Giovanni Jervis: Che cos`è la normalità?

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Il termine follia risente della genericità e
imprecisione del linguaggio comune
"In qualche modo, l'immagine della devianza è
un'immagine di cui abbiamo bisogno"
Il rapporto della follia con la società: le forme di
follia non sono tanto differenti nelle diverse società
La predisposizione genetica ai disturbi psichici
La differenza tra nevrosi e psicosi
Le Metamorfosi di Kafka sono una sorta di parabola
sull'anormalità
La crisi del concetto di identità nella filosofia e nella
letteratura della fine dell'Ottocento: una tematica
fondamentale per la cultura del Novecento
Psicoanalisi e letteratura
Il rapporto tra la creatività e la follia, sottolineato ed
esasperato dalla letteratura romantica, non è una
relazione immediata e necessaria
Spesso l'uomo considera anormale e inquietante ciò
che non conosce
Le malattie psicotiche nei bambini
La distinzione tra normalità e follia è più fluida di
quanto non si sia soliti pensare
JERVIS: Mi chiamo Giovanni Jervis. Sono medico
psichiatra e insegno Psicologia dinamica all'Università di
Roma. Oggi parliamo di Cos'è la normalità e, per prima
cosa, vedremo una scheda filmata.
Il concetto di normalità può essere declinato in diverse
direzioni. Può avere un significato puramente statistico,
per indicare la maggior frequenza di un certo evento
oppure l'attesa che un certo evento abbia luogo. Così le
convenzioni che si stabiliscono tra gli esseri umani si
fondano sull'aspettativa che gli altri individui si comportino
nel modo che tra noi è normale. Ma il concetto di
normalità possiede altre connotazioni relative non ai
comportamenti, che di fatto hanno luogo, ma a quelli che
dovrebbero accadere.
Ciò che è normale è ciò che dovrebbe regolare la condotta
naturalmente. E tuttavia è accaduto che il significato, che
attiene al dovere, morale o religioso o sociale, si è spesso
mascherato nel concetto di normalità. La suddivisione tra
normale e anormale può apparire puramente scientifica,
ma nasconde spesso l'appello a un criterio di valore, che
esprime un giudizio sulla condizione di esclusione sociale
di alcuni. E' soprattutto a partire dal secolo scorso, che la
regolazione sociale dei comportamenti ha cominciato a
usare il linguaggio, apparentemente scientifico, della
normalità, quello inaugurato da discipline come la
medicina, la psichiatria e la psicologia. Il crimine e il
comportamento irregolare non sono più solo una
trasgressione della legge, ma una deviazione dalla norma.
Ma con ciò essi perdono la loro possibile ricchezza di
significato e diventano eccezioni del comportamento
normale. E' possibile restituire al concetto di normalità un
uso scientifico, che non diventa allo stesso momento uno
strumento di discriminazione e di esclusione?
STUDENTESSA: Professore noi abbiamo scelto, come
oggetto per rappresentare la normalità e la follia, un
filo spezzato da un paio di forbici, perché il filo
dovrebbe rappresentare la normalità, una vita
normale e lineare, e le forbici, che lo spezzano,
fanno subentrare la follia. Lei è d'accordo con
questa nostra scelta?
JERVIS: Qualche volta sì qualche volta no. Cioè qualche
volta quello che noi chiamiamo "follia" irrompe nella vita di
una persona e in qualche modo costituisce una rottura.
Altre volte invece si tratta di qualcosa di più subdolo e non
sempre chiaramente delimitabile. Quindi è a volte vero, e
a volte no.
STUDENTESSA: Professore, abbiamo visto nella
scheda come la follia possa essere un concetto
astratto, relativo. Secondo Lei è possibile trovare
una definizione più scientifica della follia?
