Conferenza Centro natura 15 aprile 2005 Cibo: paradiso o inferno? Modelli a confronto Sintesi dei contributi di orientamento psicoanalitico Premessa : alcuni cenni sull’approccio psicoanalitico di Silvia Uguzzoni1 L’aspetto più interessante di questi incontri è il fatto che partono da un problema concreto, un problema di cui ciascuno di noi può avere fatto esperienza, in modo diretto o indiretto. Questo punto di vista obbliga anche noi terapeuti a restare ancorati alla realtà della nostra pratica, e a pensare al modo in cui cerchiamo di affrontare il disagio che ciascuna persona ci porta. Mi sembra importante questa premessa soprattutto nei confronti di un fenomeno come quello dei disturbi della condotta alimentare che, essendo relativamente recente, e, avendo così chiari legami con le nostre attuali condizioni di vita, ha generato un’enorme diffusione di “teorizzazioni” a diversi livelli di profondità, che troviamo descritte dalla rivista femminile alla letteratura specializzata. La necessità di fornire spiegazioni ad un fenomeno in così rapida e continua espansione ha senza dubbio aiutato a comprenderlo meglio, ma comporta anche un rischio. Il rischio che estrapolando il sintomo dal contesto in cui si presenta, cioè la persona e l’insieme delle sue relazioni, per arrivare ad una teoria generale, si perda di vista la complessità individuale, con un meccanismo analogo a quello della diagnosi che spesso finisce per ridurre il soggetto al quadro sintomatologico che presenta. Occorre allora, oltre che al movimento di astrarre il sintomo per generalizzarne le caratteristiche e le possibili cause, compiere il movimento opposto, cioè riportarlo all’interno di quello specifico soggetto. E, siccome, le spiegazioni generali possono aiutare, ma non curano, è proprio nella prassi che siamo obbligati a fare i conti con la realtà del sintomo e non con la sua astrazione. Senza dubbio l’approccio psicoanalitico consente una costante apertura alle molteplici sfaccettature del sintomo proprio perché non cessa di interrogarsi sul suo significato, nella convinzione che soltanto decodificando tutte le diverse comunicazioni contenute nel sintomo questo perda la sua funzionalità e si trasformi in un vissuto meno doloroso per il paziente. Infatti, una delle eredità più ricche e creative che ci ha lasciato Freud è il pensare che un problema, se esiste, ha una sua ragione, un buon motivo per esserci. Ciò significa che non posso ridurre il sintomo ad un inutile fardello di cui liberarmi al più presto, ma devo innanzitutto rispettarlo, poiché esso, come affermava Freud, rappresenta il migliore compromesso possibile fra diverse parti della personalità in conflitto fra loro. Inoltre, come ha sottolineato per primo Jung, il sintomo contiene anche una componente teleologica, cioè un progetto, una finalità evolutiva che, se accolti e compresi, possono favorire la crescita dell’individuo e la sua realizzazione. L’attenzione ai significati del sintomo e al suo rapporto con il resto della personalità è oggi ancora più indispensabile perché è estremamente raro che ci troviamo di fronte alle “nevrosi pure” descritte da Freud, con un quadro sintomatologico definito e associato ad una determinata fase dello sviluppo psicosessuale. Attualmente sono infatti molto più frequenti quadri di personalità misti, in 1 Silvia Uguzzoni svolge l’attività privata di psicoterapeuta ad indirizzo psicoanalitico dal 1987. Ha collaborato per circa dieci anni con le strutture pubbliche come conduttore di gruppi di danzaterapia con utenti con disagio mentale grave. Ha curato, come consulente scientifico, tutti i libri di Vera Slepoj, editi da Mondadori. Ha condotto gruppi di approfondimento sui problemi alimentari con persone in sovrappeso. Per contatti: Silvia Uguzzoni, Studio via N. Zauro 2, Bologna, cell. 335.5203951 e-mail [email protected] 1 cui le diverse aree psichiche hanno un grado differente di sviluppo. Ciò significa che lo stesso comportamento sintomatico lo si può trovare a differenti gradi di patologia. Ne varia l’intensità, la persistenza, lo spazio che esso occupa nel quadro di personalità generale. Ma, anche quando il sintomo ha caratteristiche pressoché identiche, esso può rappresentare una momentanea regressione davanti ad una frustrazione, ad una separazione, ad un vissuto di inadeguatezza, o, per contro, può costituire l’unica possibile modalità di relazione con la realtà e di gestione dei conflitti interni, all’interno di una personalità fortemente destrutturata. Tutti gli autori successivi a Freud che hanno dato un contributo fondamentale alla psicoanalisi non hanno fatto altro