2012.09.12 Pubblicità ed economia

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Pubblicità ed economia: interazioni, di Roberto Vacca, 12/9/2012
“Per assicurare il successo a un libro, quanto sono utili le recensioni sui
giornali, le interviste e la pubblicità su periodici, in radio e televisione?”
Un editore mi propose – una trentina di anni fa - di fare una ricerca per
rispondere all’interessante quesito. Chiesi che mi fornissero: testate, date di
pubblicazione, testi di articoli e copy di inserzioni e, d’altra parte, numero di
copie vendute settimana per settimana.
I dati su recensioni, interviste e pubblicità erano disponibili. Invece il
numero di copie vendute non era disaggregato per settimana, ma solo anno per
anno per ciascuna opera. Non c’era possibilità di correlare le iniziative
promozionali con le vendite. Lasciammo perdere.
I numeri bruti dicono poco anche su grande scala. Fra il 2000 e il 2011 il
Prodotto interno lordo italiano (PIL) era intorno a 1500 miliardi di euro e gli
investimenti in pubblicità erano la metà dell’uno per cento del PIL, cioè circa 7
miliardi,. La correlazione statistica fra le due grandezze in quegli 11 anni era il
97%. Crescevano e calavano insieme, ma i numeri non ci dicono se la pubblicità
più intensa fa crescere il PIL o se si spende di più in pubblicità quando il
prodotto lordo è più alto – le cose vanno meglio. Un’alta correlazione statistica
fra due grandezze non vuol dire affatto che una sia la causa dell’altra. Sembrava
pensare il contrario Henry Ford che disse: “Chi smette di fare pubblicità per
risparmiare soldi, somiglia a chi blocchi le lancette dell’orologio per risparmiare
tempo. La pubblicità è l’anima del commercio.”
Però Jerry W. Thomas, Presidente di DecisionAnalyst (azienda attiva in
ricerche di mercato e sondaggi), scrisse nel 2008: “Il settore della pubblicità ha
sempre un grande potenziale, ma controlla la propria qualità peggio di ogni altro
settore. Solo la metà della pubblicità che viene diffusa ha effetti positivi. In
parecchi casi ha effetti controproducenti.”
Valutare l’efficacia di messaggi pubblicitari, singoli o facenti parte di una
campagna, è arduo. L’andamento delle vendite, infatti, dipende da tanti altri
fattori: prezzi, azioni della concorrenza, efficacia della distribuzione (non si
vende, se gli stock sono esauriti), tempo atmosferico e così via. Gli effetti della
pubblicità non sono istantanei. Si possono manifestare dopo mesi. Dunque
sappiamo bene che in certi casi estremi la pubblicità ha impatti forti e
drammatici. Misurare gli impatti medi o deboli è un compito molto difficile.
Certe grosse aziende specializzate in sondaggi sostengono di saperlo svolgere in
modo scientifico. Vi dicono quante persone hanno visto il vostro messaggio,
quante lo ricordano a distanza di tempo e quante ne sono state convinte, di che
percentuale ha fatto crescere le vostre vendite – e così via. Sono credibili?
Forse io non sono un campione rappresentativo dei bersagli cui mira la
pubblicità, ma non credo di aver comprato un’auto, un libro, un paio di scarpe,
una bottiglia di vino dopo averne visto uno spot o un’inserzione. Ricordo la serie
di vignette per la reclame della Guinness. La didascalia era sempre la stessa: “My
Goodness, my Guinness!” [“Buon Dio! – La mia Guinness!”] e la birra veniva
portata via a un personaggio da elefanti, scimmie, rapinatori. Chiedevo ad amici
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ingegneri: “Dell’aria a 2 atmosfere si immette in fondo a un recipiente pieno di
un liquido: quando arriva alla superficie del liquido gorgoglia alla pressione di 3
atmosfere. Che liquido è?” La risposta era: “Vecchia Romagna Buton Cognac –
il cognac che crea un’atmosfera.” Però in vita mia ho bevuto solo una Guinness e
comprato una sola bottiglia di Vecchia Romagna.
Forse le pubblicità troppo intelligenti sono quelle meno efficaci. Dopo
tanti anni ricordo bene Massimo Lopez di “una telefonata ti allunga la vita”, che
rimandava la sua fucilazione con lunghe chiacchiere al telefono. Sorrido di
Marzocca che fa la mamma di Garibaldi [“Giuseppe passa un momento difficile
– risponde!”] ma dubito che abbiano fatto salire di un euro il fatturato della SIP e
poi della Telecom Italia.
In TV usano spesso, dopo un programma che si spera sia stato gradito,
comunicare: “Questo programma offerto da xxxx”. Non so quanto possa essere
efficace. Quanto meno si evita così l’irritazione o l’avversione evocata dalla
ripetizione eccessiva di certi spot. Se sono decenti causano, comunque, negli
ascoltatori la sordità a quel messaggio. Se sono spiacevoli, possono causare nla
decisione di rifuggire dal prodotto. Sarebbe bene ricordare che il tempo in cui gli
spot in TV interrompono il film che stiamo vedendo, coincide spesso con il
tempo per andare al bagno.
Devo ammettere, in fine, che l’idea stessa di convincere tanta gente a fare
certe cose è attraente e divertente. La creazione dei messaggi – scritti, detti, in
video – è attività stimolante. Nel 1933 Dorothy L. Sayers pubblicò uno dei suoi
gialli [“Muder Must Advertise “ – Harcourt, Brace] col personaggio di Lord
Peter Wimsey che investigava assassini nell’Agenzia pubblicitaria Pym – e
intanto progettava una forte campagna a premi per le sigarette Whiffle. Molto
divertente.
Nel mio romanzo UNA SORTA DI TRADITORI ci ho messo un ex
terrorista che si mette a fare il pubblicitario e inventa una campagna per
diffondere l’uso del bidet nei paesi anglosassoni. Gli attribuisco anche un’astuta
persuasione occulta che fu davvero usata con successo da un noto tycoon passato
alla politica, ma ormai avviato al tramonto. (Real cowboys never die – they fade
away.)
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