LUISS Guido Carli Istituto di Studi Giuridici – Facoltà di Giurisprudenza Via Parenzo, 11 - tel. 06/85225.810 OSSERVATORIO COSTITUZIONALE Seminario su: I DIRITTI FONDAMENTALI E LE CORTI IN EUROPA Incontro del 9 maggio 2003 sul tema “Le radici culturali e religiose dell’identità europea” (introdotto dal Prof. Piero Bellini) Resoconto redatto dal Dott. Alessandro Goracci Bollettino n. 5/2003 Il calendario ed i resoconti degli incontri dell’Osservatorio Costituzionale, assieme ad altra documentazione, sono reperibili sul sito Internet dell’Università Luiss Guido Carli (http://www.luiss.it/semcost/index.html) Per informazioni, comunicazioni: e-mail: [email protected] Per l’iscrizione alla Newsletter dell’Osservatorio Costituzionale: http://www.luiss.it/semcost/dirittifondamentali/newsletter.html Realizzato nell’ambito della ricerca di rilevante interesse nazionale cofinanziata dal Murst (2001-2003) Sergio PANUNZIO ricorda che il seminario di oggi tratterà il tema delle radici culturali e religiose dell’identità europea. E’ un tema molto importante per capire che cosa sono oggi e cosa saranno domani i diritti in Europa, quali espressione della cultura e della civiltà europee. L’incontro odierno è introdotto dal professor Piero Bellini, giurista e storico, docente di diritto ecclesiastico, di diritto canonico e di storia del diritto canonico. Oltre ad essere studioso dei diritti e delle libertà religiose, Piero Bellini si è occupato in particolare anche dei rapporti tra potere religioso e potere politico, come testimonia il suo ultimo lavoro, “La coscienza del principe”, amplissimo studio storico sulle interferenze tra i due ordini. Indicativo, al riguardo, è il sottotitolo del libro: Prospettazione ideologica e realtà politica delle interposizioni prelatizie nel governo della cosa pubblica. Piero BELLINI premette che il tema a lui assegnato richiede delle generalizzazioni audaci, mentre, quando si parla di radici, si deve approfondire, cercando di andare ai prodromi di una civiltà. Quando si tratta questo tema, si è generalmente condizionati dal titolo di un’opera di Benedetto Croce “Perché non possiamo non dirci cristiani”, che resta un’ipoteca culturale sul modo con cui affrontare la tematica. Sarebbe opportuno estinguere questa ipoteca, perché il discorso va fatto in termini diversi se non opposti rispetto all’impostazione crociana. Si devono prendere le mosse dalla fondazione classica della cultura europea che risale al tempo dell’Impero romano. A scuola non sempre si insegna che l’impero romano non rappresenta una conquista di Roma pura e semplice, ma la fusione di due imperi: Roma conquista l’Occidente, lo romanizza, espandendo all’Occidente la superiorità della propria cultura, fino a quando si incontra con l’Oriente, già unificato. E’ l’Oriente dell’Impero alessandrino, debole sul piano politico e sul piano militare, ma estremamente avanzato sul piano culturale. Quindi la cultura romana, dell’Occidente, pragmatistica (i Romani guardano orizzontalmente ai fatti della vita, tenendo conto dell’utilità concreta dei singoli fenomeni di vita reale) si fonde con la cultura orientale. E’ la fusione di due culture diverse e complementari: Roma ha il senso della concretezza, della politica, del diritto, dell’arte militare, mentre l’Oriente ha il senso della bellezza, dell’estetica della vita. Però ambedue queste visioni del mondo sono visioni di carattere antropocentrico, che collocano l’uomo al centro degli interessi individuali e degli interessi collettivi. Lo stesso Olimpo greco, lo stesso Pantheon romano, rappresentano una sublimazione di virtù umane. L’antropologia sottesa alla politica romana e alla cultura greca è ottimistica. La cultura classica guarda all’uomo come essere che tende a realizzare se stesso nella storia: mentre i greci approfondiscono, sul piano filosofico, un’introspezione nella dimensione tutta individuale dell’uomo, i Romani ne esaltano una visione sociale. Si tratta di due componenti tra di loro complementari: il momento religioso rappresenta una trasposizione del momento politico sul piano del rapporto con lo Stato. L’Impero romano è una confederazione di popoli e, nello stesso tempo, una confederazione di divinità. Roma afferma l’imperium populi romani, combattendo coloro che si oppongono all’egemonia romana ma rispetta le credenze religiose dei popoli che conquista, anche perché queste credenze di religione hanno tutte le caratteristiche di rispettarsi a vicenda. Il mondo antico è caratterizzato da una coesistenza di dei: il pantheon è una proiezione non solo delle virtù, ma anche dei difetti umani, tanto che le divinità possono entrare in conflitto ma sempre in una posizione di reciproco riconoscimento. E’ significativo che in uno dei testi fondanti per la nostra conoscenza della religione del mondo tardo – antico (il De natura Deorum di Cicerone), si parla di tutte le divinità di quel tempo, ma non si parla della divinità vetero – testamentaria. Non si parla, cioè, della divinità degli ebrei, benché Cicerone conoscesse il Dio della religione ebraica, quanto meno per le recenti imprese militari di Pompeo in Palestina. Il fatto che Cicerone ha portato la sua attenzione sulle divinità tra loro compatibili, ignorando la divinità ebraica dimostra che, nella logica ciceroniana, il Dio degli ebrei rappresentava un qualcosa di eccentrico, soprattutto perché era una divinità che assumeva di essere, a differenza delle altre, esclusivistica. Se però si prescinde dall’ebraismo della Palestina, che, negando l’imperium populi romani, è combattuto, possiamo invece constatare che l’ebraismo della diaspora è prezioso nell’organizzazione dell’Impero romano, operando come fattore culturale nuovo, che si aggiunge agli altri: gli Ebrei, distribuendosi in tutto il Mediterraneo, rappresentano un punto di raccordo tra la civiltà occidentale e quella orientale. Si tratta di una funzione che gli ebrei continueranno a svolgere, quando si incontreranno con nuove civiltà mediterranee, soprattutto con la civiltà araba. Molta della cultura ellenica torna in occidente, proprio attraverso la traduzione che gli arabi fanno dei testi greci e la traduzione che gli ebrei fanno dei testi arabi. Il mondo antico è dunque dominato dall’idea centrale del primato dell’uomo. Certamente non si può parlare, in una civiltà schiavista, di diritti fondamentali. Nella polis greca il cittadino era libero, ma i cittadini della polis erano solo una parte degli abitanti della polis, così come i cittadini liberi della civitas romana erano solo una parte degli abitanti della civitas: il numero degli schiavi era elevatissimo, quindi non è possibile applicare al passato gli schemi dei diritti fondamentali. Molto di questo cambia quando, ad un certo punto, nella storia, si ha l’irruzione del cristianesimo. Bisogna subito chiarire che il cristianesimo che viene in contatto con Roma e che con Roma trova un accordo non è il cristianesimo delle origini, quello – per intendersi – che nasce in un ambiente ebraico e che, fin dall’inizio, è affetto da una sindrome apocalittica. C’è che un senso di rifiuto del mondo (d’un mondo fattosi non più vivibile) aveva colpito il nazionalismo ebraico in Palestina: il quale – dinanzi allo strapotere delle armi romane – aveva visto deluse le speranze riposte nella promessa messianica: maturando in sé una reazione apocalittica espressiva della vendetta di Dio: d’un Dio indignato della iniquità della nuova Babilonia. Più non si può far affidamento – si diceva – sulla forza delle armi, ma solo sull’ira di Dio. Nasce in quell’ambiente umano l’aspettazione d’un prossimo termine dei giorni (“tempus breviatum est”: il tempo sta per terminare) e nasce – insieme – il convincimento che ciò debba implicare una totale “palingenesi”: una trasformazione radicale del modo d’essere degli uomini. Mentre l’apocalisse ebraica è un’apocalisse politica, quella cristiana è un’apocalisse escatologica, che non attende l’ira di Dio come ira che distrugga gli ingiusti per ricollocare i giusti nella giusta posizione di preminenza, ma che assume, invece, una visione metastorica. Finisce il tempo storico, del quale si dà un’immagine sfuggevole e nel quale non vi sarebbe nulla che non sia altro rispetto al tempo presente. Si ha, cioè, un ribaltamento dei valori, superbamente rappresentato dall’immagine del bambino che mette le mani nel covo della vipera, del lupo che vive insieme all’agnello. Tutto questo mira a rappresentare un regno nel quale i valori sono completamente diversi rispetto a quelli del tempo presente. Tale visione comportava un rifiuto delle grandezze del tempo attuale, un rifiuto di tutto ciò che atteneva alla politicità, alle negotiationes, all’impegno sociale, civile ed umano in genere. Una mentalità fondata su questa visione escatologica metteva i cristiani in una condizione di estraneazione (odium generis humanis), di tertium genus rispetto alle popolazioni circostanti. Più tardi, però, poiché la fine del tempo non trovava un suo riscontro pratico, in quanto la parusia, ovvero l’attesa del ritorno trionfante del Cristo, lasciava il posto ad un senso profondo di sconforto (a questa delusione della mancata parusia), si imponeva al cristianesimo un cambiamento. D’altra parte, se il cristianesimo avesse ancora rifiutato il mondo, rischiava di essere rifiutato dal mondo. Doveva quindi modificare la sua presenza reale nella storia. Ora, il rapporto col mondo ebraico viene rapidamente risolto poiché il cristianesimo rifiuta la propria dipendenza dall’ebraismo, mantenendola solo sotto il profilo scritturistico. Nei confronti della romanità e dell’ellenismo, invece, era indispensabile che il cristianesimo trovasse una giusta misura di convivenza e di dialogo. Vi è quindi, progressivamente, un’attenuazione dell’ascetismo originario del cristianesimo, attraverso un’accettazione della morale stoica, della filosofia platonica, che finisce col risolvere il problema del rapporto tra inanità e valore effimero del tempo presente da un lato e valore ideale e duraturo del tempo a venire dall’altro Vi è una