che aprire e sviluppare nuovi punti di vista, aggiungere un’altra faccia al prisma della conoscenza della psiche, rendendo sempre più complessa la spiegazione dei fenomeni, ma anche più aderente alla realtà. E’ per questo motivo che oggi, proprio perché possediamo strumenti più raffinati, non possiamo prescindere di guardare al sintomo e alla persona da diversi punti di vista. Quindi, anche se ogni terapeuta privilegia una specifica “lettura”, per avere una visione più completa del paziente e una relazione autentica con lui, deve tenere presenti tutti gli aspetti che le diverse scuole psicoanalitiche post-freudiane hanno approfondito. E chiedersi : A che cosa serve il sintomo, quali bisogni-desideri soddisfa? (punto di vista delle pulsioni) Da che cosa protegge e quali vantaggi secondari fornisce? (punto di vista delle difese) Che posto occupa all’interno della personalità, qual è il senso di identità dell’individuo? (punto di vista della costruzione del Sé) Che tipo di relazioni il paziente sviluppa, qual è il suo grado di dipendenza-autonomia? (punto di vista relazionale) Quali sono le risorse e le aree della personalità “libere dal conflitto”? (punto di vista della psicologia dell’Io) Qual è il contesto sociale e culturale, i valori generazionali di riferimento? (punto di vista umanistico-esistenziale) La comprensione psicoanalitica dei DCA di Daniela Iotti2 Il cibo e le condotte ad esso associate hanno sempre assunto in tutte le organizzazioni sociali un ruolo complesso non solo di sostentamento, ma anche di socializzazione (la tavola, i rituali legati al cibo), di definizione dei valori e dei limiti (buono/cattivo, commestibile/non commestibile), di affettività (primo rapporto con il corpo della madre). L’aumento considerevole di preoccupazioni relative al cibo e di veri e propri disturbi del comportamento alimentare nella società occidentale viene da molti considerato come indicatore di uno spirito dell’epoca. Questo spirito sarebbe caratterizzato da una smisurata preoccupazione di sé, in cui a una forte enfasi sull’autorealizzazione individuale e sul corpo come feticcio e apparenza si accompagna un interesse puramente energetico e fisiologico per l’alimentazione (calorie, grassi, ecc.), controllato dal sapere medico (o di altri esperti della salute), dove il piacere alimentare è spesso identificato con rischi fisici (malattia), morali (perdita del controllo sul desiderio) o estetici (perdita della linea) (S. Inglese). Ma i fattori 2 Daniela Iotti è psicologa e psicoterapeuta. Ha svolto una prima formazione clinica negli anni ’80, seguendo il modello dell’Analisi transazionale. Ha successivamente approfondito la propria formazione nell’ambito del modello psicodinamico sia con analisti della Società Psicoanalitica Italiana che del gruppo di Psicoterapia e Scienze Umane. In particolare partecipa da alcuni anni a un gruppo di supervisione e clinica dei Disturbi del comportamento alimentare con terapeuti di diverso orientamento psicodinamico. È socia fondatrice della associazione OS Oltre il Sintomo - per la ricerca e la clinica dei Disturbi del Comportamento alimentare. Lavora dal 1986 come psicoterapeuta e come consulente nell’ambito di contesti educativi e socio-sanitari. Per contatti: Daniela Iotti, Studio via M. D’Azeglio 39, 40123 Bologna, cell.347.5438962 e-mail [email protected] 2 ambientali, di carattere sociale o più specificamente familiare, non spiegano del tutto l’incremento delle patologie alimentari. Affinché elementi esterni diano luogo a una patologia alimentare, ci vuole un incontro con un disagio interno, la cui comprensione richiede la considerazione del funzionamento e della conflittualità intrapsichica (Bruno-Trombini). Va aggiunto che neppure le definizioni puramente comportamentali e fenomenologiche dei disturbi delle condotte alimentari permettono di comprenderle appieno; possono anzi portare a fuorvianti classificazioni. Infatti, comportamenti e sintomi simili (quelli dell’anoressia ad esempio) possono essere espressione di un’ampia gamma di strutture patologiche e di problemi soggiacenti (che vanno dalle forme isteriche, ai disturbi di personalità, fino alla psicosi). Analogamente, sintomatologie diverse, come quelle che caratterizzano la bulimia e l’anoressia, vengono impropriamente distinte, mentre in realtà corrispondono a una stessa problematica di fondo e possono essere presenti in una medesima persona in momenti differenti. Spesso è solo nel corso di una psicoterapia che questa complessità soggiacente può essere individuata. È proprio nella comprensione dei problemi sottostanti a queste patologie (complesse