GIOVANNI PAOLO II UDIENZA GENERALE Mercoledì, 16 dicembre

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GIOVANNI PAOLO II
UDIENZA GENERALE
Mercoledì, 16 dicembre 1998
1. "Sono uscito dal Padre e sono venuto nel mondo; ora lascio di nuovo il mondo, e vado al Padre"
(Gv 16,28).
Con queste parole di Gesù, iniziamo oggi un nuovo ciclo di catechesi incentrato sulla figura di Dio
Padre, seguendo così le indicazioni tematiche offerte dalla Tertio millennio adveniente per la
preparazione al grande Giubileo dell'anno 2000.
Nel ciclo del primo anno abbiamo riflettuto su Gesù Cristo unico Salvatore. Il Giubileo, infatti, in
quanto celebrazione della venuta del Figlio di Dio nella storia umana, riveste una forte
connotazione cristologica. Abbiamo meditato sul significato del tempo, che ha raggiunto il suo
punto focale nella nascita del Redentore duemila anni fa. Questo evento, mentre inaugura l'era
cristiana, apre anche una nuova fase di rinnovamento dell'umanità e dell'universo, in attesa
dell'ultima venuta di Cristo.
Successivamente, nelle catechesi del secondo anno di preparazione all'evento giubilare, la nostra
attenzione si è rivolta allo Spirito Santo che Gesù ha inviato dal Padre. Lo abbiamo contemplato
all'opera nella creazione e nella storia, come Persona-Amore e Persona-Dono. Abbiamo sottolineato
la sua potenza, che trae dal caos un cosmo ricco di ordine e di bellezza. In Lui viene comunicata la
vita divina e con Lui la storia diventa cammino verso la salvezza.
Vogliamo ora vivere il terzo anno di preparazione all'ormai imminente Giubileo come un
pellegrinaggio verso la casa del Padre. Ci immettiamo così nell'itinerario che, partendo dal Padre,
riconduce le creature verso il Padre, secondo il disegno di amore pienamente rivelato in Cristo. Il
cammino verso il Giubileo deve sfociare in un grande atto di lode al Padre (cfr TMA, 49), cosicché
tutta la Trinità sia in Lui glorificata.
2. Punto di partenza della nostra riflessione sono le parole del Vangelo, che ci additano in Gesù il
Figlio e il Rivelatore del Padre. Il suo insegnamento, il suo ministero, il suo stesso stile di vita, tutto
in Lui rinvia al Padre (cfr Gv 5,19.36; 8,28; 14,10; 17,6). Questi è il centro della vita di Gesù, e a
sua volta Gesù è l'unica via per accedere al Padre. "Nessuno viene al Padre se non per mezzo di me"
(Gv 14,6). Gesù è il punto di incontro degli esseri umani con il Padre, che in Lui si è reso visibile:
"Chi ha visto me ha visto il Padre. Come puoi dire: Mostraci il Padre? Non credi che io sono nel
Padre e il Padre è in me?" (Gv 14,9-10).
La manifestazione più espressiva di questo rapporto di Gesù col Padre si ha nella sua condizione di
risorto, vertice della sua missione e fondamento di vita nuova ed eterna per quanti credono in Lui.
Ma l'unione tra il Figlio e il Padre, come quella tra il Figlio e i credenti, passa attraverso il mistero
dell'"innalzamento" di Gesù, secondo una tipica espressione del Vangelo di Giovanni. Col termine
"innalzamento" l'evangelista indica sia la crocifissione che la glorificazione di Cristo; ambedue si
riflettono sul credente: "Bisogna che sia innalzato il Figlio dell'uomo, perché chiunque crede in Lui
abbia la vita eterna. Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito, perché
chiunque crede in lui non muoia, ma abbia la vita eterna" (Gv 3,14-16).
Questa "vita eterna" altro non è che la partecipazione dei credenti alla vita stessa di Gesù risorto e
consiste nell'essere inseriti in quella circolazione d'amore che unisce il Padre e il Figlio, i quali sono
una cosa sola (cfr Gv 10,30; 17,21-22).
3. La comunione profonda in cui s'incontrano il Padre, il Figlio e i credenti include lo Spirito Santo.
Egli è infatti il vincolo eterno che unisce il Padre e il Figlio e coinvolge gli uomini in questo
ineffabile mistero di amore. Donato come "Consolatore", lo Spirito "dimora" nei discepoli di Cristo
(cfr Gv 14,16-17), rendendo presente la Trinità.
Secondo l'evangelista Giovanni, proprio nel contesto della promessa del Paraclito Gesù dice ai
discepoli: "In quel giorno voi saprete che io sono nel Padre e voi in me e io in voi" (Gv 14,20).
Lo Spirito Santo è Colui che introduce l'uomo nel mistero della vita trinitaria. "Spirito della verità"
(Gv 15,26; 16,13), egli agisce nell'intimo dei credenti, facendo risplendere nella loro mente la
Verità che è Cristo.
4. Anche san Paolo evidenzia questo nostro essere orientati al Padre in virtù dello Spirito di Cristo
che abita in noi. Per l'Apostolo si tratta di una vera figliolanza, che ci consente di invocare Dio
Padre con lo stesso nome familiare usato da Gesù: Abbà (cfr Rm 8,15).
In questa nuova dimensione del nostro rapporto con Dio è coinvolta l'intera creazione che "attende
con impazienza la rivelazione dei figli di Dio" (Rm 8,19). La creazione ancora "geme e soffre fino
ad oggi nelle doglie del parto" (Rm 8,22), nell'attesa della completa redenzione che ristabilirà e
perfezionerà l'armonia del cosmo in Cristo.
Nella descrizione di questo mistero, che unisce gli uomini e l'intera creazione al Padre, l'Apostolo
esprime la funzione di Cristo e l'azione dello Spirito. Infatti mediante Cristo, "immagine del Dio
invisibile" (Col 1,15), tutte le cose sono state create.
Egli è "il principio, il primogenito di coloro che risuscitano dai morti" (Col 1,18). In Lui "si
ricapitolano" tutte le cose, quelle del cielo e quelle della terra (cfr Ef 1,10), e spetta a Lui
riconsegnarle al Padre (cfr 1 Cor 15,24), perché Dio sia "tutto in tutti" (1 Cor 15,28). Questo
cammino dell'uomo e del mondo verso il Padre è sostenuto dalla potenza dello Spirito Santo, che
viene in aiuto alla nostra debolezza e "intercede con insistenza per noi, con gemiti inesprimibili"
(Rm 8,26).
Il Nuovo Testamento ci introduce così con molta chiarezza in questo movimento che va dal Padre al
Padre. Lo vogliamo considerare con attenzione specifica in questo ultimo anno di preparazione al
grande Giubileo.
GIOVANNI PAOLO II
UDIENZA GENERALE
Mercoledì, 13 gennaio 1999
Il volto di Dio Padre, anelito dell'uomo
1. «Ci hai fatti per te, Signore, e il nostro cuore è inquieto finché non riposa in te» (Conf. 1, 1).
Questa celebre affermazione, che apre le Confessioni di sant'Agostino, esprime efficacemente il
bisogno insopprimibile che spinge l'uomo a cercare il volto di Dio. È un'esperienza attestata dalle
diverse tradizioni religiose. “Dai tempi antichi fino ad oggi - ha detto il Concilio - presso i vari
popoli si nota quasi una percezione di quella forza arcana che è presente al corso delle cose e agli
avvenimenti della vita umana, e anzi talvolta si avverte un riconoscimento della divinità suprema o
anche del Padre” (Nostra aetate, 2).
