(Salerno, 1544 - Roma, 1595) Rileggere la complicata fisionomia intellettuale di Torquato Tasso significa affrontare un insieme di problemi che riguardano l’intreccio di vita e letteratura di una delle figure più tormentate del Cinquecento italiano. Emerge su tutto il mito della sua vera o presunta malattia mentale, prima descritta come il prodotto di un genio melancholicus, quindi individuata con appellativi scientifici inerenti alla psichiatria: complessi di colpa, manie di persecuzione, schizofrenia. Per certi aspetti la malattia del Tasso veniva spiegata attraverso la teoria platonica del furor poeticus, secondo la quale il poeta, come l’indovino, vive soggiogato da una forza interiore misteriosa che non sa dominare e che lo opprime. Fino a tutto l’Ottocento la ricezione delle opere tassiane e l’interpretazione della sua scrittura sono passati attraverso questo filtro deformante della biografia, come se nella vita del poeta fosse possibile rintracciare il segno patologico dell’infelicità, dell’inquietudine, del dramma interiore. Resta il fatto che questo scrittore attraversò una fase controversa della storia delle corti italiane del proprio tempo, una stagione che volgeva inevitabilmente al tramonto per molte ragioni (economiche, politiche). Tasso, la sua introversa personalità, il suo bisogno di considerazione e autorevolezza intellettuale, vennero spazzati via dalle ragioni della contingenza e dalla progressiva chiusura dei tradizionali veicoli di trasmissione della cultura. L’inserimento nella vita di corte, anche grazie all’appoggio del padre Bernardo (anch’egli poeta, cortigiano e uomo d’arme al servizio di vari signori), avvenne all’inizio secondo i soliti schemi della collaborazione e della protezione, ma fu lo stesso poeta a provocarne la drastica fine con le sue stravaganze e i propri timori. Dopo avere iniziato gli studi di legge a Padova (interrotti per seguire le lezioni dello Speroni), Tasso cercò una sistemazione presso gli Este a Ferrara (1565); in seguito compì un viaggio in Francia, dove conobbe vari letterati. Tornò quindi a Ferrara, dove venne assunto come scrittore di corte. Mentre procedeva il lavoro alla Liberata, Tasso compose il dramma pastorale Aminta e venne nominato storiografo di corte. Tuttavia questo precario equilibrio si interruppe una volta terminato il lavoro al poema: in questo periodo, dopo il 1575, si verificarono i primi turbamenti psicologici che lo portarono in seguito alla reclusione nell’ospedale di Sant’Anna. Nel ‘76 subì un’aggressione ad opera del cortigiano Ercole Fucci e poco dopo fu egli stesso a minacciare con un coltello un servitore da cui si credeva spiato. Nello stesso periodo si autoaccusò presso l’Inquisizione (ma venne assolto) e quindi abbandonò la corte di Ferrara e il convento di San Francesco, dove si era ritirato, girovagando in alcune città d’Italia e presentandosi infine a Sorrento dalla sorella Cornelia: qui, travestito, le annunciò la morte del fratello con lo scopo di constatare, dal dolore della sorella, l’amore nei suoi confronti. Nel 1578 ripresero i continui spostamenti, prima a Ferrara, poi a Urbino, quindi nuovamente a Ferrara: qui, nel 1579, dette in escandescenze contro il duca Alfonso e fu per questo (e non solo per questo) rinchiuso come pazzo nell’ospedale di Sant’Anna. Sembra infatti che la reclusione del Tasso avesse un qualche rapporto con la situazione religiosa del ducato di Ferrara, ritenuta dall’Inquisizione focolaio di eretici (Renata d’Este, madre del duca, vi aveva ospitato Calvino): molti studiosi sono oggi concordi nel ritenere la scelta 1 di rinchiudere il Tasso come un segnale di efficienza nel controllo degli elementi “devianti”, voluto da Alfonso II e indirizzato al confinante Stato della Chiesa. La prigionia durò sette anni, durante i quali lo scrittore poté spesso dedicarsi ai propri studi, alla composizione della maggior parte dei Dialoghi e alle Rime e a un interessante epistolario. Durante la reclusione la Gerusalemme liberata venne pubblicata più volte, in edizioni non complete e senza il consenso e la revisione del poeta. Nel 1584 usciva intanto il libro di uno studioso