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Far rider, far rider, come? (please, read in English!)
Una metafora, nell’ambiente linguistico, dei vettori (concetti), delle
cordinate rispetto a una data base (parole in una data lingua) e dei
cambiamenti di base (traduzioni con dizionari bilingui)
Andrea Vietri
Dipartimento Me.Mo.Mat., Università “La Sapienza”.
8 ottobre 2007
1. Anche le lingue hanno le loro coordinate
Per la matricola universitaria, il concetto di cambiamento di coordinate
da una base a un’altra costituisce sicuramente il trampolino per tuffarsi in
un relativismo all’inizio forse un po’ destabilizzante ma che prima o poi si
rivelerà un pilone portante di qualsiasi corso iniziale di algebra lineare.
Cambiare base, dovrà capire, è un cambiare punto di vista mettendosi nelle
condizioni migliori per lavorare. Un’equazione antipatica, e quadratica, in
due variabili si schiuderà, così, per rivelare un’innocua parabola
precedentemente “storta”; un’applicazione lineare che a prima vista
sembrava un’inqualificabile bagarre di numeri diventerà una mite lista di
amplificazioni, o riduzioni, o identità, lungo gli assi - complici gli
autovalori.
Uno dei rischi che, credo, si corre nell’affrontare tale argomento è quello
di veicolarlo con troppa disinvoltura, magari rivestendolo del medesimo
alone di tecnicismo che coinvolge questioni come il calcolo della matrice
inversa o la risoluzione di un sistema lineare col metodo di Gauss. La
matrice del cambiamento di base, penserebbe allora lo studente, è un
oggetto fatto di nulla fuorché di numeri, proprio come tanti altri. La si
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costruisce e poi la si usa, con la dovuta attenzione, evitando di scambiare il
suo ruolo con quello della cugina inversa. È noto, infatti, che se abbiamo un
endomorfismo ad es. di R3, definito tramite una matrice M rispetto a una
base B, e vogliamo leggerlo in un’altra base, C, la preparazione del
“sandwich” ha la seguente ricetta: a destra di M va la matrice, sia N , le cui
colonne sono le coordinate dei vettori di Crispetto a B, mentre a sinistra va
la sua inversa o, più artigianalmente, la matrice le cui colonne sono le
coordinate dei vettori di Brispetto a C. Se poi vogliamo conoscere la
relazione che lega le coordinate iniziali, siano esse x , a quelle nuove, siano
y , basta scrivere x = N yt . Usando tale formula si potranno riscrivere le
equazioni di luoghi geometrici nelle nuove coordinate, mentre la legge y = N
-1
xt consentirà di tradurre le coordinate di un punto, dalle vecchie alle
nuove.
Tutto ciò, una volta appreso, funziona benissimo, e continua a farlo
anche se ci spingiamo più oltre e fabbrichiamo sandwiches “irregolari” con
fette di pane diverse tra loro, e cioè, studiamo come variano le matrici di
applicazioni lineari da Rm a Rn , con m e n qualsiasi, al variare delle basi nel
dominio o/e nel codominio. Il motore continua a girare, sì, ma non possiamo
negare di percepire in diversi studenti un senso di non padronanza, forse
(per esagerare) di leggero malessere, nell’applicare le dovute formule.
Insomma, se il teorema di Rouché-Capelli è una mela da agguantare e
mangiare con gusto, trastullandosi col rango e i parametri, il cambiamento
di base è per alcuni un melone (scomodo, ma ancora si afferra) o un’oliva
(peggio, qui) che va inforchettata con cura altrimenti scivola via, o più
spesso una mela, sì, una mela come prima, ma incolore e insipida; un frutto
che, benché saldamente stretto in mano e portato poi alla bocca, non riesce a
soddisfare né la vista né il gusto, e si mangia con poco entusiasmo (si pensi
invece allo - sfrenato? - piacere, per la matricola alle prime armi, di scovare
tre vettori linearmente dipendenti in R3 sorprendendoli con un solo colpo di
determinante, o alla soddisfazione nel vedere la propria matrice inversa
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sposare la matrice iniziale e generare, conto dopo conto, una diafana matrice
identità).