progressiva ellenizzazione e romanizzazione del cristianesimo, il quale accetta i presupposti fondanti del mondo tardo – antico. Quelli che un tempo erano considerati i peggiori cittadini, partecipi d’una “prava superstitio”, negatori dei valori della politicità e quindi della romanità, s’erano col tempo “convertiti” ai valori della secolarità, diventando infine i migliori cittadini, portatori di una morale ormai largamente stoicizzata e rispettosi dell’autorità imperiale. Anzi, diventano anche mallevadori dell’una e dell’altra cultura. La visione della presenza di Dio nella storia, che caratterizza tutto il movimento vetero e neo testamentario, portava a giustificare tutta la cultura greca come preparatoria all’avvento del cristianesimo e l’unità del mondo realizzato dalla sapienza politica di Roma come un’anticipazione, una predisposizione dell’unità e della universalità della religione. Vengono poste le premesse di un’alleanza tra mondo tardo antico, dominato dalla cultura ellenica e dall’autorità romana, e cristianesimo. Si tratta di un cristianesimo largamente mondanizzato e divenuto compatibile con la romanità e l’ellenismo, per effetto proprio di questa avvenuta romanizzazione ed ellenizzazione. Il cristianesimo apporta tuttavia alla civiltà un fattore determinante, che avrà un’importanza decisiva in tutto il corso della vicenda storica europea, condizionandola ancora oggi, non solo sul piano politico, ma anche culturale. Innanzitutto offre una visione antropologica diversa: mentre il mondo tardo - antico ha una visione prometeica dell’uomo (Prometeo è colui che ruba il fuoco agli dei, che subisce la pena, ma lascia agli uomini il fuoco, strumento di civiltà), il mondo cristiano ha invece un’idea adamica dell’uomo. Ad un’antropologia ottimistica si sostituisce cioè un’antropologia pessimistica. C’è un ribaltamento radicale dell’antropologia dominante della cultura romana. Si passa dall’antropocentrismo della cultura - tardo antica al teocentrismo che è tipico della nuova cultura e che afferma l’unicità di un Dio esclusivo. Le divinità del mondo tardo antico si combattono su un piano orizzontale (Giove non è divinità esclusiva), le diverse divinità erano espressioni di un senso unitario del sacro e del divino e non c’era l’idea di un Dio personale ed esclusivo Quest’ultima idea, propria dell’ebraismo, verrà accettata dal cristianesimo, che collega l’umanità del Cristo alla Sua divinità. Cristo rappresenta una divinità esclusiva, in quanto esclude qualsiasi altra divinità (Qui non est mecum contra me est): è questo il principio fondante di una religiosità di salvezza che richiede un’adesione ferma ad un canone di fede per poter raggiungere il risultato della salvezza. Si tratta – va notato – d’una salvezza spirituale – escatologica: d’una salvezza dal “male del peccato”: la quale non guarda ai mala consueti della vita (alla morte, al dolore, alla infelicità, alla miseria e all’ignoranza), ma vuole contrastare l’opera seduttiva del Malus: del Maligno, preso dall’intento di guastare l’animo degli uomini, allontanandoli da Dio. Il cristianesimo originario non vuole essere un manifesto di carattere sociale, ma di carattere religioso, il quale esclude dall’interesse dell’uomo tutto ciò che avviene nel tempo presente. Che importanza può avere, al cospetto di Dio, avere una o l’altra posizione sociale, quando la meta è altrove, quando i nostri interessi sono altrove? Se mettiamo insieme le due proposizioni, da un lato che l’uomo è un malato dalle origini, perché si porta appresso il peccato dell’origine (antropologia negativa) e dall’altro l’idea dell’esclusività di Dio, e se combiniamo questo sistema religioso con la politicità, otteniamo un risultato sconvolgente per la storia della civiltà, risultato legato all’idea che i valori dello spirito possono essere governati nel modo del governo politico degli uomini. Ciò significa che il principe, con la forza del suo braccio, con la sua prudentia regnativa e con la sua capacità di comando, è chiamato a reddere homines bonos, in base ad una tavola assiologica indiscutibile per gli uomini. Mentre i greci cercavano, ciascuno secondo la propria strada, la via di autorealizzazione personale, col cristianesimo viene affermato un principio oggettivo di morale e di legge, secondo cui una coscienza è sana fin tanto che rispetta la legge e diventa insana nel momento in cui non rispetta più la legge. Non si tien conto con ciò che la coscienza è quello che è: e che distinguere una coscienza sana da una coscienza insana significa dare un giudizio autoritario estrinseco sulla coscienza degli uomini che è ciò che maggiormente appartiene ad ogni uomo e che ogni uomo ha il diritto di governare così come gli aggrada. Entriamo in una fase storica completamente diversa, che comporta una differenza culturale abissale. Mentre nel mondo tardo - antico la cultura procede dialetticamente, nel mondo cristianizzato secondo modi del governo politico degli uomini, abbiamo che della cultura antica vengono accettati solo i tratti che sono favorevoli alla visione cristiana del mondo e sono respinti gli altri. Di volta in volta, quando prevarranno gli interessi di carattere dogmatico, cristologico e trinitario, prevarrà la visione platonica o neoplatonica, mentre successivamente prevarrà quella aristotelica, ma ciascuna sarà esclusiva dell’altra. Si spezza il rapporto di dialetticità che aveva contraddistinto il mondo antico, per cui la filosofia finisce col diventare teologia, che è sistematizzazione teoretica. Il cambiamento è radicale: si toglie alla filosofia la sua problematicità, la si priva del principio in base al quale si devono confrontare gli opposti per cercare di andare oltre, significa togliere alla cultura il suo divenire, il suo carattere di forza dialettica che rappresenta il momento fondante della cultura stessa. I conflitti dialettici che si hanno nel cristianesimo sono tante variazioni sul tema, nel presupposto di una verità di fede, i preambula fidei. Al politeismo del mondo antico, anticipazione del nostro pluralismo, subentra un monismo ideologico che si basa su un’idea guida. Si può parlare di ideosistema, di un sistema che è organico, nel senso orizzontale, sincronico (tutte le parti interagiscono tra loro), ma anche nel senso diacronico, in quanto sottostà ad una legge di continuità nello sviluppo. Non si possono operare nel sistema dei salti: si tratta di variazioni che devono garantire al sistema la sua identità e la sua riconoscibilità. Le maggiori di queste competizioni interne, che, divenendo esterne al cristianesimo, faranno nascere la cultura moderna, sono quelle che si ricollegano all’insegnamento di Agostino. L’antropologia pessimistica di Agostino nasce dalla preoccupazione che riconoscere all’uomo una sua autonomia possa in qualche misura nuocere alla costitutività dell’intermediazione divina: Agostino, nella prima fase della sua polemica a proposito della libertà dell’uomo, si trova a rispondere alla domanda Unde malum?, Da dove proviene il male?, che è poi il tema centrale della teodicea. I manichei, secondo una tradizione che risale a Marcione e, per certi aspetti, a Montano, credono nella compresenza di due principi: il principio del bene, che tende ad affrancare l’uomo da una soggezione in cui lo ha posto un Dio creatore malvagio, e il principio del male. Diversamente Agostino, per mantenere l’unicità di Dio, evitando di contrapporre un Dio creatore ad un Dio salvatore, ritiene che il male della terra non dipenda dalla creazione di Dio, ma dalla risposta che l’uomo ha dato a Dio rispetto al dono della libertà che Dio gli ha concesso: la libertà dell’uomo introduce il male nel mondo; l’uomo, in altre parole, ha fatto un cattivo uso della sua libertà, determinando l’ingresso del male nel mondo. E’ la tesi del libero arbitrio: d’un libero arbitrio speso male. Tale tesi comporta una reazione di tipo protoliberale da parte di Pelagio. Quest’ultimo dice che, se l’uomo è capace di peccato e merita la sua posizione, l’uomo deve essere anche capace di virtù e deve meritare il suo premio se si conduce rettamente. Alla visione di Agostino, Pelagio aggiunge qualcosa di più, parlando di una quaedam naturalis sanctitas dell’uomo. L’uomo è capace di peccato, ma è anche capace di virtù. Agostino si preoccupa di questo, perché, se si accetta che l’uomo possa salvarsi attraverso gli strumenti della sua naturalità (per sua tantum naturalia), allora viene meno la necessità dell’intermediazione ecclesiastica e ancor prima la necessità dell’intermediazione cristica: che senso ha il sacrificio del Golgota se l’uomo ha la possibilità, con i suoi strumenti naturali, di realizzare il proprio destino escatologico? Agostino allora abbandona la posizione del libero arbitrio e diventa il dottore della grazia. Tutto è dovuto alla grazia: è il dono della grazia di Dio che rende gli uomini capaci di meritare. L’uomo non può meritare la grazia, perché la grazia è condizione del merito, quindi essa è gratis data. Quest’ultima è una proposizione che ricorre di frequente in Agostino. Dio sceglie i suoi e rifiuta gli altri. Si pongono così le basi del predestinazionismo: è una visione marcatamente negativa dell’antropologia umana, che diventa ottimistica quando si tratta dell’elezione di quelli che sono da Dio, secondo il suo insondabile giudizio, predestinati alla salvezza. Di fronte a chi gli oppone che in questo modo Dio tratterebbe gli uomini come figli e figliastri, Agostino non ha esitazione a dire che gli uomini sono “figli dell’ira di Dio”, per cui non ci si deve lamentare se Dio punisce la maggioranza degli uomini, piuttosto ci si deve rallegrare del fatto che alcuni almeno fra essi siano salvati. Se dunque si tiene presente tale contrapposizione tra un’antropologia radicalmente pessimistica, quale quella di Agostino, ed un’antropologia che comincia via via ad essere ottimistica come quella, pur condannata, di Pelagio, possiamo comprendere ciò che succede nei secoli successivi, perché sempre più il cristianesimo, in particolare il cattolicesimo, diventa agostiniano