiamo ripetendo lo stesso errore, ma questo è un altro discorso.
3
4. Il mistero dell'esistenza della disoccupazione. In parecchi paesi il sussidio di disoccupazione è
revocato nel caso il percettore rifiuti un lavoro che gli viene offerto, purché tale lavoro rispetti certe
condizioni minimali. Negli USA, il paese che più di ogni altro è legato anche ideologicamente al
ricorso al mercato, le condizioni richieste sono molto tenui: il lavoro può anche avere una
retribuzione molto bassa, ed essere offerto in località anche notevolmente distanti. Ci si chiede
allora perché i lavoratori disoccupati non vengano invece occupati in lavori socialmente utili. Si
noti che perché questa soluzione sia efficiente è sufficiente che il valore prodotto dal lavoratore sia
superiore alla differenza fra retribuzione e sussidio nel caso di disoccupazione assoluta. I motivi
della sua scarsa adozione sono essenzialmente tre.
1. Il lavoro socialmente utile, proprio perché non è vincolato a un profitto, si presta ad abusi sul
piano politico, con assunzioni clientelari e scarso controllo sull'attività svolta. In Italia abbiamo
tristi esperienze. Tuttavia questo problema è sostanzialmente risolvibile.
2. Il lavoratore assunto a spese della collettività può fare una concorrenza alle imprese che lavorano
per il mercato. Ma avete studiato nel corso di economia (spero) che questo problema non si pone se
il lavoratore è addetto alla produzione di beni pubblici, come sorveglianza o tutela dell'ambiente,
che il mercato non è in grado di produrre.
3. Il motivo principale è che la presenza di disoccupati è generalmente richiesta dai proprietari di
capitale per evitare un eccessivo potere contrattuale dei lavoratori. Se un lavoratore sapesse che può
guadagnare, poniamo, 800E facendo lavori socialmente utili, difficilmente sarebbe disponibile a
lavorare in condizioni di sfruttamento (di cui diremo) per 850. In altri termini, la società spesso
preferisce non avere piena occupazione, per motivi legati alla distribuzione del reddito. Si parla in
questo caso di disoccupazione marxiana, in quanto essa è funzionale al mantenimento di un potere
contrattuale maggiore per i capitalisti che per i lavoratori, e ciò, secondo Marx, è una caratteristica
fondamentale del sistema capitalista.
5. Lo stigma della disoccupazione e i due modelli di sussidio. Quanto sopra può contribuire a
spiegare una differenza fondamentale nella stessa concezione del sussidio di disoccupazione.
Secondo la tradizione americana (che probabilmente affonda le sue radici anche nei principi di base
dell'etica protestante), il sussidio di disoccupazione è tipicamente un aiuto filantropico, concesso
per evitare la miseria a individui che sostanzialmente per loro demerito non sono in grado di
provvedere da soli al loro sostentamento. Secondo la concezione socialdemocratica europea, invece,
il sussidio è tipicamente una forma di assicurazione contro il pericolo della disoccupazione, in cui
in linea di principio chiunque può incorrere. La prima concezione implica che il disoccupato sia
vittima di uno stigma sociale che rende molto più difficile il suo reinserimento (o inserimento)
"normale" nella società. La seconda implica specularmente un maggior pericolo che il disoccupato
si "adagi" nella condizione di non lavoratore. Ciò sarebbe da una parte immorale e dall'altra
inefficiente. L'evidenza empirica, il buon senso e la teoria indicano che il secondo pericolo è molto
meno rilevante del primo. Come scrive Paolo Pini (dell'Università di Ferrara) in un articolo
scaricabile dalla sua home page, "Non emerge [dall'analisi di dati di confronto internazionale] una
conferma della relazione negativa tra andamento dell’indice di protezione all’impiego e dinamica
della produttività del lavoro, per cui ad una riduzione delle protezioni all’impiego corrisponde una
crescita della produttività. Semmai l’evidenza sembra opposta: i Paesi che hanno maggiormente
ridotto le protezioni all’impiego, sono quelli che mostrano dinamiche della produttività meno
favorevoli, ed in ciò soprattutto sono coinvolti i Paesi europei, dove nell’ultimo decennio, ed ancor
prima, sono state realizzate politiche di flessibilità del mercato del lavoro, in entrata favorendo
forme contrattuali meno stabili, ed in uscita, rendendo meno costosi e più fattibili i licenziamenti,
oppure in senso generale le riduzioni di personale accompagnate da ammortizzatori sociali di durata
4
più o meno breve."2 Oesch e Lipps (2011) trovano che in Germania e Svizzera "the strongly
harmful impact of being unemployed on well-being does not wear off over time, nor do repeated
episodes of unemployment make it any better. It thus appears doubtful that an unemployment shock
becomes persistent because the unemployed become used to, and hence reasonably content with,
being without a job"3; il che suggerisce che lo "adagiarsi nella disoccupazione" è principalmente
dovuto alla eventuale presenza dello stigma sociale.
