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Sebastiano Maffettone
Convegno "Individualismo" Normale Pisa 28 maggio 2014
1. Premesse
In questo scritto, affronterò il tema dell'individualismo nella prospettiva dei rapporti
tra etica ed economia, seguendo una lunga tradizione che va da Adam Smith a
Amartya Sen. Soltanto una dimensione morale dell’economia –a mio avviso- può
metterci in condizione di comprendere e affrontare correttamente questioni complesse
come la stabilità finanziaria e la distribuzione economica. Troppo spesso nel parlare di
economia si tende invece a sacrificare tale dimensione etica, favorendo dibattiti
meramente tecnici su come la società dovrebbe regolare i mercati finanziari o
distribuire beni primari. Ciò vale sempre ma ancora di più oggi, dopo il 2008, in un
momento in cui il capitalismo ha mostrato la sua insufficienza nell'affrontare crisi
sistemiche.
Dietro la difficoltà di riconoscere una dimensione etica all’economia credo ci sia una
ragione fondamentalmente metodologica. Dal mio punto di vista l’ostacolo consiste in
una (diffusa) interpretazione erronea dell’individualismo. Questo mi consente di
passare dal tema generale "etica-economia" a quello speciale del nostro convegno
sull'individualismo. Nota bene, io non ho alcuna intenzione dii adottare una qualche
alternativa comunitaria o olistica all’individualismo. Sono anzi pienamente
consapevole dei benefici sociali e politici che si accompagnano all’individualismo
standard, a iniziare dalle libertà personali di base che non vorremmo certo perdere.
Vorrei semplicemente suggerire che ci sono due modi comuni di fraintendere
l’individualismo di cui dovremmo tener conto quando parliamo della dimensione
morale dell’economia: primo, l’individualismo non va letto in termini di puro
soggettivismo; secondo, l’individualismo non va confuso con l’egoismo.
La prima interpretazione errata dell’individualismo può esser messa in luce attraverso
l’analisi delle teorie del valore che sono alla base dell’etica e dell’economia e le
relazioni tra queste. Ciò che io sosterrò è innanzitutto che le teorie del valore utilizzate
in etica ed economia sono reciprocamente incoerenti, essendo abitualmente
oggettiviste in etica e soggettiviste in economia. Da questo punto di vista credo che gli
economisti dovrebbero prendere in più seria considerazione l’analisi etica dei
fondamenti dell’economia e abbandonare il soggettivismo preferenzialista (sic!) al
quale spesso si affidano. In tal senso l’individualismo –nella prospettiva del valorenon andrebbe letto come mero soggettivismo. Sono peraltro scettico sulla possibilità
di concepire una dimensione morale dell’economia partendo da un’interpretazione
oggettiva e condivisa della natura umana (come vorrebbero invece molti a cominciare
dalla Caritas in Veritate). La ragione del mio scetticismo è la preoccupazione per il
pluralismo. Nella società contemporanea coesistono molte interpretazioni della natura
umana e noi non possiamo selezionarne una a discapito delle altre. O perlomeno non
possiamo farlo se vogliamo –come me- proteggere le basi etico-politiche del
liberalismo. Questa conclusione non promuove l’adozione di una prospettiva scettica
verso i valori. Al contrario, come vedremo, il mio scopo è piuttosto quello di difendere
una visione oggettiva del valore compatibile col pluralismo.
Un secondo modo di fraintendere l’individualismo consiste nel concepirlo come una
declinazione dell’egoismo. Nonostante la significativa incompatibilità tra le teorie del
valore in etica e in economia, entrambe afferiscono all’individualismo, almeno per
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quanto riguarda la tradizione occidentale dei nostri tempi. Infatti, il concetto principale
all’interno della tendenza dominante dei fondamenti di etica e economia, è stato
formato da ciò che possiamo chiamare individualismo. La mia tesi è che questo
comune individualismo vada messo seriamente in discussione al fine di evitarne una
lettura in termini di egoismo dirompente. Naturalmente sono consapevole che termini
come individualismo sono vaghi. L’individualismo etico e quello economico, per non
parlare dell’individualismo politico o di quello metodologico, non sono identici e ci sono
differenze concettuali tra loro. Inoltre, di certo l’individualismo non coincide
concettualmente con l’egoismo. Ma su questo vedremo più avanti. Per il momento,
basta sapere che la mia tesi è la seguente: la crisi economica dal 2008 in poi ma non
solo economica ci deve far riflettere su alcune degenerazioni dell’individualismo così
da far emergere una qualche dimensione morale dell’economia.
Esporrò questa tesi nelle seguenti tre sezioni.
Nella prima analizzerò alcuni aspetti fondamentali della business ethics e della
corporate social responsibility (CSR) al fine di presentare la sovrapposizione di
moralità e economia nel tipico modo accademico. Per prendere seriamente in
considerazione la moralità dell’economia dobbiamo iniziare dove etica e economia
s’incontrano in maniera standard nel discorso accademico. Ciò chiarirà anche la
relazione fra crisi finanziaria e le precondizioni della CSR. La CSR è assai diffusa come
pratica aziendale ma rimane molto controversa, non solo come strategia di successo
ma –per quel che credo- anche per ragioni fondamentali legate alla dimensione
morale dell’economia.