in tesi e pelagiano in ipotesi, cioè afferma la costitutività dell’intervento della grazia, ma rappresenta una possibilità di “sinergismo”, ovvero di concorso dell’uomo al processo della propria giustificazione. Se seguiamo questo percorso, che passa attraverso la teologia razionalistica e la seconda scolastica, fino ad arrivare alla confutazione delle teorie giansenistiche o luterane operata dai gesuiti, vediamo che questo è un processo che viene realizzandosi nella storia: si afferma l’idea che la grazia non è contrapposta alla natura, ma che tra la natura e la grazia si pone una continuità di sviluppo per cui la natura è stato di pueritia rispetto alla grazia che è stato di maturitas. Si tratta di un sinergismo, che riconosce all’uomo la possibilità di realizzare se stesso, e questo sinergismo trova la sua più compiuta elaborazione in Tommaso d’Aquino, la cui opera, paradossalmente, apre le porte ad un processo di secolarizzazione: accettare l’idea che l’uomo possa concorrere alla propria redenzione, con l’ausilio dello spirito, significa concentrare nell’uomo la capacità di realizzarsi. E’ ciò che accade con l’umanesimo e con il rinascimento: l’uomo riprende il possesso critico di sé. Poco per volta l’uomo, attraverso questa esaltazione dell’aspetto razionale (la ragione è – per Tommaso – un aspetto della divinità di cui l’uomo è reso compartecipe), fa uso di questa razionalità, ma ne rinnega poi la provenienza divina. L’umanesimo e il rinascimento non sono anticristiani in modo dichiarato. Semplicemente tutta la filosofia pone tra parentesi il problema religioso. Mai Marsilio Ficino o Pico della Mirandola mettono in dubbio la verità del cristianesimo, ma poi parlano di filosofia, si occupano di altre cose. Si afferma piano piano, grazie anche a certa influenza araba, che una cosa è la verità di fede, un’altra cosa è la verità di ragione: si tratta di due economie che possono andare perfettamente dissociate e, quindi, qualunque cosa insegni la fede, quest’ultima mai interviene nel campo della ragione, poiché fede e ragione si svolgono su piani diversi, per cui per quanto possa espandersi la sfera della ragione, mai essa può incontrare quella della fede. L’umanesimo, attraverso una riscoperta del mondo antico, viene ad operare un ribaltamento del punto di vista. L’umanesimo guarda al mondo antico dapprima dal punto di vista del cristianesimo; al termine del suo sviluppo l’umanesimo comincerà a guardare al cristianesimo dal punto di vista del mondo antico. Si ha una riscoperta dell’antropologia ottimistica e dell’antropocentrismo classico. In Germania Lutero si rende conto di quanto questo processo porti ad una umanizzazione e ad una secolarizzazione che rischia di provocare un’espulsione del cristianesimo dal mondo. Quindi la riforma protestante è una riforma radicalmente antiumanistica. Erasmo non si associa alla riforma protestante perché Erasmo è un umanista e crede nella capacità dell’uomo di realizzare se stesso, anche se parla di una devozione moderna ed è profondamente cristiano. E’ però un cristiano del suo tempo, mentre Lutero è un cristiano del mondo medievale. Con il protestantesimo, torna la visione medievale del mondo: la ragione è vista come la “prostituta di Satana”, si deve restare legati strettamente al dettato biblico. L’uomo è capace solo di concupiscenza, per cui soltanto l’intervento del Cristo, per la sovrabbondanza dei suoi meriti, può consentire all’uomo la salvazione. C’è un ribaltamento radicale di quanto si era venuto costituendo in ambito cattolico: la riforma scarta radicalmente qualsiasi forma di umanizzazione ed esclude il sinergismo e la capacità dell’uomo di concorre al processo della propria salvazione. Ma in questo contesto Lutero inserisce un elemento che è congruo rispetto alla sua visione ma che poi gli si ritorcerà contro: è l’idea del “libero esame scritturale”, che sarà l’anticamera del liberalismo. Essa è legata all’idea che la scrittura abbia in sé la totalità dell’esperienza religiosa, quindi è una libertà di esame rapportato alla scrittura. Col passare del tempo (con l’affievolirsi dell’entusiasmo riformistico) si ha una progressiva riemersione di fattori umanistici, sicché – quasi naturalmente – il “libero esame” viene a tramutarsi in un “esame libero”: non più riferito stavolta alle Scritture, sì piuttosto libero da residue preoccupazioni fideistiche. Come dire che quello stesso protestantesimo che aveva riscoperto, sulla base di Agostino, un’antropologia pessimistica, finisce poi con l’arricchirla di questo nuovo elemento, teso, nelle intenzioni di Lutero, ad escludere qualunque intermediazione tra l’uomo e Dio e che però porterà, nell’ambito della reazione che si ebbe alla riforma protestante e alla controriforma, alla filosofia cartesiana e alla filosofia dei lumi. La Chiesa ha sempre basato le sue fortune sul principio misterico della religione: il mistero è legato al Sacerdozio, cioè il Sacerdozio, per giustificare la propria presenza, ha bisogno di un elemento misterico al quale richiamarsi. Allora il mistero trinitario è la fondazione ineludibile di ogni fondamento ecclesiale che si ponga come corpo mistico di Cristo, perché il mistero trinitario rappresenta la possibilità di configurare la presenza della Chiesa nel mondo come prosecuzione dell’opera salvifica del Verbo incarnato. Contro tale tesi si è sempre venuta contrapponendo, dai tempi di Ario, una tesi diversa, una forma diversa di religiosità, di tipo naturalistico: una teologia più semplice, che garantisce l’unicità di Dio e fa del Cristo un figlio nella carne, il quale però non è partecipe della stessa natura divina. L’arianesimo è stata la religio Gothorum, la religione dei barbari, ed ha posto i barbari in condizione di preoccuparsi delle loro chiese gotiche e non delle chiese trinitarie, le quali hanno così potuto acquisire la loro autonomia. Questo arianesimo, questo “antitrinitarismo”, riaffiora nelle lotte successive alla riforma. Le guerre di religione sconvolgono l’Europa, sono uno scandalo per il Vecchio continente e durano molto, dalla Dieta di Spira, dalla pace cesaro – augustana (1555) alla pace di Westfalia (1648): in tale periodo si ha un vero e proprio sfacelo e, via via, si afferma l’idea che anziché mettere un cristiano contro l’altro per ciò che li divideva, era meglio metterli insieme su ciò che li poteva unire. Di qui nasce l’antitrinitarismo, che tenta di ridurre il cristianesimo ai minimi termini dogmatici, ad un dogma fondante, a pochissime proposizioni, intorno alle quali ci possa essere unità Si apre la strada a vedere, nel cristianesimo, una sorta di religione naturale, una religione che risponderebbe alla natura stessa dell’uomo (interessanti, al riguardo, sono lord Herbert e Grozio, che affermano che l’uomo porti in sé dei valori di religiosità naturale). Si parlerà di una ragionevolezza del cristianesimo, che viene poco alla volta ad identificarsi con una specie di morale naturale, che lo rende accessibile a tutti e lo priva della propria identità. Così, col passare del tempo, differentemente da quello che accade sul piano della politica, sul terreno della cultura, il cristianesimo, nel suo conflitto con la filosofia del secolo dei Lumi, viene perdendo la sua capacità di presa. La filosofia del secolo dei Lumi è una filosofia che porta a sostituire, all’idea di verità oggettiva di un verbo religioso, l’idea di una rispondenza soggettiva, a ciascun uomo, di quelli che sono i suoi propri convincimenti di doverosità. Non esistono verità oggettive valevoli per tutto ciò che attiene alle supreme ragioni del nostro essere, che non siano controllabili sul piano dell’empiria e che non siano verificabili con gli strumenti dell’indagine induttiva. E’ solo un salto mistico che porta l’uomo ad accettare l’una o l’altra opzione religiosa. Ci saranno tante fedi diverse quante sono le persone capaci di nutrire dentro di sé un atto di fede. Allora si sostituisce, all’idea di un codice morale unitario, l’idea di tanti codici di valori personali quante sono le coscienze senzienti, capaci di vita etica. In questo conflitto, all’idea di un gemellaggio tra l’autorità politica e l’autorità religiosa istituzionale, si sostituisce una visione diversa, che tiene conto della personalità di ciascuno. Pertanto l’autorità politica non può intervenire in una vicenda quale quella dello spirito, che implica tante diverse soluzioni per quante sono le persone che impegnano la propria esistenza nella ricerca di quello che per essa appare il vero. Si afferma il principio della neutralità dello Stato e il riconoscimento del diritto nativo fondamentale dell’uomo di poter realizzare se stesso secondo quelli che sono i suoi personali sentimenti di doverosità. L’idea del diritto fondamentale dell’uomo nasce dall’idea dell’uomo “per quello che è”, non “per quello che dovrebbe essere”. D’altra parte, riconoscere il diritto naturale dell’uomo per quello che dovrebbe essere significa imporre agli uomini un codice comportamentale, invece la grande rivoluzione dei diritti umani è accogliere l’individuo per come è, con i suoi pregi e con i suoi difetti, riconoscendo a ciascuno la possibilità di realizzare se stesso e di gestire anche i propri difetti e i propri vizi. L’importante è che l’uomo non arrechi dei danni agli altri uomini, ma il diritto primario è quello di realizzarsi secondo il proprio metro. Ciò comporta una secolarizzazione radicale dell’umanità e della società, rispetto alla quale ci sono delle perplessità. Secondo alcuni si deve distinguere il momento della “secolarizzazione” da quello della “laicità”, perché la prima può diventare indifferenza, noncuranza, appiattimento, omologazione, mentre la laicità è consapevolezza di che cosa significa essere quello che si è. La laicità implica un impegno civile che urta con l’indifferenza generalizzata. Questo è il problema europeo, ovvero dare agli uomini nuovamente un’anima, che più non può essere un’anima religiosa, perché gli uomini non sono più aperti a questa forma, ma un’anima che è rispetto per gli altri e per se