“SURREXIT CHRISTUS, SPES MEA!” La Risurrezione di Cristo e la nostra. In preparazione alla Visita pastorale ISTRUZIONE AI PRESBITERI E AI DIACONI DEL PATRIARCA CARD. ANGELO SCOLA * «Vi rendo noto, fratelli, il vangelo che vi ho annunziato e che voi avete ricevuto, nel quale restate saldi, e dal quale anche ricevete la salvezza, se lo mantenete in quella forma in cui ve l’ho annunziato. Altrimenti, avreste creduto invano! Vi ho trasmesso dunque, anzitutto, quello che anch’io ho ricevuto: che cioè Cristo morì per i nostri peccati secondo le Scritture, fu sepolto ed è risuscitato il terzo giorno secondo le Scritture, e che apparve a Cefa e quindi ai Dodici. In seguito apparve a più di cinquecento fratelli in una sola volta: la maggior parte di essi vive ancora, mentre alcuni sono morti. Inoltre apparve a Giacomo, e quindi a tutti gli apostoli. Ultimo fra tutti apparve anche a me come a un aborto. Io infatti sono l’infimo degli apostoli, e non sono degno neppure di essere chiamato apostolo, perché ho perseguitato la Chiesa di Dio. Per grazia di Dio però sono quello che sono, e la sua grazia in me non è stata vana; anzi ho faticato più di tutti loro, non io però, ma la grazia di Dio che è con me. Pertanto, sia io che loro, così predichiamo e così avete creduto. Ora, se si predica che Cristo è risuscitato dai morti, come possono dire alcuni tra voi che non esiste risurrezione dei morti? Se non esiste risurrezione dai morti, neanche Cristo è risuscitato! Ma se Cristo non è risuscitato, allora è vana la nostra predicazione ed è vana anche la vostra fede. Noi, poi, risultiamo falsi testimoni di Dio, perché contro Dio abbiamo testimoniato che egli ha risuscitato Cristo, mentre non lo ha risuscitato, se è vero che i morti non risorgono. Se infatti i morti non risorgono, neanche Cristo è risorto; ma se Cristo non è risorto, è vana la vostra fede e voi siete ancora nei vostri peccati. E anche quelli che sono morti in Cristo sono perduti. Se poi noi abbiamo avuto speranza in Cristo soltanto in questa vita, siamo da compiangere più di tutti gli uomini. Ora, invece, Cristo è risuscitato dai morti, primizia di coloro che sono morti» 1Cor 15, 1-20 1. All’inizio dell’Anno Pastorale «Vi ho trasmesso dunque, anzitutto, quello che anch’io ho ricevuto» (1Cor 15, 3). A nessuno di noi sfugge il peso di queste solenni parole dell’Apostolo. In modo semplice ma preciso egli esprime la natura di traditio propria dell’esperienza cristiana. E ciò mostra chiaramente che il legame di comunione tra l’Apostolo e la comunità di Corinto – quello che lo porta a chiamare i Corinti «miei figli carissimi» (1Cor 4, 14) - ha la sua origine proprio nella missione. La missione, infatti, non è una sorta di derivato della comunione tra i cristiani, ma ne è il motore e la sorgente. Non a caso abbiamo approfondito, a partire dallo scorso anno, nel solco tracciato dalla Conferenza Episcopale Italiana, Il volto missionario della parrocchia per riscoprirne i tratti costitutivi. Ma nella traditio, che sta all’origine della missione, tutto dipende da ciò che viene comunicato! Nel versetto paolino che stiamo commentando è centrale il ciò! Paolo non sarebbe andato a Corinto se non avesse ricevuto ciò che voleva trasmettere. La sua paternità nei confronti dei Corinti è il frutto della sua figliolanza da ciò che ha ricevuto. E questo ciò è assai chiaro nella stringata affermazione di antichissima origine che Paolo fa propria: «che cioè Cristo morì per i nostri peccati secondo le Scritture, fu sepolto ed è risuscitato il terzo giorno secondo le Scritture, e che apparve a Cefa e quindi ai Dodici» (1Cor 15, 3-5). 2. “Surrexit Christus, spes mea!” Questo è l’evento centrale. L’evento da cui nasce la comunione e che genera ogni missione: Colui che duemila anni fa si è consegnato per noi liberamente alla morte, e alla morte di croce, è risorto ed è vivo. Noi Lo abbiamo incontrato, Egli è divenuto speranza certa della nostra personale risurrezione. Questo fatto continua a cambiare la nostra vita. Di questo noi siamo testimoni. * Basilica Patriarcale di San Marco Evangelista, Venezia 14 ottobre 2004. 1 Il cammino della nostra comunità diocesana lungo l’anno pastorale 2003-2004 – sostenuto dal lavoro del Consiglio Episcopale, dei Vicari foranei e dei loro momenti collegiali, degli uffici della Curia diocesana, dei Consigli Presbiterale e Pastorale, degli incontri zonali di sacerdoti, di quelli vicariali dei sacerdoti e di tutti i fedeli, ma soprattutto dall’azione pastorale delle parrocchie e delle aggregazioni laicali – ci ha suggerito l’urgenza di mettere a tema con decisione la risurrezione di Cristo e la nostra risurrezione personale. In unità con tutta la Chiesa in Italia, che si prepara al Convegno Nazionale di Verona nel 2006, anche noi siamo chiamati anzitutto a riprendere coscienza di essere testimoni di Gesù Risorto, speranza del mondo. Non si tratta ovviamente di un elemento tra gli altri del nostro credo. Siamo davanti al nucleo incandescente della fede cattolica: il Padre ha consegnato, in un certo senso, Suo Figlio alla morte, che l’ha liberamente accettata nello Spirito, e nello Spirito il Padre ha risuscitato Gesù Cristo perché, nello stesso Spirito, noi fossimo partecipi della Sua vita. La risurrezione di Gesù Cristo è quel ciò che da origine a tutto, quel fondamento che occorre riconoscere ogni giorno come già posto e sul quale siamo chiamati a costruire (cfr. 1Cor 3, 11). Senza il Crocifisso Risorto Paolo non avrebbe incontrato i Corinti! Questo fatto storico travalica il tempo e lo spazio e diventa un evento che si offre concretamente alla nostra libertà nella celebrazione dell’Eucaristia. In questo senso ogni domenica, quando le nostre comunità si radunano per la frazione del pane, compiono l’atto essenziale della traditio catholica1. Non è, infatti, un caso che Paolo usi gli stessi identici termini per parlare dell’annuncio del Risorto (cfr. 1Cor 15, 3) e dell’istituzione dell’Eucaristia: «Io, infatti, ho ricevuto dal Signore quello che a mia volta vi ho trasmesso: il Signore Gesù, nella notte in cui veniva tradito, prese del pane…» (1Cor 11, 23). In questi “ho ricevuto” () e “ho trasmesso” () è racchiusa tutta la ricchezza della traditio. Nell’Eucaristia essa è alla portata di ciascuno di noi senza porre nessun tipo di condizione previa! Tutta la vita della comunità cristiana è concentrata nell’Eucaristia e l’esistenza cristiana altro non è che il dilatarsi, nelle concrete circostanze e attraverso i rapporti dati a ciascuno, di questo evento donato. Ritorna qui come necessario il riferimento agli affetti e al lavoro, e all’importanza educativa del riposo (ricordo la proposta di un certo uso dei patronati). Si comprende allora meglio la necessità della cura delle nostre celebrazioni liturgiche e degli innumerevoli tesori artistici che impreziosiscono i nostri templi. Come vescovo e cardinale, su invito della Sede Apostolica, mi sono recato a Guadalajara per portare il contributo del Patriarca di Venezia al 48° Congresso Eucaristico Internazionale 2. La testimonianza straordinaria di fede che, ancora una volta, ho ricevuto dal popolo di Dio che vive in Messico (più di tre milioni i partecipanti alla romería – pellegrinaggio – eucaristica alla Vergine di Zapopan) è stata approfondita attraverso un congresso teologico pastorale sull’Ecclesia de Eucharistia. Esso è sfociato nel tema di “Maria donna eucaristica”3. Si è così stabilito un nesso profondo tra la scelta delle Chiese in Messico e quella della Chiesa di Venezia in cammino verso la Visita pastorale: Eucaristia e Maria. Scelta operata, non a caso, nell’alveo del Magistero di Giovanni Paolo II che, dopo l’Anno del Rosario, ci propone l’Anno dell’Eucaristia. Con molta efficacia il Santo Padre nella Lettera Apostolica Mane nobiscum Domine, appena donata alla Chiesa tutta, scrive: «Cristo infatti è al centro non solo della storia della Chiesa, ma 1 GIOVANNI PAOLO II, Lettera Apostolica Mane nobiscum Domine 23: «In particolare auspico che in questo anno si ponga un impegno speciale nel riscoprire e vivere pienamente la Domenica come giorno del Signore e giorno della Chiesa. Sarei felice se si rimeditasse quanto ebbi a scrivere nella Lettera apostolica Dies Domini: “È proprio nella Messa domenicale, infatti, che i cristiani rivivono in modo particolarmente intenso l'esperienza fatta dagli Apostoli la sera di Pasqua, quando il Risorto si manifestò ad essi riuniti insieme (cfr Gv 20,19). In quel piccolo nucleo di discepoli, primizia della Chiesa, era in qualche modo presente il Popolo di Dio di tutti i tempi” (n. 33). I sacerdoti nel loro impegno pastorale prestino, durante questo anno di grazia, un'attenzione ancor più grande alla Messa domenicale, come celebrazione in cui la comunità parrocchiale si ritrova in maniera corale, vedendo ordinariamente partecipi anche i vari gruppi, movimenti, associazioni in essa presenti». 2 Sulla responsabilità dei vescovi e dei cardinali nei confronti nella Chiesa universale si veda: Lumen gentium 23 e Codice di Diritto Canonico 349. 3 Ecclesia de Eucharistia, 53. 2 anche della storia dell'umanità. In Lui tutto si ricapitola (cfr Ef 1,10; Col 1,15- 20)»4. È importante che noi diventiamo pienamente consapevoli di un fatto di cui, come presbiteri, siamo attori decisivi. Ogni domenica un numero considerevole di persone, partecipando al sacrificio eucaristico, testimonia la rilevanza, per l’esistenza quotidiana, della fede e della speranza certa della risurrezione della carne a partire da quella di Gesù. È questa la ragione profonda per cui intendiamo operare un rilievo statistico rigoroso della frequenza alla Messa domenicale. E non, come forse qualcuno paventa, perché poniamo la nostra speranza in strategie pastorali studiate a tavolino sulla base di analisi sociologiche. 3. Quale garanzia per credere nella risurrezione? «Se Cristo non è risuscitato, allora è vana la nostra predicazione ed è vana anche la vostra fede» (1Cor 15, 14). L’affermazione di Paolo è perentoria. Chiama in causa anzitutto la sua stessa persona – «vana la nostra predicazione» – e poi la fede dei Corinti: «ed è vana anche la vostra fede». Di fronte alla nettezza di questo giudizio un interrogativo si impone: quale garanzia ci offre l’apostolo a sostegno della sua fede nella Risurrezione? La domanda, tutt’altro che banale, martella la coscienza di ogni cristiano veramente consapevole. A svelarne tutta la drammaticità ci può aiutare un passaggio di un romanzo scritto qualche anno fa da André Schwarz-Barth, che forse non è un capolavoro ma non manca di efficacia. Mi riferisco a L’ultimo dei giusti. Con sferzante argomentazione il timido rabbi Salomon Levy, nel corso di una discussione con i grandi teologi della Sorbona, si scaglia contro la pretesa di Cristo di essere il Messia: «Se è vero che il Messia di cui parlavano i nostri antichi profeti è già venuto, come vi spiegate l’odierno stato del mondo…? Nobili signori, i profeti hanno detto che con l’arrivo del Messia pianti e lamenti sarebbero scomparsi dalla faccia della terra… non è vero? E che tutti i popoli avrebbero rotto le spade, oh sì!, e con esse avrebbero forgiato vomeri… non è vero?»5. Davanti alla prova del dolore, della morte e, soprattutto, del peccato noi siamo tentati di vanificare la potenza della resurrezione. Già Agostino aveva accusato il colpo di questa obiezione: «Post Christum nihil in melius, omnia in peius mutata sunt?». Quale arma può vincere, anzitutto in me stesso e quindi nei fedeli che mi sono affidati, questa obiezione? Solo la convinzione che appartiene alla fede secolare della Chiesa: la verità della redenzione, che si documenta nella risurrezione, è offerta alla libertà di ogni uomo. La redenzione avviene compiutamente solo attraverso la libertà dell’uomo che la accoglie6. La dura crosta di scetticismo e disperazione che l’interrogativo raccolto da Agostino sprigiona si infrange solo contro la roccia della testimonianza. «Vi rendo noto, fratelli, il vangelo che vi ho annunziato e che voi avete ricevuto, nel quale restate saldi, e dal quale anche ricevete la salvezza» (1Cor 15, 1-2). Annuncio e accoglienza dell’annuncio: ecco la dinamica che garantisce la speranza certa della risurrezione! Cosa ci dicono i testimoni? Essi documentano che la misericordia vivente del Padre, il