Nelle prossime righe ci proponiamo, dunque, di descrivere un metodo
per “responsabilizzare” lo studente che si trovi al cospetto di una matrice del
cambiamento di base, ma non solo. Vorremmo sensibilizzarlo al punto tale
da creare un “humus”, uno stato d’animo che lo renda più capace di dare il
benvenuto al concetto stesso di coordinate, così da fargliene apprezzare la
portata. Perché, dice talvolta la matricola, perché non ci si può accontentare
della base canonica? Che bisogno c’è di dire frasi come “i vettori di un dato
Rn coincidono con le loro coordinate soltanto se usiamo la base canonica”?
Cosa significa tutto questo macchinario dei cambiamenti di base? Dove mi
porta?... E noi aggiungiamo: le nostre affermazioni sulle basi e le coordinate
sono sempre comprese nella loro essenza più intima? Riusciamo o no a
rendere partecipi gli studenti di quel sottile legame tra l’oggetto intrinseco,
il vettore di un misterioso spazio vettoriale, e le sue mille facce esplicite,
tutte maschere intercambiabili che ci permettono di parlare di lui e di
gestirlo? Quando si lavora con le coordinate di un vettore, in mille basi
diverse, non si genera forse - e qui confluiamo nella tematica del presente
lavoro - un esercito di parole scritte in mille lingue differenti ma che
vogliono, devono descrivere una, una sola idea, un solo pensiero intrinseco?
Partiamo dunque dal seguente tentativo di introduzione al concetto di
coordinate. Consideriamo la frase “ FINE ESTATE ”. Essa potrà far
scaturire riflessioni gradevoli, ma con più probabilità innescherà un senso di
nostalgia e inquietudine, soprattutto se la lezione avviene all’inizio
dell’anno accademico, proprio con l’estate alle spalle. Per tirarsi su è però
sufficiente pensare a una tale stringa come proveniente da una penna
inglese, così da lasciarsi trasportare in un “ BEL COMPLESSO
RESIDENZIALE ” forse disponibile tutto l’anno e con vista sulle scogliere
di Dover. In simboli, potremmo scrivere che ( FINE ESTATE )
ITA
≠ (
FINE ESTATE ) UK .
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Similmente, il medesimo cambio di lingua consentirà di trasformare un
nostro commento, fatto a un fruttivendolo, in un consiglio oculato: “ MORE
CARE, MORE CARE! ” (tradotto dall’inglese all’italiano: “ PIÙ
ATTENZIONE, PIÙ ATTENZIONE! ”). Tralasciando l’inglese, torna ora
alla mente un vecchio esempio, frutto dello studio del latino, che
descriviamo simbolicamente così: ( VA', O VITELLIO, AL SUONO DI
GUERRA DEL DIO ROMANO ) ITA = ( I VITELLI DEI ROMANI SONO
BELLI )
≠ ( I VITELLI DEI ROMANI SONO BELLI )
LAT
ITA
. Come
ultimo esempio trasformiamo una frase coerente, in italiano, in un paradosso
in francese - benché sia un po’ forzato sintatticamente, lo troviamo in
definitiva piacevole: ( MA VIDE POCHE DONNE )
ITA
≠ ( MA VIDE
POCHE DONNE ) FRA = ( LA MIA VUOTA TASCA DÀ ) ITA .
I simboli “ = ” e “ ≠ ” hanno una valenza assai importante quando li
rileggiamo nel contesto dell’algebra lineare. Qui infatti l’uguaglianza si
riferisce al vettore pensato come oggetto intrinseco, le cui mille facce si
manifestano a seconda della base scelta. Un solo vettore, dunque, un solo
significato; mille stringhe di coordinate per descrivere quel vettore, mille
parole per dar corpo a quel significato. E la stessa stringa identifica in
genere due vettori diversi, se la base cambia. Ecco dunque che (2,1,0),
vettore di R3, si può leggere come (2,1,0)C ma anche, ad esempio, come
(1,0,0)B
,
avendo
posto
C={(1,0,0),(0,1,0),(0,0,1)}
e
B={(2,1,0),(0,1,0),(0,0,1)}. Il corrispettivo della base canonica diviene, nel
contesto linguistico, la stringa che usiamo nella nostra lingua madre. In
altre… parole, leggendo una stringa come “A MAN A MAN ” ci viene
spontaneo attribuirle un’accezione di gradualità, mentre un inglese
penserebbe forse a un uomo in avvicinamento.