non tanto nei sintomi, che anzi sono piuttosto ripetitivi e facilmente individuabili, ma nelle loro cause e nei loro esiti) che la teoria psicoanalitica può venirci in aiuto. La psicoanalisi non è tuttavia un sistema monolitico, ma si è modificata nel tempo e contiene al suo interno diversi modelli teorici che permettono di mettere a fuoco aspetti differenti del funzionamento mentale, ognuno dei quali può risultare utile e pertinente nella comprensione del paziente, a seconda dei problemi emergenti e dei diversi momenti della terapia. Ad esempio, l’approccio pulsionale (Freud), inizialmente dominante nella teoria psicoanalitica, dà attenzione in particolare all’intensità degli impulsi e alla forma dei desideri che si declinano nelle loro modalità orale, anale e fallica; il modello delle relazioni oggettuali (Fairbairn, Mahler, Winnicott) analizza il funzionamento psichico a partire dalle costellazioni relazionali che si formano e si interiorizzano come risultato dell’incontro tra le esperienze interpersonali e le disposizioni soggettive; mentre il modello dello sviluppo del sé (Kohut) pone particolare attenzione al sentimento di continuità e di coesione del proprio sé in relazione alle esperienze soggettive e alle reazioni dell’ambiente, le cui vicissitudini hanno tanta importanza nel mantenimento dell’equilibrio narcisistico e dell’autostima. Attraverso queste differenti lenti teoriche possiamo cogliere i diversi elementi in gioco e la loro complessa interazione (mai definibile a priori, e specifica di ogni storia individuale) a partire dalla quale si sviluppa il disturbo alimentare, inteso come risposta e tentativo di far fronte a un conflitto sentito come inaffrontabile. Il conflitto di base in molti di questi disturbi riguarda la scelta indecidibile tra l’intenso desiderio di ristabilire una unità con la madre (o i suoi sostituti) in un contatto di nondifferenziazione, e l’esigenza, percepita come altrettanto necessaria, di salvaguardare la propria esistenza psichica, il proprio senso di sé, che in questa massiccia adesione all’altro rischierebbe di andare perduto. Tale desiderio regressivo è spesso connesso a una qualche carenza o disarmonia avvenuta in momenti cruciali della fase di separazione-individuazione del bambino dalla madre. È come se la persona, in periodi iniziali e sensibili della propria vita, non si fosse sentita rispecchiata, vista e percepita dalla madre (o da chi per lei) nelle proprie mutevoli sensazioni e desideri, e per questo trova difficoltà a percepirsi e vedersi come un oggetto esistente per sé. Questa mancata o insufficiente possibilità di individuarsi e di pensare a sé in assenza dell’altro indebolisce le capacità personali di regolare e trasformare sia gli aspetti cosiddetti pulsionali che quelli connessi al mantenimento della continuità di sé di fronte ad esperienze, vissuti e percezioni diverse. Capiamo allora perché questi disturbi possono insorgere o aggravarsi di fronte a cambiamenti significativi (separazioni, perdite, delusioni personali) o durante l’adolescenza, periodo in cui le trasformazioni fisiche e l’intensificarsi dei desideri sessuali e aggressivi (sempre chiamati in causa nei processi di separazione e di autonomizzazione) possono richiedere capacità superiori alle risorse dell’adolescente. Si spiega in questo modo anche la tematica del vuoto, così presente in questo tipo di disturbi. Attendere, senza la possibilità di riempire la mancanza con le rappresentazioni di 3 possibili soddisfacimenti e di altri stati di sé, viene percepito come un vuoto insostenibile, collegato a un senso di dissoluzione. La drammaticità di questi conflitti e la gravità della patologia che ne deriva possono tuttavia variare molto (da fasi transitorie che si risolvono rapidamente, fino a situazioni con esiti letali) a seconda di quanto e quali settori dell’Io sono coinvolti in questa problematica, dell’entità dei fallimenti che hanno condotto ad essa, del loro periodo di insorgenza, dell’ulteriore sviluppo, e del tipo di appoggi che si possono trovare nell’ambiente esterno. La presenza di appoggi adeguati può aiutare a rassicurare la persona, facilitare una ripresa delle interiorizzazioni, e allentare così la dipendenza. La relazione terapeutica nei DCA Alessandra Inglese3 Con il presente contributo si vuole dare un’idea di come nel lavoro clinico possano essere affrontati i disturbi del comportamento alimentare. Gli strumenti concettuali si rifanno soprattutto alle teorie di Winnicott e di Balint. Entrambi questi autori hanno prestato particolare attenzione alla relazione precoce madre-bambino e al carattere dinamico del