JERVIS: Guardi il termine "follia" è un termine tutto
sommato generico e un po' impreciso. Quando si dice
"follia", si allude a quelli che sono chiamati
"comportamenti psicotici", cioè le psicosi, ovvero i disturbi
mentali più gravi. Quando si parla di follia, quindi, ci si
riferisce solo a una parte della patologia mentale o delle
problematiche di sofferenza mentale. La follia è in qualche
modo anche però un paradigma, è uno stereotipo. "Quello
è pazzo", ecco. Da un punto di vista scientifico, queste
distinzioni - pazzo o non pazzo, folle o non folle - spesso
sfumano, perché sono distinzioni basate sul linguaggio
comune, che, non di rado, è un po' grossolano e taglia un
po' le cose con l'accetta.
STUDENTESSA: Spesso noi associamo al concetto di
normalità quello di aspettativa, cioè la convinzione
che gli altri si debbano comportare in un
determinato modo che per lui è normale. Si potrebbe
definire follia il non aderire a questa aspettativa?
JERVIS: No, nel senso che, quando noi parliamo di
"comportamento normale", noi di solito contrapponiamo al
comportamento normale quei comportamenti che
chiamiamo "anormali", o più precisamente
"comportamenti devianti". Ora i "comportamenti devianti",
non sono sempre folli. Possono essere comportamenti, per
esempio, di tipo criminale. Anche le criminalità hanno
forme di devianza. Oppure possono essere
comportamenti, diciamo strambi, originali. Ci sono
persone, di solito una piccola minoranza, che, senza
essere né folli né criminali, hanno dei comportamenti
originali, dei comportamenti fuori, dall'ordinario. Ora la
cosa interessante è che noi tutti, fin da bambini,
impariamo a comportarci secondo certe regole. Cioè il
bambino, fin da molto piccolo, cerca di capire cos'è che si
fa e cos'è che non si fa. Ma per capire cos'è che si fa, cioè
quello che è, fra virgolette, "giusto", il bambino ha anche
bisogno di avere un'idea di quello che non si fa, cioè di
quello che non è, fra virgolette, "normale" di quello che è
deviante. Quindi l'immagine della devianza, l'immagine di
ciò che è fuori dalla norma, di ciò che è per certi lati
sbagliato o folle oppure contro le regole ci serve per capire
dov'è il confine fra ciò che ci si aspetta che noi facciamo e
ciò che invece non dovremmo fare. Perciò, in qualche
modo, l'immagine della devianza è un'immagine di cui
abbiamo bisogno.
STUDENTE: Ogni epoca ha avuto diversi tipi di follia.
Quindi possiamo dire che ogni società ha prodotto
follie diverse. Che rapporto potrebbe esserci tra
follia e società?
JERVIS: E' un rapporto meno relativo di quello che si
pensa. L'esempio che Lei ha fatto, quello dell'isteria, è un
esempio molto particolare, perché effettivamente l'isteria,
che non è una vera follia, è un disturbo psichico, ma di
solito non viene catalogato fra i disturbi psichici gravi, cioè
fra le psicosi o follie. L'isteria è un disturbo particolare,
perché, più di altri, risente di fattori sociali:
essenzialmente è un disturbo legato a fattori di
suggestione e molto spesso anche di imitazione. In
generale però le forme principali e più classiche di disturbo
mentale o di follia, non sono così variabili come si crede
attraverso le società e le epoche. Cioè in tutte le società
esistono delle persone che hanno, per esempio, dei
disturbi che noi chiamiamo schizofrenia. Poi naturalmente
ci sono anche delle variazioni, ma sono meno grandi di
quelle che si può pensare.
STUDENTE: Quanto incide la predisposizione
genetica nella follia?
JERVIS: Intanto direi che parlare di follia al singolare forse
è un po' improprio. Bisognerebbe parlare di "disturbi
psichici", che sono molto diversi gli uni dagli altri - non
sono tutti uguali- e anche a volte di "disturbi psichici
gravi" o "psicosi, quelli che noi chiamiamo "follia". Bisogna
tenere conto di un fatto, che, nella maggior parte dei casi
e nella maggior parte dei disturbi, non c'è una causa
unica, c'è un insieme di cause per cui a un certo punto,
per sfortuna si può dire, ma molto spesso anche per caso,
una persona si trova a vedere sommarsi delle
predisposizioni genetiche, degli eventi di vita, delle
difficoltà a fare fronte a nuove situazioni, come per
esempio a situazioni di maggiore autonomia, quando uno
cresce, oppure situazioni come la vecchiaia. Ecco in questa
situazione, in questi casi avviene uno scompenso. Questo
scompenso è ciò che noi chiamiamo "disturbo psichico".