napoletano Camillo Pellegrino dal titolo Il Carrafa o vero dell’epica poesia, con cui prendeva il via la lunga polemica che vide al centro i poemi dell’Ariosto e del Tasso e la presunta superiorità dell’uno sull’altro (il dibattito coinvolse subito l’Accademia della Crusca e il suo rappresentante più illustre Leonardo Salviati in difesa del poema di Ariosto). Con l’aiuto di Vincenzo Gonzaga, figlio del duca di Mantova, il Tasso venne liberato: a Mantova compose il Re Torrismondo, ma da qui riprese le sue peregrinazioni. Sostò a Roma, a Firenze, poi di nuovo a Mantova, Roma e Napoli. Nel frattempo preparava un’edizione delle Rime (pubblicata in due parti nel 1591 e ‘92), attendeva alla revisione del poema con il nuovo titolo di Gerusalemme Conquistata (pubblicato nel 1593 ma con uno scarso successo di pubblico), dava alle stampe i Discorsi del poema eroico (1594). Oltre alla follia, il dato più interessante della biografia tassiana è indubbiamente il senso di sradicamento, il continuo peregrinare da una città all’altra, da una corte all’altra, senza tuttavia trovare un punto di equilibrio e una stabilità interiore e materiale in grado di consentire al poeta un lavoro continuativo sui propri studi: e tuttavia Tasso ripose nella idealizzazione dello spazio sociale della corte le nutrite speranze di una sistemazione personale e di un prestigio professionale. La realtà fu ben diversa: in questa frizione che si venne a creare tra aspettazione e risultato, tra domanda e offerta, possiamo intravedere il disagio interiore e l’insoddisfazione, la delusione e la rabbia, che poi sfociarono nella malattia mentale. Con il dramma pastorale Aminta, che cade in una fase di densa e importante vena creativa, quella appunto che vede il poeta impegnato alla coeva costruzione del ricco dettato della Liberata, Tasso sperimenta la scrittura teatrale in una zona di confluenza di molti generi, dal teatro all’elegia e alla lirica, ponendo a confronto l’azione drammatica con il pathos sentimentale. La novità strutturale dell’Aminta, ora portata alla luce da studi più recenti e specifici, andrà cercata semmai nella sua valenza teatrale e drammaturgica, nell’autonomia di un impianto costruito appositamente per il palcoscenico. Questo non significa assolutamente limitarne la pregnanza lirica, che è stata invece il prevalente versante della ricognizione operata dalla critica: tuttavia nell’Aminta gli elementi che costituiscono il dettato bucolico e l’ispirazione pastorale vengono complicati da una più schietta consapevolezza del mondo cittadino. Così le “ville seguon l’essempio de le gran cittadi!”, e non vi è più distinzione tra un’Arcadia rappresentata come lontano paesaggio naturale e la realtà cittadina, quella cortigiana ed estense, che diviene quindi la condizione per eccellenza del letterato. La stessa rappresentazione, dietro i personaggi dell’Aminta, di corrispondenze dirette con il mondo della corte ferrarese, è forse la cifra della piena coincidenza tra corte e teatro, tra città e scenografia. Dunque non l’Arcadia, 2 territorio ideale e idillico, che già aveva fatto da sfondo all’Egle del Giraldi Cinzio, ma la “gran cittade in ripa al fiume” (v. 570), dove si trova il “felice albergo” di Alfonso II. Alla fortuna e al successo di pubblico del teatro tragico cinquecentesco hanno contribuito elementi di natura diversa: - la ancor viva dimensione della corte, con la sua classe dominante e i suoi riti legati alla festa; il dibattito, anch’esso fiorente, intorno alle regole aristoteliche; - la capacità di essere specchio inquieto di quelle tensioni proprio all’interno della corte, e di Ferrara in particolare. Il mondo arcadico dei pastori e lo struggente intreccio di amore e passione d’amore, si congiungono dentro la forma teatrale non senza debiti espliciti verso alcune esperienze tra le più significative della stagione umanistica. La poesia bucolica latina, l’Arcadia di Sannazzaro e il consolidato petrarchismo si innestano nel tronco di una vivace ripresa, anzi vera e propria fondazione moderna, della favola pastorale. Centro specifico di questo fenomeno è la corte estense, in cui aveva trovato spazio