A questo punto tutto è pronto per parlare dei dizionari.
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2. Cambiamenti di base e dizionari bilingui.
Uno degli obiettivi a cui miriamo quando introduciamo i cambiamenti di
base è la diagonalizzazione di endomorfismi. Diagonalizzare vuol dire in
qualche modo semplificare mettendo in luce proprietà che altrimenti
rimarrebbero ignote perché sommerse da un “rumore di fondo” e in balia di
numeri aggiuntivi che complicano la situazione senza fornire alcuna
informazione
utile.
Qualora
non
riuscissimo
a
raggiungere
una
diagonalizzazione, potremmo ripiegare su una Jordanizzazione, insomma, in
qualche modo riusciremmo a “fare pulizia” usando un opportuno
cambiamento di base. Quanto detto si può benissimo rileggere alla luce
dell’approccio linguistico visto sopra. Tutto sta a vedere un endomorfismo
come una regola grammaticale che modifica parole date in input
trasformandole in nuove parole, in una data lingua - la medesima sia in
input che in output. Un’osservazione necessaria prima di proseguire è che, a
differenza del caso algebrico, le regole grammaticali agiscono solo su un
sottoinsieme proprio del dominio delle parole di senso compiuto. Possiamo
tuttavia immaginare un’estensione qualsiasi di tali operatori, su tutto il
dominio verbale.
Consideriamo ad esempio l’operatore “comparativo di maggioranza”,
scriviamolo cmag, nella lingua inglese. Abbiamo che cmag(good)=better,
cmag(bad)=worse, cmag(long)=longer, cmag(interesting)=more interesting,
cmag(far)=farther, e così via. Le leggi che governano la creazione di tale
comparativo si possono riassumere così: se x è un aggettivo monosillabico,
diverso da certi aggettivi speciali (che uno elenca a parte) allora cmag(x)
aggiunge “er” alla fine di x, eventualmente raccordando in qualche modo
l’ultima lettera (es. big raddoppia la g). Se invece x è polisillabico,
l’operatore aggiunge la parola more prima dell’aggettivo. Notiamo, perciò,
che la creazione di un comparativo di maggioranza presenta più difficoltà in
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inglese che in italiano, dove le eccezioni sono strettamente contenute nelle
eccezioni inglesi (il nostro far è lontano, e non fa eccezione) e, soprattutto,
l’uso del più investe tutti gli aggettivi non speciali. Se ora introduciamo gli
operatori di traduzione dall’italiano all’inglese e viceversa, risp. ITAING e
INGITA, e anche l’operatore del comparativo di maggioranza in italiano,
CMAG, abbiamo ad es. che
CMAG(caldo) = INGITA(cmag(ITAING(caldo))) = INGITA(cmag(hot))
= INGITA(hotter) = più caldo .
Più suggestivamente, visualizziamo i due processi così:
CMAG
ING
ITA
cmag
ITA
ING
L’analogia con il cambiamento di base per gli endomorfismi appare ora,
probabilmente, con più vigore. La matrice che trasforma le coordinate
ripetto a una base in quelle rispetto ad un’altra si comporta come un
dizionario, ad es. quello di “italiano-inglese”. La matrice che compie il
lavoro inverso è ovviamente l’altra metà di un dizionario bilingue. Sul
versante delle lingue, similmente a quanto avviene per le basi e le matrici, il
ruolo dei dizionari risulta cruciale nel ridurre la complessità della regola
grammaticale esaminata. Il frutto di un adeguato “cambio di coordinate” si
traduce nella semplificazione di una legge che, sebbene sia intrinsecamente
definita a prescindere dalla lingua del parlante, trova tuttavia realizzazioni
ben diverse tra loro, più o meno complesse, proprio al variare della lingua in
cui essa si materializza.