Fra le cause di questi "disturbi psichici" le cause genetiche
hanno una certa importanza. Oggi si ritiene che abbiano
più importanza di quanto non si pensasse venti o
trent'anni fa.
STUDENTESSA: Che cosa separa un nevrotico da uno
psicotico?
JERVIS: Questa è una domanda che intanto ci permette di
entrare nel merito di certi problemi di psichiatria. Il
nevrotico è una persona essenzialmente disturbata
dall'ansia. Il problema dell'ansia è un problema che il
nevrotico identifica bene. Dice: "Io sono io e l'ansia è
come un corpo estraneo che mi disturba". Invece lo
"psicotico" ha un problema un po' più profondo, cioè la sua
stessa capacità di giudizio è alterata, il suo io non funziona
più bene. Quindi non c'è questa separazione fra "io che
sono sano" e l'ansia che mi disturba. C'è invece un io che
non è sano e che quindi ha difficoltà a capire come stanno
le cose e anche difficoltà a capire qual è il proprio
problema.
STUDENTESSA: Abbiamo letto ne Le metamorfosi di
Kafka, che il protagonista un giorno si risveglia
trasformato in un insetto. Secondo Lei chi è
quell'insetto e perché la metamorfosi di Gregor
Samsa è irreversibile?
JERVIS: Dunque, questo racconto, che è un bellissimo
classico della letteratura moderna, è un racconto, in un
certo senso, sull' anormalità, cioè una specie di parabola
dell' anormalità. Racconta la storia di uno, che si sveglia
una mattina e dice: "Trasformatemi in un insetto
mostruoso". Ma la cosa interessante del racconto è come i
familiari trattano questa persona. E i familiari - si vede
benissimo dalla descrizione - che sono incerti fra
riconoscere questo insetto come sempre lui -malgrado sia
trasformato in un insetto- e, invece, trattarlo come un
insetto e quindi come qualche cosa che non conta più, che
non ha più dignità umana. Alla fine, pessimisticamente si
vede che prevale questa seconda tendenza, quindi a
trattare questo poveretto, che si chiama Gregorio Samsa,
non più come una persona, ma come un insetto. Questa in
un certo senso è una metafora pessimistica di quello che
può succedere. Però noi possiamo vedere anche
atteggiamenti di questo tipo in molti film. C'è un film
molto bello, che è Mani di forbice, e noi ne vedremo un
pezzo, in cui si parla proprio di questo tipo di
discriminazione.
PEGGY: Non ti devi nascondere, sono Peggy Boxer sono la
tua rappresentante locale, sono più innocua di una torta di
ciliegie. Oddio! Mi rendo conto di disturbare, ora me ne
vado è tardi.
EDWARD: No, non andare.
PEGGY: Le tue mani! Ma cosa ti è successo?
EDWARD: Non mi ha finito!
PEGGY: Oh, mettile giù, non ti avvicinare. Ti prego! Ti
prego! Ti prego.
Jim: L'hai tagliata!
PEGGY:È appena un graffio, Jim. Non l'ha fatto apposta.
JIM: Allontanati. Se la tocchi un'altra volta, ti uccido!
PEGGY: Non è grave! Ma non è nulla! Non è una cosa
grave!
JIM: Chiami un dottore.
PEGGY: No, lui non mi ha ferito.
JIM: Devi stare lontano da lei! Hai capito? Distruggi
sempre quello che tocchi. Ma perché non te ne vai? Eh?
STUDENTESSA: Ritornando a La metamorfosi di
Kafka, la morte del protagonista, alla fine del
racconto, che avviene senza un apparente scopo
salvifico, può rappresentare un rifiuto della società,
che lui avverte?
JERVIS: Mi sembra di ricordare che nel racconto lui venga
abbastanza maltrattato, e c'è questa progressiva
separazione fra lui e i suoi familiari. Bisogna tenere conto
del fatto che Kafka non è soltanto un autore pessimistico,
ma è anche, in qualche modo, un autore grottesco.