6. la soluzione neocorporativa al problema della disoccupazione marxiana. Il problema della
disoccupazione marxiana è un problema importante. Può essere riassunto come segue:
all'avvicinarsi della piena occupazione i lavoratori più forti chiederanno e otterranno salari via via
più alti, e ciò spingerà verso l'alto il costo del lavoro in tutti i settori. Questo renderà il paese meno
competitivo sui mercati internazionali e renderà i capitalisti meno propensi ad investire, il che
riporterà la disoccupazione a livelli più bassi.
La soluzione proposta dagli economisti marxisti era quella di abolire i capitalisti come titolari
della funzione sociale dell'investimento, delegando a un apposito ente statale la decisione sulla parte
di produzione da destinare agli investimenti. Quella suggerita dagli economisti c.d. neoclassici era
invece quella di ostacolare, se necessario per legge o con la forza, l'organizzazione dei lavoratori
in modo tale da far sì che il loro potere di mercato non potesse aumentare a causa della concorrenza
fra di loro. Alla base di entrambe le proposte, almeno nelle loro formulazioni ottocentesche, c'era
l'accettazione della inevitabilità di un eccesso di offerta di lavoro, per motivi demografici; nel par.
10 approfondiremo questo punto. Per i marxisti era necessario che l'organizzazione dei lavoratori,
cioè lo stato senza capitalisti, abolisse per legge questa concorrenza; per i neoclassici che lo stato
dei capitalisti impedisse che i lavoratori si organizzassero.
Abbiamo però visto che storicamente l'eccesso di offerta di lavoro è stata riassorbito. Ciò ha
portato a due nuovi approcci. Il primo è l'imperialismo: i paesi con alta occupazione sono anche
quelli con un'economia più sviluppata, e quindi quelli più forti militarmente e finanziariamente, il
che consente sovente di scaricare i maggiori costi del lavoro su altri paesi. Il secondo è il cosiddetto
modello socialdemocratico, che ha visto la sua più piena applicazione nei paesi scandinavi
(sopratutto in Svezia e Danimarca) e nei Paesi Bassi, e in minor misura in Canada, Francia e
Germania (dove peraltro negli ultimi anni è stato molto ridimensionato). La sostanza è un accordo a
livello politico fra le organizzazioni dei lavoratori e dei capitalisti; i primi si impegnano a moderare
le loro richieste salariali, e i secondi ad accettare un'elevata pressione fiscale fortemente
progressiva, con la quale viene finanziato un grande settore di servizi pubblici, che compensano non
solo per il rischio di disoccupazione ma anche per i minori redditi dei lavoratori (se la tutela della
salute e la scuola sono gratuiti, il salario può anche essere più basso). In Italia questo modello, sotto
l'etichetta di neocorporatismo, è stato studiato e sostenuto dai sindacati fino alla fine degli anni 70
del 20° secolo; lo studioso che più si è impegnato a suo favore è stato Ezio Tarantelli, ucciso dalle
Brigate Rosse probabilmente proprio per questo. A partire dagli anni 90 sono stati proposti vari patti
sociali in questa ottica, ma in tutti i casi la parte padronale non ha rispettato gli impegni, anche per
la spinta della crescente concorrenza internazionale.
L'approccio socialdemocratico-neocorporativo trova sostegno teorico nel modello di sindacato di
Calmfors e Driffill (illustrato schematicamente nell fig.3). Essi argomentano, e osservano, che
l'eventuale ostacolo posto da sindacati c.d. "corporativi", cioè non preoccupati dallo sviluppo
2
"Produttività e regimi di produzione dell'impiego", marzo 2013. Si veda anche un altro articolo dello stesso autore,
scaricabile dal sito http://www.sbilanciamoci.info/Sezioni/globi/Togliere-tutele-al-lavoro-non-aiuta-la-produttivita17530.