In realtà, tante preghiere della letteratura religiosa universale esprimono la convinzione che l'Essere
supremo possa essere percepito e invocato come un padre, al quale si arriva attraverso l’esperienza
delle premure affettuose ricevute dal padre terreno. Proprio questa relazione ha suscitato in alcune
correnti dell'ateismo contemporaneo il sospetto che l'idea stessa di Dio sia la proiezione
dell’immagine paterna. Il sospetto, in realtà, è infondato.
È vero tuttavia che, partendo dalla sua esperienza, l'uomo è tentato talvolta di immaginare la
divinità con tratti antropomorfici che rispecchiano troppo il mondo umano. La ricerca di Dio
procede così “a tentoni”, come Paolo disse nel discorso agli Ateniesi (cfr At 17, 27). Occorre
dunque tener presente questo chiaroscuro dell'esperienza religiosa, nella consapevolezza che solo la
rivelazione piena, in cui Dio stesso si manifesta, può dissipare le ombre e gli equivoci e far
risplendere la luce.
2. Sull'esempio di Paolo, che proprio nel discorso agli Ateniesi cita un verso del poeta Arato
sull'origine divina dell'uomo (cfr At 17, 28), la Chiesa guarda con rispetto ai tentativi che le varie
religioni compiono per cogliere il volto di Dio, distinguendo nelle loro credenze ciò che è
accettabile da quanto è incompatibile con la rivelazione cristiana.
In questa linea si deve considerare un'intuizione religiosa positiva la percezione di Dio come Padre
universale del mondo e degli uomini. Non può essere invece accolta l’idea di una divinità dominata
dall’arbitrio e dal capriccio. Presso gli antichi greci, ad esempio, il Bene, quale essere sommo e
divino, era chiamato anche padre, ma il dio Zeus manifestava la sua paternità tanto nella
benevolenza quanto nell’ira e nella malvagità. Nell'Odissea si legge: “Padre Zeus, nessuno è più
funesto di te tra gli dei: degli uomini non hai pietà, dopo averli generati e affidati alla sventura e a
gravosi dolori” (XX, 201-203).
Tuttavia l’esigenza di un Dio superiore all’arbitrio capriccioso è presente anche tra i greci antichi,
come testimonia, ad esempio, l’"Inno a Zeus" del poeta Cleante. L’idea di un padre divino, pronto
al dono generoso della vita e provvido nel fornire i beni necessari all’esistenza, ma anche severo e
punitore, e non sempre per una ragione evidente, si collega nelle società antiche all’istituzione del
patriarcato e ne trasferisce la concezione più abituale sul piano religioso.
3. In Israele il riconoscimento della paternità di Dio è progressivo e continuamente insidiato dalla
tentazione idolatrica che i profeti denunciano con forza: “Dicono a un pezzo di legno: Tu sei mio
padre, e a una pietra: Tu mi hai generato” (Ger 2, 27). In realtà per l'esperienza religiosa biblica la
percezione di Dio come Padre è legata, più che alla sua azione creatrice, al suo intervento storicosalvifico, attraverso il quale stabilisce con Israele uno speciale rapporto di alleanza. Spesso Dio
lamenta che il suo amore paterno non ha trovato adeguata corrispondenza: “Il Signore dice: Ho
allevato e fatto crescere figli, ma essi si sono ribellati contro di me” (Is 1, 2).
La paternità di Dio appare a Israele più salda di quella umana: “Mio padre e mia madre mi hanno
abbandonato, ma il Signore mi ha raccolto” (Sal 27, 10). Il salmista che ha fatto questa dolorosa
esperienza di abbandono, e ha trovato in Dio un padre più sollecito di quello terreno, ci indica la via
da lui percorsa per giungere a questa meta: “Di te ha detto il mio cuore: Cercate il suo volto; il tuo
volto, Signore, io cerco” (Sal 27, 8). Ricercare il volto di Dio è un cammino necessario, che si deve
percorrere con sincerità di cuore e impegno costante. Solo il cuore del giusto può gioire nel cercare
il volto del Signore (cfr Sal 105, 3s.) e su di lui può quindi risplendere il volto paterno di Dio (cfr
Sal 119, 135; cfr. anche 31, 17; 67, 2; 80, 4.8.20). Osservando la legge divina si gode anche
pienamente della protezione del Dio dell’alleanza. La benedizione di cui Dio gratifica il suo popolo,
tramite la mediazione sacerdotale di Aronne, insiste proprio su questo svelarsi luminoso del volto di
Dio: “Il Signore faccia brillare il suo volto su di te e ti sia propizio. Il Signore rivolga su di te il suo
volto e ti conceda pace” (Nm 6, 25s.).
4. Da quando Gesù è venuto nel mondo, la ricerca del volto di Dio Padre ha assunto una dimensione
ancora più significativa. Nel suo insegnamento Gesù, fondandosi sulla propria esperienza di Figlio,
ha confermato la concezione di Dio come padre, già delineata nell’Antico Testamento; anzi l’ha
evidenziata costantemente, vissuta in modo intimo e ineffabile, e proposta come programma di vita
per chi vuole ottenere la salvezza.
Soprattutto Gesù si pone in modo assolutamente unico in relazione con la paternità divina,
manifestandosi come “figlio” e offrendosi come l’unica strada per giungere al Padre. A Filippo che
gli chiede “mostraci il Padre e ci basta” (Gv 14, 8), egli risponde che conoscere lui significa
conoscere il Padre, perché il Padre opera attraverso lui (cfr Gv 14, 8-11). Per chi vuole dunque
incontrare il Padre è necessario credere nel Figlio: mediante Lui Dio non si limita ad assicurarci una
provvida assistenza paterna, ma comunica la sua stessa vita rendendoci “figli nel Figlio”. È quanto
sottolinea con commossa gratitudine l’apostolo Giovanni: “Vedete quale grande amore ci ha dato il
Padre per essere chiamati figli di Dio e lo siamo realmente” (1 Gv 3, 1).
GIOVANNI PAOLO II
UDIENZA GENERALE
Mercoledì, 20 gennaio 1999
La “paternità” di Dio nell'Antico Testamento
1. Il popolo di Israele - come abbiamo già accennato nella scorsa catechesi - ha sperimentato Dio
come padre. Al pari di tutti gli altri popoli, ha intuito in lui i sentimenti paterni attinti all'esperienza
abituale di un padre terreno. Soprattutto ha colto in Dio un atteggiamento particolarmente paterno,
partendo dalla conoscenza diretta della sua speciale azione salvifica (cfr Catechismo della Chiesa
Cattolica, n. 238).
Dal primo punto di vista, quello dell'esperienza umana universale, Israele ha riconosciuto la
paternità divina a partire dallo stupore dinanzi alla creazione e al rinnovarsi della vita. Il miracolo di
un bimbo che si forma nel grembo materno non è spiegabile senza l'intervento di Dio, come ricorda
il salmista: "Sei tu che hai creato le mie viscere e mi hai tessuto nel seno di mia madre . . . " (Sal
139 [138], 13). Israele ha potuto vedere in Dio un padre anche in analogia con alcuni personaggi
che detenevano una funzione pubblica, specialmente religiosa, ed erano ritenuti padri: così i
sacerdoti (cfr Gdc 17, 10; 18, 19; Gn 45, 8) o i profeti (cfr 2 Re 2, 12). Ben si comprende inoltre
come il rispetto che la società israelitica richiedeva per il padre e i genitori inducesse a vedere in
Dio un padre esigente. In effetti la legislazione mosaica è molto severa nei confronti dei figli che
non rispettano i genitori, fino a prevedere la pena di morte per chi percuote o anche solo maledice il
padre o la madre (Es 21, 15.17).
