Aristotele e la Pubblica Amministrazione

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Giovanni Di Saverio
Aristotele
e la
Pubblica Amministrazione
La Filosofia e il Diritto Amministrativo
Da qualunque parte si rivolge lo sguardo si fa fatica a scorgere “amore per il sapere”.
Conclusione: la Filosofia deve considerarsi oramai defunta da un pezzo! Morta e sepolta sotto
i banchi di una miriade di ragazzini disinteressati alla virtù che se ne vanno malvolentieri a
scuola ogni mattino e i quali preferiscono non dare retta ai propri pensieri, dal momento che
farlo potrebbe portarli un giorno ad avere non pochi problemi. Meglio non pensare ripete la
televisione: per quello ci sono i cavalli con la loro testa grossa! Ragazzi meglio non studiare e
continuare a sguazzare beati nell'ignoranza per evitare che il dubbio ci assalga! Limitiamoci
ad ignorare le alte vette dell'umano pensiero. Lassù a noi non sarà mai dato arrivare; lungo
tale strada si corre seriamente il rischio di naufragare e poi, in fin dei conti, la Filosofia a cosa
vuoi che ti serva mai nella vita?
Eppure filosofare è un nostro diritto! In quanto uomini abbiamo bisogno di sottostare
ad una legge razionale, che assegna a ciascuno il suo e che serbata serba la società civile. Ciò
che è giusto, o ragionevole, o conveniente, dobbiamo poter pensare sia realmente tale
altrimenti addio civiltà; addio facoltà consolidatasi nel corso di migliaia di anni e che ci
riconosce l'idoneità a poter usare un bene, a poter fare o no alcuna cosa, ottenere, disporre,
conservare, obbligare, in parole povere a spadroneggiare sull'intera natura. Se non si da il
giusto peso al pensiero non si comprendono le Leggi e le consuetudini relative alla giustizia
sociale; quel complesso di norme che regolano i rapporti tra i vari individui talmente fin nello
specifico, da apparire completamente privi di senso a chi ha voltato le spalle al proprio senno.
Tutto sarebbe certamente più facile se fosse davvero possibile porre come fondamento
ultimo delle nostre certezze ciò che chiunque può leggere scritto su di un qualsiasi
vocabolario. Spesso, però, la realtà che ci circonda e che siamo oramai troppo abituati a dare
per scontata, poggia le sue fondamenta su ben altre convinzioni: le certezze derivate da un
abuso del senso comune. Quelle che sono le nostre verità e le nostre certezze noi non siamo
più in grado di poterle mettere in discussione, poiché a tal punto esse si sono stratificate nel
nostro modo di pensare da essere elevate ad un piano di pura trascendenza. Ciò che riteniamo
essere buono o cattivo non siamo noi a stabilirlo a priori; ma dentro di noi questi concetti
cominciano a radicarsi lentamente attraverso le nostre svariate esperienze che, già da quando
si è ancora bambini, ci permettono di fare la conoscenza di quei valori che dominano la nostra
cultura. Un bambino difficilmente conoscerà il significato della parola mamma; più
probabilmente esso conoscerà solo la sua di mamma; ma con il passare degli anni quel
bambino arriverà un giorno persino a giudicare sua madre come una buona o una cattiva
genitrice, prendendo come estremi di riferimento proprio quella costellazione di valori
inerenti al bene e al male, dentro i quali è stato pasciuto.
Ma torniamo all'argomento del nostro dibattimento. Che diavolo ci azzecca Aristotele
con la Pubblica Amministrazione? O meglio: quale legame corre tra la Filosofia aristotelica e
il Diritto Amministrativo? Il cuore della questione si annida nella Logica; in quelle norme
regolative di qualunque ragionamento che aspira ad essere corretto e che, dalle pagine antiche
delle opere esoteriche di Aristotele, sono state dedotte, con certosina abilità da parte dei
giuristi, nell'ambito del Diritto. Per chiunque sia cresciuto a pane e Filosofia concetti quali
“atto”, “efficacia” o “forza giuridica”, non possono che richiamare alla mente il pensiero del
principe dei filosofi. Infatti gran parte dei modi di procedere caratteristici nei nostri
ragionamenti furono, se non direttamente da lui inventati, per lo meno da lui sistematizzati.
Considerare la Filosofia di Aristotele come un insieme di dottrine dogmatiche è
fuorviante; ogni tentativo di comprendere il suo pensiero deve evitare di trattare le sue opere
come un catalogo di conclusioni statiche; un atteggiamento del genere rischierebbe di togliere
ogni potenzialità creativa alle sue conclusioni. Proprio questo tipo di atteggiamento nei
confronti del suo pensiero ci spinge allora, oggi, ad indagare cos'è che lega le argomentazioni
di un filosofo vissuto più di duemila anni fa con la moderna disciplina del Diritto
Amministrativo. Un tentativo il nostro che, anche se si dovesse rivelare assai pretenzioso o,
addirittura, errato (come errate sono state smascherate molte delle conclusioni a cui è giunto
Aristotele specie nel campo della Fisica) non può tuttavia fare a meno di mettere in evidenza
la forza e l’acutezza di certe sue argomentazioni che, nonostante l’età, risultano ancora oggi
talmente affascinanti da aver sedotto con il loro rigore la Pubblica Amministrazione.
“Atto” e “Potenza”
C'era una volta l' Ontologia; un'interessante scienza dell'essere in quanto essere e posta
al vertice della gerarchia dello scibile. C'erano una volta uomini che per loro natura
desideravano conoscerla e tra essi uno in particolare, grande pensatore, che nel libro nono
della sua opera dedicata alla Filosofia Prima presentò passeggiando ai suoi ascoltatori una
coppia di concetti fondamentali per mezzo dei quali cercava di garantire stabilità al suo intero
sistema. Erano questi i concetti di atto e potenza. Il pensatore in questione, lo abbiamo capito,
si chiamava Aristotele il quale, peripaticamente per l'appunto andava sostenendo che, se con
il termine attività doveva essere inteso il movimento, con il termine atto bisognava, invece,
intendersi il momento finale di un processo la cui origine è la potenza.
“Quando ci troviamo ad avere a che fare con un'attività” ripeteva Aristotele ai suoi
discepoli “non dobbiamo mai dimenticare di trovarci al cospetto di un processo e del suo
necessario svolgimento che in qualche modo tende in direzione dell’atto. Quel movimento,
cioè, che ha inizio con uno stato di imperfezione e che termina con uno stato di perfezione
maggiore”.
“Maestro e quale deve considerarsi il Principio di ogni possibile mutamento?”
chiedevano i discepoli con il fiato grosso faticando a tenere il passo del loro maestro seppure
di loro molto più vecchio.
“È naturale che sarà allora la potenza il Principio di un tale mutamento che però,
attenzione! risiede necessariamente in αλλο rispetto il reale punto di arrivo del mutamento”.
“In αλλο?” chiedeva qualcuno dal fondo del gruppo.
“O che voi non sareste per caso un po' grulli!” pare abbia esclamato il maestro dopo
aver puntualizzato che αλλο doveva essere inteso come altro.