Quindi, in questa storia, c'è una immagine di dissoluzione,
di morte, che però viene anche restituita in una maniera
tale da fare riflettere sull'incongruità di quello che
succede, sull'assurdità della vita quotidiana, che entra in
gioco e si manifesta di fronte a eventi eccezionali.
STUDENTESSA: Secondo Lei, quale posto hanno
occupato Freud e la psicoanalisi nella cultura del
Novecento?
JERVIS: Un posto enorme. Oggi si dice che la cultura del
nostro secolo, che sta finendo, è stata in larga misura
vivificata e fecondata dalla psicoanalisi, soprattutto la
media cultura, il modo di trattare i bambini, il modo di
considerare la problematica sessuale, per esempio, il
modo di considerare il rapporto fra normalità psichica e
follia o devianza. Freud ha rappresentato un grosso punto
di svolta per tanti motivi: perché ci ha aiutati a
considerare la sessualità in modo più normale, perché ci
ha aiutati a vedere i bambini in modo diverso, perché ha
aiutato a considerare l'educazione in modo meno
autoritario. Inoltre io credo che abbia giocato molto a
favore della psicoanalisi, nel rendere meno retriva e meno
bigotta, l'educazione sessuale. Quindi ha avuto una grossa
importanza sulla media cultura, sul modo comune di
vedere le persone. Ha avuto anche importanza dal punto
di vista scientifico, però forse un po' meno.
STUDENTESSA: Abbiamo visto che molti autori della
letteratura di fine Ottocento, inizio Novecento,
affrontano il tema della perdita di integrità dell'io,
come ad esempio Oscar Wilde con Il ritratto di
Dorian Grey e Stevenson con Il dottor Jekyll e Mister
Hyde. Secondo Lei, per quale motivo, proprio in
questo periodo storico, la letteratura ha avuto
l'esigenza di affrontare questo tema.
JERVIS: Questa è una domanda molto difficile. Certamente
succede questo, fra gli ultimi due decenni dell'Ottocento e
l'inizio del Novecento, avviene una grande crisi nel modo
di concepire la natura umana. Di questa crisi fanno parte
filosofi come Nietzsche, fanno parte anche Freud per
esempio. Quella che era apparsa, per buona parte
dell'Ottocento, come una natura umana compatta - noi
diciamo una natura umana "autolegittimata" -in cui il
modello della persona era data dal gentiluomo educato,
maschio, non femmina, perché le femmine non contavano
molto e il selvaggio era considerato inferiore. Insomma
c'era una sorta di modello generale, che, per una buona
parte dell'Ottocento è rimasto valido. Era il modello della
persona che sa quello che fa, è perfettamente consapevole
di sé, è perfettamente responsabile, è colta, è civile,
eccetera. E alla fine dell'Ottocento, per effetto di tanti
fattori, come certi residui della ideologia romantica, le
avanguardie artistiche e certi filosofi che introducono una
critica a questo concetto dell'unità della persona umana, si
comincia a pensare e a parlare di identità che si spezza, di
identità che entra in crisi, di un io che non è così
compatto. In Freud stesso, l'io, il soggetto non è più
unitario, è qualche cosa che si scompone; Questa è una
crisi molto interessante, che poi determinerà molti aspetti
della cultura del Novecento.
STUDENTESSA: Italo Svevo considerava la
psicoanalisi come uno strumento conoscitivo, quindi
più utile ai romanzieri che per la cura dei malati.
Qual è la sua opinione in merito?
JERVIS: La psicoanalisi, e in generale le idee che vengono
da Freud e da Yung, sono state molto importanti per
modificare il nostro modo di vedere le malattie mentali, i
disturbi psichici, in quanto ci hanno aiutato a capire che
ogni persona normale contiene in sé degli aspetti di
nevrosi e anche di follia, e, viceversa, ogni persona,
etichettata come "folle" ha più aspetti normali di quello
che sembra all'inizio. In questo senso il contributo è stato
enorme. Il contributo però è stato molto grande anche per
quanto riguarda la cultura letteraria e, ripeto, soprattutto
per quanto riguarda la media cultura, cioè il modo di
trattare i bambini, di educare, di vedere i problemi
sessuali, eccetera. Quindi credo che sia stato un contributo
nell'insieme di impostazione, più che di scoperta di singoli
fattori, e nell'insieme molto importante e positivo.