3
D. Oesch e O. Lipps, Does Unemployment Hurt Less if There Is More of It Around?: A Panel Analysis of Life
Satisfaction in Germany and Switzerland, scaricabile dal sito
http://econpapers.repec.org/scripts/search/search.asp?ft=unemployed
5
dell'economia ma solo dei redditi dei loro membri, è minimo quando il sindacato e il contratto di
lavoro sono totalmente decentrati a livello aziendale, in quanto i lavoratori avranno una chiara
percezione del rapporto fra la performance dell'impresa e il loro salari; ma anche quando sono
accentrati a livello nazionale, in quanto le centrali sindacali si faranno carico dei problemi generali
dell'economia e saranno in grado di contrattare direttamente con il governo4,5.
Figura 3 - Il modello di Calmfors e Driffill
7. Disoccupazione classica e disoccupazione keynesiana. Lo stesso grafico può rappresentare
entrambe le situazioni (fig. 4). La retta orizzontale corrisponde in un caso al salario imposto da un
monopolio, e dall'altro al salario di sussistenza. Nel primo caso si avrà un eccesso di offerta dovuto
al fatto che il salario è troppo alto; nel secondo al fatto che il salario di equilibrio è inferiore a quello
di sussistenza.
Figura 4 - i due tipi di disoccupazione nello stesso grafico
E' possibile che nel corso del tempo la disoccupazione cambi natura, sopratutto nel caso di fasi
depressive prolungate. Ciò è illustrato nella figura 5. Supponiamo di essere inizialmente in una
situazione di disoccupazione classica, definita dal salario minimo W* cui corrisponde la
disoccupazione Ls - Ld.
4
L. Calmfors and J. Driffill, Bargaining Structure, Corporatism and Macroeconomic Performance, Econoici Policy,
1988.
5
Tuttavia il tasso di disoccupazione sembra essere sostanzialmente indipendente dal grado di centralizzazione
sindacale; il modello funziona meglio se si considerano nel loro insieme i sistemi di tutela del lavoro, sia sindacali che
legislativi.
6
A un certo punto inizia la fase depressiva. Le funzioni si modificano progressivamente. Abbiamo
visto che entrambe diventano più rigide. A parità di salario i padroni vorranno sempre meno
lavoratori, e i lavoratori a parità di lavoro si accontenteranno di meno salario. Supponiamo che
arrivino ad essere le funzioni rappresentate in rosso. L'equilibrio viene a trovarsi al di sotto del
salario di sussistenza, Ws, e si ha una disoccupazione keynesiana pari a Ls' - Ld'.
Figura 5 - dalla disoccupazione classica a quella keynesiana
Dal punto di vista normativo la confusione fra i due tipi di disoccupazione può avere conseguenza
tragiche, sopratutto se si ritiene che la disoccupazione sia classica mentre invece è keynesiana. E'
questo l'errore che si è fatto negli anni 30, e che si sta ripetendo adesso. In tal caso si reagirà infatti
con una limitazione dei salari, che porterà a una ulteriore limitazione della domanda, e così via. E' il
caso di sottolineare che questo errore può essere facilitato da considerazioni politiche: la crisi
indebolisce i lavoratori, e quindi i padroni possono essere tentati dalla possibilità di rivedere a loro
favore la distribuzione del reddito (ricordate le considerazioni sul contrasto fra razionalità
individuale e collettiva della lezione 1). E' ovviamente compito dello stato evitare di cadere in
questo errore. Roosevelt c'era riuscito; il governo "tecnico"italiano del 2012 non ci ha nemmeno
provato, e forse non l'ha nemmeno capito.
L'errore opposto è meno grave, se rimane entro limiti non troppo ampi. Esso implica che si cerchi
di espandere la domanda per combattere la disoccupazione. Se ciò è possibile, l'economia crescerà,
cosa certo non negativa. Se ciò non è possibile si creerà inflazione, che ridurrà di fatto i salari,
propiziando l'effetto richiesto. Ma ove le condizioni internazionali lo consentano esiste purtroppo
una terza soluzione: l'imperialismo, di cui abbiamo già parlato.