Era ad Aristotele oramai evidente che se non voleva venire frainteso dai suoi discepoli,
nonostante la chiarezza e la puntualità della lingua greca avrebbe dovuto addurre degli esempi
e così, infatti, fece. Prendendo spunto da un cantiere che si trovava lì vicino disse ai suoi
discepoli: “l’arte del costruire, che è una potenza, non sta nella casa costruita, ma in altro,
ovvero nel costruttore. La potenza, perciò, si trasferisce in altro, e se questo trasferimento
non avvenisse non potrebbe avere luogo neppure il mutamento. In natura tutti gli esseri
tendono istintivamente a realizzare, con la maggior pienezza possibile, il loro essere,
passando da uno stato imperfetto, incompleto e indeterminato, ad uno stato di perfezione e di
determinazione. Così, ad esempio, un seme tende a divenire pianta, il fiore a divenire frutto e
il bambino a divenire uomo. Questa tendenza della materia ad acquisire la forma che le si
conviene corrisponde, appunto, a quella tendenza che porta gli esseri dalla potenza all’atto,
vale a dire da uno stato virtuale ad uno reale. Tutto l’universo deve considerarsi sottoposto
alla vicenda di queste trasformazioni e pertanto è in perenne divenire, in continuo
movimento: il movimento, perciò, altro non segna che il passaggio dalla potenza all’atto”.
Più chiaro di così Aristotele non avrebbe potuto esserlo. Persino i suoi discepoli
apparivano accontentati tanto da non porre più domande. Il maestro era soddisfatto. Ma
pensare così tanto, più del camminare, lo aveva sfinito. Decise per quel giorno di non andare
oltre e di riposarsi. Grave errore! La mancanza di ulteriori puntualizzazioni riguardo tali
argomenti, soprattutto sul modo in cui si doveva intendere l'altro, avrebbe dato in futuro
avvio ad una serie di interpretazioni dei suoi concetti di atto e potenza, culminanti con le
esasperazioni della filosofia scolastica. Ma nessun greco che si rispetti avrebbe mai potuto
concepire che un giorno qualcuno si sarebbe trovato nelle condizioni di dover dare
giustificazione razionale ai ghiribizzi di un Dio creatore. Ma questa è un'altra storia e non ci
interessa. Aristotele era stato sufficientemente chiaro e se era stanco non possiamo fargliene
una colpa. Era già vecchio allora e aveva tutto il diritto di andarsi a riposare.
Il Procedimento amministrativo
Fu per Aristotele un lungo sonno ristoratore. Quando si svegliò decise di lasciare che
le angustie del suo pensiero lo assalissero solo dopo aver fatto colazione. Come un costruttore
per costruire una casa deve avere in sé la potenza di costruire, così per iniziare con il piede
giusto una nuova giornata non si può prescindere dal riempirsi lo stomaco. Decise quindi di
prepararsi una bella tagenite, sennonché bussarono alla sua porta. Andò ad aprire e a
disturbarlo era nientepopodimeno che la Pubblica Amministrazione in persona.
“Cosa posso fare per te” interrogò cordialmente il suo ospite Aristotele nonostante
fosse stato disturbato ancora a stomaco vuoto.
“Maestro ho una questione da sottoporre alla vostra sapienza” rispose la Pubblica
Amministrazione.
“Sentiamo, ma fai in fretta, stavo giusto per recarmi a fare colazione!”
“Sarò breve. Devo istituire un Procedimento di tipo amministrativo, ma non so dove
mettere le mani!”
“Mi sa che qui si salta direttamente al pranzo” bofonchiò tra i denti Aristotele “vieni
usciamo a fare due passi, qui non è cosa da poco!”
“Non avrei mai osato disturbarla se non fosse una cosa seria; ma devo emanare un
atto in nome del pubblico interesse!”
“E hai ricevuto già una legittimazione ad operare in tal senso?”
“Veramente no! Perché avrei dovuto?”
“Vedi cara” cominciò Aristotele prendendo la Pubblica Amministrazione sottobraccio
“la potenza di cui una Pubblica Amministrazione qual tu, nello specifico, sei, non risiede nel
suo potere coercitivo, bensì proprio nella sua capacità di mettere in piedi un Procedimento di
tipo amministrativo, che si concretizza nell’emanazione di un Provvedimento amministrativo,
caratterizzato dalla manifestazione di una volizione e di un’imperatività. Mi segui?”
“Fin qui si!” rispose la Pubblica Amministrazione.
“Giusto ieri sera prima di ritirarmi ho provato ad esplicare i miei concetti di atto e
potenza ai miei discepoli servendomi dell'esempio di un costruttore di case. Fa proprio al
caso tuo, stai a sentire: un costruttore ha in sé la potenza di costruire e quando la realizza
costruendo una casa la sua potenza si è trasferita in altro, ora l’altro in cui si trasferisce la
potenza di una Pubblica Amministrazione che cos'è? Te lo dico io: l'altro deve considerarsi
proprio il Procedimento Amministrativo, cioè quello che possiamo ritenere essere lo schema
principale attraverso cui si esplica l’attività amministrativa”.
“Maestro” disse a questo punto la Pubblica Amministrazione alquanto disorientata
“continua sempre a non essermi del tutto chiara quale dovrebbe essere la mia attività in
quanto Amministrazione Pubblica; ammesso che realmente ne esista una!”
“In pratica” si fece coraggio Aristotele dopo un lungo sospiro “Se con attività bisogna
intendersi lo svolgimento di un processo che dalla potenza conduce all’atto, nell’ottica del
Diritto Amministrativo questa attività potrebbe essere fatta coincidere proprio con il
Procedimento Amministrativo, vale a dire con quell’insieme di atti e operazioni preordinati
all’emanazione di un Provvedimento finale, che sarà in grado poi di produrre persino
unilateralmente la costituzione, la modificazione o l’estinzione di situazioni giuridiche,
indipendentemente dalla volontà dei destinatari. L’emanazione di questo Provvedimento
finale è infatti di norma preceduta da un insieme di atti, fatti ed attività, tutti tra di loro
connessi in quanto concorrono, nel loro complesso, all’emanazione del Provvedimento
stesso. Tali atti, fatti ed attività, caratterizzati dallo scopo comune e unitario testé richiamato,
confluiscono nel Procedimento Amministrativo.1 Infatti, solo raramente a te, in qualità di
Pubblica Amministrazione, ti verrà concesso di perseguire i tuoi fini con l’emanazione di un
singolo atto o atti isolati; dovrai sempre utilizzare, invece, di regola, una serie di atti tra loro
concatenati e coordinati, finalizzati all’emanazione di un atto finale: il Provvedimento,
espressione concreta della funzione amministrativa”.2
“Ma verso cosa mi dovrei muovere?” chiese ancora la Pubblica Amministrazione.
“Come ogni essere anche tu devi dirigerti verso ciò che è il tuo naturale compimento,
ovvero il tuo fine. La forma può, dunque, considerarsi come la causa finale dello svolgimento
di tutte le cose fuori dalle quali non esiste più nulla. É vero, infatti, che il nostro costruttore
di case non è nelle condizioni di edificare un muro, se non ha a disposizione calce e mattoni,
tuttavia questi materiali da soli non sono in grado di costituire un muro. Quello che importa
sapere al costruttore non è tanto la conoscenza delle singole proprietà dei mattoni o della
calce, quanto piuttosto quale deve essere lo scopo di quel particolare muro. Il muro, per
intenderci, è la forma, ovvero la funzione”.
1
2
E.Casetta :
Manuale di Diritto Amministrativo. Giuffré Editore VI edizione.(cap. VI, p.359)
F.Caringella, L.Delpino, F.Del Giudice : Diritto Amministrativo. Ed. Simone 2003. XX edizione
Entelechia
Al termine di quella passeggiata Aristotele riuscì a mettere finalmente qualche cosa
sotto i denti facendosi offrire il pranzo dalla Pubblica Amministrazione. Lui non aveva mai
perso di vista il telos, il fine. Sapeva che al termine dell’attività avrebbe trovato ad attenderlo
l'opera, del cibo per intenderci, e quando questa attività meritatamente fu realizzata, ecco che
lui si rese conto di trovarsi al cospetto di una entelechia, la quale indicava sia la perfezione
dell’atto che dell’opera. Possiamo perciò affermare che la sua entelechia fissa durante tutta la
lunga chiacchierata affrontata con la Pubblica Amministrazione era stata sempre e solo quella
di riempirsi lo stomaco al più presto. Essendosi, nel frattempo, fatta l'ora di andare a pranzo e
non essendo Aristotele disposto a saltarlo per nessuna ragione al mondo, condusse la sua
interlocutrice in una taberna nei dintorni del suo Liceo e in cui si mangiava divinamente.
