San Caldo (CL) – Parrocchia S

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San Cataldo (CL) – Parrocchia S. Alberto Magno – 10/05/2012
25° Incontro
Lectio Divina: Giovanni 15, 9-17 “ Questo è il mio comandamento amatevi come io ho amato voi”
I. INVOCAZIONE ALLO SPIRITO SANTO
Testo
9 Come il Padre ha amato me, così anch’io ho amato voi. Rimanete nel mio amore. 10 Se osserverete
i miei comandamenti, rimarrete nel mio amore, come io ho osservato i comandamenti del Padre mio e
rimango nel suo amore. 11 Questo vi ho detto perché la mia gioia sia in voi e la vostra gioia sia
piena.
12 Questo è il mio comandamento: che vi amiate gli uni gli altri, come io vi ho amati. 13
Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici. 14 Voi siete miei amici, se
farete ciò che io vi comando. 15 Non vi chiamo più servi, perché il servo non sa quello che fa il suo
padrone; ma vi ho chiamati amici, perché tutto ciò che ho udito dal Padre l’ho fatto conoscere a voi.
16 Non voi avete scelto me, ma io ho scelto voi e vi ho costituiti perché andiate e portiate frutto e il
vostro frutto rimanga; perché tutto quello che chiederete al Padre nel mio nome, ve lo conceda. 17
Questo vi comando: amatevi gli uni gli altri.
I.
– III. LECTIO E MEDITATIO
Il vangelo di oggi è la continuazione di quello della scorsa domenica. Dopo aver introdotto l’allegoria
della vite e dei tralci, Gesù spiega ciò che avviene in coloro che rimangono uniti a lui. Ci sono
infatuazioni passeggere per Cristo, dettate dall’emozione e dall’entusiasmo momentanei, e c’è un
attaccamento duraturo che nessuno forza avversa è capace di infrangere. Questa adesione salda e
decisa è espressa da Giovanni con il verbo rimanere (mènein in greco) che ricorre ben sette volte
nella parabola della vite ed è ripreso altre tre all’inizio del nostro brano (vv. 9-10).
Gesù rimane nell’amore del Padre perché è sempre unito a lui, gli è fedele e fa sempre “le cose che
sono gradite al Padre” (Gv 8, 29); i discepoli possono divenire nel mondo un riflesso di questa unione
solo se rimangono nel suo amore e osservano i suoi comandamenti: “Se qualcuno mi ama osserverà
la mia parola e il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui” (Gv
14,23).
In queste parole e in queste immagini, dense di misticismo, si percepisce, nitido, il richiamo
all’eucaristia, il sacramento dove si celebra e si realizza questa unione intima con il Signore: “Chi
mangia la mia carne e beve il mio sangue dimora in me e io in lui” (Gv 6,56).
Ecco la ragione per cui, prima di accostarsi alla comunione, ognuno deve “esaminare se stesso”, per
verificare se davvero è deciso a rimanere nel Signore, altrimenti il suo gesto è una menzogna e
“Mangia e beve la propria condanna” (1Cor 11, 28-29).
In questi primi versetti (vv. 9-10), Gesù non presenta il suo amore come un modello da imitare, ma
come una vita che continua nei discepoli, i quali, nel battesimo, sono stati inseriti in lui, divenendo
sue membra. Così è lui che attua in loro. Nei discepoli è Cristo che annuncia la lieta notizia al
povero, ama, cura, consola, asciuga le lacrime della vedova e dell’orfano. Frutto di questa unione con
Cristo e con il Padre e dell’osservanza dei suoi comandamenti è la pienezza della gioia (v. 11).
Per sette volte nel vangelo di Giovanni ricorre il termine gioia. Il primo a impiegarlo è il Battista
quando afferma: “L’amico dello sposo esulta di gioia alla voce dello sposo. Ora questa mia gioia è
compiuta” (Gv 3,29); poi è sempre Gesù che, con insistenza, ripete ai discepoli la promessa della sua
vera gioia.
È ancora radicata la convinzione che rimanere in Cristo equivalga a rinunciare a ciò che rende felici.
Non è così. Gesù mette in guardia, sì, dalle gioie vane e illusorie che derivano dall’egoismo, dalla
ricerca del piacere a ogni costo, ma propone la gioia autentica, quella che proviene dall’unione con
lui e con il Padre. Questa gioia, l’unica vera e duratura, non può però essere ottenuta che passando
attraverso il dolore: “Voi piangerete e vi rattristerete, ma il mondo si rallegrererà. Voi sarete afflitti,
ma la vostra afflizione si cambierà in gioia” (Gv 16,20). Tentare cammini alternativi, scegliere strade
facili e spaziosi significa perdersi, allontanarsi dalla meta.
Dopo aver parlato dei suoi comandamenti, come se fossero molti, Gesù dichiara: “Questo è il mio
comandamento; che vi amiate gli uni gli altri, come io vi ho amati”, come se si trattasse di uno
soltanto (v. 12). È vero, i comandamenti sono molti, ma sono soltanto esplicitazioni di un unico
comandamento, quello che Gesù ha praticato in modo perfetto: l’amore all’uomo. È al bene
dell’uomo che devono sempre fare riferimento tutte le scelte morali, le disposizioni, le leggi, perché è
l’unico modo che abbiamo di mostrare a Dio il nostro amore: “Chi non ama il fratello che vede che
non può amare Dio che non vede” (1 Gv 4,20) e chi ama il fratello ha adempiuto tutta la legge, “tutta
la legge infatti trova la sua pienezza in un solo precetto: ama il prossimo tuo come te stesso” (Gal
5,14; Rm 13, 8-10).