2. Ma al di là di questa rappresentazione suggerita dall'esperienza umana, in Israele matura
un'immagine più specifica della divina paternità a partire dagli interventi salvifici di Dio.
Salvandolo dalla schiavitù egiziana, Dio chiama Israele ad entrare in un rapporto di alleanza con lui
e perfino a ritenersi il suo primogenito. Dio dimostra così di essergli padre in maniera singolare,
come emerge dalle parole che rivolge a Mosè: “Allora tu dirai al faraone: dice il Signore: Israele è il
mio figlio primogenito” (Es 4, 22). Nell’ora della disperazione, questo popolo-figlio potrà
permettersi d’invocare con il medesimo titolo di privilegio il Padre celeste, perché rinnovi ancora il
prodigio dell’esodo: “Abbi pietà, Signore, del popolo chiamato con il tuo nome, di Israele che hai
trattato come un primogenito” (Sir 36, 11). In forza di questa situazione, Israele è tenuto ad
osservare una legge che lo contraddistingue dagli altri popoli, ai quali deve testimoniare la paternità
divina di cui gode in modo speciale. Lo sottolinea il Deuteronomio nel contesto degli impegni
derivanti dall’alleanza: “Voi siete figli per il Signore Dio vostro . . . Tu sei infatti un popolo
consacrato al Signore tuo Dio e il Signore ti ha scelto, perché tu fossi il suo popolo privilegiato fra
tutti i popoli che sono sulla terra” (Dt 14, ls.).
Non osservando la legge di Dio, Israele opera in contrasto con la sua condizione filiale,
procurandosi i rimproveri del Padre celeste: “La Roccia, che ti ha generato, tu hai trascurato; hai
dimenticato il Dio che ti ha procreato!” (Dt 32, 18). Questa condizione filiale coinvolge tutti i
membri del popolo d’Israele, ma viene applicata in modo singolare al discendente e successore di
Davide secondo il celebre oracolo di Natan in cui Dio dice: “Io gli sarò padre ed egli mi sarà figlio”
(2 Sam 7,14; 1 Cron 17,13). Appoggiata su questo oracolo, la tradizione messianica afferma una
filiazione divina del Messia. Al re messianico Dio dichiara: “Tu sei mio figlio, io oggi ti ho
generato” (Sal 2, 7; cfr 110 [109], 3).
3. La paternità divina nei confronti d’Israele è caratterizzata da un amore intenso, costante e
compassionevole. Nonostante le infedeltà del popolo, e le conseguenti minacce di castigo, Dio si
rivela incapace di rinunciare al suo amore. E lo esprime in termini di profonda tenerezza, anche
quando è costretto a lamentare l'incorrispondenza dei suoi figli: “Ad Efraim io insegnavo a
camminare tenendolo per mano, ma essi non compresero che avevo cura di loro. Io li traevo con
legami di bontà, con vincoli d’amore: ero per loro come chi solleva un bimbo alla sua guancia; mi
chinavo su di lui per dargli da mangiare . . . Come potrei abbandonarti, Efraim, come consegnarti ad
altri, Israele? . . . Il mio cuore si commuove dentro di me, il mio intimo freme di compassione” (Os
11, 3s.8; cfr Ger 31, 20).
Persino il rimprovero diviene espressione di un amore di predilezione, come spiega il libro dei
Proverbi: "Figlio mio, non disprezzare l'istruzione del Signore e non aver a noia la sua esortazione,
perché il Signore corregge chi ama, come un padre il figlio prediletto" (Pr 3, 11-12).
4. Una paternità così divina e nello stesso tempo così "umana" nei modi con cui si esprime,
riassume in sé anche le caratteristiche che solitamente si attribuiscono all’amore materno. Anche se
rare, le immagini dell’Antico Testamento in cui Dio si paragona ad una madre sono estremamente
significative. Si legge ad esempio nel libro di Isaia: "Sion ha detto: 'Il Signore mi ha abbandonato, il
Signore mi ha dimenticato. Si dimentica forse una donna del suo bambino, così da non
commuoversi per il figlio del suo seno? Anche se ci fosse una donna che si dimenticasse, io invece
non ti dimenticherò mai" (Is 49, 14-15). E ancora: "Come una madre consola un figlio, così io vi
consolerò" (Is 66, 13).
L’atteggiamento divino verso Israele si manifesta così anche con tratti materni, che ne esprimono la
tenerezza e la condiscendenza (cfr CCC, 239). Questo amore, che Dio effonde con tanta ricchezza
sul suo popolo, fa esultare il vecchio Tobi e gli fa proclamare: “Lodatelo, figli d’Israele, davanti alle
genti: Egli vi ha disperso in mezzo ad esse per proclamare la sua grandezza. Esaltatelo davanti ad
ogni vivente; è Lui il Signore, il nostro Dio, lui il nostro Padre, il Dio per tutti i secoli” (Tb 13, 3-4).
GIOVANNI PAOLO II
UDIENZA GENERALE
Mercoledì, 3 marzo 1999
L'esperienza del Padre in Gesù di Nazaret
1. “Benedetto sia Dio, Padre del Signore nostro Gesù Cristo” (Ef 1, 3). Queste parole di Paolo ben
ci introducono nella grande novità della conoscenza del Padre quale emerge dal Nuovo Testamento.
Qui Dio appare nel suo volto trinitario. La sua paternità non si limita più ad indicare il rapporto con
le creature, ma esprime la relazione fondamentale che caratterizza la sua vita intima; non è più un
tratto generico di Dio, ma proprietà della prima Persona in Dio. Nel suo mistero trinitario, infatti,
Dio è padre per essenza, padre da sempre, in quanto dall’eterno genera il Verbo a lui consustanziale
e a lui unito nello Spirito Santo “che procede dal Padre e dal Figlio”. Con la sua incarnazione
redentrice, il Verbo si fa solidale con noi proprio per introdurci a questa vita filiale che egli possiede
dall’eternità. “A quanti l’hanno accolto - dice l’evangelista Giovanni - ha dato potere di diventare
figli di Dio” (Gv 1, 12).
2. Alla base di questa specifica rivelazione del Padre c’è l’esperienza di Gesù. Dalle sue parole e dai
suoi atteggiamenti traspare che Egli sperimenta il rapporto col Padre in una maniera del tutto
singolare. Nei Vangeli possiamo constatare come Gesù abbia differenziato “la sua filiazione da
quella dei suoi discepoli non dicendo mai ‘Padre nostro’ tranne che per comandar loro: ‘Voi dunque
pregate così: Padre nostro’ (Mt 6, 9); e ha sottolineato tale distinzione: ‘Padre mio e Padre vostro’
(Gv 20, 17)” (CCC, 443).
Fin da piccolo, a Maria e a Giuseppe che lo stavano cercando con angoscia, risponde: “Non
sapevate che io devo occuparmi delle cose del Padre mio?” (Lc 2, 48s.). Ai Giudei che
continuavano a perseguitarlo perché aveva operato di sabato una guarigione miracolosa, egli
risponde: “Il Padre mio opera sempre e anch’io opero” (Gv 5, 17). Sulla croce invoca il Padre
perché perdoni i suoi carnefici e accolga il suo spirito (23, 34.46). La distinzione tra il modo con cui
Gesù percepisce la paternità di Dio nei suoi confronti e quella che riguarda tutti gli altri esseri
umani, è radicata nella sua coscienza e viene da lui ribadita con le parole che rivolge a Maria di
Magdala dopo la risurrezione: “Non mi trattenere, perché non sono ancora salito al Padre; ma va'
dai miei fratelli e di' loro: Io salgo al Padre mio e Padre vostro, Dio mio e Dio vostro” (Gv 20, 17).