Signore Gesù, ha strappato la maledizione che ricopriva la terra dell’uomo, che tutto ciò che prima stava sotto l’ombra della morte è ora inondato dalla luce del Risorto, che per tutti coloro che credono la realtà cambia di segno: tutta la realtà, anche quella più buia e dolorosa. Persino il mio peccato, ripetuto fino alla noia, non ha più la forza di diventare un progetto alternativo a quello della vita definitiva in Cristo risorto. Esso, documentando la mia miseria, aumenta il mio dolore e urge la mia libertà ad invocare, nel sacramento della riconciliazione, il necessario perdono. E la letizia fiorisce nel cuore del cristiano come inaudita e tenace possibilità del presente. La garanzia della Risurrezione di Cristo ci viene offerta dalla testimonianza di vita vera, destinata al compimento, che i cristiani si rendono a vicenda. In unione con i Vicari Episcopali ho 4 GIOVANNI PAOLO II, Lettera Apostolica Mane nobiscum Domine 6. Cfr. A. SCHWARZ-BARTH, L’ultimo dei giusti, Milano 1964, 8. 6 A questa obiezione ha tentato di dare una risposta, in un intervento informale del 1993, il Cardinal Joseph Ratzinger: «Iterum atque iterum meditando hanc quaestionem mihi visum est, responsionem solummodo in notione libertatis recte cogitata inveniri posse. Donum libertatis solummodo libere accipi potest. Qua de causa redemptio nullo modo factum quoddam empiricum praecedens libertatem nostram fieri potest». 5 3 voluto dirlo a tutti gli abitanti del patriarcato nella Lettera “Se vuoi essere compiuto”: «Gesù è risorto per essere la Via sicura lungo la quale ognuno di noi può diventare un uomo compiuto, cioè può essere felice. Vogliamo comunicarvi un’esperienza che facciamo in prima persona: gli affetti, il lavoro e la complessa vita familiare e sociale e anche il tempo del riposo, se vissuti in Gesù Cristo, diventano veri»7. 4. La Visita pastorale Il dono straordinario della fede che non cessa di rinnovare la nostra esistenza - Gesù Cristo Risorto principio vitale della nostra risurrezione, già presente in germe nell’Eucaristia e nella logica eucaristica con cui ogni giorno affrontiamo affetti e lavoro - non può essere trattenuto. È per tutti i nostri fratelli uomini. È per la vita buona, personale e sociale, di tutta la compagine umana in questa travagliata fase di transizione. Vogliamo comunicarlo, ben sapendo che questo non sarà senza prove, senza incomprensioni e sacrifici. Da queste ragioni nasce la Visita pastorale in vista della quale celebreremo a San Marco l’Assemblea Ecclesiale la prossima primavera. La Visita pastorale è un gesto di traditio tra il Patriarca e il popolo cristiano. Si attua attraverso la reciproca testimonianza, mediante la quale si trasmette ciò che si è ricevuto. Si tratta, quindi, di riconoscere insieme il Risorto presente in mezzo a noi, origine e meta permanente della nostra esistenza, bene inestimabile per l’umanità intera. Abbiamo un anno di tempo per decidere insieme quali saranno le modalità concrete con cui verrà svolta la Visita pastorale. Ma in ogni caso possiamo, fin da ora, intuirne taluni elementi fondamentali. Anzitutto cercheremo insieme di accogliere il Risorto così come lo Spirito lo manifesta nel concreto della vita del nostro popolo, attraverso i tratti specifici di ogni comunità. Questo implica come prima conseguenza pratica che la Visita pastorale sia caratterizzata dalla maggior capillarità possibile. Infatti, se si tratta di testimonianza – e quindi di libertà che si mettono in gioco nel riconoscere e comunicare la presenza del Risorto – non si potrà eccedere nello stabilire regole generali valide per tutte le situazioni. La testimonianza che il Risorto chiede ad esempio alla comunità cristiana di Mira non è in tutto identica a quella di Castello o di Eraclea! Il secondo elemento fondamentale proprio di una Visita pastorale consiste nella rigenerazione del soggetto ecclesiale perché sia tutto teso alla missione. Questo però è un frutto che ognuno di noi deve domandare con tenacia ed umiltà al Signore. La nostra domanda vuol essere decisa e concreta. Per questo abbiamo proposto dei gesti semplici e alla portata di tutti: l’adorazione eucaristica, la visita al Santissimo Sacramento ed i pellegrinaggi mariani. Avendo avuto il privilegio di presiedere a Lourdes la Santa Messa Internazionale nella Basilica di San Pio X in occasione del pellegrinaggio nazionale dell’Unitalsi, ho intravisto sul volto di tanti malati, dei loro familiari, di dame e barellieri, la consolante presenza di Maria donna eucaristica, cioè testimone eccelsa di quell’esistenza segnata dalla risurrezione su cui Nietzsche, il tragico profeta del nostro tempo, sfidava i cristiani. 5. Riconoscere il Risorto nella comunione dei battezzati Qual è la via per attuare il compito prioritario in preparazione della Visita pastorale: aiutare le comunità cristiane a riconoscere Gesù Cristo Risorto quale caparra della nostra personale risurrezione? La strada è quella della comunione cristiana, cioè della reciproca appartenenza tra i fedeli generata dal battesimo: «Noi tutti siamo stati battezzati in un solo Spirito per formare un solo corpo, Giudei o Greci, schiavi o liberi; e tutti ci siamo abbeverati a un solo Spirito» (1Cor 12, 13). Non ci ripeteremo mai a sufficienza che la comunione – evento squisitamente sacramentale – ci precede e ci costituisce. Per questo Paolo può dire ai Corinti: «ringrazio continuamente il mio “Se vuoi essere compiuto”. Lettera del Patriarca e del Consiglio Episcopale che annuncia la Visita Pastorale, Venezia, Domenica delle Palme 2004, punto 2. 