Pompeo Ghitti a Sale Marasino

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Pompeo Ghitti a Sale Marasino
Angelo Loda
Se la produzione pittorica di Pompeo Ghitti è sostanzialmente sparsa per tutto il territorio di Brescia
e provincia, per tacere delle sue opere presenti in Valtellina, nella Bergamasca e nel Trentino, un
notevole gruppo di suoi dipinti è concentrato nella parrocchiale di San Zenone a Sale Marasino e
questo in quanto arciprete di Sale fu dal 1660 fino al 1699 Antonio Ghitti, fratello minore
dell’artista. Fu lui, con ogni probabilità, a commissionare al pittore, ormai residente a Brescia ma
sempre assai legato alla famiglia d’origine e molto attivo per varie chiese della zona iseana, sia la
bellissima pala dell’altar maggiore con la Madonna col Bambino e i santi Zenone, Pietro e Paolo,
Antonio abate, Giacomo apostolo e Rocco, oggi compresa in una fastosissima ancona boscaina, che
l’Apparizione della Sacra famiglia a sant’Antonio da Padova, al terzo altare del lato sinistro e
l’Angelo custode, sovrastante la porta d’accesso in sagrestia. Altre sei tele, conservate in sagrestia,
le quattro qui presentate oggetto di restauro e due palette con Cristo portacroce fra i santi Ignazio
di Loyola e Francesco Saverio e San Filippo Neri e Francesco Borgia o Francesco Regis (?) col
Bambin Gesù, sono indubbiamente ascrivibili al pittore, nato a Marone nel 1633.
Se è presumibile che i due dipinti raffiguranti santi gesuitici siano confluiti in sagrestia da qualche
complesso gesuita, e non siano quindi da collegarsi direttamente con le vicende della parrocchiale
di Sale, anche se va ricordata nel Settecento la figura dell’attivissimo don Ignazio Zirotti, forse un
gesuita, vero e proprio motore del rimodernamento artistico della parrocchiale e che fece anche
costruire una piccola chiesa intitolata in origine proprio al fondatore della Società di Gesù, è
probabile che le quattro tele ad andamento verticale raffiguranti i santi Sebastiano, Giovanni
Evangelista, Lucia e Caterina d’Alessandria facessero originariamente parte della decorazione di
qualche altare poi rimaneggiato nei lavori settecenteschi di ristrutturazione dell’edificio.
Secondo quanto ricostruito dalla critica recente il primo dipinto eseguito dal Ghitti, e già
correttamente assegnatogli da Stefano Fenaroli nella seconda metà dell’Ottocento, fu la pala
dell’altare dedicato a sant’Antonio e a san Giuseppe, databile grossomodo alla fine degli anni
sessanta e per la quale sono stati individuati anche alcuni disegni preparatori, fra i tantissimi fogli
oggi noti ascrivibili al Ghitti; di qualche anno successiva è la rutilante pala dell’altar maggiore,
densa di richiami alla pittura lombarda cinque-seicentesca e che venne scorrettamente ricondotta a
Palma il Giovane e a Francesco Giugno, mentre va letta come uno dei lavori meglio riusciti del
prolifico maestro bresciano, ricca di cromie brillanti e con un impianto compositivo di grande
respiro, su due registri sovrapposti, coronati da una cortina di tende svolazzante retta da putti.
Le due telette “gesuitiche” ed il dipinto con l’Angelo custode dovrebbero porsi in prossimità della
pala dell’altar maggiore anche se la loro composizione alquanto semplificata e standardizzata
impedisce di fornire un’indicazione cronologica più precisa, pur rimarcando che la loro indubbia
tenuta stilistica è ancora lontana dalla condotta pittorica più debole, rilevabile nelle opere
dell’ultimo periodo di attività del Ghitti.
Quanto infine alle quattro tele restaurate da Renato ed Ivana Giangualano, ascrivibili con certezza
alla mano del Ghitti, anche se soltanto in tempi recenti a lui ricondotte, in primis da Fiorella Frisoni
e da don Ivo Panteghini nel corso dell’inventariazione dei beni mobili della Diocesi di Brescia, in
quanto il loro precario stato conservativo aveva fatto in modo di non renderle appetibili agli
studiosi, il solo Paolo Guerrini aveva reso noto il San Sebastiano come “ignoto del secolo XVII”,
esse rappresentano un tipico esempio dello stile maturo dell’artista. I quattro santi occupano quasi
completamente lo spazio della tela in pose articolate e sinuose, tipicamente tardo-barocche, ognuno
accompagnato da un angioletto in volo, per accentuare il clima devoto e pietistico della
raffigurazione, così fortemente segnato dalle accentuazioni dolenti e sognanti dei visi.
Nelle tele si possono ben individuare facilmente le componenti stilistiche che sottendono in pratica
tutta la produzione dell’artista maronese: se le due sante, avvolte entro ampie e preziose vesti, Lucia
riconoscibile dallo spillone con gli occhi infilzati, Caterina d’Alessandria, dalla lunga spada e dalla
ruota spezzata, rimandano a quella cultura milanese fra Zoppo, Procaccini, Storer e Nuvolone, cui
Ghitti trasse più di uno spunto durante il suo alunnato giovanile, il San Sebastiano pare rimeditare
in senso barocco e teatrale lo schema dell’analoga e celebre figura compresa nel Polittico Averoldi
di Tiziano in San Nazaro e Celso, a conferma di una ripresa di quella cultura cinquecentesca, veneta
e bresciana, che Ghitti spesso assorbe in maniera più o meno velata in tante sue composizioni.
Quanto al San Giovanni Evangelista, del quale va evidenziato il curioso particolare dell’aquila, suo
attributo identificativo, in basso a sinistra che regge nel becco il calamaio in cui il santo intinge la
penna per scrivere, va rimarcato come alcuni anni fa Anna Castellari in una tesi dedicata al pittore,
osservò che nel salone della canonica di Berzo Inferiore fosse presente una copia, piuttosto
scadente, di formato orizzontale con la figura tagliata a mezzo busto, da assegnare decisamente alla
bottega dell’artista.
L’avvenuto restauro ha consentito di rendere pienamente fruibili nelle loro tonalità accese e
fortemente contrastate, grazie a passaggi chiaroscurali profondi e risentiti, una serie di opere dal
palese impianto pietistico devozionale, tipiche di quel particolare afflato tardo-barocco di fine
Seicento, in cui la teatralizzazione del sentimento religioso innervava la raffigurazione dei santi,
accentuandone le caratteristiche melodrammatiche in una sorta di recitativo trasognato e a suo
modo un po’ incantato.
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