una larga fioritura di testi teatrali, dalla commedia alla tragedia moderne. Il giovane pastore Aminta è invaghito di Silvia, bellissima ninfa che sdegna l’amore, sebbene la matura Dafne la inviti a gustarne la dolcezza. Consigliato dalla stessa Dafne e dal vecchio pastore Tirsi, Aminta segue Silvia al fiume dov’è solita bagnarsi, e la salva dalle grinfie di un satiro, ma la giovane, ingrata, fugge. Alla falsa notizia che Silvia è stata divorata dai lupi, Aminta disperato si getta da una rupe cercando la morte, ma un cespuglio attutisce la caduta ed egli resta solo ferito e svenuto. Silvia, che lo crede morto, dapprima si impietosisce per una tale prova d’amore, poi si rende conto di essersene innamorata e corre a baciarlo. Aminta rinviene e l’amore trionfa. Il motivo centrale dell’opera è l’esaltazione dell’amore, o, meglio, dell’innamoramento; il Tasso infatti indugia ad analizzare il modo in cui il sentimento nasce, vitale, potente e indomabile, “non so da qual radice / com’erba suol che per se stessa germini”, e quali riflessi psicologici esso abbia sull’animo dei protagonisti. L’aspetto passionale non è trascurato, ma quasi filtrato e alleggerito attraverso le nostalgiche rievocazioni di Dafne e Tirsi, e nei commenti attribuiti ai cori. Aminta, indeciso e trepidante, si strugge nella malinconia; Silvia dapprima resiste, ma non riesce a ostacolare l’amore che si insinua in lei sottilmente e quasi contro la sua volontà. La ninfa sembra insensibile e ritrosa, ma dentro di sé è consapevole della propria bellezza e se ne compiace; il Tasso sottolinea questi motivi apparentemente contrastanti, che anticipano l’ambivalenza psicologica di alcuni personaggi della Gerusalemme liberata. Ai due giovani protagonisti fanno da contrappunto Tirsi e Dafne, più anziani e saggi, che conoscono le gioie dell’amore e le pene che derivano dalla sua mancanza. Da tutta la favola si sprigiona un anelito al piacere, che richiama l’edonismo proprio del mondo rinascimentale; il paesaggio agreste, con la sua bellezza delicata e serena, dai colori tenui e sfumati, crea un’atmosfera incantata, ideale per il trionfo dell’amore, forza naturale e spontanea. L’ambiente pastorale, collocato in un luogo immaginario, fuori dello spazio e del tempo, contiene tuttavia allusioni a personaggi e costumi della corte, 3 celebrata come mondo eletto, chiuso nella sua raffinata e preziosa eleganza. Gli accenni sono velati ma riconoscibilissimi; l’autore stesso si cela sotto le vesti di Tirsi. L’esaltazione della vita cortigiana è coerente alla personalità del Tasso, sempre fortemente attratta dal fascino di quella società esclusiva, ma corrisponde anche al desiderio di compiacere e dilettare il proprio pubblico, che vedeva rivivere nelle figure del mondo arcadico i propri costumi e ideali. Il paesaggio idillico rispecchia inoltre il sogno, mai espresso a chiare lettere ma latente in tutte le opere del poeta, della campagna come luogo libero, privo di artifici e condizionamenti, dove è possibile condurre un’esistenza serena e non essere travolti dagli affanni della realtà e dalle inquietudini dovute all’ambizione e al desiderio di gloria. La corte, proiettata in una sfera mitica e ideale, diventa così lo strumento per rappresentare e insieme cristallizzare il proprio mondo interiore, sottraendolo al tormento delle contraddizioni che il poeta non riesce a risolvere nella realtà e che tanto influiscono sulla sua stessa ispirazione poetica. Lo stile dell’Aminta si impernia su una sapiente costruzione del verso, che si vale di molteplici espedienti retorici, usati in modo da ottenere un effetto di scorrevolezza e di naturalezza. Sono frequenti le rime finali e al mezzo, le assonanze, le consonanze, le allitterazioni e molte altre figure retoriche, che producono una accentuata musicalità, tanto che, come rileva il critico Mario Fubini, lo stile dell’Aminta prelude a quello dei libretti d’opera, che spesso gli si ispireranno. Il linguaggio, in prevalenza di derivazione petrarchesca, è ricco di rimandi alla tradizione classica (si trovano intere citazioni dei poeti elegiaci latini) e volgare. Ancora non del tutto risolto è