7 4 Dio per voi, a motivo della grazia di Dio che vi è stata data in Cristo Gesù» (1Cor 1, 4). Dalla consapevolezza del dono della comunione, infatti, sgorga inesauribile la gratitudine. Educa chi sa proporre all’altro le ragioni di una vita più bella, indicandogli una strada certa e possibile, affidata alla sua libertà. Così tutti noi che siamo direttamente implicati nell’opera educativa della Chiesa – qualunque sia la modalità che ci è assegnata: dal munus docendi del Patriarca di cui partecipa il presbiterio fino al delicato compito educativo del padre e della madre di famiglia – siamo chiamati a mostrare il dono della comunione. A questo proposito riprendo tre indicazioni che ho avuto modo di far presente in diverse sedi, ma la cui verità diventa ogni giorno più chiara ai miei occhi. Le reputo con umile determinazione obiettivi primari per il presbiterio veneziano. a) La parte “quasi sacramento” del tutto Ogni comunità cristiana, ogni aggregazione, ogni attività nella Chiesa è innanzitutto riflesso del tutto a cui appartiene. In termini più tecnici ma più precisi, si dovrebbe dire che ogni parte è quasi-sacramento del tutto. Proprio in forza dell’appartenenza al tutto che la fa esistere, essa può esprimere la sua peculiarità e collaborare in tal modo a far risplendere ancora di più l’unica bellezza del tutto a cui appartiene. Dobbiamo essere onesti: tendenzialmente tutti pensiamo che il nostro particolare sia quello che veramente conta, in cui giocarci fino in fondo. Il tutto rischia di essere considerato come un peso o un dazio da pagare. Anche in questo caso può aiutarci l’esperienza dei Corinti. Nel clima di divisione che si era creato l’Apostolo ricorda ai cristiani l’origine indistruttibile della loro comunione: «Poiché c’è un solo pane, noi, pur essendo molti, siamo un corpo solo: tutti infatti partecipiamo dell’unico pane» (1Cor 10, 17). Mi è parsa acuta in proposito l’affermazione di uno dei più rinomati studiosi di Paolo: «“la diversità è tale che deriva dalla preesistente unità organica: non si tratta assolutamente mai di una molteplicità da scoprire o da ricondurre alla unità”. La chiesa si differenzia da tutte le altre associazioni umane in quanto la sua unità non è funzionale ma organica: i suoi membri non sono semplicemente uniti da un intento comune, ma condividono una comune esistenza. Un cristiano autonomo è impossibile come un braccio o una gamba indipendenti. Braccia e gambe esistono solo come parti di un tutto; se gli si dà il carattere di un tutto indipendente, mediante amputazione, non sono più un braccio o una gamba. Per un poco possono sembrare come se lo fossero, ma è iniziata la corruzione, e non possono più afferrare nulla né camminare. Lo stesso vale per i credenti»8. Sono convinto che la Visita pastorale sarà di grande aiuto per rinnovare questa consapevolezza nelle nostre comunità; ma lo sarà in modo più acuto se lungo quest’anno – soprattutto nella preparazione e nello lo svolgimento dell’Assemblea Ecclesiale - il richiamo a questa importante regola di comunione - la parte “quasi-sacramento” del tutto - sarà costantemente tenuto presente nella guida delle nostre parrocchie ed aggregazioni. b) Il giudizio di comunione Una modalità concreta per educarci alla comunione ci viene offerta dal compito che ci siamo dati di elaborare e raccogliere le testimonianze in vista dell’Assemblea Ecclesiale. Il lavoro proposto infatti, chiedendo alle comunità cristiane (parte) di elaborare un giudizio di comunione a beneficio del Patriarcato intero (tutto), ci provoca ad esercitarlo. Il giudizio, importantissima espressione della comunione che vive tra i cristiani, impegna l’io nell’esigente ma esaltante lavoro della verifica. Infatti l’esperienza ecclesiale consiste nell’evento di Gesù Cristo che viene incontro, attraverso la realtà, alla libertà del fedele, chiedendogli di aderire alla sua persona. Nel rispondere a questo richiamo io riconosco la verità della realtà. Compio una verifica (verum facere). È il lavoro diuturno della libertà del cristiano. Proprio per questa ragione non si può pretendere che il giudizio di comunione sia il punto di partenza. Esso matura piuttosto come un frutto del paziente cammino di verifica all’interno di un’autentica comunione ecclesiale. È un atto conclusivo che possiede contemporaneamente una dimensione personale (soggettiva) e 8 J. MURPHY-O’CONNOR, Vita di Paolo, Paideia, Brescia 2003, 323. 5 comunitaria (oggettiva). Lo avete sperimentato mille volte nei consigli pastorali, soprattutto a proposito delle molte questioni di carattere pratico che giustamente vi occupano perché l’uomo è uno di anima e di corpo. Dobbiamo restaurare il patronato? Perché? Come? Con quali mezzi? Insieme si valutano i pro e i contro per il bene della comunità. Alla fine quasi sempre si perviene ad un giudizio di comunione. Esso nasce dal mettere in comune il giudizio dato da ciascuno, a partire dalla fede, su un determinato aspetto della realtà. Giudizio che, alla fine, è sintetizzato e sanzionato da chi ha una responsabilità di guida nella comunità. La comunione cristiana infatti ha una natura gerarchica. Il giudizio di comunione, se ben esercitato, è espressione privilegiata della testimonianza. Si potrebbe anche dire, in altri termini, che è il sigillo della sua autorevolezza. Per questa ragione il giudizio di comunione non può mai essere ridotto al momento della riunione, che pure è utile. Esso individua un’attitudine permanente del fedele. Costituisce la forma con cui un cristiano giudica la realtà perché la sua esistenza, a sua volta, prende forma nella comunione. L’Assemblea Ecclesiale è chiamata a rendere evidente in modo esemplare questo metodo di vita cristiana. c) Creatività e critica Perché il giudizio di comunione non si riduca ad un mero richiamo astratto sono richieste ad ogni fedele almeno due condizioni. La prima è la personale auto-esposizione. Nessuno può accostarsi alla verità (tantomeno al giudizio di comunione che ne è il frutto maturo), né comunicarla senza “pagare di persona”, senza rendere testimonianza, perché la verità è vivente e personale. È Gesù Cristo, il «testimone fedele», (Ap 1, 5 ) nel qui ed ora della storia. Questa testimonianza incomincia dall’umile ed appassionato ascolto della realtà. La realtà infatti è l’orizzonte adeguato della critica e non viceversa. Si è creativi solo se si accoglie il reale, riconoscendolo per come si pone. La seconda condizione, strettamente legata alla prima, è l’inesauribile disponibilità alla conversione, a lasciare che la direzione del proprio sguardo e del proprio cuore, del proprio giudizio e della propria affezione e quindi della propria libertà, venga rivolta alla Verità. Il test infallibile di questo atteggiamento è la capacità di accogliere la testimonianza dell’altro. Di fronte ad una testimonianza più autorevole, di fronte a un’esperienza ecclesiale vissuta con maggior pienezza, la mia libertà è chiamata a fare un passo di adesione verso la maggior verità intravista, costasse anche la ferita della correzione fraterna. Per inciso ricordo che pagare di persona ed essere disponibili alla conversione sono due atteggiamenti che scaturiscono da quella che a me sembra l’espressione emblematica del rapporto di comunione tra i cristiani. Mi riferisco a quella posizione di cui mi avete già sentito parlare e che perciò ora non riprendo: la stima previa. 