Per mostrare perché la CSR sia così controversa nella seconda sezione esplorerò le
complesse relazioni fra due sfere d’imperativi differenti, quelli economici e quelli
morali, entrambi presenti nella CSR. Le due logiche sottostanti questi imperativi sono
a mio avviso spesso agli antipodi. Questa tensione crea enormi difficoltà a lavorare su
un progetto comune che possa cogliere le basi morali della vita economica. Per
affrontare queste difficoltà io sostengo che dobbiamo riflettere sulle teorie del valore
che utilizziamo rispettivamente in etica ed economia al fine di raggiungere un possibile
e plausibile progetto di moralità in economia. Naturalmente questo obiettivo non è
popolare tra gli studiosi né facile da perseguire per nessuno di noi. Troppo spesso la
logica preferenzialista della teoria del valore dell’economista rifiuta di accettare la
logica deontologica dell’eticista, e viceversa la logica del compromesso dell’economista
è problematica per la logica categorica dell’eticista. Io credo che nel discutere la
dimensione morale dell’economia sia invece necessaria un’intersezione critica fra le
due logiche. Bisognerebbe semplicemente essere meno dogmatici, su entrambi i
fronti. Una maniera per farlo è quella di adottare una teoria del valore oggettivista che
sia compatibile con alcune delle posizioni dell’economista. Per chiarirci, se
normalmente l’economia presuppone una teoria del valore soggettivista e l’etica una
teoria del valore oggettivista allora dovremmo convincere l’economista ad accettare
parte della teoria del valore oggettivista ispirata dall’etica. Secondo alcuni però
l’adozione di una teoria del valore oggettivista potrebbe porre problemi alla libertà
personale. In particolare, una teoria oggettivista del valore potrebbe non essere
coerente con la libertà di scelta individuale. Per evitare un tale rischio, cercherò di
proporre un modello liberale nel quale una visione critica dell’individualismo e una
teoria del valore oggettivista siano compatibili con le libere scelte delle persone.
Questo modello esplora la possibilità di massimizzare il potere di scelta personale
sotto alcuni vincoli di natura morale. Per rendere meno oscura questa proposta si
potrebbe dire che se noi identifichiamo il potere delle scelte personali con ciò che i
filosofi morali e politici chiamano il -bene- e i limiti posti a questo con ciò che loro
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chiamano il giusto, siamo dunque di fronte a una terminologia usuale e una dialettica
più familiare (almeno per i filosofi).
Questo argomento è sviluppato nella seconda parte della sezione. Considerando la
società come un’impresa collettiva, la ricerca personale del bene non può oltrepassare
i limiti relazionali di natura non individualista imposti dal giusto. Questi limiti sono
ispirati da una teoria oggettivista del valore ma rispettano il pluralismo, che in una
società aperta è sia un fatto positivo che un requisito normativo. La necessità di
bilanciare una teoria oggettivista del valore con il pluralismo morale da origine a ciò
che John Rawls ha chiamato “la priorità del giusto”, che è poi il cuore della sua visione
liberale della giustizia. Bilanciare una teoria oggettivista del valore con il pluralismo e
correggere l’individualismo in nome del carattere sociale delle persone non sono
compiti semplici. Attraverso una breve analisi dell’Enciclica “Caritas in Veritate” di
Papa Benedetto XVI proverò a dimostrare come una teoria del bene basata su ciò che
Phelps chiama interpretazione della natura umana –in questo caso nella sua versione
cattolica- rischi di essere intrinsecamente incompatibile con una visione liberale della
giustizia. La principale ragione di questa incompatibilità è che l’interpretazione
cattolica della natura umana corre il rischio di perseguire il bene indipendentemente
dai limiti posti dal giusto. Questo tipo di violazione della priorità del giusto può
divenire d’interesse più generale se consideriamo che in un regime pluralista esistono
visioni della natura umana diverse e contrastanti. Perciò l’idea stessa di basare la
dimensione morale dell’economia su una visione della natura umana è problematica se
accettiamo il nucleo pluralista del liberalismo. In conclusione sosterrò che la logica
implicita nella priorità del giusto può realizzare una combinazione ottimale di valore
oggettivo e realizzazione personale.
Nella ultima sezione di questo articolo affronterò la problematicità di ciò che le due
diverse logiche condividono, ovvero l’individualismo. Per discutere seriamente della
dimensione morale dell’economia, io sostengo che si debba anzitutto criticare il tipico
fraintendimento dell’individualismo implicito sia in etica che in economia, vale a dire
quello che avvicina l’individualismo all’egoismo. Secondo molti autori una simile
proposta espone al rischio di gettare via il bambino con l’acqua sporca:
l’individualismo è un’eredità preziosa dell’Illuminismo e per molti di noi è difficile
scommettere sulle virtù progressiste di una qualche forma di comunitarismo (come
opposto dell’individualismo). Esiste tuttavia una possibile alternativa più liberale.
Esplorerò questa possibilità nei termini di una dialettica tra il “ragionevole” e il
“razionale”.
2. Corporate social responsibility and business ethics
In questa prima sezione si tratterà della CSR come parte del più ampio discorso della
business ethics. La ragione principale consiste nel fatto che – come già detto- nella
CSR la dimensione morale dell’economia è un fattore strutturale. Nel fare ciò ho una
duplice intenzione: da un lato intendo mostrare che la CSR richiede un approccio
critico verso i fondamenti dell’economia; dall’altro voglio mostrare che la CSR implica
un complesso equilibrio di due diverse logiche, quella soggettivista dell’economista e
quella oggettivista dell’eticista.