Il secondo esempio che proponiamo spezza una lancia a favore della
lingua inglese. Consideriamo infatti l’operatore di “passato remoto, prima
persona singolare”, REM, nella lingua italiana, che agisce sugli infiniti dei
verbi - fonte, questo operatore e tutti i suoi simili per le altre cinque persone,
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di numerosi episodi tragicomici nella vita quotidiana). In questo caso il
cambiamento di lingua dall’italiano all’inglese si avvicina molto all’idea di
diagonalizzazione, molto più di quanto non abbia fatto prima. Infatti, se il
pregio del comparativo in italiano era quello di trascurare la distinzione tra
mono- e polisillabi, qui il suffisso –ed (oppure –d) ci esonera dal coniugare
verbi come privare (to deprive), seguire (to follow), torcere (to twist), per
non parlare dei terribili cuocere (to cook) e nuocere (to harm)! Ad esempio,
definendo rem come l’operatore di passato remoto, prima persona singolare,
in inglese, abbiamo che
rem(harm) = ITAING(REM(INGITA(harm))) = ITAING(REM(nuocere))
= ITAING(nocqui) = I harmed .
Il punto debole di un tale cambio di lingua risiede ovviamente in tutti
quei verbi inglesi “irregolari” che, nonostante i nostri sforzi, generalmente
spuntano fuori all’improvviso e ci consentono di fare figuracce della stessa
entità di quelle prima menzionate - questa è almeno l’esperienza di chi
scrive le pagine presenti. In definitiva, allora, potremmo abbassare il tiro e
dire che il passaggio da REM a rem ha gli stessi effetti di una pur efficace
Jordanizzazione.
Arrivati a questo punto dovrebbe risultare chiaro che il cambio di lingua
dall’italiano all’inglese applicato all’operatore di “futuro”, ad es. per la
“prima persona singolare”, sa veramente di diagonalizzazione. Potremmo in
effetti pensare al “will” che si antepone al verbo, come a una
“moltiplicazione” (a sinistra, d’accordo, ma sempre invitante), e dunque
immagineremmo una matrice diagonale con tutti will sulla diagonale
principale, o meglio l’operatore will·(……), una sorta di omotetia. In modo
del tutto analogo potremmo introdurre l’operatore would·(……), che nelle
coordinate italiane avrebbe non pochi problemi di realizzazione.
Per mantenere ancora il contatto con la linguistica, ora che vogliamo
passare alle applicazioni lineari tra spazi diversi, possiamo ricorrere al
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seguente esempio.
Consideriamo lo spazio B delle parole (di senso
compiuto) conosciute da un bambino, e quello P delle parole conosciute da
suo padre. Le applicazioni lineari più spontanee che tali spazi evocano sono
ovviamente l’inclusione e la proiezione, dove “proiettare” una parola x da P
a B vuol dire o preservarla (se il bambino la conosce) o applicarla in un
punto speciale, ad es. ∞ (se non la conosce). Un’applicazione più elaborata
dell’inclusione potrebbe essere quella che associa una parola x del bambino
a una parola y che suo padre pronuncia per analogia - è il solito vecchio
gioco - ed è perfettamente ammissibile che y non appartenga al lessico del
bambino. Nel contesto presente, la diversità dei due lessici si può ben
rileggere come diversa dimensione delle matrici che operano il
cambiamento di coordinate per una data applicazione lineare, definita ad
esempio da R2 a R3. Al bambino infatti occorre un dizionario più piccolo di
quello del padre. Il gioco dell’analogia non risparmia, crediamo, nemmeno
le famiglie inglesi, che lo chiameranno presumibilmente analogy. Il relativo
analogy
ITA
ING
adulti
analogia
diagramma è dunque
ING
ITA
bimbi
Ad esempio, se il papà è un topologo potrebbe accadere che
analogy(ball)
=
ITAINGadulti(analogia(INGITAbimbi(ball)))
=
ITAINGadulti(analogia (palla)) = ITAINGadulti(disco) = disc.