8. Il problema della disoccupazione involontaria e il salario di sussistenza. Quanto sopra
consente di risolvere il problema della disoccupazione involontaria: la disoccupazione involontaria
altro non è che la disoccupazione keynesiana. Come abbiamo visto parlando del monopsonio, il
modello tradizionale non consente di considerare il caso della disoccupazione involontaria. Infatti,
una riduzione della domanda porta a un equilibrio che si trova comunque sulla curva di offerta, e
quindi non ci sono lavoratori che si offrono ma non trovano lavoro. L'unica possibilità è che per
qualche motivo il salario venga fissato esogenamente al disopra del valore di equilibrio. Questa idea
era propria dell'economia marginalista neoclassica, e -a disonore della scienza economica- essa è
stata largamente accettata da molti teorici anche nella tradizione liberista moderna. In effetti non
7
solo in tempi recenti, ma addirittura durante la grande depressione degli anni trenta molti
economisti teorici (ma non i migliori di loro) ritenevano che la sindacalizzazione dei lavoratori
fosse la principale se non l'unica causa della disoccupazione di massa, e auspicavano, a volte in
buona fede, una riduzione dei salari (già miserabili) come soluzione al problema della
disoccupazione. Questo, come abbiamo visto, consiste nel confondere la disoccupazione classica
con quella keynesiana (ritenuta impossibile). Di fronte all'evidenza empirica della persistenza della
disoccupazione di massa in condizioni di assenza di sindacati, molti economisti ritenevano che tale
disoccupazione fosse in realtà volontaria: era disoccupato chi non accettava di lavorare al salario di
mercato. (In realtà anche questa ipotesi non reggeva: ai tempi della grande crisi c'era un enorme
eccesso di offerta al salario corrente, anche e sopratutto per mansioni a bassissima qualifica per le
quali non sarebbe stata plausibile una spiegazione basata su teorie come quella del salarioefficienza, e per le quali la protezione sindacale era sostanzialmente nulla).
Dato che si ha disoccupazione involontaria quando l'equilibrio è sotto il livello di sussistenza, è
opportuno chiarire quest'ultimo concetto. In un'economia povera esso corrisponde a condizioni
talmente miserabili che i lavoratori in eccesso preferiscono vivere di elemosina e di assistenza
pubblica, se presente; o anche di delinquenza6. In un'economia in condizioni meno tragiche è
possibile che il salario non possa scendere per vincoli legali: ci possono cioè essere leggi sul salario
minimo, ed è inoltre possibile che i disoccupati preferiscano consumare i risparmi propri e dei
famigliari piuttosto che ghettizzarsi in mansioni poco qualificate da cui sarebbe difficile uscire 7.
Questo ultimo caso è importante; esso è illustrato nella figura 6. Il disoccupato (in questo caso più
facilmente la persona in cerca di prima occupazione) può essere choosy (=esigente) o no, per usare
la terminologia sbagliata del ministro del lavoro Elsa Fornero (2012). Se non lo è otterrà
inizialmente guadagni (Y) più alti, ma rischia di entrare in un percorso con un reddito complessivo
minore. Sopratutto se è qualificato, potrà ragionevolmente preferire attività come il volontariato o lo
studio che gli consentano di mantenere il suo capitale umano in attesa dell'inizio di un percorso più
soddisfacente. Per fare un esempio, un laureato in ingegneria che accetti per un periodo abbastanza
lungo un lavoro di addetto a un call-center subirà due effetti negativi: il graduale invecchiamento
delle sue conoscenze e la segnalazione di non essere un bravo ingegnere. Se può permetterselo
prefrirà seguire dei corsi di qualificazione oppure svolgere attività di volontariato che gli
consentano di usare le sue capacità, cosa che potrà segnalare nel suo curriculum. L'errore del
ministro consiste evidentemente nella non considerazione dell'utilità attesa dei diversi percorsi.
Figura 6 - il disoccupato choosy
6
Il che significa che la società preferisce farsi carico dei disoccupati per consentire che i lavoratori vivano in condizioni
relativamente civili anziché accettare che i lavorato vivano in condizioni inaccettabili.