stessi. E’ significativo che il conflitto tra cultura europea e cultura islamica non è un conflitto tra islamismo e cristianesimo, ma tra islamismo e secolarizzazione europea. L’Islam ci rimprovera l’edonismo, l’indifferentismo, l’agnosticismo che diventa non un atteggiamento dell’animo che sospende il giudizio su cose in ordine alle quali non può dare giudizi di certezza, ma rappresenta noncuranza, indifferenza (è l’idea della città opulenta). E’ significativo che il conflitto tra ciò che rimane della civiltà europea e ciò che invece viene affermandosi è anche un conflitto tra città opulente e città povere. La città europea è diventata città dell’opulenza e così perde quel senso del cimento umano che occorre avere per dare alla propria cultura un minimo di anima. Sergio LARICCIA coglie l’occasione per ringraziare Piero Bellini, testimoniando il contributo di Bellini per la sua formazione culturale. Bellini è persona generosa e ciò è testimoniato dal suo successo tra gli studenti. Bellini è un giurista ed uno storico delle idee, che è riuscito a dimostrare agli studenti di giurisprudenza quanto forti siano i nessi tra lo studio del diritto e lo studio della cultura. In tema di radici culturali e religiose dell’identità europea ci si limita a considerare una clausola del Preambolo della futura costituzione europea, valutando se sia opportuno aderire alle sollecitazioni del Pontefice e delle Conferenze episcopali di molti Paesi. Sarebbe opportuno valutare i riferimenti necessari per un argomento come questo. A Lariccia sembra giusto ribadire ciò che Bellini ha dimostrato in maniera efficace, ovvero che questo tema ha un collegamento forte con un passato di secoli e quindi una impostazione che non tenga conto di tale riferimento col passato va rifiutata. Vorrebbe dunque chiedere a Bellini di dire qualcosa su alcuni aspetti di attualità e perché certe scelte non sono forse opportune tenendo conto delle opinioni sulla formazione dell’Europa e se tali temi non debbano portare all’approvazione di certe formule nella nuova costituzione europea. Piero BELLINI ritiene che gli europei non debbano guardare al passato nel senso di confermarne i valori, ma in parte nel senso di ripudiare alcuni di questi valori. Non certamente il cristianesimo, ma la rissosità che è venuta sviluppandosi attorno a certi dogmi di fede. Richiamarsi puramente ad una formula come quella del Cristianesimo resta una cosa formale, priva di significato, ma potrebbe innescare nuovamente meccanismi che abbiamo cercato di superare. Il passato che è alle nostre spalle è un passato di guerre di religione, di roghi, di indici dei libri proibiti. E’ anche san Francesco, san Benedetto e tante espressioni di solidarismo umano, ma accettare di nuovo che l’unità di religione, la compartecipazione di una fede religiosa sia un fattore rilevante sul piano del diritto pubblico è pericoloso o privo di significato. E poi fare queste affermazioni è veramente necessario in un momento in cui l’Europa è invasa da elementi che non sono cristiani? Perché non dare a costoro il senso di essere a pieno titolo dei componenti della comunità? Perché opporre di nuovo a costoro l’idea della identità? L’islamismo ha avuto una storia inversa alla nostra. Il cristianesimo ha avuto uno sviluppo culturale che parte dalle prime dispute scolastiche fino a Voltaire. Abbiamo avuto uno svolgimento che l’Islam non ha avuto. Essi non hanno avuto una teologia razionale, non hanno avuto un rinascimento, non hanno avuto un secolo dei lumi. Succede allora che quando si ha un rapporto con gli islamici c’è la sensazione di discutere con un teologo volontarista del XIII secolo. Se questa assenza di contemporaneità dovessimo tradurla in una formula di legge generica non faremmo una cosa valida. Il rischio sta nel fatto che tale europeizzazione degli islamici, più che sul piano di un’accettazione critica del principio di laicità e del rispetto reciproco, avvenga in termini di omologazione culturale e di indifferenza, di secolarizzazione intesa in senso deteriore. Si vogliono integrare le culture diverse dalla nostra lasciando loro il senso della propria identità o le si vuole integrare distruggendo il senso della loro identità? E’ sicuro che distruggendo tale senso non distruggiamo anche quello europeo? Perché togliere alla società occidentale la possibilità di confrontarsi con qualcun altro che sia diverso da essa, lasciando agli altri il diritto di essere diversi? Sergio STAMMATI, riallacciandosi alla prima parte della relazione ricchissima di Bellini, osserva come essa riporti a un paradosso della storia della civiltà occidentale. Come abbiamo ascoltato, proprio nel mentre che, dopo una prima fase nella quale la nuova fede cristiana si era posta in posizione antagonistica rispetto alla cultura del mondo ellenistico – pagano, la cultura nata da quella fede ha cominciato a interloquire in maniera crescente e sempre più positiva con quella del mondo nel quale si propagava, proprio a questo punto si è verificato l’inizio di una svolta nella storia culturale del mondo occidentale. La cultura della “grande chiesa”, divenuta politicamente egemone, anziché svilupparsi conformemente al patrimonio culturale acquisito, avrebbe obliato quel patrimonio (sta qui il paradosso) e si sarebbe incamminata lungo una direzione del tutto diversa che scuoteva le concezioni basilari della cultura classica, sostituendovi idee assolutamente diverse, a partire da quella di un Dio esclusivista ed irato, potente e geloso, derivata dalla religione ebraica, dalla quale, tuttavia, quella cristiana, dopo il I secolo, si era ormai definitivamente distaccata. Al primitivo antagonismo minoritario della nuova cultura con quella classica, sarebbe, dunque, subentrato un antagonismo con questa stessa cultura, ma esercitato, questa volta, da posizioni di forza, ormai maggioritarie. E’ a questo momento che Bellini data l’inizio di una nuova storia, che non è più solo storia della chiesa cristiana, ma dell’intera cultura occidentale, la quale riesce a svilupparsi solo nelle forme della storia interna a quella di tale chiesa, a quel tempo ancora unita. Stammati si chiede, però, se il paradosso avanti indicato si attenui, quando si osservi che le due principali correnti filosofiche della dottrina classica (quella platonica e quella aristotelica), ormai incapaci di sopravvivere autonomamente entro lo scetticismo corrosivo del vecchio mondo pagano, attingono nuova linfa proprio dalla fede e dalla teologia cristiana, sopravvivendo, la prima nel filone che va da San Paolo a Agostino, ai francescani (Duns Scoto e Guglielmo di Occam), ai protestanti, a Pascal e ai giansenisti; la seconda in quello che va dal pensiero di alcuni dei primi “eretici” (Pelagio il più noto), al giusrazionalismo del papato romano, a Tommaso e alla scolastica e alle tante successive neoscolastiche. In questo senso la teologia cristiana sembra aver conservato, piuttosto che negato, la tradizione classica del pensiero, fino a restare addirittura condizionata dalla cultura da essa inglobata, la quale prende slancio per fuoriuscire dal suo contenitore non appena, al venir meno dell’ideologia e della struttura politica imperiale sulla quale quella teologia era fiorita, si affacciano alla storia le strutture politiche particolari degli Stati nazionali, le quali offrono un punto di appoggio politicamente concreto a modi di pensare di vario segno, ormai dichiaratamente antropocentrici. Se c’è, come pensa Stammati, una connessione fra i processi di liberazione degli Stati nazionali dal vecchio mondo imperiale e di liberazione del pensiero laico dalla cultura teologica, e se è vero, com’egli crede, che essi hanno portato a risultati che nella cultura occidentale possono considerarsi storicamente irreversibili (la fondazione popolare dei poteri e l’affermazione della loro autonomia reciproca, la proclamazione costituzionale dei diritti - e fra essi quello alla libertà di coscienza e di religione -, la separazione fra Stato e chiese), allora, si può pensare che il richiamo alle radici cristiane dell’Europa (d’altra parte assente nella bozza di Salonicco), per il complessivo contesto costituzionale in cui si iscrive, non avrebbe potuto essere considerato come fonte di significati prescrittivi e di ipoteche normative tali da porre in forse le secolari acquisizioni di autonomia delle istituzioni politiche e del pensiero filosofico post – teologico dalle istituzioni ecclesiali e dalle teologie cristiane; e che lo stesso non avrebbe potuto rappresentare un pericolo per il pluralismo delle fedi, che, per le crescenti osmosi demografiche del pianeta, e sulla base del pluralismo democratico che caratterizza le costituzioni del nostro continente, oltre che su quella dell’ecumenismo conciliare. si è affermato anche in Europa. Stammati condivide per intero, dunque, l’esigenza di garantire rigorosamente l’autonomia delle due sfere, civile e religiosa, che sostiene l’impianto culturale complesso esposto da Bellini, così come prova lo stesso orrore Suo nei confronti dello spesso grigiore che avvolgerebbe società per intero secolarizzate, ma ritiene che il richiamo, nel preambolo della bozza di costituzione dell’UE, alle radici cristiane dell’Europa, oltre a costituire un atto di riconoscimento dell’opera civilizzatrice svolta nella storia della società europea dai centri di spiritualità cristiana che hanno agito all’interno degli spazi sociali europei, (e in pratica per più di un millennio hanno operato essi soltanto, come vividamente descrive, per esempio, H. Taine nelle pagine iniziali della sua storia delle “origini della Francia contemporanea”), avrebbe potuto valere proprio a segnalare la crisi attuale dell’antropocentrismo orgoglioso e fragile e a confermare il principio che l’equilibrio costituzionale dell’UE è sorretto alla base dalla distinzione e dal riconoscimento reciproco delle due sfere, civile e religiosa, essendo stato il cristianesimo, fra tutte le fedi, quella che più ha generato da se gli anticorpi (religiosi e antireligiosi) che sono riusciti