Incontro di studi delle Acli

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Incontro di studi delle Acli
Orvieto, 6-8 settembre 2007
I luoghi dell’abitare
Incontri, conflitti…
Grammatiche del con-vivere
Antropologia dell’abitare*
FRANCO LA CECLA
Università di Venezia Iuav
È un po’ complicato parlare di città, perché dietro le città, dietro la loro dimensione
materiale, c’è gran parte dell’apparato simbolico in cui viviamo. Se pensiamo alla storia di Babele
(citata da fr. Fallica, ndr), letta con gli occhi di oggi, sembra la condanna che Al Quaeda fa delle
Due Torri gemelle. Molti lo hanno letto come un attentato contro la protervia di una città che eleva
dei luoghi che simboleggiano il desiderio di “arrivare al cielo”. Il grattacielo, in effetti, ha molto ha
che fare con l’immaginario di Babele. Mi sembra innegabile. Una persona colta come Bin Laden ha
certamente presente l’immagine della Torre di Babele. Anche nel Corano c’è una condanna della
città (come pure del nomadismo, peraltro): la città, politeista, è il luogo dove si nega Dio. In tutti i
libri sacri peraltro la città è un luogo “rischioso”. Noi veniamo fuori da una cultura giudaicocristiano (o anche giudaico-islamico-cristiana) in cui la città non ha una buona fama, in cui la città è
in qualche modo sempre legata alla superbia umana, alla ubris, che poi si condanna da sola ed è
destinata al crollo.
Sono impressionato da come la simbologia legata alle città sia diventata sempre più
primitiva, con una simbolizzazione degli spazi ridotta ormai a ben poche cose. Quando hanno
chiesto a Libeskind di riprogettare le Due Torri, lui non ha fatto altro che applicare quanto aveva
pensato per il museo sull’Olocausto di Berlino: cioè, ha espresso quel dolore immenso con due
punte, simbolizzazione del ferire. Questo processo avviene sin dai tempi in cui si scriveva la Bibbia.
Noi non siamo la sola cultura che dà un peso così grosso allo spazio. Il fondatore
dell’antropologia contemporanea, Levi-Strauss, raccontava di questi indigeni dell’Amazzonia, i
bororo, che avevano un villaggio costruito con tutte le case messe in circolo intorno ad una casa
comune centrale, pensata per gli uomini. Un villaggio di 2 mila persone e non di più, in cui però era
racchiusa tutta la simbologia dei bororo: essi sapevano, dentro questo cerchio, di non potersi
imparentare con quelli di fronte ma soltanto con quelli alla loro sinistra; che non potevano fare
alleanze di caccia o di guerra con quelli alla loro destra ma soltanto con quelli di fronte; e dentro la
“forma” del villaggio c’era tutta la cosmologia, i miti di fondazione, il ruolo delle donne… Quando
arrivano i missionari, capiscono che i bororo così non sono evangelizzabili; decidono allora di farsi
dare una mano dall’esercito brasiliano che costrinse i bororo a costruire e vivere in linee parallele: i
bororo in 10 anni perdono completamente la cultura, l’orizzonte cosmologico che veniva riflesso
dal loro assetto spaziale, dal loro modo di essere in un posto.
Capite, quindi, che quando si gioca con lo spazio, si fa un gioco pesante, perché la propria
componente simbolica è esposta nello spazio, ed è lì che ci riconosciamo.
Sono di ritorno da un viaggio in Russia. Ho visitato San Pietroburgo: San Pietroburgo nasce
da una cosmologia, nasce da un grandissimo sogno di simbolizzazione del potere, in un mondo
cristiano e molto più legato all’Europa di quanto non sia la Russia profonda. Pietro il Grande decise
di fare una città che raccontasse come avrebbe dovuto essere fatta la Russia del futuro. E fece una
città che assomiglia a Venezia, fatta da architetti italiani, perché ricordi l’Europa e non la Russia
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tradizionale; e fa una città in cui si inventa uno stile classico, legato al Rinascimento italiano.
Questa tendenza è talmente forte che diventa il simbolo del potere, del fare città, fino almeno ai
primi del Novecento.
Sapete che la storia di Babele si trova in 18 differenti miti di fondazione? Lo trovate nello
zoroastranesimo, nelle civiltà del centro Asia, ovunque… Perché?
Perché Babele dice una cosa: serve a ricordare che le città le fanno gli uomini. Nel Genesi,
Dio non fa la città. Perché? Non c’è nessun motivo per cui Dio non possa fare anche la città. Dio fa
il mondo, e perché non crea le città? Non c’è una risposta, se non nel mito di Babele che dichiara
che la città è un affare degli uomini, tanto che per essa gli uomini possono perdere la testa. Però,
fatto sta, che appunto quello che fa Caino è una città. L’autonomia di Caino si esprime in qualcosa
che Dio non può (o non vuole) fare.