Infine, tornando a discorsi da uomo a uomo, pensiamo alla situazione in
cui abbiamo necessità di tradurre dall’italiano all’inglese e disponiamo
invece di dizionari italiano-francese e francese-inglese: ecco che ha fatto
capolino la composizione di matrici del cambiamento di base...
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3. Luoghi geometrici, ma nello spazio delle idee
La difficoltà nel riconoscere che i punti (1,2,4), (2,3,2), (4,5,-2) e (0,1,6)
- in un fissato riferimento - sono allineati non si confronta con quella nel
decretare l’allineamento di (8,7,1), (8,7,2), (8,7,10) e (8,7,-4). Nel primo
esempio, un opportuno cambiamento di base metterebbe in luce due
componenti uguali per tutti e quattro i vettori. Nella nostra metafora
linguistica, pensiamo ad AURA, IRA, LIRA, SERA. In “coordinate
francesi” ci troviamo di fronte a quattro futuri (avrà, andrà, leggerà, sarà)
nella terza persona singolare o, in altri termini, a quattro elementi
appartenenti al medesimo “luogo concettuale” identificato dalla legge: [x =
verbo al futuro, 3a sing.], proprio come le equazioni [x = 8 ; y = 7] di prima
(la trattazione, in queste righe, è più sfumata che altrove…). In “coordinate
italiane” invece, apprezziamo soltanto una sorta di “complanarità” poiché si
tratta semplicemente di “sostantivi al femminile” (che riteniamo essere
meno specifici dei futuri per la terza persona). Un altro esempio è dato da
quattro nostri verbi all’infinito: DARE, DIRE, FARE, STARE. In
“coordinate inglesi” il primo è un verbo (osare), il secondo è un aggettivo
(terribile), mentre gli ultimi due significano tariffa e sguardo fisso ma
possono anche denotare i verbi viaggiare e guardare intensamente.
Comunque non fanno tutti parte di un’unica entità così facile da
caratterizzare come [x = verbo all’infinito] per l’italiano.
Ad esser precisi, l’infinito inglese è sempre introdotto dalla particella
“to”. Benchè questa osservazione indebolisca il già infiacchito rigore del
precedente paragrafo, essa ci offre lo spunto per parlare di luoghi geometrici
e forme canoniche. Notiamo banalmente, a tal fine, che i quattro futuri
francesi sopra descritti non esauriscono la totalità dello spazio : [x = verbo al
futuro, 3a sing.]. Al contrario, la totalità dei verbi inglesi all’infinito è
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caratterizzata precisamente dalla legge : [x = TO y per qualche y].
Similmente, il gerundio francese è caratterizzato da [x = EN y-ANT per
qualche y] (ad es. en passant, tr. passando). In entrambi i casi assistiamo a
forme canoniche che descrivono la totalità dei concetti afferenti alla
proprietà di base, cosa che non accade ad es. in italiano. Il nostro gerundio
non può essere catturato, infatti, con regole sintattiche così immediate: come
distinguere strutturalmente orrendo da facendo, o bando da dando? E
“Orlando, orlando!” non potrebbe essere il consiglio dato da un docente a
una matricola (i cui genitori sono “fan” di Boiardo o Ariosto, o comunque
se non son fan come minimo fan i fan) che non sa come calcolare un rango?
Da qui ad associare l’idea di gerundio a un’ellisse, o l’idea di infinito
verbale a un’iperbole, con centro in (0,0) ma ruotate a piacere, il passo è
breve (ma più lungo della gamba media di una matricola?). Al variare della
lingua che non sia rispettivamente il francese e l’inglese, le equazioni di tali
luoghi geometrici si complicano impedendo un facile riconoscimento,
eppure mediante un’opportuna rotazione degli assi le loro forme canoniche
tornano a splendere, inequivocabilmente.
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