Sé, visto come una struttura che interagisce, autotrasformandosi, con l’ambiente. Sia per Winnicott che per Balint le prestazioni materne, oltre che necessarie, sono “attivate” dal bisogno di aiuto del neonato che induce nella madre una disponibilità e una ricettività particolare verso tutto quanto proviene da lui (“preoccupazione materna primaria” Winnicott,1965). I bisogni del lattante trovano una complementarietà nell’attitudine della madre a provvedervi, così che l’uno e l’altra, se tutto procede “sufficientemente” bene, maturano, all’interno di una relazione che ha le caratteristiche di una “intesa”, basata essenzialmente sulla comunicazione non verbale. Essenziale è che la madre assecondi il figlio nella crescita senza forzare, né rallentare i tempi e che possa dedicarsi a lui con una “devozione” , da intendersi non tanto come bontà ed altruismo, quanto come tolleranza della iniziale dipendenza del bambino e come attitudine a comprendere empaticamente le sue esigenze. A partire da queste premesse, derivanti dall’osservazione della diade madre-bambino, la normalità e la patologia dello sviluppo psicologico sono collegate quasi sempre a come vengono assolte le funzioni materne e alle eventuali carenze di queste funzioni. Questa lettura ha risvolti operativi precisi nella clinica: infatti gli strumenti privilegiati dal terapeuta, più che l’interpretazione e la ricostruzione del passato del paziente, sono la propria disponibilità affettiva e il sostegno emotivo, finalizzati al recupero del movimento naturale del paziente verso l’autonomia. Nella storia delle pazienti che soffrono di un disturbo del comportamento alimentare sono spesso presenti in età precoce segnali di disagio (ad es. difficoltà del sonno, rifiuto del latte) in concomitanza con stati di malessere della madre. Il contributo proposto, partendo dall’esperienza clinica, si focalizza su alcuni temi centrali nella cura di anoressia e bulimia: la mancata integrazione psichica tra mente e corpo; il senso e i significati del sintomo; i momenti salienti del percorso terapeutico ed alcune tecniche utilizzate nell’ambito della psicoterapia analitica. 3 Alessandra Inglese è psicologa e psicoterapeuta. E’ diventata Analista Transazionale Clinico nel 1988. Ha in seguito approfondito la formazione con analisti della Società Psicoanalitica Italiana. Dal 1998 fa parte di un gruppo di supervisione e clinica dei Disturbi del Comportamento Alimentare a cui appartengono terapeuti di diverso orientamento psicodinamico. E’ presidente dell’associazione Os Oltre il sintomo - per la ricerca e la clinica dei Disturbi del Comportamento Alimentare. Esercita come psicoterapeuta privata dal 1988. Per contatti: Alessandra Inglese Studio via Massarenti 35/2, 40138 Bologna, Tel. 051 307049 [email protected] 4 In sintesi, la scissione mente-corpo viene descritta come un particolare funzionamento psichico che causa una perdita del legame psicosomatico: le capacità cognitive da un lato e il corpo dall’altro sono utilizzati per negare o esercitare uno strenuo controllo sulle emozioni e sulle sensazioni del corpo. La scissione è la conseguenza di un trauma avvenuto nell’infanzia, che ha bloccato la maturazione dell’Io. Il sintomo ha le funzioni di proteggere un Sé fragile e immaturo e nello stesso tempo di mantenere un contatto con il corpo attraverso il dolore fisico. Del trauma viene data una definizione che tiene conto dell’interazione tra più fattori determinanti: l’età del bambino, la qualità della relazione con la madre, la durata del trauma, il contesto (qualità della relazione con il padre e altri familiari, rapporto tra i genitori, condizioni di vita ed eventi). Infine, viene illustrato a grandi linee il percorso terapeutico: dalla costruzione di una relazione basata sulla fiducia fino alla possibile “ri-sperimentazione” del trauma nel transfert. Riferimenti bibliografici sui DCA4 Bruno W.(2003). Il bisogno di fallire. In Famiglia alimentazione e affetti. Grafiche Dehoniane, Bologna Bruch H. La gabbia D’oro, Feltrinelli, 1983 Brusset B. Psicopatologia dell’anoressia mentale, Borla, 2002 Kestemberg E. e J., Decobert S. La fame e il corpo, Astrolabio, 1974 Lavanchy P. Il corpo in fame, Rizzoli, 1994 Inglese S. “Un secolo che ha fame” I fogli di Oriss n.9 agosto 1998 Recalcati M. L’ultima cena:anoressia e bulimia, Mondadori, 2000 Winnicott D.W. (1956). Dalla pediatria alla psicoanalisi Scritti scelti. Martinelli, Firenze, ‘75 Winnicott D.W. (1989). Esplorazioni psicoanalitiche. Cortina, Milano 1995 4 I testi classici dei teorici della psicoanalisi sono reperibili nelle bibliografie dei libri sopracitati. 5