Parlando della morale nell’economia dei nostri giorni non si può non iniziare dalla crisi
finanziaria ed economica contemporanea. Noi sentiamo che ci debba essere una
qualche connessione tra la dimensione morale dell’economia e (direttamente) l’avidità
rampante o (indirettamente) l’aspirazione a regolare i mercati. Più in generale, l’idea
stessa di crisi economica ci invita a riflettere sui fondamenti dell’approccio economico.
Dopotutto nell’Antica Grecia le nozioni di “crisi” e “critica” erano semanticamente e
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concettualmente collegate. In tal senso è naturale che una grave crisi economica ci
spinga a criticare, tra le altre cose, le basi filosofiche delle assunzioni tipiche della
teoria economica. Mi riferisco ad assunzioni come la razionalità, la mano invisibile e
l’autosufficienza del mercato. Non è la prima volta che eminenti economisti, come
Adam Smith e Amartya Sen (che sono anche filosofi morali) rivolgono le loro critiche
in questa direzione: i wild spirits dell’economia competitiva per funzionare bene
hanno bisogno di un contesto morale e sociale non opportunistico. L’interesse
personale e persino l’avidità possono mettere in moto importanti energie produttive,
ma non si va molto lontano senza virtù pubbliche come fiducia e onestà. Questa
premessa generale è utile per presentare la CSR come uno strumento per introdurre
sistematicamente nei mercati virtù come fiducia e onestà.
Secondo alcune interpretazioni della CSR ci sarebbero delle caratteristiche tipiche
dell’economia che generano abitualmente la necessità della CSR come risposta. Le più
note tra queste sono: l’azzardo morale, l’asimmetria dell’informazione, i contratti
incompleti, la selezione avversa. Si può facilmente dimostrare che tutti questi
elementi sono presenti durante le crisi finanziarie. Per quanto riguarda l’azzardo
morale, come è tristemente noto spesso gli operatori della finanza hanno la garanzia
che le loro perdite future saranno tamponate dal coinvolgimento dei contribuenti.
L’informazione asimmetrica gioca a favore degli insider che possono trarre profitto
dall’ignoranza di numerosi risparmiatori creando e vendendo prodotti finanziari
rischiosi. I contratti incompleti devono essere rinegoziati periodicamente, e gli
operatori finanziari possono dunque lucrare rinegoziando in maniera opportunistica. La
selezione avversa è il risultato di una serie di scelte nelle quali alternativa più rischiosa
viene sistematicamente favorita. Queste quattro premesse normalmente sono
considerate necessarie e sufficienti a generare una situazione nella quale il sistema ha
bisogno di una regolamentazione dal punto di vista della CSR.
In questa prospettiva, cominciare con il considerare le opinioni di quanti ne negano
assolutamente la plausibilità è forse il modo migliore per render conto della natura
della CSR. Il rifiuto radicale può arrivare da sinistra, vedi Marx, o da destra, vedi
Friedman. Per Marx la CSR non ha senso perché il capitalista e i lavoratori sono
costretti dalla forza della storia in una relazione reciproca inautentica basata sullo
sfruttamento. Individualmente, nessuno può farci niente – dato lo sfondo decisamente
disperato – e solo il totale abbattimento del sistema può spezzare tale legame.
Nell’attesa che questo evento catartico si manifesti, l’etica non è che un palliativo, o,
peggio ancora, è un ulteriore strumento ideologico nelle mani della classe dominante
per perpetuare l’ingiusto assetto esistente. Per Friedman la situazione è
asimmetricamente analoga. L’unico dovere di una società è di creare profitto. “Il
business del business è il business” e null’altro, come lo stesso Friedman ha affermato
chiaramente in un noto articolo del “New York Times Magazine”. La CSR proviene da
un’altra tradizione, dalla tradizione liberale secondo la quale le decisioni delle persone
e delle società contano, dal punto di vista morale. Nel mondo degli affari ci si può
comportare in maniera etica o non etica, e la decisone di andare in una o nell’altra
direzione è significativa.
La CSR proviene così dalla tradizione della scuola della business ethics che ha origine
nella tradizione liberale nata con l’Illuminismo.
Il nucleo principale di questa
tradizione è la cosiddetta “stakeholder analysis”, databile storicamente nei tardi anni
ottanta. Con stakeholder s’intende il gruppo di persone che hanno un interesse, “a
stake”, e una voce in capitolo nella società e nell’impresa come “clienti, personale,
azionisti, l’ambiente, la pubblica amministrazione…”. Tutte queste persone hanno
diritto, a diverso titolo, alla considerazione e al rispetto da parte dei manager. Da
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questo dovere nasce la più ampia nozione di “responsabilità d’impresa”. Lo scopo della
CSR è di creare un clima di fiducia nel sistema economico nel suo complesso. Si può
notare che nei termini della stakeholder analysis la CSR viene in qualche modo
modellata strutturalmente in modo da favorire un approccio etico agli affari che vada
oltre il mero individualismo. Gli stakeholder hanno diritti e doveri di natura morale
oggettiva e questi diritti e doveri possono derivare da un contratto che pone gli
interessati in una relazione strutturata.
La teoria degli stakeholder è evidentemente incompleta. Ci viene detto che è giusto
prendere in considerazione le posizioni di tutti i coinvolti ma non quanto esse contino
in caso di conflitto. Un approccio basato sulla sostenibilità può essere complementare
alla teoria degli stakeholder. Può fornire, in altre parole, quel valore oggettivo sulla
base del quale comparare le pretese contrapposte da parte dei diversi stakeholders.