istituzionalmente a neutralizzare le pretese assolutistiche degli Stati, oltre che quelle integralistiche delle chiese stesse, pure se quelle pretese hanno a lungo cercato e spesso trovato in esso la propria legittimazione. Ma poiché la risonanza squisitamente costituzionale, non più giuridicamente fondativa, ma ormai solo limitativa e pluralisticamente aperta di quel richiamo, è rimasta largamente oscurata da ragioni di gran lunga più deboli e meno lungimiranti portate a sostegno dello stesso o dai sospetti di antipluralismo che esso ha diffusamente suscitato, per queste ragioni non ci si deve rammaricare se il richiamo delle radici cristiane del costituzionalismo europeo non riuscirà, come sembra, a farsi strada nelle pagine della costituzione dell’UE prossima a venire. La laicità europea non si sente, evidentemente, abbastanza garantita da potersi permettere richiami anche deboli a quella cultura cristiana recentemente qualificata da P. Ricoeur, insieme a quella umanistica, “cofondatrice” della cultura europea. Piero BELLINI spiega che la capacità che ha avuto un cristianesimo che si era tanto largamente mondanizzato a trasformare il mondo è un problema degli studiosi. Ora, sul piano dei rapporti tra privati e della vita corrente, il cristianesimo ha cambiato poco il mondo, perché sul diritto romano aveva influito, medio tempore, un processo di stoicizzazione: analogo in certo modo al processo di stoicizzazione, che aveva toccato il cristianesimo. Quando cristianesimo e diritto romano si sono incontrati, erano già abbastanza simili. Ciò che nella storia dell’umanità è cambiato è che, per la prima volta, un convincimento religioso viene ritenuto obbligatorio giuridicamente. Gesù viene tentato dai farisei, sul punto se si debba o no pagare il tributo a Roma, poiché per gli ebrei pagare il tributo che non fosse quello del tempio rappresentava un’empietà. Si voleva mettere Gesù in difficoltà, anche perché la sua predicazione si poneva contro la logica del messianesimo politico degli zeloti, essendo una conversione del messianesimo politico in messianesimo escatologico. Gesù, racconta Matteo, si fa consegnare la moneta indicando l’immagine di Cesare e dice la celebre frase Reddite Caesari quae Caesaris et Deo quae Dei sunt. Il testo aggiunge: Et omnes stupuere. Si stupirono tutti per l’abilità di sottrarsi all’insidia ovvero per la rivoluzionarietà del principio? Per la seconda ragione, perché il senso del discorso di Cristo, come è stato inizialmente interpretato da Tertulliano e da vaste frange del protocristianesimo, era nel senso che è proprio della lettera ai Corinzi, delle lettere ai Romani, e della lettera a Diogneto: tutte le cose che attengono alla temporalità sono inutili, sono effimere, durano lo spazio di un momento; l’importante è riservare a Dio ciò che è di Dio. E questo è un principio importante: Benedetto Croce, nel suo saggio Perché non possiamo non dirci cristiani, su questo punto riconosce un apporto importantissimo del cristianesimo nella storia dell’umanità, perché riserva all’uomo uno spazio che è totalmente suo in quanto destinato totalmente a Dio. L’uomo e Dio sono come un’unità: il Dio cristiano vive nell’uomo, si identifica con lui. Il senso dell’esclusività dell’impegno religioso rappresenta il senso di un’esclusività di una sfera della propria intimità. L’uomo ha una sfera di cui non deve rendere conto a nessuno. Ma dopo il 313, il terribile secolo IV, col passare del tempo, specialmente per l’opera pastorale di Ambrogio da Milano, il principio del “Dare a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quel che è di Dio” non significa più che i cristiani non si debbano occupare di politica, ma significa che Cesare deve essere il primo a rendere a Dio ciò che è di Dio. Questa è la terribile novità del cristianesimo istituzionalizzato, che diviene così un ministero statale . Cesare deve essere il primo a concorrere a realizzare la legge di Dio. Christianorum catholicorum nomen iubemus amplecti dirà Teodosio: imponiamo che sia abbracciato il nome cristiano cattolico. Diventa giuridicamente obbligatorio credere non solo in Dio, ma in quel particolare Dio, inteso in quel particolare modo. Ciò cambia radicalmente la storia europea: per la prima volta abbiamo che una fede religiosa diventa giuridicamente obbligatoria. E questo è un fatto sconvolgente per la storia della cultura, rappresenta un blocco totale della dialettica precedente, che si ripropone anche all’interno del cattolicesimo per poi riesplodere al di fuori del cattolicesimo. Il razionalismo di Tommaso, contrapposto al volontarismo francescano, sta a significare che l’uomo è partecipe della ragione di Dio e si può dunque ritenere, analogicamente, che nell’uomo si riproducono delle qualità di Dio e che in Dio si producono, al massimo livello, delle qualità umane. Tale metodo analogico viene rifiutato dai francescani, per i quali l’uomo non può aspirare a partecipare in alcunché di Dio. Tommaso d’Aquino viene condannato dal Vescovo di Parigi perché l’ingresso del realismo aristotelico in contrapposizione all’idealismo platonico rappresentava un ancoramento del cristianesimo alla terra, ponendo le premesse per una razionalizzazione che dapprima avviene nel cristianesimo e poi sfocerà nel razionalismo. Quest’ultimo dice che la ragione è tanto importante che vive di vita propria e quindi si darebbe un diritto naturale etiamsi daremus non esse Deum, anche se per ipotesi escludessimo l’esistenza di Dio. La morale esisterebbe anche se non esistesse Dio. Accade che il discorso che prima è endocristiano, attraverso la laicità diventa esterno al cristianesimo. Allora l’apporto dell’antico monaco Pelagio si generalizza e diventa pensiero comune. Con ciò però non resta esclusa una funzione determinante del sentimento e del pensiero religioso. Una cosa infatti è riottenere il senso critico di sé, avendo la capacità di dominare il proprio essere, il proprio divenire, culturalmente, ed una cosa è l’appiattimento grigio, la perdita delle radici e della consapevolezza. Ciò è molto importante perché la cultura o procede dialetticamente o non procede affatto. Se tutti avessimo uno spessore di omologazione totale non avremmo un “altro da noi” con cui confrontarci. Allora per chi come me sente la laicità nella sua interezza, che sente compiutamente di essere responsabile delle proprie azioni, chi ritiene invece ancora che Dio gli debba governare la vita è un termine di confronto ineludibile, necessario. Se non ci fosse un confronto di tutte queste posizioni culturali, noi non vedremmo i problemi nel loro vero spessore. Se non avessimo nella stessa società persone che ragionano laicamente e persone che sentono religiosamente snerveremmo quelle società. Più non si può ammettere oggigiorno la pretesa degli uomini di fede di imporre formalmente il proprio credo. Neppure però sarebbe concepibile che altri pretendano di imporre la propria laicità. Una laicità che voglia imporsi cesserebbe di essere laica. La laicità non solo riconosce il diritto dell’altro di essere altro, ma gli riconosce anche il dovere di esserlo. Non è che alcuni di noi rimproverino ai cristiani di essere cristiani, alcuni di noi rimproverano ai cristiani di non esserlo abbastanza. L’omologazione, la secolarizzazione, l’indifferenza possono essere tali che noi non agiamo più come pensiamo, ma finiamo col pensare come siamo fatti agire. Per quanto concerne la domanda relativa ad Agostino, va detto anzitutto che il santo di Ippona ha risolto i grandi problemi del mondo tardo - antico. Agostino non è un uomo del medioevo. Egli muore 50 anni prima della caduta dell’impero romano d’occidente. Siamo ancora nel mondo tardo antico. Solo che Agostino è stato l’autore più citato di tutti nel medioevo. Agostino è il grande “sistematizzatore” del pensiero della tarda antichità. Egli – con la forza del suo genio – riesce a mettere assieme posizioni teologiche diversissime: riesce a conciliare – con estrema abilità dialettica – molti dei conflitti intellettuali che venivano trascinandosi dalle prime generazioni cristiane. Ma Agostino è anche l’iniziatore del pensiero della Età intermedia: con questo che – mentre in lui il sistema “regge” perché sorretto da una straordinaria capacità di sintesi - le molte aporie sottese alla sistemazione agostiniana “esplodono” nella interpretazione dei suoi innumerevoli seguaci. Tanto che non ci sarà eresia successiva che per l’uno o per l’altro verso non si richiami a spunti agostiniani. Francesco CERRONE interviene con una certa timidezza di fronte alle cose dette dal professor Bellini. Bellini ci dice che l’antropologia classica è ottimistica, in larga misura. Circola in realtà, nella cultura classica, un’idea molto pessimistica del destino dell’uomo, che è quello di vagare in un mondo di ombre senza coscienza. Achille preferirebbe essere un qualsiasi uomo ma essere vivo piuttosto che essere nell’Ade. Questa consapevolezza del destino si traduce nell’areté, virtù civica, virtù certamente umana, progetto integralmente umano, quindi non orientato da Dio. Questa vita eroica non ha in sé i germi di un’ideologia, divenendo, già nella polis classica, ideologia della cittadinanza, trasformandosi in un complesso di momenti di disciplinamento della vita delle persone che compongono un affresco complesso in cui si traduce la cittadinanza nel mondo greco. Bellini ha poi letto il tema del politeismo in relazione col tema dell’integrazione fra gli imperi, fra mondo occidentale e mondo alessandrino, mondi lontani che possono integrarsi. Allora c’è una connessione tra politeismo e coesistenza? Basti pensare ai temi affrontati dalla psicanalisi e dalla stessa antropofagia contemporanea, che riflettono su questa connessione tra la possibilità di una pluralità di divinità e la capacità dei mondi di entrare in contatto tra loro e avviare processi osmotici. D’altra parte la lezione aristotelica nel mondo tardo - antico si trasferisce in una semplificazione: l’idea di Polibio della costituzione mista. E anche qui forse non circola un’ideologia pessimista, ovvero