“Dobbiamo stare attenti” riprese Aristotele dopo aver letteralmente divorato la sua
porzione “dobbiamo stare molto attenti a mantenere scissi i concetti di energheia ed
entelechia. Il primo di questi due termini si può tranquillamente tradurre in un linguaggio
giuridico con la parola attività, operazione; mentre il secondo sta ad indicare la perfezione, il
fine (perfetto) di un’operazione. Questi due concetti devono essere considerati a se stanti,
nonostante l'inganno al quale, a tal riguardo, ci sottopone il senso comune. So che è difficile
dimostrare che un costruttore possa costruire una casa senza avere almeno un’idea di quale
dovrebbe essere l’opera che deve andare a realizzare, ma l’attività produce mutamento; è un
iter che tende al raggiungimento di un fine e, quando questo fine viene raggiunto e l’attività
può dirsi compiuta, ci si trova di fronte ad una entelechia, che racchiude in sé tanto la
perfezione dell’attività, ovvero del procedimento giuridicamente parlando, che dell’opera
stessa, ovvero ciò che nel Diritto è chiamato atto finale o provvedimento espresso”.
“Maestro” intervenne a questo punto la Pubblica Amministrazione “ma in questo
modo l’entelechia appare duplice; quasi come dovessimo distinguere tra un'azione
immanente e un'azione transitiva. Come si spiega questo fatto?”
“ È vero” rispose Aristotele “che il fine a volte coincide con l’uso dell’attività stessa,
mentre in altri casi ci si trova in presenza di un qualche cosa che diviene, un processo che da
luogo ad un prodotto. Quello che possiamo definire essere il fine della vista è la visione, e al
di là di questo fine non vi è alcuna opera concreta. Chi vede produce semplicemente la
perfezione della visione che coincide con la vista. Questo è un tipico esempio di ciò che tu
definisci azione immanente, cioè di un’azione in un certo senso fine a sé stessa, da non
considerarsi, però, in un’accezione negativa, vale a dire come un’azione inutile, quanto
piuttosto come un agire che ha un fine cosiddetto interno. Quella che tu chiami, invece,
azione transitiva si trasferisce in altro, ha un fine esterno che sarà, ritornando al nostro
esempio, l’edificio”.
“Come deve considerarsi, alla luce di quanto fin qui emerso, la mia attività in quanto
Pubblica Amministrazione?”
“Se è vero che l’attività principe di un’Amministrazione è quella di porre in essere un
Procedimento, risulta quindi possibile distinguere i meri atti amministrativi o i cosiddetti atti
strumentali del Procedimento (proposte, pareri, istanze), che hanno una rilevanza
unicamente interna al Procedimento stesso e il Provvedimento o atto finale, che rappresenta
il telos dell’iter procedimentale, nel quale è contenuta la volizione della Pubblica
Amministrazione ed è anche, generalmente, il solo atto del Procedimento ad avere
un’efficacia esterna, e, quindi, ad influire sulle situazioni soggettive dei privati”.
Il Procedimento come “forma della funzione”
La Pubblica Amministrazione aveva bussato alla porta giusta quella mattina. Sapeva
che un grande maestro quale era universalmente riconosciuto Aristotele avrebbe fugato tutti i
suoi dubbi e le sue perplessità con la chiarezza e la semplicità tipica di chi è padrone
dell'argomento. La sua logica e le sue argomentazioni avevano una portata talmente generale
da calzare alla perfezione persino alle dinamiche sottese al Procedimento Amministrativo.
A consigliargli di scambiare due chiacchiere con siffatta autorità nel campo della
logica era stato un tale di nome Casetta; o meglio l'idea gli era venuta dopo aver letto uno
scritto di quest'ultimo nel quale veniva citato un articolo di Feliciano Benvenuti dal titolo
“Funzione amministrativa, procedimento, processo”3. In questo saggio il Procedimento
Amministrativo veniva considerato come la forma della funzione, chiarendo in tal senso che il
passaggio dall’attribuzione del potere come possibilità astratta di produrre effetti giuridici alla
concreta produzione dell’effetto finale è contraddistinto da una serie coordinata di attività e di
atti cosiddetti endoprocedimentali, che costituiscono la funzione. Essa fa in qualche modo da
tramite tra una situazione statica (il Potere) e un’altra situazione statica (l’effetto prodotto
dall’atto). In tale ambito si colloca il Procedimento Amministrativo, che dà evidenza a questo
momento, rappresentando, appunto, la forma esteriore con la quale si manifesta il farsi
dell’azione amministrativa.4
La Pubblica Amministrazione aveva compreso finalmente che, nel momento in cui il
Potere (con la lettera maiuscola) tramite di essa esplica i propri effetti con l’emanazione di un
Provvedimento, la sua funzione si concretizza proprio nell’esercizio di quel Potere. La sua
funzione specifica, quindi, aveva a che fare con l'attività, un momento dinamico in cui,
nonostante mettesse in atto tutte le sue potenzialità, non era tuttavia libera di agire secondo
regole discrezionali. Era stato sufficiente offrire un pranzo ad un filosofo per comprendere
che affinché vi sia un atto è necessario che sussista anche la relativa potenza, ovvero un
Potere del quale la Pubblica Amministrazione è stata investita tramite una legge.
In realtà, però, la Pubblica Amministrazione non era riuscita ancora a scrollarsi di
dosso l'idea che una constatazione del genere fosse dettata più dal comune buon senso che da
un’attenta analisi dell’esercizio del suo Potere. Infatti, se prendeva per buona la definizione
che considera il Procedimento come forma della funzione, si rendeva subito conto che questa
3
4
apparso sulla rivista trimestrale di Diritto Pubblico del 1952
E.Casetta :
Manuale di Diritto Amministrativo. Giuffré Editore VI edizione.(cap. VI, p.359)
funzione altro non è che la forma con cui essa esercitava un potere libero da qualsiasi vincolo,
e in tal senso il Procedimento non gli appariva altro che il mezzo attraverso il quale avveniva
una scelta discrezionale. In quanto Pubblica Amministrazione lei non avrebbe dovuto fare
altro che applicare delle norme, permettere cioè lo svolgimento dalla potenza all’atto; e anche
là dove non era stabilito come raggiungere il telos, ovvero come prendersi cura dell’interesse
pubblico, la sua natura di Ente Pubblico l'avrebbe sempre vincolata a principi quali quelli di
finalità, congruità e di ragionevolezza sanciti nella Costituzione. Per raggiungere i suoi scopi
essa avrebbe dovuto in ogni caso mettere in piedi un Procedimento Amministrativo, proprio
perché la sua attività doveva sempre risultare evidente agli occhi di tutti.
Aristotele le aveva spiegato che chi vede, vede al solo fine di vedere e questa sua
operazione denota comunque una sorta di attività, proprio come chi cammina è in movimento
per raggiungere una meta. Affinché sia possibile vedere e camminare, cioè essere in atto, è
necessario che vi siano le relative potenze, vale a dire che non si sia privi della vista o delle
gambe, altrimenti questo svolgimento dalla potenza all’atto sarebbe impossibile. Il fatto di
possedere la vista, quindi, implica uno stato di pura possibilità che non necessariamente deve
concretizzarsi in un’attività.