STUDENTE: La coscienza di Zeno, di Italo Svevo, si
conclude col ribaltamento di salute, e di malattia. Il
protagonista critica la società dei cosiddetti "sani"
perché li ritiene intrappolati nelle loro condizioni,
mentre giudica se stesso (vivendo comunque nel
dubbio visto che si pone continuamente domande)
più libero, più creativo, più evoluto. Lei può, alla
luce della Sua esperienza, confermare che la
situazione mentale dei cosiddetti folli può essere
considerata più libera, più creativa?
JERVIS: La risposta a quest'ultima domanda, se vogliamo
prenderla alla lettera, è no, nel senso che ci sono state
molte persone creative con problematiche psichiatriche.
Esiste certamente un rapporto, per lo meno statistico, fra
la creatività, in particolare la creatività artistica, e un certo
tipo di disturbo, che è la psicosi maniaco-depressiva.
Questo però non significa che la follia di per sé provochi
creatività o dia accesso a superiori illuminazioni. Detto
questo, però, bisogna precisare che fin dall'inizio
dell'Ottocento la tradizione romantica ha in qualche modo
rivalutato, e anche rivalutato in modo fecondo, in modo,
potremmo dire, dialettico anche, in modo polemico, quegli
aspetti di saggezza che sono contenuti nella persona
ingenua, nel bambino, nel folle, nel primitivo, eccetera. E
questa rivalutazione ha avuto un ruolo importante nella
nostra cultura. Però è una rivalutazione che non va presa
alla lettera. La follia è essenzialmente sofferenza, non è
saggezza.
STUDENTESSA: Secondo Lei i disturbi somatici come
quelli accusati da Zeno possono essere considerati
come la conseguenza della malattia stessa o sono un
mezzo attraverso il quale il malato esprime agli altri
il proprio disagio psichico?
JERVIS: Non saprei rispondere esattamente a questa
domanda. Direi che non a caso non so rispondere. Direi
che molto spesso succede quello che Lei ha detto, cioè che
il modo di esprimersi e il modo di esprimere un disagio e il
modo di vivere questo disagio sia espressione del disagio
stesso, espressione del tentativo di superare il disagio e di
gestire il disagio, sia anche espressione del modo di
comunicare agli altri, qualche cosa che è il proprio disagio,
ma è anche il senso della propria dignità. Se una persona
soffre, ha bisogno contemporaneamente di dire agli altri:
"Guardate che soffro", e però anche di dire: "Guardate
però che sono come Voi". Quindi c'è in questo senso un
tipo di comunicazione, un tipo di esigenza che è complesso
e anche molto affascinante. Ha una grande dignità. Questo
si vede bene anche in Svevo, che spesso ha dei toni ironici
su questo, peraltro.
STUDENTESSA: Le volevo chiedere: come mai il
problema della follia, affrontato in molti film come
Psyco, Rain man, è così sentito nella nostra società?
JERVIS: Questo non lo saprei dire! Io credo che ci sia un
fattore diciamo anche di trasformazione culturale, nel
senso che nelle società tradizionali, che erano società in
cui ognuno obbediva più facilmente e più spontaneamente
alla propria tradizione, alla tradizione della famiglia, i
confini fra ciò che si fa e ciò che non si fa, fra ciò che è
giusto e ciò che è sbagliato, fra ciò che è normale e ciò
che è folle, questi confini erano tracciati in una maniera
chiara e semplice, che non veniva messa in discussione.
Cioè nelle società tradizionali, in qualche modo, nella
maggior parte dei casi, i figli crescevano e si sviluppavano
e invecchiavano nella stessa ideologia, nella stessa
mentalità, spesso facendo lo stesso mestiere dei genitori.