l’inserimento dell’Aminta nelle categorie del teatro cinquecentesco: divisa tra elementi tragici e comici, il dramma tassiano sembra fare di questa incertezza la sua autentica forza specifica. Gli elementi comici, come ad esempio lo scioglimento della vicenda, sono estremamente rari nell’Aminta, e anzi il finale è tutt’altro che risolto in senso favorevole ai due amanti. È vero, nell’ultimo atto, Tasso lascia intravedere l’unione prossima di Aminta e Silvia dopo la reiterata ritrosia della ragazza e le voci sulle loro presunte morti: ma lo scioglimento dell’intreccio è troppo debole per essere considerato un lieto fine, e manca di quella necessaria idealizzazione dell’amore che si addice all’esito comico. L’Aminta, ha scritto il Guglielminetti, “pur muovendosi, come tutta la produzione teatrale pastorale, fra commedia e tragedia, propende piuttosto verso quest’ultima e non conosce che poche situazioni comiche”. Nell’atto terzo Tirsi espone infatti i timori che Aminta si sia suicidato perché rifiutato da Silvia, mentre Nerina racconta la morte di costei, sbranata dai lupi: è l’elemento della tragedia che Aristotele definisce con il termine di peripezia, come mutamento improvviso dell’azione, ma in questo caso la catastrofe è come rimandata e sospesa. Più opportuna ci pare allora la ricapitolazione offerta dallo stesso Guglielminetti che ha assunto per l’Aminta la soluzione del masque inglese, sulla scorta degli studi di Northrop Frye. Nel 1573 il Tasso inizia la stesura di Galealto re di Norvegia, una tragedia rimasta interrotta alla scena seconda del secondo atto; essa viene ripresa e portata a termine tra il 1586 e il 1587, con il nuovo titolo Il Re Torrismondo. L’intenzione dell’autore nel comporre il Torrismondo è quella di dar vita ad una tragedia rispettosa delle regole 4 aristoteliche, e difatti egli si ispira alle tragedie greche, in particolare all’Edipo Re di Sofocle, ma è visibilmente influenzato dal gusto per le atmosfere cupe e passionali care alla drammaturgia del tardo Cinquecento. Gerusalemme liberata È il 1099: la Crociata per la riconquista del Santo Sepolcro è in corso ormai da sei anni senza alcun esito (in realtà la Crociata, iniziata nel 1096, durava da tre anni). L’arcangelo Gabriele, inviato da Dio, si reca al campo cristiano e ispira il nobile condottiero Goffredo di Buglione a radunare i suoi e a concludere l’impresa espugnando Gerusalemme. Nella città santa il re Aladino si dispone a subire l’assedio e caccia gli abitanti cristiani per affrontare più facilmente l’attacco nemico; il re d’Egitto invia ambasciatori alle tende dei crociati per cercare invano di dissuaderli dal combattere. Intanto giunge a Gerusalemme la guerriera saracena Clorinda, giusto in tempo per salvare dal rogo due cristiani, il giovinetto Olindo e la donna di cui è segretamente innamorato, Sofronia, che Aladino ha condannato a morte per aver rubato una sacra immagine della Vergine. Nel frattempo Satana raduna i suoi demoni, che dovranno correre in appoggio degli infedeli con l’aiuto del potente mago Ismeno e della bellissima Armida. A lei viene affidato l’incarico di affascinare i guerrieri cristiani distraendoli dalla guerra, opera che ella compie tanto bene da sedurne quaranta, tra i quali il prode Rinaldo, capostipite degli Estensi, e il valoroso Tancredi. Quest’ultimo spasima per Clorinda, dalla cui bellezza è stato rapito per averla vista una sola volta, ed è vanamente amato dalla dolce fanciulla pagana Erminia. Dagli spalti di Gerusalemme ella assiste trepida al duello fra Tancredi e il fiero Argante e si precipita poi a soccorrere l’eroe cristiano, indossando le armi di Clorinda; sorpresa da una pattuglia cristiana, si rifugia tra i pastori. Tancredi, ingannato dall’armatura, la insegue ma viene catturato da Armida. Intanto i demoni ostacolano in tutti i modi i cristiani, in soccorso dei quali vengono Dio e gli angeli. Rinaldo, prigioniero del fascino di Armida, viene liberato dall’incanto grazie all’intervento di due compagni dotati dei talismani del vecchio saggio di Ascalona; fa penitenza sul monte Oliveto, libera gli altri guerrieri affascinati dalla maga e distrugge i