Germi di speranza nel cammino della Chiesa italiana Nella sua esortazione apostolica Ecclesia in Europa Giovanni Paolo II ha scritto che le Chiese d’Europa sono oggi «spesso tentate da un offuscamento della speranza» (n. 7). Esse sembrano risentire del clima di sfiducia e di smarrimento che, sul piano culturale e sociale, caratterizza l’attuale stagione storica delle nazioni europee e una cui spia emblematicamente radicale può essere vista nel basso tasso di natalità. Le società europee sembrano aver perso fiducia in un loro futuro. E le Chiese sembrano avere perso fiducia nella capacità dell’annuncio del Vangelo di farsi accogliere dagli uomini e, nello stesso tempo e conseguentemente, non essere in grado di stimolare o sostenere e alimentare o accompagnare la stessa speranza umana in un futuro buono per le nostre società pur – per tanti versi e relativamente ad altri continenti – così bene organizzate, ricche e potenti. Partecipa la Chiesa italiana di questo «offuscamento della speranza»? Oppure essa in qualche modo si sottrae alla tentazione che sembra propria di altre Chiese europee? Il fatto che essa abbia scelto per il suo convegno a Verona un tema che parla di speranza significa che essa, comunque, avverte l’esigenza di essere testimone di speranza nell’Italia del nostro tempo e se avverte quest’esigenza, significa anche che essa sente di custodire questa speranza, di doverla sempre più vivere, affinché alimenti il suo stesso cammino e la faccia capace di alimentare il cammino di tutti. «Dedicarsi ai frammenti positivi di vita», dice la Traccia di riflessione in preparazione al convegno, suggerendo il compito della Chiesa per la vita della nazione. Si tratta di scorgere, a partire dalla Chiesa stessa, quei piccoli e iniziali segni – i germi – che ci confortino della sua capacità di attingere dal suo Signore la speranza che non delude, di dire le ragioni della speranza che riceve come dono. Segni che dicono e promettono una realtà più grande e non affermano compimenti esaustivi. Il primo di questi germi mi sembra possa essere indicato proprio in quel cammino che la Chiesa italiana va compiendo da decenni ed anzi da secoli, sempre riprendendolo e mai interrompendolo, sempre nuovamente iniziandolo e mai cessandolo, quel cammino teso a superare la distanza tra la coscienza credente e le forme della vita moderna (ed anche postmoderna), quel cammino tenacemente continuato per dire il Vangelo e trasmettere la fede «in un mondo che cambia », secondo il titolo del documento programmatico che la Chiesa italiana si è data per il decennio in corso, quel cammino che non nasconde, perfino, l’ambizione – umile ma ferma, perché vissuta non come un progetto proprio di influenza sul mondo ma come ubbidienza al Signore risorto – di fermentare con il Vangelo le forme della cultura del nostro tempo. Proprio la tenacia di questo cammino dice come la Chiesa italiana non sia affatto priva di slancio missionario, non sia per niente rassegnata a una marginalità che significhi rinuncia al compito assegnatole dal Signore, non abbia smarrito la consapevolezza di potere e dovere portare un messaggio originale e di cui gli uomini, ancora oggi, non possono fare a meno. Un secondo germe di speranza mi pare di scorgerlo in quel carattere popolare del cattolicesimo italiano che potrebbe sembrare costituire un peso per il compito di annuncio del Vangelo proprio della Chiesa e, invece, è per essa una chance missionaria di straordinaria portata. In ogni caso è una sfida che, se assunta, come mi pare sia stata assunta con sempre maggiore consapevolezza, significa la prospettiva per la Chiesa italiana di diventare o ridiventare per tanti luogo effettivo di ricerca e di offerta di senso e di autentica speranza e, in tal modo, radicare davvero nel Paese un diffuso genuino senso di Dio. Non rinunciare alla sua connotazione popolare, superando ogni latente e facile tentazione di perfettismo spirituale e organizzativo, acquista per la Chiesa il significato di continuare ad alimentare la speranza dei poveri, cioè di quanti, in diversità di modi, hanno fame e sete di giustizia. Certo, questa prospettiva significa per la Chiesa italiana aprire la parrocchia a tutti, farla diventare casa dove ognuno possa dare e ricevere quella «testimonianza (che) si fa racconto della speranza vissuta », secondo le parole della Traccia per Verona, facendole superare il rischio di esaurirsi nell’offerta di servizi culturali o anche di presentarsi esclusivamente come luogo di impegno variamente coniugato. Ma mi pare che la Chiesa italiana, avendo messo recentemente a tema il rinnovamento della parrocchia, abbia ben presente il senso della sfida che per essa rappresenta l’accettare responsabilmente la connotazione popolare della sua tradizione. Un terzo germe di speranza scorgo nel cammino attuale della Chiesa italiana: da un lato, l’assenza di forti contrapposizioni al suo interno in un clima di sostanziale dialogo e rispettoso incontro tra le sue varie componenti ed esperienze e, dall’altro, una diffusa riscoperta della preghiera e una sincera ricerca di Dio che attraversano le Chiese diocesane e i gruppi e i movimenti ecclesiali. Pare a me che questi elementi, proprio in vista della celebrazione del convegno di Verona e, prima ancora, per l’esercizio di quel compito di testimonianza della speranza che la Chiesa italiana vede come urgente, vadano evidenziati e valorizzati e, laddove necessario, incoraggiati e sostenuti. Un ultimo germe di speranza nel cammino della Chiesa italiana possiamo coglierlo proprio in quel suo deciso calarsi nella «società della comunicazione» particolarmente nell’ultimo decennio, anche in applicazione delle intuizioni maturate nel convegno ecclesiale di Palermo. C’è stato indubbiamente negli anni scorsi un coraggioso confrontarsi della Chiesa con la sfida della comunicazione misurandosi – come ha affermato il card. Ruini in varie circostanze, particolarmente nelle sue prolusioni al convegno del novembre 2002 Parabole mediatiche e nell’incontro nazionale dei referenti del Progetto culturale del marzo 2004 Nel cantiere del Progetto culturale – con le modalità di «fare cultura nel nostro tempo secondo i ritmi, le regole della comunicazione ». Un frutto significativo di questo percorso può considerarsi la pubblicazione del direttorio sulle comunicazioni sociali nella missione della Chiesa Comunicazione e missione. Tanto è stato fatto in questi ultimi anni soprattutto nella linea di un crescente coinvolgimento delle comunità ecclesiali e di gruppi e persone capaci di investimento culturale nella consapevolezza, appunto, di doversi misurare con quelle forme della cultura complessa e spesso frantumata del nostro tempo che nascono dal sistema mediatico e si alimentano delle sue influenze sempre più pervasive. Misurarsi con queste forme della cultura ma anche o, forse più propriamente, assumerle, abitarle, viverle. Per questo una seconda linea che mi sembra abbia caratterizzato opportunamente e tenda a caratterizzare maggiormente la sensibilità della Chiesa italiana in proposito è la formazione di nuove figure come l’animatore della comunicazione e della cultura che sappiano farsi carico della promozione e cura di nuove iniziative in particolare nel campo dei media. E una terza e importante linea è quella della ricerca del dialogo e del confronto che l’uso dei media e la presenza in essi permette alla Chiesa italiana di intrattenere e incrementare con le diverse componenti culturali della vita della nazione. Tanto, dunque, è stato fatto. Ma anche questo tanto è un germe, una promessa di futuro, chiede di essere continuato, di potersi sviluppare. Cataldo Naro Arcivescovo di Monreale