3. Il rapporto di Gesù con il Padre è unico. Egli sa di essere esaudito sempre, sa che il Padre
manifesta attraverso di Lui la sua gloria, anche quando gli uomini possono dubitarne ed hanno
bisogno di esserne da Lui stesso convinti. Constatiamo tutto questo nell'episodio della risurrezione
di Lazzaro: “Tolsero dunque la pietra. Gesù allora alzò gli occhi e disse: ‘Padre, ti ringrazio che mi
hai ascoltato. Io sapevo che sempre mi dai ascolto, ma l'ho detto per la gente che mi sta attorno,
perché credano che tu mi hai mandato'” (Gv 11, 41s.). In forza di questa singolare intesa, Gesù può
presentarsi come il rivelatore del Padre, con una conoscenza che è frutto di un'intima e misteriosa
reciprocità, com'egli sottolinea nell'inno di giubilo: “Tutto mi è stato dato dal Padre mio; nessuno
conosce il Figlio se non il Padre, e nessuno conosce il Padre se non il Figlio e colui al quale il Figlio
lo voglia rivelare” (Mt 11, 27) (cfr CCC, 240). Da parte sua, il Padre manifesta questo rapporto
singolare che il Figlio intrattiene con Lui chiamandolo il suo “prediletto”: così al battesimo nel
Giordano (cfr Mc 1, 11) e nella Trasfigurazione (cfr Mc 9, 7). Gesù è anche adombrato come figlio
in senso speciale nella parabola dei cattivi vignaioli che maltrattano prima i due servi e poi il “figlio
prediletto” del padrone, inviati a riscuotere i frutti della vigna (cfr Mc 12, 1-11, spec. v. 6).
4. Il Vangelo di Marco ci ha conservato il termine aramaico “Abbà” (cfr Mc 14, 36), con cui Gesù,
nell’ora dolorosa del Getsemani, ha invocato il Padre, pregandolo di allontanare da lui il calice della
passione. Il Vangelo di Matteo ce ne ha riportato nello stesso episodio la traduzione “Padre mio”
(cfr Mt 26, 39, cfr anche v. 42) mentre Luca ha semplicemente “Padre” (cfr Lc 22, 42). Il termine
aramaico, che potremmo tradurre nelle lingue moderne con “papà”, “babbo caro”, esprime la
tenerezza affettuosa di un figlio. Gesù lo usa in maniera originale per rivolgersi a Dio e per indicare,
nella piena maturità della sua vita che sta per concludersi sulla croce, lo stretto rapporto che anche
in quell’ora drammatica lo lega al Padre suo. “Abbà” indica la straordinaria vicinanza tra Gesù e
Dio Padre, un’intimità senza precedenti nel contesto religioso biblico o extra-biblico. In forza della
morte e risurrezione di Gesù, Figlio unico di questo Padre, anche noi, al dire di san Paolo, siamo
elevati alla dignità di figli e possediamo lo Spirito Santo che ci spinge a gridare “Abbà, Padre!” (cfr
Rm 8, 15; Gal 4, 6). Questa semplice espressione del linguaggio infantile, in uso quotidiano
nell'ambiente di Gesù e presso tutti i popoli, ha assunto così un significato dottrinale di profonda
rilevanza, per esprimere la singolare paternità divina nei riguardi di Gesù e dei suoi discepoli.
5. Nonostante si sentisse unito al Padre in modo così intimo, Gesù ha dichiarato di ignorare l'ora
dell'avvento finale e decisivo del Regno: “Quanto a quel giorno e a quell'ora, nessuno lo sa, neanche
gli angeli del cielo e neppure il Figlio, ma solo il Padre” (Mt 24, 36). Questo aspetto ci mostra Gesù
nella condizione di abbassamento propria dell'Incarnazione, che nasconde alla sua umanità il
termine escatologico del mondo. In tal modo Gesù disillude i calcoli umani per invitarci alla
vigilanza e alla fiducia nel provvido intervento del Padre. D’altra parte, nella prospettiva dei
vangeli, l'intimità e l’assolutezza del suo essere “figlio” non vengono minimamente pregiudicate da
questa non conoscenza. Al contrario, proprio l'essersi fatto tanto solidale con noi, lo rende decisivo
per noi davanti al Padre: “Chiunque mi riconoscerà davanti agli uomini, anch'io lo riconoscerò
davanti al Padre mio che è nei cieli; chi invece mi rinnegherà davanti agli uomini, anch'io lo
rinnegherò davanti al Padre mio che è nei cieli” (Mt 10, 32s.).
Riconoscere Gesù davanti agli uomini è indispensabile per poter essere riconosciuti da lui davanti al
Padre. In altri termini, la nostra relazione filiale con il Padre celeste dipende dalla nostra coraggiosa
fedeltà verso Gesù, Figlio prediletto.
GIOVANNI PAOLO II
UDIENZA GENERALE
Mercoledì, 10 marzo 1999
Il rapporto di Gesù col Padre, rivelazione del mistero trinitario
1. Come abbiamo visto nella precedente catechesi, con le sue parole e le sue opere Gesù intrattiene
con “suo” Padre un rapporto del tutto speciale. Il vangelo di Giovanni sottolinea che quanto egli
comunica agli uomini è frutto di questa unione intima e singolare: “Io e il Padre siamo una cosa
sola” (Gv 10, 30). E ancora: “Tutto quello che il Padre possiede è mio” (Gv 16, 15). Esiste una
reciprocità tra il Padre e il Figlio, in quello che conoscono di se stessi (cfr Gv 10, 15), in quello che
sono (cfr Gv 14, 10), in quello che fanno (cfr Gv 5, 19; 10, 38) e in quello che possiedono: “Tutte le
cose mie sono tue e tutte le cose tue sono mie” (Gv 17, 10). È uno scambio reciproco che trova la
sua espressione piena nella gloria che Gesù consegue dal Padre nel mistero supremo della morte e
della risurrezione, dopo averla egli stesso procurata al Padre durante la vita terrena: “Padre, è giunta
l’ora, glorifica il Figlio tuo, perché il Figlio glorifichi te . . . Io ti ho glorificato sopra la terra . . . E
ora, Padre, glorificami davanti a te” (Gv 17, 1.4s.).
Questa unione essenziale con il Padre non solo accompagna l’attività di Gesù, ma qualifica tutto il
suo essere. “L’Incarnazione del Figlio di Dio rivela che Dio è il Padre eterno e che il Figlio è
consustanziale al Padre, cioè che in lui e con lui è lo stesso unico Dio” (CCC, 262). L'evangelista
Giovanni mette in evidenza che proprio a questa pretesa divina reagiscono i capi religiosi del
popolo, non tollerando che egli chiami Dio suo Padre e si faccia quindi uguale a Dio (Gv 5, 18; cfr
10, 33; 19, 7).
2. In forza di questa consonanza nell’essere e nell’agire, sia con le parole che con le opere Gesù
rivela il Padre: “Dio nessuno l’ha mai visto: proprio il Figlio unigenito, che è nel seno del Padre, lui
lo ha rivelato” (Gv 1, 18). La “predilezione” di cui Cristo gode è proclamata nel suo battesimo
secondo la narrazione dei Vangeli sinottici (cfr Mc 1, 11; Mt 3, 17; Lc 3, 22). Essa è ricondotta
dall’evangelista Giovanni alla sua radice trinitaria, ossia alla misteriosa esistenza del Verbo
“presso” il Padre (Gv 1, 1), che nell’eternità lo ha generato.