l’idea che l’uomo non può farcela e quindi la soluzione migliore è far confluire nella costituzione le varie possibilità? Quindi, come dire, il tempo è in qualche modo un tempo circolare. La mutazione, nell’ottica polibiana, non è mai trasformazione, possibilità di innovazione, ma riporta allo stesso punto di partenza. Con Machiavelli, l’idea di mutazione assume tutt’altra fisionomia, come possibilità di rompere il circolo costruendo una tangente che innova nella storia. L’ultima domanda riguarda la questione della laicità, vicenda che nasce nella cultura dei Lumi attorno all’idea di autonomia dell’individuo. Bellini conferma la sua convinzione attorno all’autonomia dell’individuo. Ma questa idea non è stata già messa in discussione all’inizio del ‘900, da Freud e da tutta l’intellettualità critica del primo Novecento? Già con Freud la coscienza individuale, su cui aveva puntato Kant, entra in crisi per rivendicare la pienezza dell’autonomia, così come entra in crisi l’idea che l’individuo può fare da sé, avendo a che fare con un mondo compatto di proprie idee e valori. Allora Cerrone si domanda se i problemi con cui si misura il mondo contemporaneo sono problemi di rapporto tra laicità come frutto della cultura occidentale e culture a cui tale percorso è estraneo o se invece, come è proprio di approcci antropologici contemporanei, questo confronto deve ripartire dall’esigenza del parlarsi fra culture, che non può forse essere solo un parlarsi attorno alla laicità, perché allora è solo un procedere dei mondi diversi verso il nostro, non mai un procedere del nostro verso gli altri. L’incontro può svolgersi solo in questo modo? Piero BELLINI ricorda che anche nella cultura antica c’è pessimismo, poiché esso è un sentimento umano. Certamente anche nel mondo antico c’era l’idea del pessimismo politico. Roma era però guidata da una forte carica ottimistica: non avrebbe fatto ciò che ha fatto se non avesse avuto la consapevolezza di una missione da svolgere nel mondo. Enea, Ulisse, quando scendono nell’Ade sono pessimisti; tra gli stessi poeti classici, ve ne sono di profondamente pessimisti. Però (lasciando da un canto le generalizzazioni dell’annosa questione della libertà degli antichi e della libertà dei moderni) a venire in campo è un pessimismo individuale. Laddove tutto cambia col trionfo cristiano della religiosità della salvezza: la quale afferma l’esistenza d’un male da cui salvarsi che è male insito in tutti quanti gli uomini senza distinzione: dal quale gli uomini non possono affrancarsi da sé, ma solo con l’aiuto dello Spirito. Di qui una visione pessimistica “in radice” la quale però si ammanta di ottimismo in ciò che si presume che l’uomo possa tuttavia salvarsi. Come dire che al pessimismo antropologico cristiano si aggiunge la speranza cristiana verso la vita eterna. Si ha allora un “pessimismo ricco di speranza”, mentre l’ottimismo della filosofia liberale è un “ottimismo senza speranza”, perché accetta l’idea della finitezza del tempo. Che poi oggi vi sia chi ripropone delle tesi radicalmente pessimistiche dell’antropologia è un altro discorso. Ci sono pagine di Freud che ricordano certe proposizioni di Agostino. Il peccato ascoso, il fatto cioè che il figlio desideri la madre è il peccato delle origini. Si ha anche qui una riproposizione di tale elemento perché l’uomo di volta in volta anche nei frangenti della sua vita è pessimistico e ottimistico in radice. L’uomo è tante cose diverse, non è una unità. Di fronte a questi problemi la laicità si pone come ideologia in senso positivo, pensiero per l’azione, filosofia militante. Essa non è solo un concetto negativo, alla Marx, è anche concetto positivo, di costruzione del proprio avvenire e della propria vita. La laicità è da una parte ideologia e dall’altra è metodologia. Sul primo piano, quello dell’ideologia, anche la laicità ha bisogno di un momento mistico: anche nella ricerca scientifica, l’ipotesi di lavoro è l’elemento mistico, è l’intuizione. Dante parla di indiamento, di un superamento della dimensione dell’uomo, di illuminazione mistica, appunto. Come c’è l’illuminazione mistica di chi crede nel Dio uno e trino, c’è l’illuminazione mistica di chi crede nella capacità dell’uomo di essere libero. Tale capacità è insidiata da tutte le parti e non è confermata dall’esperienza. Il determinismo non si combatte se non con un atto di fede nella libertà e la laicità è atto di fede nella libertà. Il cristianesimo, rispetto allo stoicismo, rispetto ai valori della romanità, rispetto all’unione Chiesa e Stato, si è posto in un atteggiamento tale per cui ha attribuito a tutto questo il valore tipico della fascinazione religiosa, nel senso che certe idee, che possono appartenere a pochi individui, quando sono recepite in un movimento numinoso, da idee si trasformano in stati d’animo. Subiscono un processo di volgarizzazione, di propagatio in vulgus, per cui vengono ad acquistare su di sé una forza numinosa che non avevano in quanto idee filosofiche. E questa traumatizzazione, che è propria della fascinazione religiosa, è propria anche della rivoluzione. Le rivoluzioni sono importanti perché trasformano le idee in stati d’animo. Perché le idee dei teorici della politica diventano, con la rivoluzione, pane di tutti, diventano tanto diffuse da sembrare addirittura ovvie. Per noi è ovvio che gli uomini debbano essere uguali. Ma in altri tempi questo era un’utopia assoluta. Oggi noi riteniamo che sia ovvio che gli uomini possano riflettere e possano esprimere le proprie opinioni. All’epoca di Giordano Bruno non era altrettanto vero. Cosa ha reso ovvio questi principi? E’ la traumatizzazione rivoluzionaria, per cui queste idee, dall’essere idee di pochi eletti, sono diventate idee di tutti. C’è un aspetto negativo: che le idee di tutti finiscano col non l’essere più idee di nessuno, poiché perdono il loro mordente critico e si espongono al tarlo dell’indifferenza. E’ centrale l’impegno civile, il “mettercela tutta”, che mantiene vive le idee, che altrimenti passano in archivio e si perdono. Francesco CERRONE coglie in questo “mettercela tutta” un aspetto quasi esistenzialista più che ideologico. Piero BELLINI lo ritiene piuttosto un impegno religioso. Quante volte un uomo sente la propria coscienza, che è la parte più intima, più propria dell’individuo, come qualcosa che si mette di fronte a lui? Come qualcosa con cui si deve fare i conti? Ciò significa che gli uomini, che sono radicalmente soggettivisti, sentono la norma etica come qualcosa che si pone davanti a loro, come un senso di superiore doverosità. Questo è un fattore psicologico. Perché non riconoscerlo? E’ necessario conoscere necessariamente Dio? Ciò significa che la doverosità etica è un fattore religioso. Il termine religione ha diverse etimologie. Quelle scientifiche non ci interessano, ci interessano quelle ideologiche. C’è l’etimologia prospettata da Cicerone, che parlava di religione come relegere, rivedere, e di superstitio come rifugio dei “superstiti”. E poi c’è l’etimologia di religio da ligare, legare. La prima esprime il modo filosofico, l’altra esprime il modo religioso di sentire il Sacro: come un qualcosa di invincibile. Il sacro non è necessariamente qualcosa legato al teismo. La metà delle religioni del mondo sono ateistiche, come quelle orientali, e non sono certo meno vincolanti delle nostre religioni occidentali. Marco OLIVETTI ringrazia Bellini per la profondità delle osservazioni proposte e il senso della complessità che ci lascia dopo questo seminario. Nella ricostruzioni storica, con tutte le inevitabili semplificazioni, ha qualche perplessità sulla collocazione della lettera a Diogneto nella lettura che ne ha proposto Bellini. Il tipo di sensibilità che traspare dalla lettera a Diogneto non esclude l’impegno civile e non considera il mondo come qualcosa di irrilevante. Si pensi alla frase riferita ai cristiani: Ogni terra straniera è loro patria ogni patria è per loro terra straniera, ove è importante sottolineare che si afferma non solo che ogni patria è per il cristiano una terra straniera, ma anche che per i cristiani ogni terra straniera è loro patria: e questo aspetto è indissolubilmente legato al primo. Quindi c’è un senso di appartenenza alla vita collettiva, che relativizza l’appartenenza nazionale o etnica. E’ forse questo il modo con cui molti cristiani rileggono Diogneto. Ripartendo dal punto di arrivo della ricostruzione storica delineata dal prof. Bellini, ovvero dall’idea dell’illuminismo come fondamento dei diritti fondamentali, Olivetti si chiede se oggi, tra la lunga, ricca ed anche controversa tradizione cristiana e la modernità illuministica non si sia compiuta una qualche conciliazione, non nel senso di annullare i contrasti, ma nel senso che anche nel cristianesimo vi è un fondamento dei diritti fondamentali, ed è il fondamento cui è stato dedicato l’incontro precedente a questo, ovvero la dignità umana. Si pensi alla dichiarazione del Concilio Vaticano II Dignitatis humanae: alla verità si può arrivare solo attraverso la libertà di coscienza. Olivetti si domanda se oggi ci sia ancora un’antinomia tra cristiani e laici su questo punto. Egli non vede una difficoltà dei cristiani di riconoscere i diritti fondamentali, proprio in base all’affermazione della libertà di coscienza e della dignità umana. Osserva inoltre che l’affermazione di Bellini secondo cui la laicità non si può imporre può essere utilizzata anche per il cristianesimo. Anche se la laicità, come il cristianesimo, in molti casi è stata imposta, non solo nel mondo occidentale. Relativamente al tema sollevato da Lariccia sulla menzione del cristianesimo nella Costituzione europea, Olivetti si domanda se una menzione di tale tipo possa essere non escludente e non violenta. Non necessariamente la menzione del cristianesimo significa esclusione degli altri, è semplicemente affermazione di un’identità di chi c’è che non esclude gli altri, proprio se si intende il cristianesimo in questa variante aperta e conciliata con la modernità, che è il modo prevalente