Se si condivide questo approccio si può contare su un valore oggettivo, la
sostenibilità, sul quale pesare le opposte rivendicazioni dei coinvolti: quelle sostenibili
contano di più. I principii che ispirano questo tipo di sostenibilità sono ben noti e
derivano dalla Dichiarazione dei diritti dell’uomo delle Nazioni Unite del 1948 e da vari
documenti a essa collegati, inclusi la protezione dei lavori del ILO e le varie clausole
ambientaliste. Così interpretata la sostenibilità poggia su tre pilastri (la c.d. “triple
bottom line”): ecologia, efficienza, equità. Quest’idea di sostenibilità favorisce la
business ethics (e la CSR) garantendo l’affidabilità della compagnia nel tempo e
proteggendo così gli stakeholder dal pericolo dell’instabilità.
Questa visione conciliante raggiunge un compromesso tra esigenze del mondo degli
affari e rivendicazioni etiche: nel lungo periodo, infatti, l’affidabilità assicurata dal
comportamento sostenibile protegge non solo tutti gli interessati ma anche tutti gli
interessi. Naturalmente se si accetta l’idea di regolare in questo modo pericoli e rischi
dello sviluppo economico allora si pone l’enorme problema di fornirsi degli opportuni
mezzi empirici per realizzare il progetto. Serve quindi un sistema di indici adeguato
per creare una metrica che ci permetta di valutare diversi comportamenti in termini di
CSR.
E’ giusto dire che la comunità internazionale, economica e finanziaria, sta
progressivamente accettando di regolare le proprie transazioni attraverso la CSR, e
probabilmente l’attuale crisi spinge molti altri attori in questa direzione. Il problema
principale ovviamente è il relativo successo delle strategie di CSR dal punto di vista
del mercato: i consumatori compreranno prodotti sostenibili, favorendo le società
impegnate nella CSR? Qui sorge la difficoltà di riconciliare criteri etici ed efficienza di
mercato. La valutazione/stima dei rischi e delle opportunità forma un complesso
budget nel quale si possono confrontare le conseguenze economiche delle scelte
alternative con i rispettivi effetti ecologici e sociali. La creazione di questo sfondo
misto crea anche problemi fondamentali connessi alle diverse logiche in gioco, quella
economica e quella etica.
3. Potenziale tensione tra il modello etico e quello economico
Come dicevo, la logica dell’eticista e quella dell’economista spesso confliggono. Con
ciò non intendo sostenere che esse siano in netta contraddizione ma solo che vi sia
una potenziale tensione.
Assumiamo che la logica dell’eticista consista nel nucleo del modello teorico adottato
dai filosofi morali nel discutere l’etica del lavoro e la CSR. Di solito questo modello
s’ispira a un qualche presupposto deontologico del quale esistono differenti versioni (è
naturalmente chiaro a chi scrive che non tutti gli approcci etici sono di questo tipo). A
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sua volta –in un quadro lato sensu razionalista- la deontologia in questione
presuppone come suo fondamento un’assiologia, cioè una teoria del valore. Questa
deontologia fornisce regole morali per il comportamento economico, regole che spesso
derivano dagli standard della giustizia sociale e dei diritti umani che sono parte dello
sfondo valoriale da cui la deontologia prende le mosse. Applicate al mondo del lavoro
queste regole morali assegnano diritti e doveri. Gli standard deontologici basati sulla
giustizia assegnano regole per preservare libertà, uguaglianza e equità nel mondo del
lavoro. Le basi individualistiche del modello sono definite da nozioni come l’autonomia
personale e il rispetto per ogni persona. Il requisito dell’equità insiste sulla necessità
di distribuire costi e benefici che derivano dalla cooperazione economica in un modo
che possa essere accettato da ogni partecipante ragionevole e razionale in una data
società.
Assumiamo invece che la logica dell’economista sia prevalentemente influenzata da
una qualche variante dell’economia neoclassica (naturalmente ci sono varie altre
opzioni, come quelle derivate da Marx e Keynes). Questo tipo di logica stabilisce una
peculiare relazione tra razionalità e valore. La razionalità è la caratteristica individuale
della persona che massimizza i propri interessi e il valore è concepito in termini di
utilità. L’idea di “preferenza” individuale permette una mediazione tra razionalità e
valore così concepiti. Da questa combinazione la teoria economica deriva una
complessa visione dell’efficienza come efficienza allocativa. In quest’ottica gli obiettivi
sociali sono spesso espressi nella forma dell’ottimalità di Pareto. Secondo la teoria
dell’ottimo paretiano una data situazione economica è efficiente o ottimale se la
posizione di nessuno può esser migliorata senza che peggiori quella di qualcun altro.
In tale maniera l’ottimo paretiano mantiene una debita distanza dalle controversie
teoriche sulla distribuzione.
Va notato che i modelli economici neoclassici standard non prendono di solito in
considerazione la dimensione morale del comportamento economico. La scelta
economica è influenzata dalle preferenze individuali che presuppongono
esclusivamente l’interesse personale. L’idea di ottimo di Pareto, mostrando la
connessione tra interesse personale e bene sociale, funziona qui come uno strumento
per offrire indicazioni agli economisti senza utilizzare regole morali riguardo diritti e
doveri. Solo determinate forme di controllo legale e sociale (come opposto a quello
morale) possono frenare il perseguimento del valore degli individui spinti dalla propria
utilità nell’ambito di questo modello teorico.