Partendo dal Figlio, la riflessione del Nuovo Testamento, e poi la teologia in essa radicata, hanno
approfondito il mistero della “paternità” di Dio. Il Padre è colui che nella vita trinitaria costituisce il
principio assoluto, colui che non ha origine e dal quale scaturisce la vita divina. L’unità delle tre
persone è condivisione dell’unica essenza divina, ma nel dinamismo di reciproche relazioni che
hanno nel Padre la sorgente e il fondamento. “È il Padre che genera, il Figlio che è generato, lo
Spirito Santo che procede” (Concilio Lateranense IV: DS, 804).
3. Di questo mistero che sorpassa infinitamente la nostra intelligenza, l’apostolo Giovanni ci offre
una chiave, quando nella prima lettera proclama: “Dio è amore” (1 Gv 4, 8). Questo vertice della
rivelazione indica che Dio è agape, ossia dono gratuito e totale di sé, di cui Cristo ci ha dato
testimonianza specialmente con la sua morte in croce. Nel sacrificio di Cristo, si rivela l’infinito
amore del Padre per il mondo (cfr Gv 3, 16; Rm 5, 8). La capacità di amare infinitamente, donandosi
senza riserve e senza misura, è propria di Dio. In forza di questo suo essere Amore, Egli, prima
ancora della libera creazione del mondo, è Padre nella stessa vita divina: Padre amante che genera il
Figlio amato e dà origine con lui allo Spirito Santo, la Persona-Amore, reciproco vincolo di
comunione.
Su questa base la fede cristiana comprende l'uguaglianza delle tre persone divine: il Figlio e lo
Spirito sono uguali al Padre non come principi autonomi, quasi fossero tre dèi, ma in quanto
ricevono dal Padre tutta la vita divina, distinguendosi da lui e reciprocamente solo nella diversità
delle relazioni (cfr CCC, 254).
Mistero grande, mistero di amore, mistero ineffabile, di fronte al quale la parola deve lasciare il
posto al silenzio dello stupore e dell’adorazione. Mistero divino che ci interpella e ci coinvolge,
perché la partecipazione alla vita trinitaria ci è stata offerta per grazia, attraverso l’incarnazione
redentrice del Verbo e il dono dello Spirito Santo: “Se uno mi ama, osserverà la mia parola e il
Padre mio lo amerà e noi verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui” (Gv 14, 23).
4. La reciprocità tra il Padre e il Figlio, diventa così per noi credenti principio di vita nuova, che ci
consente di partecipare alla stessa pienezza della vita divina: “Chiunque riconosce che Gesù è il
Figlio di Dio, Dio dimora in lui ed egli in Dio” (1 Gv 4, 15). Il dinamismo della vita trinitaria viene
vissuto dalle creature, in modo tale che tutto converge verso il Padre, mediante Gesù Cristo, nello
Spirito Santo. È quanto sottolinea il Catechismo della Chiesa Cattolica: “Tutta la vita cristiana è
comunione con ognuna delle Persone divine, senza in alcun modo separarle. Chi rende gloria al
Padre lo fa per il Figlio nello Spirito Santo” (n. 259).
Il Figlio è divenuto “primogenito tra molti fratelli” (Rm 8, 29); attraverso la sua morte il Padre ci ha
rigenerati (1 Pt 1, 3; cfr anche Rm 8, 32; Ef 1,3), sicché nello Spirito Santo possiamo invocarlo con
lo stesso termine usato da Gesù: Abbà (Rm 8, 15; Gal 4, 6). San Paolo illustra ulteriormente questo
mistero, dicendo che “il Padre ci ha messi in grado di partecipare alla sorte dei santi nella luce. È lui
infatti che ci ha liberati dal potere delle tenebre e ci ha trasferiti nel regno del suo Figlio diletto”
(Col 1, 12-13). E l’Apocalisse così descrive la sorte escatologica di colui che lotta e vince con
Cristo la potenza del male: “Il vincitore lo farò sedere presso di me, sul mio trono, come io ho vinto
e mi sono assiso presso il Padre mio sul suo trono” (Ap 3, 21). Questa promessa di Cristo ci apre
una prospettiva meravigliosa di partecipazione alla sua intimità celeste con il Padre.
GIOVANNI PAOLO II
UDIENZA GENERALE
Mercoledì, 17 marzo 1999
"Conoscere" il Padre
1. Nell’ora drammatica in cui si appresta ad affrontare la morte, Gesù conclude il suo grande
discorso di addio (cfr Gv 13ss.) rivolgendo una stupenda preghiera al Padre. Essa può considerarsi
un testamento spirituale in cui Gesù rimette nelle mani del Padre il mandato ricevuto: far conoscere
il suo amore al mondo, attraverso il dono della vita eterna (cfr Gv 17, 2). La vita che egli offre è
significativamente spiegata come un dono di conoscenza. “Questa è la vita eterna: che conoscano te,
l’unico vero Dio, e colui che hai mandato” (Gv 17, 3).
La conoscenza, nel linguaggio biblico dell'Antico e del Nuovo Testamento, non interessa solo la
sfera intellettuale, ma implica normalmente un’esperienza vitale che chiama in causa la persona
umana nella sua globalità e quindi anche nella sua capacità d’amare. È una conoscenza che fa
“incontrare” Dio, ponendosi all’interno di quel processo che la tradizione teologica orientale ama
chiamare “divinizzazione” e che si compie per l'azione interiore e trasformante dello Spirito di Dio
(cfr san Gregorio di Nissa, Oratio catech., 37: PG 45, 98B). Abbiamo già toccato tali temi nella
catechesi per l’anno dello Spirito Santo. Tornando ora sulla citata frase di Gesù, vogliamo
approfondire che cosa significa conoscere vitalmente Dio Padre.
2. Si può conoscere Dio come padre a diversi livelli, secondo la prospettiva da cui si guarda, e
l’aspetto del mistero che si considera. C’è una conoscenza naturale di Dio a partire dalla creazione:
essa conduce a riconoscere in Lui l’origine e la causa trascendente del mondo e dell'uomo e in
questo senso a intuirne la paternità. Questa conoscenza si approfondisce alla luce progressiva della
Rivelazione, cioè sulla base delle parole e degli interventi storico-salvifici di Dio (cfr CCC, 287).
Nell’Antico Testamento conoscere Dio come padre significa risalire alle origini del popolo
dell'alleanza: “Non è lui il Padre che ti ha creato, che ti ha fatto e ti ha costituito?” (Dt 32, 6). Il
riferimento a Dio in quanto padre garantisce e conserva l’unità dei membri di una stessa famiglia:
“Non abbiamo forse tutti noi un solo Padre? Forse non ci ha creati un unico Dio?” (Ml 2, 10). Si
riconosce Dio come padre anche nel momento in cui redarguisce il figlio per il suo bene: “Il
Signore corregge chi ama, come un padre il figlio prediletto” (Pr 3, 12). E ovviamente un padre può
essere sempre invocato nell’ora dello sconforto: “Esclamai: Signore, mio padre tu sei e campione
della mia salvezza, non mi abbandonare nei giorni dell'angoscia, nel tempo dello sconforto e della
desolazione” (Sir 51,10). In tutte queste forme vengono applicate a Dio per eccellenza quei valori
che si sperimentano nella paternità umana. Si intuisce tuttavia che non è possibile conoscere a fondo
il contenuto di una tale paternità divina, se non nella misura in cui Dio stesso la manifesta.
3. Negli eventi della storia della salvezza si rivela sempre più l’iniziativa del Padre, che con la sua
azione interiore apre il cuore dei credenti ad accogliere il Figlio incarnato. Conoscendo Gesù essi
potranno conoscere anche Lui, il Padre. È quanto insegna Gesù stesso rispondendo a Tommaso: “Se
conoscete me, conoscerete anche il Padre” (Gv 14, 7, cfr. vv. 7-10).