La società moderna è caratterizzata - quella che si chiama
"società post-tradizionale", non a caso -, è caratterizzata
dal fatto che i figli sono messi a confronto con idee, valori
e possibilità di scelta molto maggiori e molto più vari di
quanto non siano quelli della propria famiglia di origine in
senso tradizionale. Uno può scegliere di più. Potendo
scegliere di più, c'è una varietà di offerte di
comportamenti. Diventando grandi si può decidere meglio,
non soltanto che mestiere fare, rispetto al mestiere
tradizionale, ma anche che tipo di persona essere. Questo
comporta una difficoltà, cioè comporta la difficoltà di
orientarsi in un mondo dove i confini fra le cose abituali e
le cose non abituali, le cose normali e le cose eccezionali
sono confini più vari, più mobili, messi in discussione più
facilmente, di quanto non avvenisse un tempo. Allora il
problema dell'anormalità psichica come problema del
confine, come problema di ciò che delimita la normalità,
ovviamente oggi si ripropone con più forza, perché è meno
facile capire che cosa si fa, cosa non si fa.
STUDENTE: Potrebbe spiegare il perché della scelta
degli oggetti che ha portato qui in trasmissione?
JERVIS: Sì, se ne potevano scegliere tanti altri. Noi
abbiamo scelto un tatuaggio perché si potrebbe discutere,
per esempio sui tatuaggi, come anche sul piercing, sugli
anelli alla lingua e cose di questo genere. E' chiaro che si
tratta di comportamenti, che alcuni considerano normali, e
anzi - comportamenti e scelte auspicabili, altri considerano
invece anormali, e, come dire, da condannare. E' un
esempio tipico di un punto che segna la relatività di certi
aspetti del concetto di normalità, anormalità. Poi abbiamo
scelto una zucca, laggiù, perché si fa riferimento a una
cosa che ci viene dalla cultura americana, cioè le zucche di
Ognissanti. Tutti i bambini hanno letto la storia del grande
cocomero, delle strisce dei fumetti di Penatus. Ecco,
questo è un punto anche interssante, perché Ognissanti, in
molti paesi, viene celebrato come la Festa delle Streghe,
ed è una di quelle ricorrenze calendariali, come il
carnevale anche, in cui si crea una sorta di parentesi, in
cui si invertono i ruoli. Per esempio nel carnevale il povero
fa il re e il re deve ubbidire agli altri. E in qualche maniera
si affronta una sorta di ribaltamento dei concetti abituali di
normalità e di devianza. Il significato antropologico e
psicologico di queste ricorrenze calendariali - troppo
complicato da spiegare qui - sono, come nel caso di
Ognissanti, ricorrenze che hanno a che fare col problema
della morte come limite, come scandalo. Abbiamo difficoltà
ad accettare la morte, che in un certo senso è
l'anormalità, per lo meno così ci sembra, anche se è un
fenomeno invece naturale, e ci sono molte maniere, anche
collettive, con cui noi affrontiamo questo problema e
affrontiamo anche certi temi inquietanti - i fantasmi e le
streghe che sono legati alla tematica della morte.
STUDENTESSA: Il concetto di normalità può
dipendere dalla cultura e dalla società in cui vive
l'individuo?
JERVIS: Dipende molto dalla cultura e dalla società in cui
vive l'individuo. Però ci sono anche degli aspetti universali,
nel senso che, per esempio, certe patologie fisiche o
psichiche, quando sono molto nette vengono considerate
qualcosa di anormale in qualsiasi società. In parte si tratta
di una questione di informazioni. Pensate per esempio alle
eclissi solari, un fenomeno naturale. Le eclissi solari sono
un fenomeno eccezionale, ma che noi consideriamo
normale, noi nella nostra società, perché le possiamo
prevedere e sappiamo esattamente di cosa si tratta. In
una società pre letterata l'eclissi solare è considerata un
fenomeno anormale, cioè un qualche cosa, che non
soltanto è eccezionale, ma è anche inquietante, ci pone
degli interrogativi. Potrebbe essere un segnale di morte.