potenti incantesimi di Ismeno. Argante e Clorinda tentano invano di fermare i crociati. La guerriera, ferita a morte durante un duello con Tancredi, che non l’ha riconosciuta, gli chiede e ottiene di essere battezzata. Tancredi, pur disperato, torna a 5 combattere e in un aspro scontro uccide Argante. Ferito a sua volta, viene curato da Erminia, ma non la riconosce. Tutta Gerusalemme è sconvolta da furiosi duelli che sfociano in una grandiosa e spietata battaglia, nel corso della quale l’eroico sultano turco Solimano si getta nella mischia e muore sotto i colpi di Rinaldo. Aladino viene ucciso da Raimondo di Tolosa. Alla fine della tremenda battaglia, Goffredo vittorioso entra nel tempio, s’inginocchia e prega. Il soggetto della Gerusalemme liberata è la prima Crociata, un evento realmente accaduto e non fantastico; in tal modo viene rispettato il principio che la poesia debba fondarsi sul vero storico, che per il Tasso coincide con gli elementi religiosi della storia stessa; d’altronde è bene ricordare che la scelta dell’argomento non è solo l’espressione di un ossequio formale ai precetti della Controriforma, ma trova fondamento nell’attualità della minaccia turca e in una convinta adesione alla fede cattolica. Gli episodi di fantasia inseriti all’interno della materia storico-religiosa sono calcolati in modo che restino nell’ambito di un’equilibrata verosimiglianza con il reale, secondo i criteri già espressi nei Discorsi dell’arte poetica. Il Tasso infatti ritiene che il poema epico non debba escludere del tutto la finzione, ma renderla verosimile, raccontando fatti che non sono accaduti, ma sarebbero potuti o potrebbero accadere. L’uso della finzione è giustificato dal desiderio di procurare diletto al lettore, una prerogativa che il Tasso riconosce alla poesia, purché sia piegata ad elevate finalità etiche. All’inizio del poema tutti i crociati, per quanto nobili e coraggiosi, hanno perduto di vista il loro sacro obiettivo, sono “erranti” fisicamente e spiritualmente. Questa parola, così strettamente connessa alla sensibilità del Tasso, è la chiave per interpretare le loro avventure e capire il senso stesso del poema, che indica nella riconquista dell’integrità morale e religiosa l’unica strada per superare le varie e vane seduzioni terrene. Così non solo l’esercito cristiano può vincere la guerra, ma si arricchisce di una nuova e più alta moralità; tra le righe della vicenda storica della Crociata possiamo leggere quella metaforica di una crisi spirituale, e nella liberazione del Sepolcro, il riscatto simbolico dell’anima. La materia è varia, poiché il Tasso giudica la varietà indispensabile al “diletto”, ma unica è l’azione, la riconquista del Sepolcro, e unico è il personaggio, Goffredo, anche se attorno a lui agiscono molte altre figure. Alla pluralità di eroi e di azioni tipica del poema cavalleresco si sostituisce la ricerca di quella rigorosa unità teorizzata dagli aristotelici del secondo Cinquecento (e sostenuta dal Tasso medesimo nei Discorsi). D’altronde, la scelta del tema impone un preciso ordine della struttura. Per questo, prima di tutto, il numero dei canti è limitato, in modo da facilitare la compattezza del racconto. Inoltre, alla struttura “aperta” dell’Orlando furioso se ne sostituisce una “chiusa”, basata su una rigorosa geometria e simmetria delle parti. Alla divisione “orizzontale” tra l’esercito cristiano e quello pagano in lotta sulla Terra ne corrisponde una analoga, ma “verticale”, che vede fronteggiarsi i due “campi” ultraterreni, il Cielo (il Bene) e l’Inferno (il Male). E se la dimensione terrena è contingente e variabile, quella celeste è eterna e immutabile. 