Capacità e Possibilità
Qualche giorno dopo, ancora in preda a dubbi e a perplessità, la Pubblica
Amministrazione decise di tornare a trovare Aristotele, disposta questa volta ad offrirgli pure
una cena se si fosse reso necessario. Aveva bisogno che qualcuno gli spiegasse nel dettaglio la
differenza tra capacità e possibilità, e chi meglio dello Stagirita ne sarebbe stato capace?
“Se per esempio consideriamo l’arte medica” cominciò Aristotele la sua spiegazione
“vediamo come la capacità di guarire è una capacità che appartiene al dottore e che consiste
nell’essere in grado di dar luogo al mutamento che porta alla guarigione. In questo caso la
capacità del dottore non solo è una capacità possibile, ma anche reale, nel senso che la
capacità di guarire un paziente appartiene ad un dottore reale e non ad un dottore possibile”.
“Ciò che però io faccio fatica a comprendere” disse la Pubblica Amministrazione “è
come si pone la possibilità nei confronti della realtà!”
“Allora” cercò di semplificare al massimo il concetto Aristotele “su di un’eventuale
scala gerarchica delle ontologie, la possibilità occuperebbe un gradino superiore rispetto la
realtà, dal momento che, attenendoci anche solo al nostro senso comune, possibile equivale a
ciò che, ora, ancora non è reale. L’esercizio di un potere, quindi, sarà sempre reale e mai
possibile, poiché il passaggio dalla potenza all’atto deve essere garantito anche dove non
viene esercitato. Così come il medico non sta sempre a guarire, allo stesso modo tu, in quanto
Pubblica Amministrazione non starai sempre ad emanare Provvedimenti; e lo dimostra il
fatto che io e te ora siamo qui a discorrere passeggiando. Essere in grado di agire in un certo
modo non implica necessariamente che io quel qualcosa debba porlo in essere per forza e
sempre. Potere, infatti, equivale anche a non potere. Dal momento che gli Enti Pubblici
possono essere istituiti solo per legge o tramite atti amministrativi che si richiamano a leggi,
il Potere viene attribuito loro in base ad una tipicità che ha le sue radici nel principio di
legalità”.
“Questo vuol dire” cercò di vedere se aveva compreso la Pubblica Amministrazione
“che tutti i soggetti di un ordinamento, pubblici o privati che siano, devono rispettare quanto
stabilito dalla legge. Ma se, all’interno dell’iter procedimentale, si arriva a violare una legge
o, come definita nel linguaggio giuridico, una norma di azione e si dà luogo alla illegittimità
dell’atto in quanto si è agito fuori dal Potere che quella stessa legge aveva demandato
all’Amministrazione, l'illegittimità dell’atto non si colloca al di fuori del piano della
possibilità?”
“L'illegittimità di un atto amministrativo resta un’eventualità!” rispose Aristotele
“una possibilità nella quale può incorrere una Pubblica Amministrazione, poiché in sé essa
possiede persino la potenza di raggiungere un atto illegittimo, anche se può concretizzarlo
solo disavvenendo al principio di legalità e, così facendo, l’atto che si ottiene non è da
considerarsi imperfetto, ma solo non valido, non riconosciuto dall’ordinamento!”
“Maestro” incalzò la Pubblica Amministrazione “Nella dottrina che si occupa del
Diritto Amministrativo, si tende a far derivare dall’illegittimità di uno dei cosiddetti atti
endoprocedimentali, l’illegittimità dello stesso Provvedimento finale. Si propende, se
vogliamo, per una sorta di analogia che però resta difficile da definire”.
“C'è un solo modo per considerare l'analogia, vale a dire come un rapporto
analogico pros en, cioè come in rapporto ad un termine primario affinché il termine
secondario sia un essere e non un non-essere. La bianchezza necessariamente deve riferirsi
ad un soggetto poiché da sola non avrebbe ragion d’essere. Questo è, ad esempio, un classico
caso di analogia pros en, ovvero il riferimento è comunque e sempre ad un’unica natura. Con
una proposizione del tipo:il corpo è sano, si vuole indicare l’esistenza di un’armonia del
corpo; ma l’aggettivo sano può, però, accompagnare altri sostantivi come ad esempio il
colorito, la medicina, ecc. In ognuno di questi casi particolari l’aggettivo sano rimane
identico a sé stesso; ciò che cambia è il riferimento, il pros en, quel termine che ci rende
possibile la derivazione del senso. Allo stesso modo, dunque, all’interno di un iter
procedimentale l’illegittimità di uno degli atti si lega all'illegittimità dell’intero Procedimento
e, di conseguenza, del Provvedimento espresso; vale a dire non per omonimia né tanto meno
per derivazione, bensì per analogia ad unum (pros en)”.
“A conferma di ciò” aggiunse la Pubblica Amministrazione mostrando di non essere
poi completamente digiuna dell'argomento “bisogna ricordare che l’effetto esterno può
essere prodotto anche da un atto che determini l’arresto del Procedimento”.
“Esatto” confermò Aristotele contento di vedere che la sua interlocutrice stava sul
pezzo “nonostante esso infatti si configura piuttosto come un atto endoprocedimentale,
anziché come un vero e proprio Provvedimento, tuttavia, in quanto atto ultimo di un
Procedimento, esso diviene comunque impugnabile, dato che viene a rappresentare quell’atto
che formalizza la conclusione in senso negativo del Procedimento, precludendo ad un terzo la
possibilità di ottenere l’utilità finale alla quale aspirava”.5
5
E.Casetta:
Manuale di Diritto Amministrativo. Giuffré Editore VI edizione.(cap.-369)
Efficacia
Dall'ultimo incontro tra Aristotele e la Pubblica Amministrazione era emerso che
quella che in dottrina viene definita efficacia del Provvedimento, e che (come dice Casetta)
altro non è che quell’attitudine ad essere fonte di vicende giuridiche e a qualificare situazioni
e rapporti, è spesso subordinata al compimento di determinate situazioni; al verificarsi di certi
fatti o all’emanazione di ulteriori atti. Solo a quel punto, infatti, si perfeziona la fattispecie,
nel senso che risultano integrate tutte le circostanze che l’ordinamento ha previsto non già per
l’esistenza del Provvedimento, bensì affinché possa prodursi l’effetto sul piano
dell’ordinamento generale.
Perché si realizzi l’atto è necessario che vi sia la relativa potenza. Potenza che
possiamo perciò definire come principio di mutamento in altro, o nella medesima cosa in
quanto altra.6 Ma se la potenza muta, vuol dire che muta altro o, mutando, muta anche sé
stessa? Il fuoco (considerato dal punto di vista della potenzialità) scalda sia sé stesso che altro
e quindi la potenza di riscaldarsi sta sia in altro che nel fuoco stesso. L’acqua che viene
scaldata dal fuoco mantiene in sé il calore che le è stato trasferito dalla fiamma. L’ambiguità
della potenza risulta subito evidente: la potenza, sempre identica a sé stessa, è come se si
sdoppiasse nel suo essere, dal momento che viene a confluire tanto in sé stessa quanto in
altro; ma questo altro che cosa è?
“L’altro è forse il luogo ideale nel quale vengono a confluire i due aspetti di una
medesima potenza” la Pubblica Amministrazione si ricordò di questa affermazione di
Aristotele che su due piedi di non aveva compreso appieno “un punto che, in verità, potrebbe
benissimo anche essere materiale e nel quale troviamo sia la passività, sia l’attività che è in
grado di generare la potenza che, da un punto di vista puramente logico, deve sempre
ritenersi unica”.