con cui è vissuto dai cristiani consapevoli oggi. Da tale punto di vista un’ipotesi di lavoro potrebbe essere un richiamo al cristianesimo e alla laicità, ad es. secondo la formula contenuta nella Costituzione polacca del 1991 (che pure alcuni hanno definito una formula massonica), secondo la quale, mentre alcuni riconoscono in Dio il fondamento di una serie di valori positivi, altri lo riconoscono nella ragione e in un percorso di tipo diverso. Infine, il richiamo a Dio potrebbe essere un antidoto, nella Costituzione europea, contro ogni totalitarismo: poiché c’è richiamo a qualcosa di totalmente altro, si nega che possa essere divinizzato lo Stato o lo stesso uomo, i gruppi, la razza. Piero BELLINI afferma che la lettera a Diogneto è documento misterioso su cui si possono dare le interpretazioni più diverse. Personalmente reputa particolarmente apprezzabile l’interpretazione che ne dà Ernesto Buonaiuti. Però che una caratteristica del cristianesimo nascente sia l’estraneità alla vicenda politica circostante è confermata, in modo addirittura testuale, dalla prima lettera ai Corinzi, in cui reiteratamente Paolo afferma di non curarsi di ciò che accade nel contingente, nella storia, ma di preoccuparsi di ciò che accadrà domani, dopo il termine dei giorni. Abbiate le vostre mogli come se non le aveste, siate schiavi come se non lo foste. Cosa importa essere schiavi o sposati, quando il destino è altrove? Tertulliano, nell’Apologeticum, pur nel tentativo di accreditare del cristianesimo un immagine favorevole o almeno non contraria ai valori della romanità, scrive una frase che non poteva che apparire blasfema ai romani, dal punto di vista politico. Dice: Nulla res nobis magis aliena quam publica (Non c’è nessuna cosa che ci sia tanto estranea quanto la cosa pubblica). Il cittadino romano è un cittadino alacre, che spende la sua vita nella civitas. Ancora Tertulliano afferma che Cesare stesso potrebbe essere cristiano se Cesare non fosse di necessità legato al secolo. Quindi nella logica di un messianesimo escatologico, tutto ciò che accade al di qua (hic et nunc) è indifferente, anzi ogni attaccamento alle cose del tempo presente è un distogliere le energie dalla tensione verso il secolo avvenire. Questo è il protocristianesimo, che, d’altra parte, se non fosse stato questo, non sarebbe stato combattuto da Roma. Roma è tollerante verso tutti i culti; non lo è verso i culti orgiastici, non lo è verso certi culti misterici, non lo è verso il cristianesimo, perché i cristiani negano tutto, fanno parte a sé, non partecipano alla vita del tempo (odium generis humanis, hanno in odio il genere umano). Abbiamo testimonianze sul fatto che le sconfitte romane o le inondazioni erano considerate dai cristiani come il giusto castigo di Dio; quindi non si può pensare che i Romani accettassero questa religione, eversiva dei loro valori. Certamente, il contrasto col mondo si va via via smorzando, fino al punto di trovare oggi una certa omologia con i diritti fondamentali, che però non sono trasferibili de plano dal sistema illuministico in campo canonistico. Non c’è dubbio che la Dignitatis humanae, la Gaudium et spes, la Apostolicam actuositatem siano in tal senso significative. Però, se si va ad esaminare, si vede che, se è vero che la dignità dell’uomo esige che l’uomo sia lasciato libero di fare le sue scelte, è altrettanto vero che contemporaneamente si afferma il dovere dell’uomo di accostarsi al vero. Una libertà del dovere è un paradosso. Se si ha il dovere di ricercare la verità, non si può avere il diritto di non farlo. Se si ha il dovere di aderire alla verità una volta che la si è trovata, non si ha il diritto di allontanarsi dalla verità. Non c’è una sola volta, nei documenti del Concilio, che espressioni come dignità, libertà, autonomia, non siano accompagnate da sostantivi esorcizzanti: “sana” libertas, “vera” libertas, “sana” dignitas. E ciò perché, se è vero che l’uomo che cerca la verità ha la sua dignità, è altrettanto vero che l’ateo tale dignità, per la Gaudium et spes, non la ha. L’ateo attenta alla propria dignità umana. Come dire che è stata recepita la parola, ma non il concetto prometeico della libertà. La libertà ha una carica prometeica, non una carica adamica. La cosiddetta libertà delle opzioni secolari è affermata in tesi e smentita in ipotesi, perché si dice che se qualcuno ritiene che le res terrestres possano essere indirizzate contro la loro ordinazione a Dio, non c’è nessuno che non veda quanto ciò sia assurdo: questa è la Gaudium et spes. Ancora, la cultura è un approfondimento della natura, ma quando la cultura si mette contro la natura non c’è nulla di più assurdo: questa è la Gaudium et spes. Ed è il contrario dell’Illuminismo. D’altra parte, se non fosse così, che ci starebbe a fare la Chiesa cattolica, apostolica e romana? OLIVETTI ribadisce che c’è una sfera della libertà garantita giuridicamente, che può essere spesa in un modo o nell’altro, in cui c’è uno spazio per il giudizio morale, ma il riconoscimento della dignità e della libertà di coscienza esclude che si possa usare la forza dello Stato per imporre la verità. Questa è l’acquisizione. Piero BELLINI ritiene che in questo modo si concepisce la libertà semplicemente come immunitas a coercitione extrinseca, come immunità da una coercizione che proviene dall’esterno. Ma la libertà non è solo questo, è facoltà dell’uomo di scegliere ciò che vuole scegliere, indipendentemente da una coercizione estrinseca. La libertà non è solo un concetto giuridico, ma è un concetto umano, esistenziale. La libertà ha senso se diventa capacità attiva, stimolo, se no non serve a nulla. Si potrebbe avere una società dove tutto venga garantito, ma dove nessuno sia libero. O una società dove tutto funziona e dove non ci sia nessuno che, pur non arrecando danno all’altro, ami l’altro. Una società perfettamente organizzata in cui non ci sia nessuno che ami l’altro come se stesso non è una società cristiana. I laici hanno bisogno dei cristiani, così come i cristiani hanno bisogno dei laici. L’importante è che tra loro passi un rapporto dialettico fecondo, lontano da una stagnante omologazione senza vita. Andrea RIDOLFI ringrazia Bellini e svolge due brevi osservazioni. La prima è che, in base a quanto emerso dalla relazione, Bellini sembra contestare la tesi espressa da Guido De Ruggiero, secondo cui la separazione Stato-religione e il principio di laicità sono la diretta conseguenza della Riforma protestante. La seconda è che, a suo avviso, oggi il principio di laicità non esiste più, sia per colpa dei cattolici, che per colpa degli stessi laici. Il fenomeno è assai evidente in tema di bioetica, ma anche nella continua enfatizzazione delle radici cristiane in sede di Convenzione Europea. In particolare, riallacciandosi al fatto che Bellini ha parlato di Benjamin Constant, Ridolfi rileva con amarezza che una parte cospicua degli esponenti della Convenzione fa riferimento, invece, a Louis De Bonald e Joseph De Maistre. . Piero BELLINI ritiene che Ridolfi è troppo pessimista: pensare che de Maistre sia ancora uno scrittore di attualità è bizzarro. Quando parla di confrontarsi con un cristiano che sia cristiano, Bellini non intende confrontarsi con un de Maistre, perché questa è negazione del rapporto dialettico che deve avere una reciproca apertura. Per quanto concerne il rapporto tra liberalismo e protestantesimo, una delle idee più diffuse è che protestantesimo sia il padre del liberalismo. Ciò suscita dei dubbi. Il liberalismo è un figlio che divora la madre, che taglia da sé il cordone ombelicale. Se vi è un integrismo religioso, se vi è una riaffermazione dei più torvi elementi dell’antropologia agostiniana è proprio in campo protestante, tra luterani e calvinisti e in quel campo cattolico che è il più vicino a quello calvinista, i giansenisti. Abbiamo una massimalizzazione della dipendenza dell’uomo da Dio: l’uomo è capace solo di peccare e quindi soltanto la bontà di Dio e la sovrabbondanza dei meriti del Cristo possono favorire gli uomini. Max Weber aveva scritto delle pagine, forse un po’ superate, su questo punto, ma ancora oggi nei paesi protestanti si ha l’idea che vi siano degli eletti di Dio e dei dannati di Dio. La elezione di Dio si manifesta col successo personale. In certi Paesi ci sono le condizioni psicologiche più adatte per l’instaurazione d’uno stato sociale perché c’è l’idea che il povero sia anche segnato dall’ira di dio. Perché il povero è uno che merita la sua povertà: c’è questa visione drammatica del rapporto col sacro. Solo quando il libero esame scritturale diventa un “esame libero” e l’uomo riflette su altre cose che non siano soltanto la scrittura, e non più nel presupposto di esser soggetto alla scrittura in quanto verbum dei, in quanto espressione divina, solo allora nascono i presupposti perché si possa parlare di liberalismo, che si basa sulla equivalenza di tutte le opzioni individuali che rispondono ad un sentimento di doverosità degli individui. La sovranità della coscienza riguarda la coscienza per ciò che la coscienza è, non una coscienza ipostatica, generalizzata, collettiva, perché difendere la coscienza collettiva è come difendere la razza, è come difendere la dignità dello Stato. Sono dei simboli che possono giustificare qualsiasi forma di tirannide: la coscienza è “quello che è”, è “la coscienza di ciascuno”: il diritto di seguire la propria coscienza per come la propria coscienza è, non per come dovrebbe essere. Questo è il punto fondante del liberalismo; ma, se ciò è vero, il liberalismo necessariamente nega il fatto teofanico, cioè il fatto rivelazionistico, ovvero l’idea che la verità pentecostalmente discenda dall’alto. Che poi il liberalismo sia sorto nei paesi toccati dalla riforma protestante è un altro discorso, nel senso che la riforma protestante ha creato, attraverso una responsabilizzazione degli individui, nell’intendimento del Sacro, le premesse di un antropocentrismo. Ma tale antropocentrismo è il frutto d’una eterogenesi dei fini, è un’astuzia della ragione, della