7
Qualche anno fa la dott.ssa Michela Bia, ora all'Università di Firenze, ha discusso presso la nostra facoltà
un'interessante tesi di laurea, da cui risultava che il lavoro interinale apriva la strada a contratti più appetibili per i
lavoratori più qualificati, ma chiudeva sostanzialmente questa possibilità per i meno qualificati.
8
9. La legge bronzea dei salari. Nell'Inghilterra dei secoli diciottesimo e diciannovesimo, e
successivamente nelle altre economie via via che si industrializzavano, c'era un eccesso di offerta di
lavoro; a qualsiasi livello di w c'era quindi chi era disposto a lavorare per un salario più basso, a
meno che w non fosse il salario di sussistenza, cioè tale per cui al disotto non fosse possibile vivere.
E' questa la famosa "legge bronzea dei salari" degli economisti del secolo diciannovesimo: il salario
è necessariamente fissato al valore di sussistenza. Ma questa conclusione vale solo se l'offerta di
lavoro è, come si dice in gergo, illimitata, cioè se esiste costantemente un eccesso di offerta sul
mercato del lavoro. Anche Marx, che pure negava validità universale alla legge, riteneva come
abbiamo visto che l'esistenza di un "esercito industriale di riserva" fosse una condizione cruciale per
il funzionamento di un'economia capitalista. Come dicevamo, questa condizione era propria
dell'economia europea nei secoli della rivoluzione industriale; e vigeva nel secolo scorso in molti
paesi in via di sviluppo8,9.
Oggi vale ancora la legge bronzea dei salari? Come si è detto, si, in alcune economie in via di
sviluppo. In quelle sviluppate di solito no, anche se non si può dare per certo che essa sia scomparsa
per sempre10. Due processi storici hanno portato alla sua (speriamo non provvisoria) scomparsa. Da
una parte il progresso tecnologico è stato molto più rapido di quanto si pensasse; ciò ha portato a
uno sviluppo molto più rapido dell'economia e quindi della domanda di lavoro. Dall'altra la crescita
demografica è stata molto più bassa, e quindi l'offerta di lavoro è cresciuta molto più lentamente di
quanto si pensasse.
Come è fatta la curva di offerta di lavoro aggregata se vale la legge bronzea dei salari? E'
orizzontale. Infatti, tutti i lavoratori si offrono al livello di sussistenza: un aumento di salario quindi
non fa aumentare l'offerta, e una riduzione non è possibile. Possiamo anche dire, con un significato
economico più rilevante, che un aumento della domanda aggregata di lavoro non fa crescere il
salario di equilibrio.
Graficamente, l'offerta di lavoro di un lavoratore tipico in queste condizioni è descritto dalla
figura 7, non del tutto intuitiva. w(s) è il salario di sussistenza; a quel salario egli è disposto ad
offrire qualsiasi quantità di lavoro fino a L(m)11. L(m) è il massimo che è fisicamente in grado di
offrire; di lì in poi l'aumento di w non permette quindi un aumento di L, e la curva di offerta diventa
verticale. Se ora sommiamo le curve di offerta dei vari lavoratori, il tratto orizzontale ovviamente si
allunga, e avremo la curva orizzontale aggregata che viene percepita dalle imprese.
8
Chi è interessato a approfondire questa problematica con riferimento ai paesi in via di sviluppo può partire da un testo
classico, Economic development with unlimited supply of labour, di W. A. Lewis (premio Nobel 1979), Journal of the
Manchester School, 1954, tradotto in Italiano in A. N. Agarwala e S. P. Singh (a cura di), L'economia dei paesi
sottosviluppati, Il Mulino, 1966.
9
In effetti anche il rapidissimo sviluppo della Cina si è basato su questa disponibilità di mano d'opera, che si manifesta
in un enorme continuo flusso migratorio dalle campagne, dove la vita è miserabile, verso le città, dove le condizioni
sono appena superiori, ma comunque terribili. Le prime tensioni dovute al restringersi dell'offerta stanno cominciando a
farsi sentire, e lo saranno sempre di più se verranno mantenuti elevati tassi di sviluppo.
10
Come abbiamo visto nella lezione 1, comunque, esistono sacche di mercato del lavoro in cui l'eccesso di offerta porta
a lavorare in condizioni effettivamente molto simili alla sussistenza. E' il caso per esempio di molti lavoratori non
qualificati negli USA, e di molti lavoratori immigrati clandestini in Italia.