Questa ambiguità la Pubblica Amministrazione si accorse che poteva essere traslata
interamente all’interno del Procedimento Amministrativo; là dove, per intenderci, il
Provvedimento emanato al termine dell’iter procedimentale, poteva essere considerato
perfetto, ovvero completo di tutti gli elementi prescritti per la sua esistenza, sebbene non
ancora efficace. La Pubblica Amministrazione aveva oramai ben compreso che l’efficacia non
ha nulla a che vedere con la validità di un atto amministrativo, la quale è tale solo se si
6
Aristotele:
Metafisica “Opere” Volume I, Editori Laterza 1973
connette strettamente alla conformità con il paradigma normativo a cui quello specifico atto
deve fare riferimento e con l’attività amministrativa posta in essere al fine della sua adozione.
“Un atto può, dunque, essere illegittimo (cioè invalido)” pensò tra sé e sé la Pubblica
Amministrazione “ma tuttavia efficace, ovvero legittimo (valido) anche se ancora
inefficace”.7
La Pubblica Amministrazione era rientrata a casa al termine di quelle lezioni
peripatetiche con la convinzione, supportata dalla giusta logica, che in quella fase del
Procedimento definita integrativa dell’efficacia, la Potenza si era svolta nel suo insieme, si
era trasferita nell’atto e che mutando aveva mutato se stessa e non contenta si accingeva a
mutare qualcos’altro: un terzo. Il controllo sull’atto che lei, in quanto Pubblica
Amministrazione doveva perciò esercitare in quella fase, non poteva essere considerato alla
stregua di un’eventuale fase procedimentale, come invece veniva considerato da gran parte
della Dottrina8, dal momento che essa riteneva non potersi porre sullo stesso piano controlli di
tipo preventivi e controlli successivi. Secondo il suo parere, infatti, l’annullamento di un atto
sottoposto a controllo preventivo di legittimità in realtà non va ad annullare il Provvedimento
espresso.
“L’annullamento comporta l’eliminazione di effetti ex tunc” concluse nella sua testa la
Pubblica Amministrazione “mentre nel caso vi sia un controllo preventivo gli effetti non si
sono ancora realmente prodotti!”
Se esisteva davvero una fase cosiddetta integrativa dell’efficacia, nella quale l’effetto
non si è ancora prodotto nonostante il Provvedimento sia stato emanato e, pertanto, l’attività
amministrativa si è svolta tramutando la potenza in atto, si doveva, secondo quando la
Pubblica Amministrazione aveva imparato dai colloqui con Aristotele, considerare proprio
questa fase integrativa dell’efficacia come quel luogo ideale o materiale in cui si possono
davvero ritrovare i due aspetti di una medesima potenza e che altro non sono che l’attività e la
passività.
“A monte vi è un soggetto che produce, ovvero io in quanto Pubblica Amministrazione
e a valle vi è un soggetto che riceve (il terzo). La potenza, quindi, che da un punto di vista
logico è comunque una, si trasferisce in altro (nel terzo). Al termine del Procedimento vengo
a trovarmi di fronte a due stadi potenziali: uno che mi appartiene in quanto Pubblica
Amministrazione, l‘altro che inerisce a colui che è il destinatario del mio Procedimento; ma
7
8
E.Casetta :
ib.
Manuale di Diritto Amministrativo. Giuffré Editore VI edizione. (cap. VI, § 13, p.431)
anche se di primo acchito potrebbe sembrare di essere in presenza di due tipi diversi di
potenza, una potenza di agire e una di patire, in realtà la potenza è una (su questo Aristotele
è stato categorico) e il rapporto che lega quella che si presenta come potenza attiva a quella
passiva è nient'altro che un rapporto di analogia, e non un'analogia qualunque, bensì pros
en”.
Impossibile e non-possibile
A conclusione di quanto Io e il maestro ci siamo detti dobbiamo essere bravi a
distinguere tra ciò che è impossibile da ciò che è solo non-possibile. Il fatto stesso di essere
impossibile implica che una potenza non potrà mai giungere all’atto, in quanto l’atto, da un
punto di vista logico, rappresenterebbe la negazione stessa della potenza. Il fatto di essere
non-possibile, al contrario, implica che una potenza ha in sé la capacità di giungere o meno
all’atto e questa possibilità, trasferita all’interno del Procedimento Amministrativo, sta ad
indicare l’alto grado di democraticità che contraddistingue il nostro ordinamento; il quale non
vieta categoricamente e a priori ad un soggetto, pubblico o privato, di compiere un certo tipo
di azione, ma ne decreta la nullità là dove queste azioni, compiute nel non rispetto delle
norme di relazione e quindi fuori dal principio di legalità, ledono il diritto altrui e perdono di
vista l’interesse pubblico.
Se ci atteniamo a quella che, nella dottrina del Diritto Amministrativo, è la definizione
oggettiva della Amministrazione Pubblica, vale a dire la definizione secondo la quale la
Pubblica Amministrazione tutela il bene pubblico, ci rendiamo subito conto di come un
interesse non potrà mai essere ontologicamente puro. Un interesse è per sua essenza mutevole
e quello che è rilevante e considerato come bene pubblico oggi, potrà non più esserlo domani.
Proprio questa mutevolezza, che caratterizza gli interessi e di cui mi faccio portavoce io in
qualità di rappresentante di tutte le Pubbliche Amministrazioni, mostra come, per definizione,
la Pubblica Amministrazione non può essere imparziale nella tutela degli interessi pubblici e
di come l’adozione di un atto nullo da parte sua non potrà mai essere impossibile, ma solo
non-possibile; altrimenti infatti verremmo a negare il mutamento e la possibilità stessa che ha
la Pubblica Amministrazione di evolversi e di sapersi adattare alla mutevolezza dei valori.
Poiché allora ogni procedimento è in vista di un fine e ognuna delle sue parti (atti
endoprocedimentali) sono anch’esse in vista di un fine, il fine possiamo dire essere una
funzione. I Procedimenti Amministrativi, al pari dei processi naturali e di quelli che
caratterizzano le arti e i mestieri, si possono spiegare meglio attraverso gli scopi che
raggiungono piuttosto che secondo gli stadi intermedi. Gli scopi precedono in un certo qual
modo i processi: ciò che da il via ad un processo che conduce ad una nuova casa è una casa
già in atto (la casa nel pensiero dell’architetto), proprio come ciò che dà il via al processo che
conduce ad un nuovo uomo è esso stesso un uomo (il padre).
A conferma di questa analogia si tenga, ad esempio, conto di quanto riportato in una
sentenza del Consiglio di Stato riguardo la Pubblicazione, considerata, sotto un profilo
formale, come un’operazione normalmente a struttura procedimentale, trattandosi di
un’attività diretta a creare uno stato materiale e non una dichiarazione. La Pubblicazione,
infatti, è un vero e proprio procedimento, là dove consiste in una serie di atti e comportamenti
materiali, ontologicamente e cronologicamente distinti, unificati dall’identica finalità
costituita dal conseguimento dell’effetto della conoscenza legale.9
Va ancora notato a riguardo che il nostro ordinamento ha approvato la legge
n°15/2005 di riforma della l. n° 241/1990 che prevede, appunto, la non annullabilità del
Provvedimento adottato in violazione di norme sul Procedimento o sulla forma degli atti
quando il suo contenuto non sarebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato al
termine di un iter procedimentale inficiato di illegittimità.