storia. Non si può dimenticare che l’intolleranza dei cattolici verso i protestanti è solo bilanciata dall’intolleranza dei protestanti verso i cattolici. Silvia NICCOLAI pone la domanda se ci si debba rapportare alla propria tradizione come alla nostra coscienza e chiede che riflessioni si possano fare sull’uso normativo – prescrittivo di espressioni come tradizioni comuni europee. Piero BELLINI ritiene che gli europei non abbiano tradizioni comuni in senso vero e proprio; essi hanno costruito insieme una grande civiltà caratterizzata dalle sue difformità interne. L’Italia in particolare è tenuta insieme dalle sue diversità. È il Paese delle cento città. E ciò fa la loro gloria. Gli Italiani sono vittime dei loro pregi e si sono salvati sempre con i loro difetti. Quando gli ambasciatori veneti parlavano con i sudditti del Re di Francia dicevano: voi siete servi regis, mentre noi siamo cittadini di libere città. Quando Carlo VIII scese in Italia e si accorse che non solo era facilissimo farlo, ma era conveniente, lo ha fatto in continuazione. Quando i divites burgenses si servivano delle truppe mercenarie per fare guerre, era logico che lo facessero. Nel momento in cui ci si rese conto che la potenza militare poteva far aggio sulla potenza culturale, allora nacquero i problemi. Silvia NICCOLAI ribadisce che la sua domanda nasceva dalla sensazione che il richiamo alla tradizione che avviene nel discorso giuridico abbia una funzione omologante. E si chiede: si è parlato del richiamo a Dio nella costituzione europea. Cinquanta anni fa alcune costituzioni si sono richiamate a Dio, come la costituzione irlandese o il preambolo della costituzione tedesca. E’ storicizzabile un richiamo a Dio? Piero BELLINI ritiene che si debba avere rispetto per tutte le componenti di una società. Si discute tanto dei crocifissi nelle scuole. Quello che si può dire dei crocifissi lo si può ripetere, ad un livello più generale, per l’invocazione di Dio all’inizio di una costituzione. Si deve vedere la reazione che le persone possono avere a certe situazioni. Se un crocifisso è già in un’aula scolastica, dove è diventato un elemento dell’ambiente, non tocca alcuna suscettibilità. Può toccare la suscettibilità di qualcuno e allora bisogna di volta in volta valutare se quella suscettibilità che è stata toccata sia, nella specie, lesa maggiormente di quanto non siano protette le altre sensibilità Una cosa è mantenere un crocifisso in un’aula dove già c’è, una cosa è mettere il crocifisso in un’aula nuova. Quest’ultimo atto è manifestazione di confessionismo e di richiamo ad un certo tipo di tradizione. Tale invocazione di Dio, se appartiene al passato, va bene. Ma nel mondo presente un richiamo a Dio sarebbe forse, in un certo senso, come voler mettere il crocifisso in una classe dove ci sono dei non cristiani o degli indifferenti o atei. Mettere ostentatamente il crocifisso, come se Dio sia un valore per ciò stesso positivo potrebbe urtare la sensibilità di chi potrebbe ritenere che tutte le guerre oggi non sono affatto attenuate dal fattore religioso, ma sono semmai accentuate. Ciò dovrebbe far dubitare della positività del richiamarsi a Dio. Il richiamo a Dio non sempre è servito ad attenuare i contrasti, ma ad accentuarli. La società attuale è fin troppo desacralizzata, quindi richiamarsi a Dio diventa una formula puramente estrinseca. Silvia NICCOLAI ritiene che, poiché alcune costituzioni già l’hanno fatto, si potrebbe dire che non c’è problema, fa parte della nostra tradizione, dunque sarebbe ovvio richiamarlo. Piero BELLINI ricorda che anche il Re d’Italia era re per grazia di Dio e per volontà della nazione, Ma nessuno se la sentirebbe di parlare di Ciampi come Presidente della Repubblica per grazia di Dio. Il rispetto che si ha per Ciampi è un rispetto per l’uomo e per la scelta di coloro che lo hanno eletto alla suprema magistratura dello stato. La grazia di Dio non c’entra nulla. Giuseppe BARBAGALLO chiede quale sia il filo che unisce le tre seguenti posizioni, che possono apparire fra loro non armoniche, espresse di recente dalla Chiesa cattolica: 1) la indicazione del Papa, secondo la quale il cristiano non deve imporre la verità, ma proporla; 2) la forte opposizione alla guerra in Iraq; 3) la richiesta di un riferimento alle radici cristiane nella Costituzione per l'Europa. Anche Barbagallo pensa che nella costituzione europea non debba esserci il riferimento alle radici cristiani sia per il rispetto che si ha per il colloquio tra uomo e Dio che è colloquio fra sé e sé, e che non deve interferire su ciò che disciplina i rapporti sociali sia perché tale richiamo è escludente verso gli altri. Ora, indipendentemente dal richiamo alle radici cristiane, la convenzione europea e il trattato di Nizza sono implicitamente escludenti. Sono chiusi: basta fare un confronto tra questa convenzione europea e i trattati internazionali multilaterali. Tutti i trattati internazionali sono più aperti rispetto a tale convenzione. Forse non dipenderà proprio dal fatto che, anche se non l’hanno detto espressamente, queste comuni radici cristiane hanno già operato in modo negativo su questa convenzione europea? Per esempio, in tutte le convenzioni internazionali, i diritti fondamentali sono immediatamente connessi con la pace, connessione che nella convenzione europea non c’è. Piero BELLINI ritiene che l’apprezzamento dell’opera del papa dovrebbe essere arricchito dalle motivazioni sottostanti, perché di per sé una dichiarazione di pace, fatta in diverse circostanze, può avere vari significati diversi, come tanti significati diversi può avere l’apertura verso lo stato sociale. Se l’apertura verso la socialità discende da presupposti di umana solidarietà. Essa avrà un significato di fratellanza generosa, che si addice alla ecclesialità. Se invece è più semplicemente diretta a promuovere il volontariato cattolico, favorito dalla crisi dello Stato sociale, quella apertura avrà più il carattere d’una operazione politica che etica. Il Papa di oggi ha fatto aperture interessanti, accompagnate però anche da molte chiusure. D’altra parte il Papa non ha molta libertà di scelta nei suoi temi. Non può non esprimere un certo rigore etico sui grandi problemi umani, che rispecchiano in sé quella carica edonistica che caratterizza il tempo presente. Non si può rimproverare al papa di essere papa. Ci sono alcuni atteggiamenti su cui si può discutere. Per quanto riguarda i diritti fondamentali noi siamo portati a ritenere, soprattutto in campo cattolico, che i diritti fondamentali rispondano ad un’oggettiva naturalità dell’uomo, quasi che vi sia una natura oggettiva, e ciò è legato all’idea creazionistica. Dio ha creato la natura in un certo modo, secondo un criterio razionale, secondo un disegno suo e la natura avrebbe un carattere normativo. Se le cose in natura avvengono in un modo, ciò sta a significare che la volontà di Dio sia nel senso che avvengano in quel modo. Il fatto che in natura le cose si svolgano in un certo modo viene assunto come fons conoscendi di quella che è l’interposizione della volontà di Dio. Dio ha manifestato nella natura il suo volere, quindi la normatività non dipende dalla natura, ma da Dio, che si esprime nel modo in cui ha ordinato alla natura. Ma, secondo altri, i diritti fondamentali non sono diritti che rispondono alla natura dell’uomo, ma alla “cultura” dell’uomo. La natura privilegia le ragioni del più forte. E’ la vita del più forte a prevalersi del sangue del più debole L’ideologia della bontà della natura è estremamente discutibile. Dalla natura ricaviamo solo alcuni bisogni essenziali, che però sono stati scoperti e realizzati nella storia, fino ad apparirci ovvi oggi, attraverso un lunghissimo procedimento culturale. Tali diritti naturali sono in realtà culturali. Allora è possibile che in certe costituzioni la cultura dominante debba mediare, per la necessità di mettere assieme varie sottoculture che si manifestano nell’ambito della cultura generale europea. Nulla, in effetti, di più vario delle culture umane storiche. Nella carta del Cairo del 1990 sui diritti fondamentali islamici, si vede come i diritti fondamentali islamici sono diversi da quelli della cultura europea e del cattolicesimo, che li ha recepiti nella Gaudium et spes o in altri documenti. Si parla dei diritti fondamentali nel rispetto della legge coranica, che domina tutto e vuole che questi diritti fondamentali facciano i conti con la cultura coranica, come noi facciamo i conti con la nostra, che essendo una cultura variegata, deve necessariamente trovare un ubi consistam. Che poi ciò debba arrivare all’invocazione del nome di Dio mi sembra un eccesso, ma che ci si debba rendere conto che vi sono anche idee dissonanti e che si debba mediare tra le opposte posizioni appartiene a quella che un tempo si chiamava la prudentia regnativa, cioè la necessità transattiva di mettere assieme cose tra loro non sempre conciliabili. BARBAGALLO afferma che nelle convenzioni internazionali c’è il limite della pace. Questa è la mediazione. Piero BELLINI ricorda che però le convenzioni multilaterali sono fatte dagli Stati che li vogliono fare, che prendono un’iniziativa per farle. Questa è aperta a chiunque voglia aderirvi e quindi, essendo aperta, deve, per necessità di cose, addivenire a transazioni. BARBAGALLO richiama lo statuto delle Nazioni Unite Piero BELLINI si chiede se sia proprio vero che la pace sia un valore in cui tutti credono. Stiamo assistendo ad una proliferazione di guerre preventive che ripropongono la tematica della ragione del più forte in un modo più vistoso. Pensare che il pacifismo sia un valore condiviso è un’illusione, è lontano dall’essere un valore condiviso. In altre occasioni ricorda d’aver parlato di “rinuncia all’utopia” rimproverando ai movimenti religiosi di non essere stati coerenti con se stessi fino al punto di ripudiare la guerra. Ma qui non si tratta di esprimere opinioni personali, si tratta di definire il principio che la Costituzione deve valere anche per persone che ragionano e sentono in modo diverso.