6 Quasi tutti gli avvenimenti accadono in uno spazio ridotto, tra la città assediata e il campo cristiano, e il racconto scorre lineare anche nel tempo. Ogni azione ha un inizio, uno svolgimento e una fine. Il Tasso non interrompe mai i suoi episodi; al massimo introduce qualche rapida scena retrospettiva per chiarire l’antefatto di ciò che sta succedendo in quel momento. Inoltre, sul modello dei poemi classici come l’Iliade, non narra tutta la Crociata, ma si concentra sulle sue fasi finali e sull’episodio decisivo della battaglia. Anche gli elementi che sembrano ricondurre al poema cavalleresco tradizionale, come la presenza di personaggi d’invenzione e il gusto per l’esotico e l’avventuroso, sono fortemente modificati dall’autore. La guerra perde il suo carattere di epopea e si trasforma in una necessità e in un dovere; d’altro canto, il mondo fantastico si trasferisce dall’ambiente pagano a quello cristiano. Il “meraviglioso” che il Tasso ci descrive rientra infatti nel quadro di una lotta perenne tra la potenza benefica di Dio e la malvagità demoniaca di Satana; i talismani del vegliardo di Ascalona, che permettono a Rinaldo di sottrarsi al fascino di Armida, sono uno strumento religioso, così come le subdole arti di Ismeno e della stessa Armida sono al servizio del demonio. La dimensione narrativa della Gerusalemme liberata è apparentemente lineare, ma al suo interno si fronteggiano, in un difficile tentativo di conciliazione, due ideali di vita e di civiltà in contrasto. L’autore ha una concezione pedagogica dell’arte, e forti sollecitazioni morali e religiose lo spingono a seguire i precetti della Controriforma; inoltre il gusto e la preparazione classica lo portano al rispetto consapevole della tradizione epica e delle norme retoriche e letterarie dell’accademia. D’altro canto su di lui agiscono prepotentemente il fascino della corte e l’ammirazione per un ideale “codice d’onore” cavalleresco. L’educazione letteraria e il sogno di una vita elegante e raffinata si innestano quindi sulla già complessa materia religiosa, si integrano e interagiscono con essa. I duelli, descritti con minuzia scientifica, rispettano scrupolosamente i regolamenti della scherma e il codice della cavalleria; gli assalti e le battaglie hanno la precisione tecnica di un manuale; il fasto rituale delle parate militari e delle processioni religiose, la grandiosità degli sfondi, e persino la sontuosità regale delle vesti rimandano alla magnificenza e all’ostentazione di ricchezza del mondo cortigiano. Anche la potenza visiva degli episodi richiama una struttura drammatica più teatrale che narrativa; spesso la Liberata appare come un grande palcoscenico che riflette il gusto scenografico, il senso dello spettacolo e l’abitudine alla rappresentazione nelle corti. A questo si aggiunge l’aspetto encomiastico, come il solenne e ripetuto ossequio agli Estensi, e il compiacimento per le discussioni morali, politiche e strategiche proprio della trattatistica dell’epoca. Analogamente, le orazioni e i discorsi sono costruiti seguendo precisi schemi retorici di sostenuta eleganza. Tuttavia, non di rado lo sforzo compiuto dal Tasso per ordinare la sua materia narrativa entro schemi teorici e poetici perfettamente organizzati determina mancanza di pathos o di scorrevolezza. La vera poesia della Liberata scatta allorché inconsciamente l’autore si libera delle costrizioni impostegli dall’apparato esterno e rifiuta le regole accademiche e i rituali cortigiani. Egli si discosta allora dal soggetto e dallo scopo che si è prefissi e 7 lascia parlare il suo ricco e inquieto mondo interiore, nel quale l’impulso che lo induce a disciplinare e soffocare le passioni è in costante opposizione con la libertà del suo spirito. Nasce così un inestricabile intreccio di motivi eterogenei e complessi, che convergono e interagiscono nel poema, manifestandosi in un ansioso e ininterrotto fluire di sentimenti contrastanti, e che ha le sue radici in quello che Lanfranco Caretti definisce il “bifrontismo” tassiano. Il termine sta ad indicare quella profonda ambivalenza interiore che è prima di tutto una caratteristica psicologica e spirituale della personalità del poeta, ma che trova un fertile terreno di sviluppo nella crisi storica e culturale del suo tempo, della quale egli è insieme espressione e sintesi. Lo scontro tra i limiti che l’autore stesso si è posto e le passioni che continuano tuttavia a palpitare dentro di lui determina una delle caratteristiche più evidenti del poema, la sensualità, che talora sfocia in vera e propria morbosità e nel compiacimento per situazioni torbide. I tanti amori vagheggiati