9
Rivista : foro amministrativo sentenze del consiglio di stato (Maggio 2005)
La “storia” dell’atto
Il panorama legislativo degli anni 1990 ha tentato di esaltare la trasparenza
dell’organizzazione pubblica a sfavore di una visione accentratrice e fortemente gerarchica
della cosa pubblica di derivazione prettamente Weberiana.10 In quest’ottica rivoluzionata il
primo e più importante compito di una Amministrazione Pubblica è senz’altro quello di
raggiungere dei risultati; degli obbiettivi, cioè, prefissati dal potere politico, il quale, proprio a
seguito di una di queste riforme attuata nell’anno 1993, non viene più a coincidere con il
potere amministrativo11. I dirigenti dell’Amministrazione prima del Decreto Legislativo
n°29/1993 erano più vicini al vertice gerarchico che ai cittadini. Vigeva tra cittadini e potere
politico quella logica che può essere paragonata al rapporto che in una città sussiste tra piazza
e palazzo. Stando a questa logica chi sta in alto è in grado di vedere tutto ciò che accade nella
piazza, mentre a chi sta in piazza è preclusa la possibilità di vedere ciò che accade all’interno.
Grazie ad un’altra fondamentale legge del 1990, la Legge n°241, al cittadino è
concesso finalmente di entrare nel palazzo del potere e di accedere a tutta una serie di
informazioni che riguardano i Procedimenti Amministrativi fino ad allora impensabili. Si
avvera, se vogliamo, il sogno di Turati, che aveva sempre voluto che l’Amministrazione
Pubblica diventasse una casa di vetro, nella quale (aggiunge Clarich) nessuno, però, vorrebbe
più abitare. Ci si trova di fronte a quello che è stato definito un vero e proprio cambiamento
epocale di cui ancora oggi, a distanza di anni, si stenta a credere. Un cambiamento così
radicale che vede lo Stato privato di quella forza che il Diritto Amministrativo gli
riconosceva.
Il rapporto logico e naturale che abbiamo visto porre l’atto come conseguente ad una
potenza, all’interno di una prospettiva Weberiana finisce con il rovesciarsi immedesimando la
potenza con l’atto. Stando a quando fino qui è emerso dovrebbe essere lo Stato a conferire
all’Amministrazione, tramite una legge o tramite atti amministrativi aventi forza di legge, la
10
Weber traduce in termini di organizzazione della pubblica Amministrazione la logica centralistica; una
logica imperante nel nostro ordinamento sin dai tempi dell’unità d’Italia e ancor prima; basti pensare che Cavour
emanò, ad esempio, una legge che equiparava i gradi civili a quelli militari. É ovvio che per Cavour il sistema
doveva essere rigoroso; il vero problema è che tale modello è durato fino agli anni ’90 del secolo scorso.
11
D.L.vo 29/93 art.3: “Gli organi di governo esercitano le funzioni di indirizzo politico amministrativo,
definendo gli obbiettivi ed i programmi da attuare ed adottando gli altri atti rientranti nello svolgimento di tali
funzioni, e verificano la rispondenza dei risultati dell’attività amministrativa e della gestione agli indirizzi
impartiti. Ai Dirigenti spetta l’adozione degli atti e provvedimenti amministrativi, compresi tutti gli atti che
impegnano l’amministrazione verso l’esterno, nonché la gestione finanziaria, tecnica e amministrativa mediante
autonomi poteri di spesa, di organizzazione delle risorse umane, strumentali e di controllo. Essi sono
responsabili in via esclusiva dell’attività amministrativa, della gestione e dei relativi risultati”.
potenza di esercitare un potere (legittimo) e non viceversa. L’Amministrazione Pubblica non
è mai libera perché a monte è sempre stabilito come esercitare quel potere di cui è investita.
Essa dovrebbe soltanto limitarsi ad applicare delle norme e, se non è stabilito come
effettivamente raggiungere la tutela dell’interesse pubblico, allora si può parlare di
discrezionalità, anche se l’Ente pubblico dovrà sempre rimanere vincolato ai principi di
Finalità, Congruità e Ragionevolezza sanciti nella nostra Costituzione.
L’atto e la potenza devono presupporre sempre una qualsiasi relazione; ovvero una
pubblica Amministrazione non può prescindere da quelli che sono i destinatari di un
Provvedimento, altrimenti la stessa attività procedimentale non avrebbe alcuna ragion
d’essere. Tra questi due estremi, tra la potenza da un lato e l’atto dall’altro, tra il potere e
l’esercizio di questo potere, deve dunque essere presupposta una relazione da considerarsi
indispensabile, se la giustificazione della ragion d’essere dell’una viene riconosciuta
nell’esistenza, che sia essa reale o anche solo possibile, dell’altra. Un rapporto del genere
potrebbe essere considerato, ad esempio, come quel particolare rapporto che intercorre tra un
re e i suoi sudditi, dal momento che se il potere fosse davvero assoluto il re non avrebbe alcun
bisogno del riconoscimento dei suoi sudditi per essere tale; ma anche là dove sussista al
giorno d’oggi una monarchia assoluta, in realtà essa non è mai veramente tale, poiché essa
stessa dipende dall’esistenza di qualcos’altro da cui non si può prescindere a priori.
Questa prospettiva di relazione necessaria ci porta a concepire il Diritto
Amministrativo più come una prassi che come un’attività puramente teoretica. Ma nella realtà
per decenni la Pubblica Amministrazione in Italia si è trovata ad esercitare un potere
discrezionale che la poneva al di sopra degli stessi Provvedimenti da essa emanati, in quanto
un eventuale ricorso nei confronti di un Provvedimento da parte di un cittadino doveva
rispondere alle norme del Diritto Amministrativo e non del Diritto Privato.
Nel nostro ordinamento vige il principio tempus regit actum, secondo cui tutti gli atti
amministrativi devono essere regolamentati dalle leggi in vigore in quel determinato
momento storico e la legge che si preoccupa di regolare il Procedimento Amministrativo,
oggi, è appunto la Legge n°241/1990, modificata da un’altra legge emanata nell'anno 2005, la
Legge n°15, che all’articolo 1/bis recita testualmente: “la Pubblica Amministrazione,
nell’adozione di atti di natura non autoritativa, agisce secondo le norme di diritto privato
salvo che la legge disponga diversamente”. Volendo anche noi adattarci a questo principio
fondamentale, ci pare allora doveroso prendere le difese del panorama legislativo tuttora
vigente e che, come abbiamo visto, cerca di rompere con la tradizione che ha imperato per
tutto il secolo XX.
Per argomentare la nostra difesa ci viene in soccorso ancora una volta il pensiero di
Aristotele, il quale nel paragrafo terzo del nono libro della Metafisica porta avanti una sua
personale polemica contro la scuola Megarica, i cui esponenti si presentavano ai suoi occhi
come seguaci estremisti di Parmenide, che erano soliti elaborare argomentazioni di tipo
sofistico, ovvero apparentemente vere, ma negatrici dell’evidenza. La polemica di Aristotele
si rivolge in modo particolare contro l’argomento dominatore di Diodoro Crono, il quale era
giunto alla identificazione del possibile con il reale (attuale e futuro), cioè alla negazione del
concetto autentico di possibilità (possibilità non realizzata).
Il nostro costruttore di case, secondo il punto di vista della logica Megarica, una volta
che ha cessato di costruire non è più in grado di ricominciare. Per i Megarici ci sarebbe l’atto
solo quando c’è la potenza; vale a dire che soltanto colui che costruisce possiederebbe questa
particolare potenza. Il possibile, pertanto, arriva ad identificarsi con il reale; la potenza con
l’atto, senza più riconoscere l’autonomia della potenza rispetto all’atto.