E’ interessante comprendere quale sia la principale differenza tra questi due approcci
in termini di teoria del valore (Non nego l’esistenza di opzioni intermedie. Scelgo
questo modello binario di esposizione per chiarezza). Parlando in generale, esistono
due concezioni di ragioni pratiche all’interno di una teoria del valore. Secondo una
prima prospettiva oggettivista ci sono fatti che ci danno ragioni per avere certi scopi e
comportarci in maniera coerente con essi. Queste ragioni sono oggettive in quanto si
riferiscono a “oggetti” moralmente rilevanti che rendono certi risultati importanti da
perseguire o certe azioni importanti da compiere. Secondo la seconda prospettiva,
quella soggettivista, le ragioni che motivano le azioni non dipendono da oggetti che
rendono i nostri scopi e il nostro comportamento intrinsecamente rilevanti. Al
contrario, le ragioni per agire dipendono da noi come “soggetti” poiché sono fornite
dai desideri e dagli intenti che abbiamo effettivamente al momento presente.
All’interno della prima visione oggettivista il valore si basa sugli oggetti che ci danno
ragioni per agire in modo da perseguirli e realizzarli. Nella seconda visione, quella
soggettivista, il valore dipende dal fatto che noi come soggetti abbiamo interesse a
certe azioni o risultati. In termini di bene, potremmo dire che per gli oggettivisti il
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bene precede e determina le nostre azioni motivanti, mentre per i soggettivisti, al
contrario, il bene piuttosto segue ed è determinato dalle nostre azioni motivanti. Tra
queste due visioni esiste una parziale sovrapposizione: entrambi, oggettivisti e
soggettivisti, possono infatti concordare sul fatto che dovremmo agire in base alle
migliori ragioni che abbiamo. Come visto, la differenza tra loro è la base sulla quale
sostenere che alcune ragioni sono migliori di altre. Spesso, di conseguenza, sorgono
disaccordi riguardo alla natura delle ragioni preponderanti e le scelte che si suppone
dobbiamo compiere. Mentre i soggettivisti sono naturalmente “preferenzialisti”, nel
senso che le migliori ragioni che abbiamo dipendono dai nostri attuali desideri presenti
come espressi dalle nostre preferenze, gli oggettivisti invece sostengono che ci siano
scopi la cui rilevanza trascende i nostri attuali desideri presenti. Per questa ragione
essi sono in favore di un approccio revisionista: secondo loro spesso i nostri attuali
desideri presenti dovrebbero essere rivisti e corretti, generalmente perché essi ci
spingono a perseguire scopi inferiori.
La tensione tra il modello etico e quello economico- quella che rende difficile qualsiasi
discorso sulla dimensione morale dell’economia e sulla CSR in particolare- può essere
riformulata attraverso questa ricostruzione. Essa viene infatti chiarita dalla teoria del
valore e dall’opposizione al suo interno tra oggettivismo e soggettivismo. Se
immaginiamo un ampio spettro di posizioni riguardo la dimensione morale
dell’economia, possiamo supporre che agli estremi si troveranno due opposte visioni
del valore: da una parte c’è la posizione puramente soggettivista dell’economia
neoclassica e dall’altra la posizione oggettivista dell’etica deontologica. Io credo che,
per superare la tensione tra le logiche sottostanti al modello economico e quello etico,
noi dovremmo cercare di riavvicinare queste due opposte visioni del valore. Certo,
una tale riconciliazione non è semplice. Gli economisti spesso prediligono una rigida
interpretazione della teoria soggettivista del valore e tendono ad approvare qualsiasi
risultato generato da essa come conseguenza dell’aggregazione di razionali interessi
personali. Gli eticisti, al contrario, non possono giustificare un risultato su questa
base, che essi abitualmente considerano “limitata” dal punto di vista morale. Essi
piuttosto sostengono che - per rispettare la loro teoria oggettivista del valore – noi
abbiamo il dovere di agire per ottenere alcuni risultati che sono intrinsecamente
buoni.
Su questa base, qualsiasi strategia di riconciliazione dovrebbe passare per una
riconsiderazione delle teorie del valore di sfondo. Gli economisti - nel filone
neoclassico qui discusso – concepiscono il valore in termini meramente soggettivi e di
interesse personale. Gli eticisti – nel filone deontologico qui discusso - concepiscono il
valore in termini oggettivi e basati sul dovere. Si può pensare a una teoria del valore
più ampia nella quale il valore sia concepito come un vettore nel quale entrambi questi
requisiti siano soppesati. Una logica più plausibile dovrebbe iniziare con una teoria del
valore più complessa, capace di superare le due tradizionali e miopi alternative. In
particolare, io credo che gli economisti dovrebbero abbandonare l’interpretazione
puramente soggettivista della loro teoria del valore, mentre gli eticisti dovrebbero
dare spazio al pluralismo all’interno della loro teoria del valore. Da notare, entrambi
gli approcci (le tradizionali teorie del valore alternative, quella dell’eticista e quella
dell’economista) sono similmente ispirati da una visione “mono-funzionale”. Io sto
solo dicendo che essi dovrebbero utilizzare una più complessa matrice per fornire una
descrizione ragionevole del valore.