6. La testimonianza metodo di vita cristiana A questo punto della nostra riflessione, che ruota intorno al valore della testimonianza, potremmo introdurre una constatazione in un certo senso elementare. Come fu all’origine tra Gesù ed i Suoi, così è anche oggi tra Gesù e noi. In questo modo in tutta semplicità, potremmo spiegare il contenuto di quella logica dell’Incarnazione, di cui parla il Santo Padre nella Fides et ratio9. Essa è l’orizzonte permanente della rivelazione e, quindi, dell’esperienza cristiana. La vita delle nostre comunità, infatti, scaturisce dalla stessa dinamica di testimonianza che caratterizza tutto l’evento di Gesù Cristo dal suo irrompere nella storia fino ai nostri tempi. Tutto è racchiuso in Lui, l’alfa e l’omega (cfr. Ap 21, 6). Il «vi ho trasmesso dunque, anzitutto, quello che anch’io ho ricevuto» (1Cor 15, 3) di Paolo non è altro che la traduzione concreta delle parole del Signore Risorto: «"Pace a voi! Come il Padre ha mandato me, anch’io mando voi"» (Gv 20, 21). All’origine troviamo la testimonianza che, nella Sua missione, il Figlio incarnato ha reso al Padre. Una testimonianza, che in forza del dono dello Spirito, dà avvio ad una catena ininterrotta di testimoni - «anch’io mando voi», «vi ho trasmesso 9 Cfr. GIOVANNI PAOLO II, Fides et ratio 12-13, 94. 6 quello che anch’io ho ricevuto» - che ha raggiunto le nostre terre, le nostre case, le nostre famiglie, la nostra persona affascinandola ed introducendola in una vita nuova. Per questo il metodo della vita cristiana non può che essere lo stesso dell’origine: la testimonianza. Il Crocifisso Risorto, verità vivente e personale, attraverso la testimonianza personale e comunitaria, soggettiva e oggettiva, del popolo cristiano raggiunge la libertà degli uomini e delle donne del nostro tempo destando la loro testimonianza. La testimonianza non è un genere letterario, né si lascia ridurre al nostro mero sforzo ascetico. Essa è il metodo della vita cristiana, l’evento di un terzo (il testimone) che mette in rapporto il Risorto (l’Uno) e la libertà di ogni singolo (l’altro). a) L’Assemblea Ecclesiale Come abbiamo detto, l’Assemblea Ecclesiale del 10 aprile 2005, che ci vedrà riuniti in Cattedrale intorno alla memoria apostolica di San Marco Evangelista, vuol essere anzitutto un gesto educativo per la vita della nostra Chiesa. Un gesto di educazione alla testimonianza. Nell’incontro di Borca di Cadore all’inizio del mese di settembre con i membri dei Consigli Presbiterale e Pastorale, della Consulta delle Aggregazioni Laicali, della Commissione dei Gruppi di Ascolto e con i responsabili degli Uffici della Curia, abbiamo voluto riflettere insieme sul significato di questo fondamentale elemento di metodo della vita cristiana, offrendo anche alcuni suggerimenti e criteri per l’elaborazione delle testimonianze in vista dell’Assemblea Ecclesiale10. Ne riprendo taluni. b) Rappresentanza come testimonianza Forse può essere di aiuto alla vita delle nostre parrocchie, dei nostri vicariati e delle nostre aggregazioni laicali – penso in particolare al compito specifico dei diversi Consigli pastorali e delle Assemblee parrocchiali – richiamarci brevemente il significato della rappresentanza nella vita della Chiesa. Anzitutto la sua origine è sempre sacramentale, mai sociologica. Dal sacramento dell’ordine nel suo nesso intrinseco con l’Eucaristia scaturisce la possibilità di rappresentare Gesù Cristo, cioè di renderlo realmente presente alla libertà di ogni uomo di ogni tempo. È questa la ragione per cui il Concilio Vaticano II afferma che i vescovi «sono il principio visibile e il fondamento dell’unità nelle loro chiese particolari (…) Perciò i singoli vescovi rappresentano la propria chiesa, e tutti insieme col papa rappresentano tutta la chiesa nel vincolo di pace, di amore e di unità»11. L’origine sacramentale della rappresentanza propria dei fedeli si trova nel battesimo. In forza di questo sacramento il popolo cristiano è costituito come popolo sacerdotale (sacerdozio comune) e, come insegna il Concilio Vaticano II, «partecipa pure alla funzione profetica di Cristo, quando gli rende una viva testimonianza, soprattutto per mezzo di una vita di fede e di carità, e quando offre a Dio un sacrificio di lode, il frutto di labbra acclamanti al suo nome (cf. Ebr. 13,15). La totalità dei fedeli che hanno ricevuto l’unzione dello Spirito Santo (1Gv 2, 20 e 27) non può sbagliarsi nel credere, e manifesta questa proprietà che gli è particolare mediante il senso soprannaturale della fede in tutto il popolo, quando “dai vescovi fino agli ultimi fedeli laici” esprime l’universale suo consenso in materia di fede e di costumi»12. Come si articolano tra di loro la rappresentanza che scaturisce dal battesimo e quella che ha la sua origine nel sacramento dell’ordine? È il problema del rapporto tra il sacerdozio ministeriale e quello comune di tutto il popolo di Dio. Secondo un’adeguata ecclesiologia di comunione occorre pensarli come reciprocamente immanenti: «il sacerdozio comune dei fedeli e il sacerdozio ministeriale o gerarchico, quantunque differiscano essenzialmente e non solo di grado, sono tuttavia ordinati l’uno all’altro»13. In questo modo la rappresentanza ad opera nel sacerdozio 10 Elaborare le testimonianza, in «Il Mosaico» (2004) n. 3, 8-10. Lumen gentium 23. 12 Lumen gentium 12. 13 Lumen gentium 10. 