Immaginatevi
adesso
una
situazione
“tipo”
all’interno
di
una
pubblica
Amministrazione prima dell’anno 1990. Per lo meno su di un piano puramente teorico, in tutti
quegli anni la Pubblica Amministrazione non si era mai preoccupata minimamente di
garantire certi diritti ai cittadini. Prima della Legge n°241/1990, se qualcuno si fosse sentito
leso di un suo diritto, difficilmente avrebbe potuto fare qualcosa per dar voce alla sua
protesta, proprio perché si viveva in un clima normativo in cui l’Amministrazione Pubblica
era tenuta a rispondere solo al giudice amministrativo che remava nella sua stessa direzione.
In tali circostanze l’attività principe della Pubblica Amministrazione, ovvero l’attività
procedimentale, non garantendo l’accesso, né tanto meno la trasparenza, finiva per ribaltare,
alla maniera dei Megarici, il rapporto logico che necessariamente deve sussistere tra l’atto e la
potenza. L’attività, in quanto difficilmente tracciabile all’interno del palazzo, finiva essa
stessa per coincidere con l’atto finale, con il Provvedimento espresso, slegandosi o,
addirittura, confondendosi con la potenza.
Come Aristotele fece ai suoi tempi, anche noi, oggi, vogliamo qui sostenere l’assurdità
di tali tesi, affermando che potenza e atto sono concetti tra loro assai diversi. Come per
Aristotele un costruttore di case può considerarsi tale anche quando non esercita la sua arte e,
di conseguenza, si può spiegare come esso possa ricominciare a costruire, considerando
questa sua capacità preesistente allo svolgimento e perciò autonoma; noi, nell’ambito più
specifico del Diritto Amministrativo, ci preoccupiamo di notare come, dopo tutte quelle leggi
emanate nei primi anni ’90 del secolo scorso, sia davvero impossibile identificare la potenza
con l’atto, ovvero di come l’intero iter procedimentale si differenzi dall’atto conclusivo di tale
procedimento; ribadendo che ciò che li lega altro non è che un comune vincolo di scopo.
Se il procedimento è davvero la “forma della funzione” amministrativa allora esso non
deve considerarsi come un qualcosa di statico e, come tale, irraggiungibile e immodificabile;
anzi il potere si cala nella realtà di tutti i giorni concretizzandosi proprio in dei Procedimenti
Amministrativi. Questa attività, seppur dinamica, non deve essere scambiata per un’attività di
tipo continua. L’attività, infatti, qui lo ripetiamo per l’ennesima volta, da noi è considerata
sulla scia del pensiero di Aristotele come il congiungimento di potenza e atto; si agisce, cioè,
solo se se ne ha la capacità.
Dal punto di vista della logica Megarica, in cui il potere è statico piuttosto che
dinamico, avremmo qualche difficoltà nel volere andare a spiegare la pausa, visto che essa
comporta, sul piano pratico, una vera e propria perdita di capacità. Se davvero è possibile
soltanto ciò che è o che sarà, ciò che non è o che non sarà dobbiamo dire non essere possibile?
Il possibile, secondo quella che era la visione Weberiana, si identificava con il reale; la
potenza con l’atto senza riconoscere l’autonomia di questi due concetti. Identificando,
appunto, il potere politico con la gestione della cosa pubblica.
Come si poteva rimettere in piedi un iter procedimentale, se non c’era alla base la
distinzione logica tra atto e potenza?
É vero che, dando retta al nostro senso comune, la capacità sta nella messa in pratica,
nell’esercizio; ma essendo l’attività il congiungimento di potenza e atto si agisce sempre
tramite un’attività e in questa attività sarà allora in azione una capacità.
Per sostenere quanto fino qui si è detto, secondo il nostro punto di vista, solo
spiegando la pausa come un’interruzione di suono e non di ritmo (che è un’alternanza di suoni
e di silenzi), ci è possibile spiegare come una Pubblica Amministrazione torna ad essere in
grado di rimettersi in attività. Solo considerando la pausa alla maniera aristotelica, nella quale
si è cessata l’attività, ma non è venuta meno la capacità, si riescono a superare le tesi della
logica Megarica e a superare il determinismo che esse implicano; poiché per questa specifica
dottrina ogni divenire, ogni movimento viene soppresso.
Ciò di cui noi possiamo avere esperienza tramite le sensazioni ci svela il sensibile
come ciò che ha la capacità di essere sensibile; il dolce è dolce, ma quando l’uomo non lo
sente come tale il dolce non è più dolce. Quindi il sensibile non ha una sua autonomia proprio
come non avrebbe autonomia il Provvedimento nei confronti del Procedimento. Coloro che
chiudono gli occhi per un breve intervallo di tempo, chi dorme o chi, semplicemente riposa, si
troverebbero in uno stato simile di colui che è cieco. Ma come per Aristotele cieco è colui che
è privo della vista, così, all’interno del Diritto Amministrativo, è solo possibile che la
funzione che si manifesta (il potere che si esplica) sia in effetti il potere stesso.
Riproponendo qui la distinzione tra “impossibile” e “possibile che non si realizza”,
identificando questi due ambiti alla maniera dei Megarici, non riusciremmo più a spiegare il
divenire e non ci sarebbe neppure permesso di inserire il fattore temporale all’interno del
Procedimento; fattore che evidenzia a sua volta la necessaria diversità che deve sussistere tra
potenza e atto e che, sola, ci consente di spiegare al meglio il divenire.
L’articolo 1 della Legge n°241/1990, per quel che concerne il tempo, stabilisce che
l’attività amministrativa è retta da criteri di efficacia, ed economicità, attuando quanto sancito
dall’articolo 97 della Costituzione. Il Procedimento Amministrativo deve essere logico,
congruo e ragionevole e non deve essere aggravato, fatta eccezione per straordinarie e
motivate esigenze emerse nel corso della fase istruttoria. Il tempo necessario per portare a
compimento un Procedimento è stabilito dalla stessa Legge n°241/1990 in novanta giorni
decorrenti dalla data di avvio d’ufficio o dal ricevimento della domanda, se il Procedimento è
ad iniziativa di parte, salvo che la Pubblica Amministrazione procedente stabilisca
diversamente in un apposito regolamento.12
Ciò sottolinea che il tempo risulta anche qui essere un fattore importante proprio come
era riconosciuto dallo stesso Aristotele. La capacità che un costruttore ha di costruire noi
sappiamo che cosa è perché questo costruttore, almeno una volta nella sua vita dovrà pur aver
costruito qualcosa. Per il Diritto Amministrativo è la medesima cosa. Il potere che ha una
natura puramente astratta si concretizza attraverso l’attività che pone in essere un
Procedimento che si conclude, necessariamente con un atto. In questo modo la Pubblica
Amministrazione procede per attualizzare nella realtà ciò che è una pura potenzialità, ovvero
una vera e propria possibilità che in quanto tale può essere, ma anche non essere.