Bisogna dunque credere in Gesù e guardare a lui, luce del mondo, per non rimanere nelle tenebre
dell’ignoranza (cfr Gv 12, 44-46) e per conoscere che la sua dottrina viene da Dio (cfr Gv 7, 17s.).
A questa condizione è possibile conoscere il Padre, diventando capaci di adorarlo “in spirito e
verità” (Gv 4, 23). Questa conoscenza viva è inseparabile dall’amore. Viene comunicata da Gesù,
come egli ha detto nella sua preghiera sacerdotale: “Padre giusto, … io ho fatto conoscere loro il tuo
nome e lo farò conoscere, perché l’amore con il quale mi hai amato sia in essi” (Gv 17, 25-26).
“Quando preghiamo il Padre, siamo in comunione con lui e con il Figlio suo Gesù Cristo. È allora
che lo conosciamo e lo riconosciamo in uno stupore sempre nuovo” (CCC, 2781). Conoscere il
Padre significa, dunque, trovare in lui la fonte del nostro essere e della nostra unità, in quanto
membri di un’unica famiglia, ma significa anche essere immersi in una vita, “soprannaturale”, la
vita stessa di Dio.
4. L’annuncio del Figlio rimane dunque la via maestra per conoscere e far conoscere il Padre;
infatti, come ricorda una suggestiva espressione di sant’Ireneo, “la conoscenza del Padre è il Figlio”
(Adv. haer., 4,6,7: PG 7, 990B). È la possibilità offerta a Israele, ma anche alle genti, come Paolo
sottolinea nella Lettera ai Romani: “Forse Dio è Dio soltanto dei Giudei? Non lo è anche dei
pagani? Certo, anche dei pagani! Poiché non c’è che un solo Dio, il quale giustificherà per la fede i
circoncisi, e per mezzo della fede anche i non circoncisi” (Rm 3, 29s.). Dio è unico, ed è Padre di
tutti, desideroso di offrire a tutti la salvezza operata per mezzo del suo Figlio: è quello che il
vangelo di Giovanni chiama il dono della vita eterna. Questo dono ha bisogno di essere accolto e
comunicato, sull'onda di quella riconoscenza che faceva dire a Paolo, nella Seconda Lettera ai
Tessalonicesi: “Noi però dobbiamo rendere sempre grazie a Dio per voi, fratelli amati dal Signore,
perché Dio vi ha scelti come primizia per la salvezza, attraverso l’opera santificatrice dello Spirito e
la fede nella verità” (2 Ts 2, 13).
GIOVANNI PAOLO II
UDIENZA GENERALE
Mercoledì, 24 marzo 1999
1. Proseguendo nella nostra meditazione su Dio Padre, oggi vogliamo soffermarci sul suo amore
generoso e provvidente. “La testimonianza della Scrittura è unanime: la sollecitudine della divina
Provvidenza è concreta e immediata; essa si prende cura di tutto, dalle più piccole cose fino ai
grandi eventi del mondo e della storia” (CCC, 303). Possiamo prendere le mosse da un testo del
Libro della Sapienza, in cui la Provvidenza divina è contemplata in azione a favore d’una barca in
mezzo al mare: “La tua provvidenza, o Padre, la guida, perché tu hai predisposto una strada anche
nel mare, un sentiero sicuro anche fra le onde, mostrando che puoi salvare da tutto, sì che uno possa
imbarcarsi anche senza esperienza” (Sap 14, 3-4).
In un salmo si ritrova ancora l'immagine del mare, solcato dalle navi e nel quale guizzano animali
piccoli e grandi, per ricordare il nutrimento che Dio fornisce a tutti gli esseri viventi: “Tutti da te
aspettano che tu dia loro cibo in tempo opportuno. Tu lo provvedi, essi lo raccolgono, tu apri la
mano, si saziano di beni” (Sal 104, 27-28).
2. L’immagine della barca in mezzo al mare, raffigura bene la nostra situazione di fronte al Padre
provvidente. Egli - come dice Gesù - “fa sorgere il suo sole sopra i malvagi e sopra i buoni, e fa
piovere sopra i giusti e sopra gli ingiusti” (Mt 5, 45). Tuttavia, di fronte a questo messaggio
dell'amore provvidente del Padre, viene spontaneo chiedersi come si possa spiegare il dolore. E
occorre riconoscere che il problema del dolore costituisce un enigma davanti al quale la ragione
umana si smarrisce. La divina Rivelazione ci aiuta a comprendere che esso non è voluto da Dio,
essendo entrato nel mondo a causa del peccato dell'uomo (cfr Gn 3, 16-19). Dio lo permette per la
salvezza stessa dell'uomo, traendo il bene dal male. “Dio onnipotente . . . , essendo supremamente
buono, non permetterebbe mai che un qualsiasi male esistesse nelle sue opere, se non fosse
sufficientemente potente e buono, da trarre dal male stesso il bene” (Sant’Agostino, Enchiridion de
fide, spe et caritate, 11,3: PL 40, 236). Significative, a tal proposito, le parole rassicuranti, rivolte da
Giuseppe ai suoi fratelli, che l'avevano venduto ed ora dipendevano dal suo potere: “Non siete stati
voi a mandarmi qui, ma Dio . . . Se voi avete pensato del male contro di me, Dio ha pensato di farlo
servire a un bene, per compiere quello che oggi s’avvera: far vivere un popolo numeroso” (Gn 45,
8; 50, 20).
I progetti di Dio non coincidono con quelli dell’uomo; sono infinitamente migliori, ma spesso
restano incomprensibili alla mente umana. Dice il Libro dei Proverbi: “Dal Signore sono diretti i
passi dell’uomo e come può l’uomo comprendere la propria via?” (Pr 20, 24). Nel Nuovo
Testamento Paolo enuncerà questo consolante principio: “Tutto concorre al bene di coloro che
amano Dio” (Rm 8, 28).
3. Quale deve essere il nostro atteggiamento di fronte a questa provvida e lungimirante azione
divina? Non dobbiamo certo attendere passivamente ciò che Egli ci manda, bensì collaborare con
Lui, affinché porti a compimento quanto ha iniziato ad operare in noi. Dobbiamo essere solleciti
soprattutto nella ricerca dei beni celesti. Questi devono stare al primo posto, come lo richiede Gesù:
“Cercate prima il Regno di Dio e la sua giustizia” (Mt 6, 33). Gli altri beni non devono essere
oggetto di preoccupazioni eccessive, perché il nostro Padre celeste conosce quali sono le nostre
necessità; ce l’insegna Gesù quando esorta i suoi discepoli ad “un abbandono filiale alla
Provvidenza del Padre celeste, il quale si prende cura dei più elementari bisogni dei suoi figli”
(CCC, 305): “Non cercate che cosa mangerete e berrete, e non state con l’animo in ansia: di tutte
queste cose si preoccupa la gente del mondo; ma il Padre vostro sa che ne avete bisogno” (Lc 12,
29s.).
Noi siamo dunque chiamati a collaborare con Dio, in atteggiamento di grande fiducia. Gesù ci
insegna a chiedere al Padre celeste il pane quotidiano (cfr Mt 6, 11; Lc 11, 3). Se lo riceviamo con
riconoscenza, verrà anche spontaneo ricordare che nulla ci appartiene, e dobbiamo essere pronti a
donarlo: “Da’ a chiunque ti chiede; e a chi prende del tuo, non richiederlo” (Lc 6, 30).