11
Purchè la somma delle ore che offre ai vari datori di lavoro consenta di sopravvivere; altrimenti i lavoratore muore
(caso tutt'altro che raro, anche se più facilmente di malattie legate alla miseria, come pellagra, tubercolosi, polmonite,
colera, tifo...) che non di fame, ed esce dal mercato dal lavoro.
9
Figura 7. L'offerta individuale di lavoro nel mondo di Engels12.
La figura 8 è la versione aggregata della figura 7, in cui più realisticamente assumiamo che
l'offerta sia quasi orizzontale fino alla (quasi) piena occupazione, e di lì in poi sia molto (ma non
perfettamente) rigida. Essa ci consente di capire perché la presenza di un eccesso di offerta di
lavoro fosse ritenuta essenziale, ma anche inevitabile dagli economisti classici: qualora la domanda
si spingesse fino a L(m), un'ulteriore espansione dell'economia sarebbe stata resa impossibile
dall'"esplosione" dei salari che ne sarebbe conseguita. Ciò avrebbe portato da una parte a un
aumento demografico dell'offerta di lavoro, e dall'altra a una riduzione dei profitti e quindi degli
investimenti: i due fattori avrebbero ripristinato l'eccesso di offerta di lavoro, donde il carattere
"bronzeo" della legge.
Figura 8. L'offerta aggregata di lavoro nel mondo di Engels.
12
Dal nome dello studioso che ha pubblicato il primo studio classico sulle (tragiche) condizioni di vita degli operai nel
secolo 19°, Friedrich Engels (La situazione della classe operaia in Inghilterra, 1845).
10
Esercizi
1. Dal par. 1: "in periodi di crisi la disoccupazione tende a essere sottovalutata." Perché?
2. "Nel modello classico del mercato del lavoro non vi può essere disoccupazione involontaria."
Perché?
3. Pensate a qualche esempio reale di disoccupazione strutturale non tecnologica e tecnologica.
4. Con i dati della fig. 1 calcolate i tassi di attività, di occupazione e di disoccupazione, quest'ultimo
secondo diversi aggregati.
5. Dal par. 4: "Si noti che perché questa soluzione sia efficiente è sufficiente che il valore prodotto
dal lavoratore sia superiore alla differenza fra retribuzione e sussidio nel caso di disoccupazione
assoluta." Spiegate perché.
6. Considerate il grafico dell'equilibrio del mercato del lavoro, e modificatelo in modo da ottenere
una disoccupazione keynesiana.
7. Fate lo stesso per la disoccupazione classica.
8. Un mercato del lavoro è in equilibrio al tempo 0, con funzione di domanda W = 140-8L e funzione di offerta W=6L.
Calcolate i valori di equilibrio, W* e L*. Al tempo 1 si ha una riduzione della domanda, tale per cui (dW/dL) 1 =
1.2(dW/dL)0. Il salario minimo socialmente accettabile è 50. Si crea disoccupazione? Se sì, quanta? E' classica o
keynesiana?
9. Nello stesso mercato del lavoro dell'esercizio 7 si ha un'espansione della domanda, tale per cui (dW/dL)1 =
0.6(dW/dL)0. Ciò rafforza i sindacati, che al tempo 1 ottengono un salario minimo tale per cui W min,1=1.2W*,0. Si crea
disoccupazione? Se sì, quanta? E' classica o keynesiana?
10. Utilizzate il grafico della legge bronzea dei salari per spiegare perché l'imperialismo è una
soluzione alla disoccupazione accettabile sia per i padroni che per i lavoratori.
11. A vostro avviso, la spiegazione che (spero) avete trovato nell'esercizio precedente è coerente
con l'evidenza storica?
12. Secondo la ministra del lavoro Elsa Fornero, molti giovani sono disoccupati in quanto troppo
choosy (=esigenti). Verificate mediante un grafico che se ciò è vero si ha disoccupazione che può
essere sia classica che keynesiana.
13. Leggete gli articoli della costituzione italiana relativi al lavoro. Quali di essi vi sembrano
coerenti e quali in contrasto con le politiche di austerità degli ultimi anni?
14. Quanto affermato nel par. 3 a proposito dei costi non economici della disoccupazione dovrebbe
potere essere confermato dai dati. Che indicatori usereste per sottoporre a verifica quelle ipotesi?
11
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