Il concretizzarsi del potere in un atto non è mai così istantaneo che tra il potere e
l’atto, che ne è espressione; solo se il potere si trasformasse istantaneamente nell’atto la sua
trasformazione non assumerebbe mai una propria reale individualità13. Solo se la potenza
viene ad essere fatta coincidere con l’atto eliminando del tutto lo svolgimento temporale,
12
13
Legge 7 agosto 1990, N°241, art. 2 : Conclusione del Procedimento
F. Benvenuti : Funzione Amministrativa, Procedimento, Processo.
in “Rivista trimestrale di Diritto Pubblico” 1952
ritorneremmo immediatamente in un ottica Weberiana dove il potere non concede alcuna
garanzia. Ma quando manca questa istantaneità tra il potere e l’atto, quando si ritorna a vedere
il mondo secondo gli schemi della logica aristotelica, allora si comprende a pieno come il
Procedimento possa davvero definirsi la “forma della funzione”, in cui l’atto si differenzia dal
potere, mettendo in rilievo il farsi dell’atto, che ha già, dunque, una sua precisa individualità
giuridica oltre che logica e reale.14
Il Procedimento Amministrativo si configura come uno svolgimento, come un tendere
verso un fine che implica necessariamente una durata nel tempo. Nell’ambito del Diritto
Pubblico di funzione si parla spesso e spesso si chiama funzione il rapporto tra una serie, più
o meno definita, di atti e il risultato pratico che essi ottengono. Ma se per un momento noi ci
soffermiamo sulla funzione analizzandola dal punto di vista di chi la mette in pratica e non
secondo quello che è il suo oggetto, ci rendiamo subito conto che si intenderà per funzione
non più il farsi dell’atto, ma il fare l’atto; non più il differenziarsi del potere, ma il
differenziare un potere.15
Un atto non raggiunge la sua perfezione se prima non vi è stata una elaborazione di
tutti i suoi elementi; se, quindi, la sua formazione non è passata attraverso stadi successivi ed
anzi spesso non si è giovata di successive cooperazioni. Operazioni che si succedono tutte nel
tempo ordinatamente e tutte tese alla realizzazione dell’atto. Sotto questo punto di vista si può
considerare il Procedimento come la storia causale dell’atto16 in cui gioca un ruolo
preponderante proprio il criterio temporale.
Se, dunque, è vero che il Procedimento è storia, allora è altresì vero che la Legge
N°241/1990 mette in risalto questa storia rendendola pubblica, trasparente, facilmente
riscontrabile con criteri oggettivi alla portata di tutti i soggetti dell’ordinamento, pubblici o
privati che siano. Prima del giro di boa avvenuto nei primi anni novanta del secolo scorso,
quindi, quale fosse la reale storia del Procedimento non era consentito conoscerla e quando la
Pubblica Amministrazione si degnava di emanare un Provvedimento, colui al quale quell’atto
finale era indirizzato veniva a trovarsi di fronte ad un fatto bello e compiuto del quale non
poteva rintracciarne la genesi.
Poiché il procedimento, altro non è che la strada attraverso cui passa il potere per
concretarsi in un atto, sotto il profilo oggettivo, esso sarà manifestazione della funzione, così
come l’atto è la manifestazione del risultato di quella funzione; ma essendo inevitabilmente
14
15
16
ib.
ib.
ib.
ogni atto effetto di una funzione, si dovrebbe dire che ogni atto è inevitabilmente preceduto da
un Procedimento17. Prima vi è la materia, la potenzialità e in seguito vi sarà l’attualità; ma se
è vero che un essere in atto non può derivare che da un essere in potenza, è vero anche che
questo essere in potenza dovrà essere preceduto da un essere in atto.
Tutti noi siamo degli uomini individuali, siamo individui particolari che siamo stati
prima dei bambini, poi uomini e infine saremo vecchi. Noi, allora, non nasciamo come se
fossimo degli uomini già in atto, ma come degli individui in potenza. Un uomo non può
nascere da un uomo in potenza, ma da un uomo in atto; un padre, però, allo stesso tempo può
considerarsi come un uomo in atto solo dopo avere generato un figlio, quindi il rapporto che
intercorre tra questi due termini implica quella complementarietà che abbiamo visto
avvicinarsi ad un’analogia.
La capacità di costruire, che per Aristotele è indipendente dall’esercitarla o meno, la
pensiamo attuabile quando la si mette effettivamente in pratica; però questa capacità in
potenza può appartenere indipendentemente a tutti, anche, cioè, a tutti quelli che in vita loro
non hanno mai costruito nulla e, nella logica del Diritto, questo vuol dire che l’attività,
l’energheia, il Procedimento, può essere la “forma della funzione”, ma anche non esserlo. Ciò
che, invece, deve necessariamente esserci è una storia dell’atto; un congiungimento di potenza
e atto. L’anteriorità della potenza, infatti, può essere spiegata solo in senso cronologico,
proprio come sostiene lo stesso Aristotele nel libro XII della Metafisica, poiché secondo altri
aspetti è l’atto ad essere anteriore; un atto che, precisa Aristotele, è appunto in grado di
produrre mutamento.
Un essere possibile abbiamo detto può essere, ma anche non essere. Un potere, invece,
da luogo ad una potenza cosiddetta “attiva”, che come tale può soltanto essere. Un ente
pubblico, pertanto, al pari della sostanza eterna di cui parla Aristotele nel libro XII della
Metafisica, necessariamente ha il potere di produrre un Provvedimento, di dar inizio al
mutamento e ciò implica necessariamente che questo ente produca ciò che è in grado di
produrre. Il movimento, che è un passaggio da un non-essere ad un essere deve essere
generato da un essere privo di negatività, vale a dire da una pubblica Amministrazione che ha
il dovere di agire e di concludere tutti i Procedimenti avviati tramite l’emanazione di un
Provvedimento espresso. Di fronte ad una Amministrazione che non agisse, ad un potere,
cioè, che fosse inerme, concludente un eventuale Procedimento con un silenzio, saremmo di
17
F. Benvenuti : Funzione Amministrativa, Procedimento, Processo.
in “Rivista trimestrale di Diritto Pubblico” 1952
nuovo proiettati in una dimensione ante legge 241/1990, quando il silenzio, interpretato come
un diniego, rendeva la pubblica amministrazione negativa agli occhi dei cittadini.
In conclusione, perciò, non basta dire che una Amministrazione agisce, ma bisogna
aggiungere che il suo modo d’essere deve essere quello dell’atto e non della potenza, poiché
ciò che è in potenza può agire, ma anche non farlo. Azzardando un ultimo e, forse,
improbabile paragone con quanto sostenuto da Aristotele per giustificare la sua idea di “Dio”,
potremmo affermare che la Pubblica Amministrazione, come la sostanza eterna e
incorruttibile di cui parla Aristotele, per sua essenza deve essere in atto, completamente
scevra di potenzialità. Ad un ente con tali caratteristiche appartiene la capacità di produrre
movimento e non può essere possibile che questa capacità non produca tale movimento, come
non può essere possibile che una Pubblica Amministrazione non concluda con un atto un
Procedimento che è stato avviato.
BIBLIOGRAFIA
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“Opere”
Volume I Editori Laterza 1973
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(Saggio Internet)
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L. Delpino
F. Del Giudice
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“Manuale di Diritto Amministrativo”
Giuffré Editore VI edizione
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“L’atto complesso di Umberto Borsi e il coordinamento
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B. Maioli:
“Gli Universali. Storia antologica del problema da Socrate al
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Bulzoni, Roma 1974
B. Maioli:
“Gli Universali. Alle origini del problema”
Bulzoni, Roma1973
C. Marmo:
“Psicologia e conoscenza”
in: La Filosofia nelle Università, a cura di Luca Bianchi;
La Nuova Italia, 1997
P. Monea:
“I nuovi confini dell’invalidità dell’atto amministrativo:
l’art. 21 octies della legge sul procedimento amministrativo”
in Rivista: “L’Amministrazione Italiana” N° 9/2005
G. Reale:
“La dottrina aristotelica della potenza, dell’atto e
dell’entelechia nella Metafisica”
In: Studi di filosofia e di storia della filosofia in onore di
Francesco Olgiati.
Società editrice Vita e Pensiero, Milano
Pubblicazione dell’università del Sacro Cuore
Serie terza, scienze filosofiche N°6.
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