11 7 ministeriale è in funzione della rappresentanza del sacerdozio comune, nel senso che assicura sacramentalmente nella storia la possibilità reale di quest’ultima14. Il secondo elemento che occorre mettere in evidenza per comprendere la natura della rappresentanza nella vita della Chiesa consiste nel riconoscimento che la fede – contenuto essenziale dell’esperienza cristiana – non può essere oggetto di delega. Se l’esperienza ecclesiale implica la libera risposta di ogni credente all’evento di Cristo che la comunità cristiana – in forza dell’economia sacramentale assicurata dall’ordine - gli offre nell’oggi della storia, si comprende bene perché nessuno possa rispondere per un altro15. In questa prospettiva è importante comprendere come il desiderio che l’Assemblea Ecclesiale sia il più rappresentativa possibile esige che si dia spazio alla sinfonia di testimonianze personali e comunitarie dei fedeli, secondo la diversità di vocazioni, degli stati di vita, delle situazioni professionali, dei rapporti e delle circostanze loro proprie. Nella Chiesa un padre di famiglia non “rappresenta” di per sé la categoria “padri di famiglia”, né un “religioso” o un “consacrato laico” la categoria di quanti sono chiamati alla “vita consacrata”. In vista dell’Assemblea Ecclesiale quindi il primo compito di ognuno di noi non è affatto quello di essere delegato di altri, ma quello di vivere in prima persona quest’evento ecclesiale nei modi e nelle forme che realisticamente sono possibili. Se la nostra Assemblea renderà testimonianza di cosa sia esistere in Cristo nelle più variegate situazioni e circostanze, di fatto renderemo presente la sensibilità dei molti e sapremo parlare con autorevolezza a tutti gli uomini della nostra terra. c) L’orizzonte della testimonianza: libertà, comunità, mondo Altre volte ci siamo detti che l’esperienza cristiana può essere descritta come una ellissi. Essa possiede due fuochi, due poli che sono permanentemente orientati l’uno all’altro: il Risorto e la libertà di ogni uomo al cui incontro Egli viene, attraverso la comunità dei credenti. Della stessa struttura ellittica partecipa anche il metodo dell’esperienza cristiana, la testimonianza. E l’esperienza cristiana non può mai essere ridotta ad uno dei due fuochi dell’ellisse: se venisse a mancare il Risorto non ci sarebbe alcuna salvezza o novità; ma se il Risorto non avesse quale interlocutrice la nostra libertà, l’evento cristiano sarebbe relegato nell’olimpo dell’astrazione e peggio ancora condannato all’insignificanza. La struttura ellittica dell’esperienza cristiana e quindi della testimonianza si può rilevare a due livelli. Ci limitiamo ad indicarli. a) La testimonianza è sempre della persona, ma questa vive sempre dentro la comunione sacramentale che oggettivamente la precede e la costituisce. Così, imbattendosi nel singolo cristiano, l’uomo deve incontrare la comunità. Concretamente questo significa che la testimonianza si pone nella storia attraverso l’atto singolo della libertà di ciascuno: non si dà testimonianza senza che ognuno si esponga di persona! Ma il suo contenuto è l’evangelico Vieni e vedi che conduce la libertà dell’altro all’incontro con una comunità sensibilmente espressa e ben identificabile. Per questo Paolo può affermare: «nessuno possa dire che siete stati battezzati nel mio nome» (1Cor 1, 15). La libertà di ciascuno di noi è chiamata ad accettare tutto il suo rischio ed a giocarsi in comunità dell’appartenenza forte. Da questa positiva e permanente tensione tra i due poli si capisce che non c’è compimento dell’io – “Se vuoi essere compiuto…” – che non edifichi la comunità cristiana e che non rigeneri il popolo santo di Dio. E viceversa: solo nell’appartenenza a questo popolo rigenerato l’io può trovare una strada concreta per compiersi. 14 Per inciso possiamo dire che, secondo autorevoli studiosi, in questa doppia origine sacramentale della rappresentanza si trova la radice della distinzione giuridica tra voto deliberativo (ad esempio nel caso del Concilio Ecumenico) e voto consultivo (ad esempio nei Consigli Diocesani, sia quello presbiterale che quello pastorale). 15 In questo senso scriveva con grande acutezza il compianto Vescovo Eugenio Corecco: «la fede non può mai essere rappresentata per delega. La salvezza è eminentemente personale e non può perciò essere oggetto di delega. Nell’atto di fede e nella professione della stessa non è possibile farsi rappresentare da un’altra persona. In definitiva nella Chiesa il concetto di ‘rappresentanza’ si identifica con quello di ‘testimonianza’», E. CORECCO, Sinodalità e partecipazione nell’esercizio della ‘potestas sacra’, in ID., Ius et communio II, Piemme, Casale Monferrato 1997, 109129, qui 123. 8 b) Nell’evento cristiano è presente un’altra feconda tensione tra due poli che lancia la comunità cristiana sulle strade della missione. Sto parlando del soggetto personale e comunitario che vive le dimensioni del mondo («il campo è il mondo» Mt 13, 38). Solo l’intera realtà in tutta la sua ampiezza – ecco perché insistiamo sulla necessità di conoscere ed affrontare concretamente i tratti distintivi della località del nostro Patriarcato – è l’orizzonte adeguato della vita e dell’azione ecclesiale. Non ci sono preclusioni di principio. In questo senso noi cristiani di Venezia siamo chiamati, all’inizio di questo Terzo millennio, a vivere come i primi fedeli di Corinto i quali «non esitavano ad assumersi la responsabilità di elaborare che cosa significasse per loro il cristianesimo»16. Dalla lettura delle due Lettere ai Corinti, infatti, si può ben dire che al di là dei loro difetti i Corinti avessero accolto con entusiasmo la sfida di tradurre il vangelo nella realtà della loro vita quotidiana17. 