Le città le facciamo noi. E in questi duemila anni lo abbiamo dimenticato e abbiamo fatto
diventare le città dei testi sacri. Sono cioè diventate un po’ tutte come delle “città di dio”, in cui la
società è costretta a far certe cose; come se fossero dei luoghi che preesistono agli uomini, che gli
uomini non fanno. Ma questo è davvero strano, perché in tutte le culture è molto chiaro che le città
sono “di fondazione”, cioè qualcuno ha deciso di farle.
Ho avuto recentemente una forte polemica su Il Sole 24 Ore con i miei avversari privilegiati
che sono gli architetti, che io detesto, essendo proprio un architetto. La polemica entrava nel
dibattito sulle banlieus parigine. Questi personaggi magnifici, sorridenti che sono gli architetti
sostengono di non aver nessuna colpa per l’esistenza delle periferie. Cioè le periferie esistono, le
città sono così e gli architetti al massimo possono provare a renderle più vivibili.
Ora, se uno ha studiato architettura sa che le periferie sono un’invenzione, nata a cavallo
delle due guerre mondiali, sperimentata moltissimo nell’Unione sovietica e poi ripresa dai francesi e
da loro diffusa in tutta Europa. E sono un’invenzione degli architetti, nella convinzione che la città
come centro storico non servisse più a nulla. Gli architetti sono talmente furbi che fanno finta che la
periferia l’ha fatta Dio.
Dico questo per sostenere che non si può parlare di antropologia dell’abitare, se non si
riafferma il fatto che l’abitare è un’attività umana. Cioè l’abitare non è occupare i luoghi costruiti da
altri o da Dio. Abitare è un verbo, cioè l’abitare è qualcosa che la gente “fa”. E lo può fare in tanti
modi.
L’abitare è una facoltà umana come il parlare: la gente può balbettare o essere muta ma ciò
non toglie l’esistenza della facoltà di parlare. Si acquisisce da bambini, e la si esercita vivendo,
sviluppandola. Noi viviamo in un mondo che ci vuole tutti balbuzienti, cioè pretende che i luoghi
che viviamo non possiamo più farli noi.
Al punto tale che oggi il grande dibattito italiano, europeo e non solo, è il dibattito sulla
sicurezza. Come se il problema dell’abitare, fosse il problema del: “Per favore, non fate sporco”.
“Abitate sì, ma la città non è vostra”. La città è dei sindaci, delle amministrazioni, della polizia,
delle organizzazioni ma non è dei cittadini. Non sono i cittadini ad abitarla, ma semplicemente la
occupano…
Guardatevi le foto degli anni ’30 delle nostre città italiane: erano piene di gente, erano città
di persone. L’Italia oggi è diventata una scheletro di presenze, ha ucciso i luoghi abitati. Non a caso
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l’Italia ha fatto l’automobile. L’Italia ha deciso di distruggere il proprio patrimonio di città italiane
perché sono le automobili italiane che devono abitare l’Italia. Le automobili italiane sono
accompagnate da regolamenti polizia: le automobili sono più protette di quanto non lo siano i
cittadini. Che non hanno diritto ad occupare le strade! Se 40 cittadini stanno in una strada a parlare
e a bere un bicchiere di vino, sono punibili, intralciano il traffico.
Questo è tutto quello che abbiamo perso. Pur essendo l’Italia il Paese che ha elaborato il più
grande progetto di cultura urbana e lo ha esportato in tutto il mondo per 500 anni… E oggi, cosa
abbiamo? Le città piccole sono ridotte a luoghi invivibili, perché le città per essere belle devono
essere abitate, luoghi in cui ci sono tutte le componenti della società. La grande tragedia di tutta
l’Europa è che non riusciamo più a ri-affollare le città. E l’unica possibilità che abbiamo per riaffollarle è decidere che esse non appartengono alle automobili e alla polizia, ma a chi le occupa, a
chi le abita.
Quello che sappiamo è che gli unici che ci aiutano ad abitare un po’ le città sono gli
immigrati. Gli unici che vivono la città come luogo. Questo perché la prima risorsa dell’immigrato
è proprio la città, i suoi spazi. Via Paolo Sarpi a Milano è “scomoda” perché “questi qua” si
permettono di essere folla, di usare Via Paolo Sarpi come luogo affollato. Nelle strade di Milano si
faceva tutto fino a 70 anni fa: si tagliavano i capelli, si mandavano i bambini a giocare, si faceva
tutto ciò che è vita.
Vorrei lanciare un concorso a premi per sapere quanti bambini vedete circolare durante il
giorno a Firenze o a Bologna: non ne vedete uno solo!
Cioè il vero pericolo nelle città non sono i lavavetri, sono i bambini! Bisogna che non ci
siano: perché ostruiscono i marciapiedi, le strade… sono pericolosi! Così come sono pericolosi i
giovani… Guardate che sotto al dibattito sulla sicurezza non ci sono gli immigrati, ma i giovani,
considerati il vero pericolo in Europa. Noi non vogliamo che i giovani utilizzino le città come non
vanno utilizzate: non vogliamo “casino”, non vogliamo che stiano di strada né tanto meno che lo
facciano di notte.