Allora questo attribuire un significato di anormalità
all'eclissi solare è legato al fatto che non si sa cos'è
l'eclissi. Se si cos'è non è più anormale. Questo vale per
molti altri fenomeni. Il giudizio di anormalità, dato che si
tratta sostanzialmente di un giudizio, non di una
caratteristica intrinseca è in larga misura legato alla nostra
difficoltà a capire e a accettare qualcosa che ci appare non
soltanto eccezionale, ma anche inquietante. Se lo
conosciamo meglio, ne conserviamo il carattere
eccezionale, ma questo fenomeno perde il carattere di
qualcosa di inquietante, diventa qualcosa che noi capiamo,
che interpretiamo. Nella misura in cui lo interpretiamo è
meno anormale.
STUDENTESSA: Prima Lei ha parlato dell'oggetto che
ha portato, ovvero i tatuaggi e i piercing, e ha detto
che per alcune persone queste cose possono essere
ritenute normali e per altre invece sono anormali.
Ma, secondo Lei, la motivazione per la quale una
persona si fa il tatuaggio, non è magari un cercare di
essere diverso dalla collettività?
JERVIS: Diverso e al tempo stesso simile, perché certe
scelte di caratterizzazione di identità, di identità collettiva
per esempio - quelli che hanno il tatuaggio, quelli che
hanno l'anello attaccato da qualche parte, alla guanciasono una caratterizzazione, che al tempo stesso, vuole
essere appartenenza, cioè normalità rispetto a un certo
gruppo di riferimento, e polemica. Quindi c'è in qualche
modo questa caratteristica, che ritroviamo sempre in ogni
nostro tentativo di definirci, noi ci definiamo come
appartenenti a un certo gruppo e però in qualche maniera
questa definizione di appartenenza acquista significato,
pregnanza, acquista valore maggiore se noi, diciamo,
siamo diversi da Voi, non vogliamo essere come Voi, anzi
quello che Voi condannate, io lo ritengo valore. Questo è
un processo, direi necessario, soprattutto nel passaggio
dalla dipendenza della famiglia all'autonomia, cioè nel
corso dell'adolescenza, c'è questa sorta di protesta di
diversità, che è un fenomeno valido e vitale
STUDENTESSA: Ci sono categorie più a rischio di
malattie mentali, magari per il lavoro che fanno?
JERVIS: Sì, anche se è difficile definirle con precisione.
Possiamo considerare che ci sono certe situazioni di vita
che creano un rischio di squilibrio psichico. Un esempio
banale, ma non tanto banale, che ci riguarda tutti da
vicino: l'emigrazione. Da un lato, una cosa che molti non
sanno è che le persone che scelgono di emigrare in
generale sono più sane delle altre. Cioè chi se ne va non è
un malato. Chi se ne va si sente in salute. Sono più sane
sia da un punto di vista fisico, sia da un punto di vista
psichico, molto spesso. Quindi quelli che arrivano,
diciamo, sono in qualche modo una selezione in positivo.
Però, d'altro lato il fatto di trovarsi in un paese nuovo e il
fatto di trovarsi di fronte a costumi nuovi, di perdere certe
sicurezze tradizionali, come quando si è in un paese che
non si conosce, crea un effetto di spaesamento, che si
traduce in una sorta di perdita, di identità. Uno non sa più
bene chi è. Allora noi osserviamo che gli immigrati, proprio
perché hanno questa crisi di identità, non sono più quelli di
prima, ma non sono ancora appartenenti al nuovo paese,
hanno bisogno di riconfermare in qualche modo le loro
appartenenze. Quindi si ricompattano su religioni, su
tradizioni, eccetera. Allora possiamo dire quindi che la
condizione dell'immigrato è una condizione in qualche
modo precaria, che predispone a un disagio psichico e
anche in qualche misura a disturbi psichici. Questo è
l'esempio forse più classico e più attuale.
STUDENTESSA: Nell'ambito delle malattie psicotiche,
abbiamo parlato di "caratteropatia" e quindi
dell'educazione dei bambini. Mi potrebbe spiegare
quanto può influire l'educazione in un bambino e che
risvolti potrebbe avere questo tipo di malattia?