7. «Ho faticato…, non io però ma la grazia…»: la missione «Per grazia di Dio però sono quello che sono, e la sua grazia in me non è stata vana; anzi ho faticato più di tutti loro, non io però, ma la grazia di Dio che è con me» (1Cor 15-10). Così, andando come sempre al cuore dell’esperienza cristiana, Paolo descrive magistralmente il dinamismo della missione che scaturisce con naturalezza dalla testimonianza. E ne mette in risalto la natura ancora una volta ellittica. Anche la missione vive della tensione tra due poli: la grazia di Cristo e l’impegno di colui che la riceve. «Per grazia di Dio sono quello che sono». Riferendosi al suo essere apostolo – apostolos è l’equivalente greco del latino missus, inviato – Paolo dice con estrema chiarezza che si tratta anzitutto di un dono del Signore. All’origine della missione non sta una nostra iniziativa, ma un compito che ci viene donato. In nessun modo la missione può essere scambiata con la nostra anche più generosa risposta al Padre che ci è venuto incontro nello Spirito di Gesù Cristo Risorto. La sua origine è tutta nella Trinità: il Padre che ha inviato Gesù Cristo convoca ognuno di noi perché, per opera dello Spirito, possa partecipare alla stessa missione di Suo Figlio. In questo senso la missione può nascere solo da una sovrabbondanza di gratitudine per l’incontro ecclesiale con Gesù. «E la sua grazia in me non è stata vana»: ecco il secondo fuoco dell’ellisse. La grazia del Padre si rivolge sempre ad una libertà concretamente e storicamente situata. In questo nessun uomo è sostituibile. In un certo senso la risposta che la mia libertà non da alla grazia, rimarrà per sempre in sospeso! Occorre però subito precisare anche che la dinamica del rapporto tra la grazia e la libertà non ha nulla a che fare con una sorta di ‘pareggio dei conti’ tra i due fattori! Grazia e libertà non sono sullo stesso piano. La loro reciprocità non è simmetrica. È sempre la grazia, infatti, a porre ed ad accompagnare la libertà. Il rapporto tra grazia e libertà dice il vertice della dinamica dell’amore, che è sempre una dinamica nuziale. Come nel “caso serio” dell’amore, quello tra uomo e donna 18, non sono in gioco solo l’uno e l’altra ma anche il terzo – il figlio -, così anche nel rapporto tra Gesù Cristo e l’uomo (grazia-libertà) vive l’intreccio inscindibile di differenza (tra la libertà di Dio e la mia libertà), che chiede dono di sé (donandosi, la grazia chiede alla libertà di donarsi a sua volta) e di fecondità (il frutto di nuova vita). Come non vedere allora la grande attualità e convenienza del dono della grazia, cioè di Gesù Cristo, alla libertà di ogni uomo? L’affascinante e tremenda messa in discussione dell’umano in atto in questi nostri tempi (basti pensare ai temi della nascita, della morte, della pace, della miseria, dell’ingiustizia, della cura del creato), non rappresenta forse una grande occasione pastorale per la Chiesa di oggi? Non è di queste cose che ogni giorno i fedeli ci chiedono conto? L’azione pastorale del nostro Patriarcato non manca di attenzione verso il campo sociale, economico e politico, nell’ambito sanitario e dei media. L’impegno in ognuna di queste significative realtà è un bene per il tutto e, quindi, per ognuna delle parti. 16 J. MURPHY-O’CONNOR, Vita di Paolo, 284. Cfr. ibid., 318. 18 Cfr. A. SCOLA, Uomo-donna. Il “caso serio” dell’amore, Marietti 1812, Genova 2002. 17 9 a) La missione ha un carattere di “urgenza” Una delle caratteristiche più acute della dinamica dell’amore è quella cui Paolo da il nome di urgenza. Altrove parla di un correre («corro verso la meta» Fil 3, 12). È la stessa dinamica vissuta dalla Samaritana o dai due di Emmaus o da Pietro e Giovanni dopo la resurrezione. Paolo, nella Seconda Lettera ai Corinti, la descrive così: «Poiché l’amore del Cristo ci spinge [urget nos], al pensiero che uno è morto per tutti e quindi tutti sono morti Ed egli è morto per tutti, perché quelli che vivono non vivano più per se stessi, ma per colui che è morto e risuscitato per loro» (2Cor 5, 14-15). È un’urgenza generata dalla fede, non da un particolare temperamento e neppure dal nostro desiderio di autoperfezionamento. «Charitas Christi urget nos». Per questo ci alziamo ogni mattina col desiderio di comunicare a tutti gli uomini la bellezza del dono ricevuto. Per questo viviamo contemporaneamente la tensione al nostro compimento personale e all’edificazione comune. Non però come scopi giustapposti o tappe successive. Non c’è frattura tra il dovere dell’annuncio e il volere il mio compimento. Nello momento stesso in cui io rendo testimonianza al Risorto, il mio volto si compie. In tal modo la missione diventa il criterio concreto con cui giudicare la nostra azione pastorale: questa iniziativa edifica o non edifica la comunità cristiana? La aiuta ad incontrare tutti? La mia visione delle cose, la mia sensibilità, il mio temperamento – tutti doni sacrosanti con cui il Signore ha plasmato ogni personalità in vista dell’utilità comune – vengono vagliati, con criterio comunionale, dall’urgenza missionaria, per cui più di ogni altra cosa mi stanno a cuore l’annuncio del Risorto e la rigenerazione del popolo cristiano? Questa infatti è la ragione per cui il Signore ci ha chiesto di domandare i Suoi doni: «poiché desiderate i doni dello Spirito, cercate di averne in abbondanza, per l’edificazione della comunità» (1Cor 14, 12). La radice più profonda dell’ascesi sacerdotale sta qui. Dalla missione scaturisce in noi la tensione a condividere senza alcuna preclusione la vita delle persone che la Provvidenza ci mette accanto. È ancora la Lettera di Paolo ai Corinti ad illuminarci su questa dimensione essenziale: «pur essendo libero da tutti, mi sono fatto servo di tutti per guadagnarne il maggior numero: mi sono fatto Giudeo con i Giudei, per guadagnare i Giudei; con coloro che sono sotto la legge sono diventato come uno che è sotto la legge, pur non essendo sotto la legge, allo scopo di guadagnare coloro che sono sotto la legge. Con coloro che non hanno legge sono diventato come uno che è senza legge, pur non essendo senza la legge di Dio, anzi essendo nella legge di Cristo, per guadagnare coloro che sono senza legge. Mi sono fatto debole con i deboli, per guadagnare i deboli; mi sono fatto tutto a tutti, per salvare ad ogni costo qualcuno. Tutto io faccio per il vangelo, per diventarne partecipe con loro» (1Cor 9, 19-23). L’apostolo ci testimonia una grande libertà da tutti e da tutto, ma proprio in vista della missione. b) A tutto campo La missione, come la chiamata del Signore, ha i confini del mondo (cfr Mt 28, 19-20; Mc 16, 15). Per questo non possiamo delimitarne il campo, ma semplicemente segnalare