Comunicato_stampa_Sale_Marasino

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POMPEO GHITTI
AL MUSEO DIOCESANO
quattro tele restaurate
da Sale Marasino
Quattro dipinti, raffiguranti San Giovanni Evangelista, San Sebastiano, Santa Caterina
d'Alessandria e Santa Lucia, sono stati recentemente restaurati da Renato e Ivana
Giangualano. Provengono dalla sagrestia della Parrocchiale di San Zenone a Sale
Marasino e sono stati dipinti dal maronese Pompeo Ghitti (1631-1703),
probabilmente su commissione da Antonio Ghitti, fratello minore dell'artista e
arciprete di Sale dal 1660 al 1699.
Le tele rimarranno esposte al Museo Diocesano dal 13 febbraio al 5 marzo 2015.
Durante il periodo dell'esposizione è prevista una tavola rotonda sull'artista e la sua
attività a Sale Marasino, giovedì 26 febbraio alle ore 18, presso il Museo Diocesano.
Interverranno Fiorella Frisoni, Angelo Loda, Renato e Ivana Giangualano.
Brescia, Museo Diocesano
13 febbraio – 5 marzo 2015
Pompeo Ghitti a Sale Marasino
Angelo Loda
Se la produzione pittorica di Pompeo Ghitti è sostanzialmente sparsa per tutto il
territorio di Brescia e provincia, per tacere delle sue opere presenti in Valtellina, nella
Bergamasca e nel Trentino, un notevole gruppo di suoi dipinti è concentrato nella
parrocchiale di San Zenone a Sale Marasino e questo in quanto arciprete di Sale fu
dal 1660 fino al 1699 Antonio Ghitti, fratello minore dell’artista. Fu lui, con ogni
probabilità, a commissionare al pittore, ormai residente a Brescia ma sempre assai
legato alla famiglia d’origine e molto attivo per varie chiese della zona iseana, sia la
bellissima pala dell’altar maggiore con la Madonna col Bambino e i santi Zenone, Pietro e
Paolo, Antonio abate, Giacomo apostolo e Rocco, oggi compresa in una fastosissima
ancona boscaina, che l’Apparizione della Sacra famiglia a sant’Antonio da Padova, al terzo
altare del lato sinistro e l’Angelo custode, sovrastante la porta d’accesso in sagrestia.
Altre sei tele, conservate in sagrestia, le quattro qui presentate oggetto di restauro e
due palette con Cristo portacroce fra i santi Ignazio di Loyola e Francesco Saverio e San
Filippo Neri e Francesco Borgia o Francesco Regis (?) col Bambin Gesù, sono
indubbiamente ascrivibili al pittore, nato a Marone nel 1633.
Se è presumibile che i due dipinti raffiguranti santi gesuitici siano confluiti in
sagrestia da qualche complesso gesuita, e non siano quindi da collegarsi
direttamente con le vicende della parrocchiale di Sale, anche se va ricordata nel
Settecento la figura dell’attivissimo don Ignazio Zirotti, forse un gesuita, vero e
proprio motore del rimodernamento artistico della parrocchiale e che fece anche
costruire una piccola chiesa intitolata in origine proprio al fondatore della Società di
Gesù, è probabile che le quattro tele ad andamento verticale raffiguranti i santi
Sebastiano, Giovanni Evangelista, Lucia e Caterina d’Alessandria facessero
originariamente parte della decorazione di qualche altare poi rimaneggiato nei lavori
settecenteschi di ristrutturazione dell’edificio.