4. La certezza dell'amore di Dio ci fa confidare nella sua provvidenza paterna anche nei momenti
più difficili dell'esistenza. Questa piena fiducia in Dio Padre provvidente, anche in mezzo alle
avversità, è mirabilmente espressa da santa Teresa di Gesù: “Niente ti turbi, niente ti spaventi. Tutto
passa, Dio non cambia. La pazienza ottiene tutto. Chi ha Dio non manca di nulla. Dio solo basta”
(Poesie, 30).
La Scrittura ci offre un esempio eloquente di totale affidamento a Dio quando racconta che Abramo
aveva maturato la decisione di sacrificare il figlio Isacco. In realtà Dio non voleva la morte del
figlio, ma la fede del padre. E Abramo la dimostra pienamente, poiché quando Isacco gli chiede
dove sia l’agnello dell’olocausto, osa rispondergli che “Dio provvederà” (Gn 22, 8). E subito dopo
sperimenterà appunto la benevola provvidenza di Dio, che salva il giovanetto e premia la sua fede,
colmandolo di benedizione.
Occorre dunque interpretare simili testi alla luce dell'intera rivelazione che raggiunge la sua
pienezza in Gesù Cristo. Egli ci insegna a riporre in Dio un'immensa fiducia anche nei momenti più
difficili: inchiodato sulla Croce, Gesù si abbandona totalmente al Padre: “Padre, nelle tue mani
consegno il mio spirito” (Lc 23, 46). Con questo atteggiamento Egli eleva a un livello sublime
quanto Giobbe aveva sintetizzato nelle note parole: “Il Signore ha dato, il Signore ha tolto, sia
benedetto il nome del Signore!” (Gb 1, 21). Anche ciò che umanamente è una sventura, può
rientrare in quel grande progetto di amore infinito col quale il Padre provvede alla nostra salvezza.
GIOVANNI PAOLO II
UDIENZA GENERALE
Mercoledì, 7 aprile 1999
Il Padre: amore esigente
1. L'amore di Dio Padre per noi non ci può lasciare indifferenti, anzi richiede di essere ricambiato
con un impegno costante di amore. Questo impegno assume significati sempre più profondi quanto
più ci avviciniamo a Gesù, che vive pienamente in comunione con il Padre, facendosi modello per
noi.
Nel contesto culturale dell’Antico Testamento l'autorità del padre è assoluta, e viene assunta come
termine di confronto per descrivere l’autorità di Dio creatore, a cui non è lecito muovere
contestazioni. Si legge in Isaia: “Chi oserà dire a un padre: 'Che cosa generi?' o a una donna: 'Che
cosa partorisci?'. Dice il Signore, il Santo di Israele, che lo ha plasmato: 'Volete interrogarmi sul
futuro dei miei figli e darmi ordini sul lavoro delle mie mani?'” (Is 45, 10s.). Un padre ha pure il
compito di guidare il figlio, ammonendolo con severità, se necessario. Il Libro dei Proverbi ricorda
che ciò vale anche per Dio: “Il Signore corregge chi ama, come un padre il figlio prediletto” (Pr 3,
12; cfr Sal 103, 13). Il profeta Malachia da parte sua attesta l’affetto compassionevole di Dio verso i
suoi figli (Ml 3, 17), ma si tratta pur sempre d'un amore esigente: “Tenete a mente la legge del mio
servo Mosè, al quale ordinai sull’Oreb statuti e norme per tutto Israele” (Ml 3, 22).
2. La legge che Dio dà al suo popolo non è un peso imposto da un padrone tirannico, ma
l’espressione di quell’amore paterno che indica il giusto sentiero della condotta umana e la
condizione per ereditare le promesse divine. È questo il senso dell’ingiunzione del Deuteronomio:
“Osserva i comandi del Signore tuo Dio, camminando sulle sue vie e temendolo; perché il Signore
tuo Dio sta per farti entrare in un paese fertile” (Dt 8, 5-7). In quanto sancisce l’alleanza tra Dio e i
figli d’Israele la legge è dettata dall’amore. Ma il trasgredirla non è senza conseguenze,
comportando esiti dolorosi, che sono tuttavia sempre dominati dalla logica dell'amore, perché
costringono l’uomo a prendere salutare coscienza di una dimensione costitutiva del suo essere. “È
scoprendo la grandezza dell’amore di Dio che il nostro cuore viene scosso dall’orrore e dal peso del
peccato e comincia a temere di offendere Dio con il peccato e di essere separato da lui” (CCC,
1432).
Se si stacca dal Creatore, l’uomo precipita necessariamente nel male, nella morte, nel nulla. Al
contrario, l’adesione a Dio è fonte di vita e benedizione. È quanto sottolinea lo stesso Libro del
Deuteronomio: “Vedi, io oggi pongo davanti a te la vita e il bene, la morte e il male; poiché io oggi
ti comando di amare il Signore tuo Dio, di camminare per le sue vie, di osservare i suoi comandi, le
sue leggi e le sue norme, perché tu viva e ti moltiplichi e il Signore ti benedica nel paese che tu stai
per entrare a prendere in possesso” (Dt 30, 15s.).
3. Gesù non abolisce la Legge nei suoi valori fondamentali, ma la perfeziona, come dice egli stesso
nel discorso della montagna: “Non pensate che io sia venuto ad abolire la Legge o i Profeti; non
sono venuto per abolire, ma per dare compimento” (Mt 5, 17).
Gesù addita il cuore della Legge nel precetto dell’amore, e ne sviluppa le esigenze radicali.
Ampliando il precetto dell’Antico Testamento, egli comanda di amare amici e nemici, e spiega
questa estensione del precetto facendo riferimento alla paternità di Dio: “Perché siate figli del Padre
vostro celeste, che fa sorgere il suo sole sopra i malvagi e sopra i buoni, e fa piovere sopra i giusti e
sopra gli ingiusti” (Mt 5, 43-45; cfr CCC, 2784).
Con Gesù avviene un salto di qualità: egli sintetizza la Legge e i Profeti in una sola norma, tanto
semplice nella sua formulazione quanto difficile nell’attuazione: “Tutto quanto volete che gli
uomini facciano a voi, anche voi fatelo a loro” (cfr Mt 7, 12). Questa è addirittura presentata come
la via da percorrere per essere perfetti come il Padre celeste (cfr Mt 5, 48). Chi agisce così, rende
testimonianza agli uomini perché sia glorificato il Padre che è nei cieli (cfr Mt 5, 16), e si dispone a
ricevere il Regno che egli ha preparato per i giusti, secondo le parole di Cristo nel giudizio finale:
“Venite, benedetti dal Padre mio, ricevete in eredità il regno preparato per voi fin dalla fondazione
del mondo” (Mt 25, 34).
4. Mentre annuncia l'amore del Padre, Gesù non manca mai di ricordare che si tratta di un amore
impegnativo. Questo tratto del volto di Dio emerge da tutta la vita di Gesù. Il suo “cibo” è appunto
attuare la volontà di colui che lo ha mandato (cfr Gv 4, 34). Proprio perché egli cerca non la propria
volontà, ma il volere del Padre che lo ha inviato nel mondo, il suo giudizio è giusto (cfr Gv 5, 30). Il
Padre perciò gli rende testimonianza (cfr Gv 5, 37) e così pure le Scritture (cfr Gv 5, 39).
Soprattutto le opere che compie in nome del Padre garantiscono che egli è inviato da lui (cfr Gv 5,
36; 10, 25.37-38). Tra di esse, la più alta è quella di offrire la propria vita, come il Padre gli ha
comandato: questo dono di sé è addirittura la ragione per cui il Padre lo ama (cfr Gv 10, 17-18) ed è
il segno che egli ama il Padre (cfr Gv 14, 31). Se già la legge del Deuteronomio era cammino e
garanzia di vita, la legge del Nuovo Testamento lo è in modo inedito e paradossale, esprimendosi
nel comandamento di amare i fratelli fino a dare la vita per loro (cfr Gv 15, 12-13).