Durante l’ultima cena, dopo aver lavato i piedi ai discepoli, aveva già detto: “Vi do un
comandamento nuovo: che vi amiate gli uni gli altri; come io vi ho amato, così amatevi anche voi gli
uni gli altri. Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli, se avrete amore gli uni gli altri” (Gv
13, 34-35). Confrontando le due formule con cui è presentato l’unico comandamento, si nota una
leggera, ma significativa differenza. Prima il comandamento era “nuovo”, ora è il “suo”, quasi non
fosse più “nuovo”.
C’è una ragione per cui è stato introdotto il cambiamento. L’evangelista scrive dopo gli avvenimenti
della Pasqua, quando Gesù è già passato da questo mondo al Padre. Per primo egli ha praticato il
comandamento nuovo: ha amato fino a donare tutto se stesso. Ecco la ragione per cui il
comandamento non è più nuovo, ma è divenuto il suo, quello che egli ha praticato. La misura
dell’amore al prossimo non è più quella indicata dall’Antico Testamento: come te stesso (Lc 19,18),
ma: come io vi ho amati e, con questa espressione, Gesù si riferisce all’amore sommo che egli ha
manifestato sulla croce.
Rimane in lui solo chi è sempre disposto a “donare la vita”, perché “nessuno ha un amore più grande
di questo: dare la vita per i propri amici” (v. 13) e “Cristo ci ha amati e ha dato se stesso per noi” (Ef
5,2). Il suo comandamento non va inteso come una legge impegnativa, precisa e ben definita in tutti i
dettagli. È un orientamento di vita che, nelle sue implicazioni concrete, deve essere stabilito momento
per momento; esige costante attenzione ai bisogni del fratello, fantasia, discernimento e coraggio di
prendere decisioni anche a rischio di sbagliare. Gesù non chiama i suoi discepoli servi, ma amici (vv.
14-15).
Non è subito chiara questa affermazione perché, nella Bibbia, “servo di Dio” è un titolo onorifico,
attribuiti a personaggi come Abramo, Mosè, Davide, i profeti. Anche il vecchio Simeone, Paolo,
Pietro e tanti altri si qualificano come “servi” e Maria si definisce “la serva del Signore” (Lc 1,38).
Gesù, soprattutto, è indicato dal Padre con le parole: “Ecco il mio servo che io ho scelto” (Mt 12,18)
e, nel celebre canto della Lettera ai filippesi, Paolo ricorda che egli “assume la condizione di servo”
(Fil 2,7). Da qui l’esortazione a divenire servi gli uni degli altri (Mc 9.35). Gesù dà la ragione per cui
non chiama servi, ma amici i suoi discepoli. Il servo è coinvolto solo esteriormente nel progetto del
padrone, è un esecutore di ordini e di compiti che gli vengono affidati. L’amico invece è confidente, è
colui con il quale si coltiva una comunione di vita, di progetti e di intenti. L’amico è felice quando
può rendere un favore alla persona amata, non le nasconde nulla, non chiede un compenso per il
servizio prestato. Gesù chiama “amici” i suoi discepoli perché a loro ha rivelato il progetto del Padre
(v. 15) e li ha chiamati a collaborare con lui alla sua realizzazione. La comunità cristiana è composta
di amici, rimangono quindi esclusi i rapporti superiore-suddito, padrone-schiavo, maestro-discepolo;
tutti i suoi membri sono sullo stesso piano e godono di pari dignità. Dopo aver lavato i piedi agli
apostoli, Gesù ammette di essere “maestro e signore”, ma dà un significato completamente nuovo a
questi titoli: “il primo”, colui che è “grande” nella comunità è chi lava i piedi all’ultimo. Non c’è
posto per chi, invece di servire, ambisce a cariche prestigiose e onori. Tutto il brano è un inno
all’amore. Ma chi va amato?
L’esortazione è chiaramente rivolta ai discepoli e l’amore pare ristretto al loro gruppo. Ci si chiede
allora per quale ragione Gesù non abbia richiesto un amore universale, esteso a tutti, anche ai nemici,
come ha fatto nel discorso della montagna (Mt 5,44).
È vero, qui Gesù si rivolge direttamente solo ai membri della comunità cristiana e solo a loro
raccomanda di essere uniti e di amarsi reciprocamente. È una limitazione, ma c’è un motivo: prima di
parlare di amore e di pace agli altri, è necessario coltivare l’amore e la pace nella Chiesa. Solo una
comunità i cui membri fanno un’esperienza viva e profonda di accoglienza, di sopportazione, di
perdono, di servizio reciproco, di condivisione dei beni può annunciare al mondo fraternità e pace.
IV – V – VI: ORATIO, COMPLETATIO, E ACTIO
(Prossimo incontro Giovedì. 17/05/2012.)
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