Secondo quanto ricostruito dalla critica recente il primo dipinto eseguito dal Ghitti, e
già correttamente assegnatogli da Stefano Fenaroli nella seconda metà
dell’Ottocento, fu la pala dell’altare dedicato a sant’Antonio e a san Giuseppe,
databile grossomodo alla fine degli anni sessanta e per la quale sono stati individuati
anche alcuni disegni preparatori, fra i tantissimi fogli oggi noti ascrivibili al Ghitti; di
qualche anno successiva è la rutilante pala dell’altar maggiore, densa di richiami alla
pittura lombarda cinque-seicentesca e che venne scorrettamente ricondotta a Palma il
Giovane e a Francesco Giugno, mentre va letta come uno dei lavori meglio riusciti
del prolifico maestro bresciano, ricca di cromie brillanti e con un impianto
compositivo di grande respiro, su due registri sovrapposti, coronati da una cortina di
tende svolazzante retta da putti.
Le due telette “gesuitiche” ed il dipinto con l’Angelo custode dovrebbero porsi in
prossimità della pala dell’altar maggiore anche se la loro composizione alquanto
semplificata e standardizzata impedisce di fornire un’indicazione cronologica più
precisa, pur rimarcando che la loro indubbia tenuta stilistica è ancora lontana dalla
condotta pittorica più debole, rilevabile nelle opere dell’ultimo periodo di attività del
Ghitti.
Quanto infine alle quattro tele restaurate da Renato ed Ivana Giangualano, ascrivibili
con certezza alla mano del Ghitti, anche se soltanto in tempi recenti a lui ricondotte,
in primis da Fiorella Frisoni e da don Ivo Panteghini nel corso dell’inventariazione
dei beni mobili della Diocesi di Brescia, in quanto il loro precario stato conservativo
aveva fatto in modo di non renderle appetibili agli studiosi, il solo Paolo Guerrini
aveva reso noto il San Sebastiano come “ignoto del secolo XVII”, esse rappresentano
un tipico esempio dello stile maturo dell’artista. I quattro santi occupano quasi
completamente lo spazio della tela in pose articolate e sinuose, tipicamente tardobarocche, ognuno accompagnato da un angioletto in volo, per accentuare il clima
devoto e pietistico della raffigurazione, così fortemente segnato dalle accentuazioni
dolenti e sognanti dei visi.
Nelle tele si possono ben individuare facilmente le componenti stilistiche che
sottendono in pratica tutta la produzione dell’artista maronese: se le due sante,
avvolte entro ampie e preziose vesti, Lucia riconoscibile dallo spillone con gli occhi
infilzati, Caterina d’Alessandria, dalla lunga spada e dalla ruota spezzata,
rimandano a quella cultura milanese fra Zoppo, Procaccini, Storer e Nuvolone, cui
Ghitti trasse più di uno spunto durante il suo alunnato giovanile, il San Sebastiano
pare rimeditare in senso barocco e teatrale lo schema dell’analoga e celebre figura
compresa nel Polittico Averoldi di Tiziano in San Nazaro e Celso, a conferma di una
ripresa di quella cultura cinquecentesca, veneta e bresciana, che Ghitti spesso assorbe
in maniera più o meno velata in tante sue composizioni.
Quanto al San Giovanni Evangelista, del quale va evidenziato il curioso particolare
dell’aquila, suo attributo identificativo, in basso a sinistra che regge nel becco il
calamaio in cui il santo intinge la penna per scrivere, va rimarcato come alcuni anni
fa Anna Castellari in una tesi dedicata al pittore, osservò che nel salone della
canonica di Berzo Inferiore fosse presente una copia, piuttosto scadente, di formato
orizzontale con la figura tagliata a mezzo busto, da assegnare decisamente alla
bottega dell’artista.
L’avvenuto restauro ha consentito di rendere pienamente fruibili nelle loro tonalità
accese e fortemente contrastate, grazie a passaggi chiaroscurali profondi e risentiti,
una serie di opere dal palese impianto pietistico devozionale, tipiche di quel
particolare afflato tardo-barocco di fine Seicento, in cui la teatralizzazione del
sentimento religioso innervava la raffigurazione dei santi, accentuandone le
caratteristiche melodrammatiche in una sorta di recitativo trasognato e a suo modo
un po’ incantato.
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