4. Ragionevolezza come valore
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Ora, credo che una pretesa come quella con cui abbiamo terminato la sezione
precedente possa esser concepita nei termini proposti dal liberalismo filosofico
contemporaneo, che come abbiamo detto è coerente con le premesse dell’etica
economica su cui bassa La CSR. In questa otica, una distinzione chiave che riprendo
qui dal progetto di Rawls è quella tra il bene e il giusto. Si suppone che ogni soggetto
sia razionale nel senso standard delle scienze sociali, e di conseguenza sia un
potenziale massimizzatore della sua visione del bene. Il bene però non coincide con
quello che abitualmente chiamiamo interesse personale. Esso invece ha un più ampio
raggio, che include ideali, scopi altruistici e anche visioni comprensive del mondo, a
iniziare dalle visioni metafisiche e religiose. Il giusto consiste in una serie di limiti
imposti al perseguimento del bene da un’interpretazione liberale (pluralista) della
natura sociale degli esseri umani e dalla loro concreta partecipazione in una società
storica vista come un’iniziativa cooperativa. Il giusto viene prima del bene. Il giusto
precede il bene nel senso che tutte le decisioni pratiche riguardanti la giustizia, i
desideri e le preferenze che definiscono il bene delle persone devono essere
subordinate alle esigenze dei principi di giustizia. In questo modo l’idea del bene
incorpora le rivendicazioni di un’interpretazione soggettivista del valore, mentre il
giusto introduce elementi di quella oggettivista. Per questo l’intera teoria è ben
bilanciata, con la parte oggettivista che impedisce una visione relativistica e quella
soggettivista che ne arresta una deriva autoritaria.
In questa maniera abbiamo una riconciliazione tra oggettività e soggettività all’interno
di una teoria del valore. Questa non è comunque una riconciliazione semplice. Il suo
merito reale è che i limiti oggettivisti fanno perno sulla nozione di giusto che non priva
le scelte personali della loro libera ricerca del bene. L’oggettività del giusto, in altri
termini, non può essere interpretata come predominio di una visione del bene sulle
altre. Qui non c’è monopolio di un solo punto di vista. Piuttosto ciò che abbiamo qui è
una zona di parziale sovrapposizione tra le preferenze dei diversi soggetti nelle sfere
peculiari dell’attività umana. In questo modo oggettività significa intersoggettività e
questa intersoggettività domina solo in alcuni contesti istituzionali fondamentali. Il
limite istituzionale connesso con l’idea di giusto è di particolare importanza. I cittadini
condividono una visione di come delle istituzioni giuste dovrebbero comportarsi in una
società bene ordinata e per sostenere questa visione sono disposti a rinunciare a parte
del loro apparato preferenzialista. Credono in altre parole che limitare le loro “naturali”
preferenze per preservare il contesto istituzionale sia nell’interesse, tutto sommato,
delle loro “reali” preferenze.
Oggettivismo e soggettivismo possono esser riconciliati – mediante il modello della
priorità del giusto – in maniera compatibile col liberalismo inteso come pluralismo. Lo
strumento che permette questa opportunità è la distinzione stessa tra i due contesti: il
giusto e il bene con la relativa priorità del primo sul secondo. Il senso di questa
distinzione è spesso delicato e comunque difficile da afferrare. Per comprendere
perché la distinzione giusto-buono sia così fondamentale per preservare il pluralismo
confronterò il modello così concepito con un altro modello etico la cui principale
rivendicazione consiste nel superamento della logica soggettivista dell’economista. Il
modello che ho in mente presuppone la dottrina sociale ed economica della Chiesa
cattolica ed è stato recentemente esposto dal Papa stesso nella sua enciclica “Caritas
in Veritate” (la brevità del riferimento non fa ovviamente giustizia alla complessità
teologica e etica dell’Enciclica). Il nucleo centrale della visione proposta consiste in
un’interpretazione dell’etica del lavoro e del business in termini di “bene comune”.
Nella visione cattolica – si potrebbe dire – l’idea di bene comune gioca il ruolo che il
giusto gioca nel modello rawlsiano. Il bene comune dell’enciclica comunque si basa su
uno sfondo più profondo di quello che soggiace all’idea del giusto. Lo sfondo dietro la
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visione cattolica presuppone infatti una lettura comprensiva della natura umana, o,
per usare una terminologia cattolica più tradizionale, un’antropologia religiosa. Questo
significa che le preferenze degli individui non sono limitate da un comune senso di
giustizia, ma piuttosto da una peculiare interpretazione del bene nella natura umana.
Ora, mentre un comune senso di giustizia riguarda certe restrizioni il cui scopo
principale è di permettere il rispetto per gli altri concepiti come persone con valori
differenti, nel modello cattolico basato sul bene comune tutte le persone decenti si
suppone abbiano valori analoghi. Per questo si parla di bene comune. Su questa base,
tutta l’enciclica può esser letta come un duplice documento: da un lato c’è una blanda
visione dell’etica del lavoro che ogni liberale potrebbe accettare; dall’altra c’è una
visione austera dell’antropologia che è difficile da accettare se non si è cattolici
osservanti. La pratica economica deve essere radicata nella “caritas”, ci viene detto, e
questo è il nucleo oggettivista di questa logica etica. Ma la caritas è ben lungi
dall’esser sufficiente per l’etica cattolica come esposta nella lettera enciclica. La caritas
deve infatti essere “in veritate”, che significa che deve esser fondata sulla verità, dove
la verità corrisponde all’interpretazione cattolica della natura umana. Di certo una tale
interpretazione forte dell’oggettivismo etico rende la difesa del pluralismo ardua e
poco plausibile. Nel modello della priorità del giusto le persone sono libere di crearsi e
rivedere la propria concezione del bene. Nella dottrina sociale cattolica le persone
devono condividere la stessa visione del bene (comune). La prima opzione è liberale,
la seconda no. E la prima opzione è liberale proprio in quanto il bene non dipende da
una visione comprensiva della natura umana.