Barcellona, dove vivo, che fa 50 milioni di turisti all’anno (Venezia ne fa 20 milioni), vive
di turismo giovanile: è la capitale mondiale dei giovani. Ora, il sindaco sente che questi danno
fastidio e ha triplicato la polizia, perché da un verso li vuole “spremere”, dall’altro non sa come
tenerli a bada: non sono lavoratori, impiegati… Schizofrenia più totale (la stessa di Cofferati e
Cacciari): come si fa ad avere una città viva se non si hanno i giovani? E come si fa a pensare che la
soluzione per le città siano i regolamenti di polizia? I regolamenti di polizia sono l’ultima fase
dell’uccisione della vita delle città. Hanno chiuso i centri storici, ma ci hanno pure impedito di
sederci sui marciapiedi o di occupare i sagrati delle chiese…
Questo presuppone un’antropologia della società veramente blasfema: la società non fa
niente, da sola non si riproduce. Perché ci sia una società c’è bisogno di istituzioni,
amministrazioni, architetti, professionisti… La società da sola non ce la fa. Ma non è così! Le città
esistono perché ci sono le società. La società va per i fatti suoi, non va mai per la strada dei piani
regolatori, per esempio. Tant’è vero che le amministrazioni non li fanno più, perché non servono a
nulla, perché gli architetti e gli urbanisti non ci vanno nelle città di cui fanno i piani, e quindi non ne
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capiscono nulla. L’unico modo di fare un piano regolatore è capire dove va la città, capire le
tendenze, dove vanno gli immigrati: bisogna starci.
L’Europa e l’Italia hanno inventato la città, ma sono dei luoghi che si svuotano, il cui futuro
è il turismo (che tra l’altro è la più grande molla di democrazia degli ultimi 50 anni). Allora, per
favore, facciamo diventare il nostro Paese un paese vero, cioè un Paese dove vendiamo bene la
nostra cultura al resto del mondo: basterebbe solo questo per campare.
Poi, all’interno di questo progetto, va benissimo l’immigrazione. All’interno del centro
storico (vuoto) di Barcellona ci sono 45 mila immigrati del Bangladesh: se non ci fossero loro il
turismo sarebbe nulla. Perché soltanto gli italiani non devono imparare ad “usare” gli immigrati?
Perché dobbiamo pensare a loro solo in un’ottica di assistenza o di repressione?
Infine, le città sono l’unico luogo in cui riusciamo a scrivere i nostri simboli. Molto più dei
libri. Perché le città sono il modo in cui la gente fruisce quotidianamente di qualcosa che non è
cosciente ma che condivide. Le città sono l’unica garanzia di pacificazione dell’Europa, perché
soltanto nello spazio si riescono ad affrontare i conflitti, soltanto lo spazio consente storicamente di
affrontare le differenze.
L’Italia ha inventato il ghetto ebraico, e sembrava una cosa cattiva. Nel 1711 il rabbino di
Verona faceva il Giorno del Ringraziamento al Signore per l’esistenza del ghetto. Perché il ghetto
ha preservato la comunità ebraica per 300 anni. Dalle lettere dei saggi delle comunità ebraiche di
Modena, si capisce che il loro problema era come non far entrare i cristiani… in specie le donne che
concupivano i loro figli.
Ora il ghetto è stato in Italia l’invenzione di uno spazio di convivenza di due comunità che
non avevano quasi nulla da spartire. La grande storia del Mediterraneo parla di città non
multietniche, ma fatte di comunità abbastanza separate che avevano in comune il mercato:
Salonicco, Sarajevo, Alessandria d’Egitto erano tutte città in cui si conviveva col diverso, non
cercando di capirlo, ma cercando di viverci insieme.
Il gioco dei conflitti e della convivenza è tutto nello spazio. Noi però siamo molto poveri,
perché il nostro patrimonio simbolico legato allo spazio si è impoverito pesantemente. Una delle
cose che ci mette in crisi è che non riusciamo più ad elaborare una città, a pensare dei simboli
spaziali comuni. È imbarazzante, ma è così: alla fine vincono i grattacieli, l’unico simbolo
disponibile e immediato.
I nostri amici architetti fanno sculture inabitabili, assurde, che non danno identità. Ma danno
loro un sacco di soldi. Abbiamo il solo vantaggio di avere questo grandissimo patrimonio storico,
tutto da risignificare. Bisognerebbe veramente decidere che la vera risposta alla sicurezza è stabilire
che per un giorno alla settimana tutti stanno per strada. E che non sia la domenica. Decidiamo che i
vecchi non vanno messi negli ospizi, ma sui marciapiedi, per strada.
Bisogna ricominciare a fare un’opera selvaggia di rioccupazione delle città. L’unica
speranza è che non ci levino quel poco che ci rimane.
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L’intervento è stato sbobinato. Non è stato rivisto né approvato dall’autore.
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