e non corrisposti, costruiti come in una catena alla quale manca l’anello di chiusura, testimoniano l’angosciosa consapevolezza che è impossibile raggiungere l’appagamento dei propri desideri e, più ancora, ne denunciano la sostanziale vanità. Erminia ama non ricambiata Tancredi, che a sua volta ama Clorinda; Rinaldo ama Armida per un incantesimo, ma quando vi si sottrae, è Armida che s’innamora di lui (e poco importa sapere che forse alla fine Rinaldo la ricambierà). Inoltre, un ambiguo rapporto unisce l’amore e la morte; una tragica ironia vuole, ad esempio, che Olindo, innamorato di Sofronia, si trovi unito a lei solo quando Aladino li fa legare schiena contro schiena al palo del rogo, o che proprio la mano dell’ignaro Tancredi immerga la spada nel seno dell’amata Clorinda. L’intrinseca instabilità dello spirito tassiano determina la frantumazione d’ogni certezza e incrina l’immagine fiduciosa di un mondo dove sia possibile segnare, con una linea netta e decisa, la divisione tra il Bene e il Male, insinuandovi la coscienza accorata che nella vita umana tutto è multiforme, contraddittorio e relativo. Un esempio chiarissimo si ha nell’episodio della battaglia finale. Si è detto che la figura di Goffredo regge le fila del poema, poiché incarna la “giusta causa” dando senso e valore morale alla guerra; ma proprio quando quel senso e quel valore sembrano realizzarsi pienamente, il Tasso ne rovescia la prospettiva. Nel furore della battaglia, tra l’incalzare degli eserciti e i suoni cupi dei duelli, Solimano, il glorioso re turco, sale in cima alla torre di Davide e da lontano, attonito, stupefatto, “mirò, quasi in teatro od in agone / l’aspra tragedia de lo stato umano: / i vari assalti e ’l fero orror di morte, / e i gran giochi del caso e de la sorte”. La giustizia della guerra santa scompare, resta l’immagine della vita umana che appare come un angoscioso mistero al quale non si trova risposta; il dominatore dell’esistenza torna ad essere, come per l’Ariosto, il caso. Ma il Tasso non vi guarda col sorridente distacco della saggezza ariostesca e ne vede soltanto gli oscuri “gran giochi”, che lo rendono una potenza cupa e minacciosa. Il tema conduttore della Gerusalemme liberata è il sentimento della caducità che incombe su tutte le cose, dell’implacabile destino di morte che attende ogni uomo. Il Tasso sente con partecipazione intensa il motivo della morte, e in esso riesce a concentrare le diverse passioni e a conciliarle senza forzature. L’angoscia della morte 8 non si cancella, ma la percezione acerba e lacerante della vanità dell’esistenza si stempera nella fede religiosa, il dolore acquista un senso, la vita umana uno scopo. Ne è un esempio la morte di Clorinda, annunciata da versi solenni e rivelatori (“Ma ecco omai l’ora fatale è giunta, / che ’l viver di Clorinda al suo fin deve”). La morte spezza una vita giovane e fiera e interrompe bruscamente ogni sogno e illusione, ma segna anche il passaggio ad uno stato di sublime quiete: “passa [muore] la bella donna, e par che dorma”. Nella contemplazione stupita e commossa dell’ora “fatale” la poesia del Tasso raggiunge le sue vette più alte e suggestive. Non di rado, infine, riaffiora nella Gerusalemme la vena elegiaca e idillica, già espressa nell’Aminta, con il sogno fuggevole di una società semplice e incontaminata, come nel celebre episodio di Erminia che trova conforto e alimento al suo sogno d’amore tra i pastori, nella pace della natura e nell’armonia del paesaggio accogliente e sereno. E il paesaggio non è mai un semplice sfondo o una cornice; al contrario, scandisce le variazioni tematiche ed ha sempre una funzione essenziale al racconto, in perfetta coerenza con la psicologia e lo stato d’animo dei personaggi; spesso deserto e immerso in un assoluto silenzio, sottolinea la solitudine interiore o favorisce il raccoglimento; talora la sua calma fa da contrasto al fragore delle battaglie e sembra riflettere l’anelito alla pace, che subentra al desiderio di gloria; talvolta è spazzato dal vento e dalla bufera e appare come una manifestazione di potenza sovrumana, che rende ineluttabile la sorte dei protagonisti. 9