Con una drastica semplificazione si potrebbe suggerire che un forte limite di entrambi
gli approcci che abbiamo discusso consiste nel fatto che entrambe le logiche – quella
dell’eticista e quella dell’economista assumono premesse fortemente
individualistiche in maniera piuttosto dogmatica. Io sto invece sostenendo che
l’apparato relazionale e il contesto sociale nel quale ci muoviamo sono rilevanti. In un
caso imperativi morali di tipo kantiano presuppongono la centralità di un soggetto
autonomo, nell’altro la razionalità auto interessata degli economisti neoclassici
presuppone individui decontestualizzati. Sia il soggetto kantiano dell’eticista che il
soggetto razionale auto interessato dell’economista dovrebbero invece esser visti
come potenziali cooperatori in una società “bene ordinata”. Ciò significa che essi
andrebbero visti non solo come individui autonomi e razionali ma anche come esseri
relazionali e sociali.
La maniera più evidente per vedere come l’individualismo potenzialmente confligga
con la ricerca di una dimensione morale dell’economia consiste nel guardarne la sua
versione degenerata. Possiamo etichettare questa versione degenerata come
“egoismo”. In linea di principio, individualismo ed egoismo sono oggetti differenti.
L’individualismo è una visione metodologica, morale o sociale (politica) che pone
l’accento sulla speciale importanza dell’individuo in se stesso, intendendo qualsiasi
individuo. L’individualismo interpreta le entità collettive come insieme di parti,
promuove l’esercizio di obiettivi personali enfatizzando autonomia e indipendenza e
opponendosi alle interferenze esterne. L’egoismo invece è una posizione secondo la
quale ogni persona ha un solo scopo: promuovere il proprio personale benessere.
L’egoismo, così concepito, può essere una posizione descrittiva o normativa.
L’egoismo psicologico, la base della posizione descrittiva, sostiene che la promozione
del benessere personale è coerente con il comportamento standard degli esseri umani.
L’egoismo etico, la base della posizione normativa, sostiene che il perseguimento del
benessere personale è sufficiente perché un’azione sia moralmente giusta.
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L’individualismo diviene più simile all’egoismo se la posizione individualista non presta
fiducia a nessuna scelta etica che richieda il sacrificio dell’interesse personale
dell’individuo per cause sociali superiori. Io suggerisco che una lettura
dell’individualismo puramente soggettivista (in termini di teoria del valore) porti
l’individualismo vicino all’egoismo. Se assumiamo che la teoria standard del valore
adottata dagli economisti sia soggettivista, di fatto ciò che otteniamo è il cosiddetto
egoismo razionale. L’egoismo razionale tradizionalmente sostiene che perché
un’azione sia normativamente giustificata è necessario e sufficiente che essa
massimizzi il proprio interesse personale. Anche l’individualismo etico non è immune
da una lettura egoistica se si sceglie di sacrificarne le fondamenta relazionali.
La mia tesi è che le basi egoistiche non ci permettono di trovare un’appropriata
dimensione morale dell’economia. La diffusione dell’egoismo nelle società occidentali è
stata notata da molti osservatori intellettuali. L’idea centrale riguarda la relazione tra il
se e il mondo, dove con mondo intendo la comunità in cui viviamo. La forza di questa
relazione (se-mondo), che era molto significativa nel periodo successivo alla seconda
guerra mondiale, si è andata perdendo col tempo. La conseguenza di ciò è stata
spesso individuata come progressivo isolamento del sé. Secondo molti osservatori noi
viviamo in una società egoista di massa all’interno della quale anche la politica è
praticata nei termini di pretese individualistiche senza ambizioni universali. Questa
società egoista rischia di incorrere in una crisi sia economica che politica. La
dimensione morale dell’economia vi si è persa perché nessuno prova più a conciliare
l’interesse personale con l’interesse generale. Possiamo speculare riguardo alle cause
di una simile fenomenologia della separazione tra sé e mondo che vede il proprio
apice nel clima postmoderno, un clima nel quale tutte le metanarrative generali sono
a priori condannate al fallimento. Per utilizzare come esempio una visione di sfondo
hegeliana possiamo dire che noi osserviamo un’interruzione della mediazione, sarebbe
a dire del flusso che va dai progetti individuali alla loro realizzazione collettiva.
Intellettuali fuori dal coro come Pier Paolo Pasolini e Tony Judt hanno provato a
trovare una complessa eziologia dietro a questa fenomenologia. Ma questo compito
esula dal nostro obiettivo presente. E’ qui sufficiente dire che l’interpretazione
egoistica di una società individualista è un ostacolo per la creazione di una dimensione
morale dell’economia.