Il “comandamento nuovo” dell’amore, come ricorda san Giovanni Crisostomo, ha la sua ragione
ultima nell’amore divino: “Non potete chiamare vostro padre il Dio di ogni bontà, se conservate un
cuore crudele e disumano; in tal caso, infatti, non avete più in voi l’impronta della bontà del Padre
celeste” (Hom. in illud “Angusta est porta”: PG 51, 44B). In questa prospettiva c'è insieme
continuità e superamento: la Legge si trasforma e si approfondisce come Legge dell'amore, l'unica
che conviene al volto paterno di Dio.
GIOVANNI PAOLO II
UDIENZA GENERALE
Mercoledì, 14 aprile 1999
Testimoniare Dio Padre: la risposta cristiana all’ateismo
1. L’orientamento religioso dell’uomo scaturisce dalla sua stessa creaturalità, che lo spinge ad
anelare a Dio da cui è creato a propria immagine e somiglianza (cfr Gn 2, 17). Il Vaticano II ha
insegnato che “la ragione più alta della dignità dell’uomo consiste nella sua vocazione alla
comunione con Dio. Fin dal suo nascere l’uomo è invitato al dialogo con Dio: non esiste, infatti, se
non perché, creato per amore da Dio, da Lui sempre per amore è conservato, né vive pienamente
secondo verità se non lo riconosce liberamente e non si affida al suo Creatore” (Gaudium et spes,
19).
La via che conduce gli esseri umani alla conoscenza di Dio Padre è Gesù Cristo, il Verbo fatto
carne, che viene a noi nella forza dello Spirito Santo. Come ho sottolineato nelle precedenti
catechesi, una tale conoscenza è autentica e piena se non si riduce a un’acquisizione del solo
intelletto, ma coinvolge in modo vitale tutta la persona umana. Questa deve offrire al Padre risposta
di fede e di amore, nella consapevolezza che, prima di conoscere, siamo stati già a nostra volta
conosciuti ed amati da Lui (cfr Gal 4, 9; 1 Cor 13, 12; 1 Gv 4, 19).
Purtroppo questo legame intimo e vitale con Dio, pregiudicato dalla colpa dei progenitori fin
dall'inizio della storia, è vissuto dall'uomo in modo fragile e contraddittorio, insidiato dal dubbio e
spesso reciso dal peccato. L’epoca contemporanea ha poi conosciuto forme particolarmente
devastanti di ateismo “teorico” e “pratico” (cfr Fides et ratio, nn. 46-47). Soprattutto si rivela
rovinoso il secolarismo con la sua indifferenza nei confronti delle questioni ultime e della fede: esso
di fatto esprime un modello di uomo totalmente sganciato dal riferimento al Trascendente.
L’ateismo ‘pratico’ è così un'amara e concreta realtà. Se è vero che esso si manifesta soprattutto
nelle civiltà economicamente e tecnicamente più avanzate, i suoi effetti si estendono anche a quelle
situazioni e culture che stanno avviando un processo di sviluppo.
2. Occorre lasciarsi guidare dalla Parola di Dio per leggere questa situazione del mondo
contemporaneo e rispondere alle gravi questioni che essa pone.
Partendo dalla Sacra Scrittura, si noterà subito che essa non fa accenno all’ateismo “teorico”,
mentre si preoccupa di respingere l'ateismo “pratico”. Il Salmista taccia di stoltezza colui che pensa:
“Non c'è Dio” (Sal 14, 1), e si comporta di conseguenza: “Sono corrotti, fanno cose abominevoli;
nessuno più agisce bene” (Ibid). In un altro Salmo è biasimato l’"empio insolente che disprezza il
Signore", dicendo: “Dio non se ne cura: Dio non esiste” (Sal 10, 4).
Piuttosto che di ateismo, la Bibbia parla di empietà e idolatria. Empio e idolatra è colui che al vero
Dio preferisce una serie di prodotti umani, falsamente ritenuti divini, viventi e operanti.
All'impotenza degli idoli, e parallelamente di coloro che li fabbricano, vengono dedicate lunghe
requisitorie profetiche. Con veemenza dialettica esse contrappongono alla vacuità ed inettitudine
degli idoli fabbricati dall'uomo la potenza del Dio creatore e operatore di prodigi (cfr Is 44, 9-20;
Ger 10, 1-16).
Questa dottrina raggiunge il suo sviluppo più ampio nel Libro della Sapienza (cfr Sap 13-15), dove
si presenta la via, che sarà poi evocata da san Paolo (cfr Rm 1, 18-23), della conoscenza di Dio a
partire dalle cose create. Essere “atei” significa allora non conoscere la vera natura della realtà
creata, ma assolutizzarla e, per ciò stesso, “idolatrarla”, invece di considerarla orma del Creatore e
via che conduce a lui.
3. L’ateismo può perfino diventare una forma di ideologia intollerante, come la storia dimostra. Gli
ultimi due secoli hanno conosciuto correnti di ateismo teorico che hanno negato Dio in nome di una
pretesa autonomia assoluta o dell’uomo o della natura o della scienza. È quanto sottolinea il
Catechismo della Chiesa Cattolica: “Spesso l’ateismo si fonda su una falsa concezione
dell’autonomia umana, spinta fino al rifiuto di ogni dipendenza nei confronti di Dio” (n. 2126).
Questo ateismo sistematico si è imposto per decenni offrendo l’illusione che, eliminando Dio,
l’uomo sarebbe stato più libero sia psicologicamente che socialmente. Le principali obiezioni mosse
soprattutto nei confronti di Dio Padre, si attestano attorno all’idea che la religione costituirebbe per
gli uomini un valore di tipo compensativo. Rimossa l’immagine del padre terreno, l’uomo adulto
proietterebbe in Dio l’esigenza di un padre amplificato, da cui a sua volta affrancarsi perché
impedirebbe il processo di maturazione degli esseri umani.
Di fronte a forme di ateismo e alle loro motivazioni ideologiche, qual è l'atteggiamento della
Chiesa? La Chiesa non disprezza lo studio serio delle componenti psicologiche e sociologiche del
fenomeno religioso, ma rifiuta con fermezza l'interpretazione della religiosità come proiezione della
psiche umana o risultato di condizioni sociologiche. L’autentica esperienza religiosa, infatti, non è
espressione d’infantilismo, ma atteggiamento maturo e nobile di accoglienza di Dio, che risponde
all’esigenza di significato globale della vita e impegna responsabilmente per una società migliore.
4. Il Concilio ha riconosciuto che, nella genesi dell’ateismo, hanno potuto contribuire i credenti per
non aver sempre manifestato adeguatamente il volto di Dio (cfr Gaudium et Spes, 19; CCC, 2125).
In questa prospettiva è proprio nella testimonianza del vero volto di Dio Padre la risposta più
convincente all’ateismo. Ciò ovviamente non esclude ma esige anche la corretta presentazione dei
motivi di ordine razionale che portano al riconoscimento di Dio. Purtroppo tali ragioni sono spesso
offuscate dai condizionamenti dovuti al peccato e da molteplici circostanze culturali. È allora
l’annuncio del Vangelo, avvalorato dalla testimonianza di una carità intelligente (cfr Gaudium et
Spes, 21), la via più efficace perché gli uomini possano intravedere la bontà di Dio e
progressivamente riconoscerne il volto misericordioso.
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