JERVIS: "Caratteropatia" significa qualcosa di abbastanza
particolare. Parliamo in generale di "disagio psichico", che
è un termine che comprende un po' tutto. L'educazione
conta molto. Bisogna dire però che quello che conta di più
sono certe situazioni di prolungato disagio nell'infanzia.
Quando un bambino cresce in un'atmosfera di deprivazioni
affettive e di brutalità, questo certamente ha un'influenza
molto negativa sulla sua psiche. Contano anche altre cose,
come per esempio l'atteggiamento della madre, il fatto che
il bambino non deve venire confuso con ordini o richieste
contraddittorie. Però bisogna anche dire che i bambini, da
questo punto di vista, spesso se la cavano molto bene.
Quindi non bisogna neanche esagerare, per quanto
riguarda gli errori educativi dei genitori. Bisogna che
questi errori siano molto gravi, per creare realmente
sempre dei disturbi. Altre volte ci possono essere bambini
un po' più fragili degli altri. Ma insomma questo dipende
anche da un caso all'altro.
STUDENTE: Il film che abbiamo scelto come esempio
in merito all'argomento è Rain man, in quanto
sembra offrire un ottimo esempio del rapporto che
può intercorrere tra un soggetto malato e un altro
normale. Un uomo, Tom Cruise, si sveglia al mattino
e viene a sapere di avere un fratello, Dustin
Hoffman, autistico. Vivono insieme per sei giorni,
imparano a capirsi e a rispettarsi. Entrambi
maturano e questa esperienza li cambia. Vediamo
appunto sparire sotto i nostri occhi questa
differenza tra la normalità e follia, che è vanificata
appunto dalla voglia e dalla capacità di
comprensione e di dialogo. Lei come reputa la nostra
scelta?
JERVIS: Io credo che certi film, come Rain man, oltre a
essere dei bei film, hanno anche una funzione: quella di
far capire e far riflettere, non tanto su cos'è la follia o
cos'è l'autismo, quanto su cosa succede a noi, quando
entriamo in contatto con persone di questo tipo. Ebbene la
cosa che giustamente alcuni di questi film dicono è che c'è
in qualche modo una scoperta del lato umano e del lato
normale anche della persona disturbata. Cioè si
stabiliscono delle forme di comprensione e di dialogo, che
non soltanto permettono di entrare in contatto con l'altra
persona e di aiutarla, ma in qualche modo ci permettono
anche di interrogarci noi sulle nostre abitudini e su quello
che abbiamo dato spesso, troppo spesso per acquisito: si
fa così e basta. Si può fare in tanti modi. Ora
naturalmente ci sono alcuni modi che non sono, come
dire, del tutto normali, in senso generale, cioè non sono
del tutto sani, però sono spesso più sani di quello che
sembra all'inizio. La distinzione fra normalità e anormalità,
fra normalità e devianza, fra normalità e follia è una
distinzione più fluida di quello che noi siamo soliti pensare.
Forse, questo, ci riporta poi all'inizio del discorso: ognuno
di noi per capire ciò che vuole fare, per capire ciò che deve
fare, ciò che per lui è normale ha bisogno di crearsi in
qualche modo un feticcio dell'anormalità e della follia,
qualcosa di rigido: lì non si va, questo non si fa. E invece
questo è più discutibile di quanto non sembri a prima vista
e permette di metterci in discussione, cosa che permette,
a sua volta, di ritornare a contatto con gli altri che ci
sembrano diversi e incomprensibili. E questo è un po',
diciamo, l'insegnamento generale che noi possiamo
ricavare da questo tema.
Biografia di Giovanni Jervis
Trasmissioni sul tema Normalità e follia
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Follia e creativita' di Fausto Petrella
Il fantasma del manicomio di Sergio Piro
Trasmissioni dello stesso autore
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Colpa e responsabilità individuale
Che cos'è l'identità?
Disagio psichico e quotidianità
Le radici dell'esistenza
Che cos'e' l'identita'
L'inconscio
A cosa serve la psicoanalisi?
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