L’antidoto alla trasformazione dell’individualismo in egoismo consiste nell’accettare
una teoria oggettivista del valore che veda l’individuo come parte di una comunità
liberal-democratica. Per vedere come questo aspetto sociale e intersoggettivo della
persona possa essere usato per correggere l’approccio individualistico pericolosamente
vicino all’egoismo possiamo ricorrere nuovamente a Rawls dicendo che le persone
devono essere non solo “razionali” ma anche “ragionevoli”. La razionalità di cui
parliamo è quella standard nella teoria economica e corrisponde alla massimizzazione
dell’interesse personale.
Per Rawls, la ragionevolezza invece si basa su due premesse: (i) ognuno è pronto ad
accettare l’onere del giudizio (gli altri possono formarsi opinioni differenti a pieno
titolo); (ii) ogni cittadino rispetta gli altri cittadini. Così concepita, la ragionevolezza ha
sia un aspetto epistemologico che uno etico-politico, e il secondo prevale sul primo.
Essere ragionevole significa che l’accordo su una concezione politica tiene conto di ciò
che gli altri pensano.
Il ragionevole è definito in contrasto al razionale. Questo contrasto ha un preciso
significato etico-politico. Le persone ragionevoli sono pronte a modificare il proprio
comportamento in base a principi che tengono conto delle conseguenze che possono
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riguardare non solo se stessi ma anche le altre persone. Nel fare ciò le persone
ragionevoli cooperano in condizioni eque, se gli altri fanno lo stesso. Ciò permette una
mutua giustificazione delle regole di condotta. Da questo punto di vista la
ragionevolezza presuppone la reciprocità
(e viceversa), e non implica
necessariamente una motivazione altruistica basata sulla volontà di affermare il bene
comune.
Per Rawls, l’essere ragionevole è una caratteristica tipica degli agenti nella vita politica
di una liberal-democrazia. Il concetto di ragionevolezza include però una più generale
pretesa di validità normativa. Io sto suggerendo di espandere il significato normativo
di ragionevolezza per renderlo parte di una teoria del valore. Questa teoria manterrà il
proprio individualismo di base ma non correrà il rischio di diventare egoistica perché le
tendenze razionali dei soggetti saranno mitigate dalla loro attitudine ragionevole. In
questa teoria del valore le persone sono concepite come sia razionali che ragionevoli,
e il ragionevole introduce un elemento di oggettività (di tipo intersoggettivo) nella
teoria.
La ragionevolezza così compresa è diversa dall’altruismo, e si suppone sia compatibile
con la razionalità. Sempre nello schema rawlsiano, la natura ragionevole del soggetto
non implica il bypassare la razionalità (economica) in nome dell’etica ma solo di
limitarla e qualificarla. Una distribuzione rawlsiana, per esempio, può essere sensibile
all’ottimalità di Pareto ma insiste nel selezionare –tra i risultati ottimali- quelli che
avvantaggiano le persone in condizioni peggiori. Lo sfondo logico di un simile
approccio è oggettivista senza perdere di vista l’autonomia del soggetto. Questo
compromesso può essere raggiunto assumendo come premessa la fondamentale
natura sociale degli esseri umani.
La dialettica tra ragionevolezza e razionalità mitiga gli eccessi dell’individualismo. Una
persona ragionevole non può essere un puro egoista. Essere ragionevole significa
essere capace di concepire la relazione con gli altri come fondamentale e primitiva.
Questa virtuosa forma di comportamento è collegata alla vita istituzionale di una
liberal-democrazia, anche se si può espandere questa concezione all’intera
personalità. Nella letteratura politico-filosofica classica dopo il 1970 i dibattiti sulla
liberal-democrazia si concentravano su temi quali la miglior definizione dei principi di
giustizia e la natura della giustificazione politica. Da questo punto di vista scarsa
attenzione è stata dedicata all’aspetto relazionale della persona pubblica (il cittadino).
In una società liberal-democratica ci sono molti rapporti associativi nei quali questo
aspetto relazionale si rivela. Penso ad associazioni come partiti politici, unioni
sindacali, gruppi di pressione, organizzazioni religiose o lobby di cittadini, attraverso le
quali le persone giocano un ruolo significativo nella vita pubblica liberal-democratica.
L’idea è che il fiorire della ragionevolezza sia connesso all’implementazione della
liberal-democrazia, che a sua volta richiede queste forme di partecipazione attiva.
L’egoismo, come l’ho concettualizzato, coincide con la separazione tra sé e mondo,
con la “colpa” di essere isolato dalla comunità nella quale viviamo. Così concepito
l’egoismo è un particolare tipo di vulnerabilità umana. Tale vulnerabilità può essere
interpretata (da un filosofo) in termini hegeliani come una conseguenza dell’atomismo
implicito nella visione liberale della società civile. Questo atomismo può essere
rimosso attraverso la partecipazione attiva dei cittadini nei gruppi associativi intermedi
che caratterizzano la vita liberal-democratica. In questo modo i cittadini comprendono
insieme la parzialità delle loro concezioni del bene e la necessità di prendere gli altri in
seria considerazione. Queste premesse sono necessarie per adottare attitudini civili
ragionevoli e diventare meno vulnerabili all’egoismo.
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Bibliografia essenziale
Benedetto XVI, (2009) Lettera enciclica Caritas in Veritate
Maffettone S. (2010) Rawls, Polity Press, Cambridge.
Phelps, E. S. (October 2009) Economic Justice and the Spirit of Innovation in “First
Things: A Journal of Religion, Culture, and Public “.
Rawls J . (1971) A Theory of Justice, Harvard University Press.