alcuni elementi concreti che provocano le nostre comunità cristiane e con i quali non possiamo non ‘fare i conti’. Essi, evidentemente, non precludono altri ambiti o compiti. Anzi, sono in un certo senso chiamati ad essere paradigmatici per tutti gli altri ambiti. Mi riferisco anzitutto alla famiglia. A nessuno sfugge la grave confusione di cui grande parte del nostro popolo è vittima in merito alle questioni fondamentali del matrimonio, della famiglia e della vita. Non mancano violente forzature che cercano di scalzare l’assodata percezione di questa realtà che secoli di civiltà cristiana hanno radicato nel nostro continente. Sono tematiche cariche di implicazioni ai diversi livelli: politico, legislativo, sociale, educativo… ma il più elementare tocca direttamente ogni fedele del nostro patriarcato. Tutti noi, infatti, viviamo in prima persona la realtà della famiglia: siamo figli, sposi, genitori, fratelli… Nessuno di noi può sottrarsi alla responsabilità di testimoniare il fascino e la verità della visione cristiana del matrimonio e della famiglia. Ne va della consistenza umana dei nostri ragazzi e dei nostri giovani; ne va della possibilità di costruire dal basso una società sempre più solidale, libera e giusta. Non dobbiamo farci illusioni: anche se 10 non dovranno mancare iniziative di carattere giuridico e politico, la strada maestra resta quella della testimonianza, del rendere ragione, mostrando anche in questo ambito la convenienza della verità. Un’altra responsabilità che, nell’attuale frangente storico, si fa sempre più indilazionabile per la nostra Chiesa è legata alla dimensione dell’universalità che, da sempre, la caratterizza. A metterla a tema non ci spinge solo il glorioso passato di Venezia, segnato dai tradizionali legami con l’Oriente e la Mitteleuropea. È lo stesso presente in cui la comunità cristiana del Patriarcato è chiamata a vivere ad essere sempre più plurale ad ogni suo livello - culturale, etnico e religioso -. Pensiamo al peso che il turismo ha sia per la città che per il litorale, all’immigrazione, alla presenza del porto, ecc. Veramente le nostre parrocchie stanno facendosi carico, nei limiti del possibile, della dimensione internazionale della nostra terra? A questa dimensione universale dobbiamo tutti progressivamente educarci. In questo senso la missione diocesana di Ol Moran - nel contesto dei suoi rapporti con tutta la diocesi di Nyahururu guidata dal Vescovo padovano Pajaro e in cui da decenni sono impegnati sacerdoti veneti - che ho potuto visitare quest’estate, mi sembra un dono prezioso per il nostro Patriarcato. Lo sono ovviamente tutte le presenze missionarie di origine veneziana, generosamente sostenute dai numerosi gruppi missionari operanti nelle nostre parrocchie. I due elementi citati mettono direttamente in gioco l’edificazione sociale come orizzonte compiuto della missione della Chiesa. La Chiesa, come dice una bellissima formula di Giovanni Paolo II, è forma mundi. La comunità cristiana, infatti, è chiamata a rendere presente nel mondo una possibilità più umana e compiuta di vivere. E questo a tutti i livelli: da quello strettamente personale a quello pubblico, passando attraverso il ruolo irrinunciabile dei corpi intermedi. La verità del Risorto esige testimoni in carne e ossa, che rendano concretamente presente l’umanità redenta proclamata dal Vangelo. Infatti, se non viene vissuto e resta astratto, un ideale finisce per corrompersi. Nella migliore delle ipotesi è uno stimolo estetico da contemplare, ma senza nessuna garanzia di coinvolgimento etico. Ma i nostri fratelli, gli uomini e le donne che condividono con noi il talora faticoso “mestiere di vivere”, possono fare a meno di una tale risorsa? c) Educazione e carità Dove le nostre comunità, le nostre famiglie, i nostri giovani, possono trovare il sostegno concreto a una tale urgenza missionaria che spalanca loro orizzonti sempre più vasti? È necessario richiamarne velocemente la duplice direttrice che da sempre la Chiesa, esperta in umanità, privilegia. Mi riferisco alla strada dell’educazione e a quella della carità. La Chiesa ha come scopo quello di educare il popolo cristiano ad una capacità critica nuova. Il termine “critica” - cui abbiamo già fatto riferimento parlando del giudizio comune - viene da krino e descrive l’attività di comprensione consapevole e partecipata della realtà da parte del soggetto. Il giudizio nasce dall’esperienza di vita nuova generata dalla risurrezione di Gesù, caparra della nostra risurrezione, presente nella comunità cristiana e tesa ad esprimersi nel sociale. L’educazione al giudizio di fede è l’orizzonte dell’indefesso lavoro di tanti catechisti ed evangelizzatori presenti nella nostra comunità. La nascita e i primi passi dello Studium Generale Marcianum offre una preziosa risorsa per questo delicato compito educativo della nostra Chiesa. Il Marcianum è uno strumento che nasce dalla nostra Chiesa per servire più concretamente le nostre comunità. Ma il giudizio nuovo che nasce della fede scaturisce dal paragone con la realtà e chiede di essere attuato nel quotidiano. In questo senso la fitta rete di opere di carità presente nel territorio costituisce uno dei tesori del nostro Patriarcato. Educarsi al gratuito – e nulla come un gesto concreto di carità liberamente e regolarmente posto favorisce una tale educazione – è imprescindibile per crescere e diventare adulti. Occorre essere più decisi nel proporre ai nostri giovani gesti di carità aiutandoli a comprendere il valore paradigmatico che possiedono per la loro crescita. Non ci interessa, infatti, creare un esercito di volontari della solidarietà, vogliamo educare uomini e donne compiute che saranno poi attori di solidarietà a tutto campo. 8. Pensando alla Visita pastorale Come nasce e come cresce una comunità cristiana? Come può vivere le dimensioni di comunione che la costituiscono: la gratuità, il giudizio e l’universalità? Sono questi i contenuti con 11 cui ci confrontiamo ogni giorno e che dovranno guidare i passi della Visita pastorale. Ma vi ritorneremo a suo tempo. Pensando alla Visita pastorale per ora la mia immaginazione corre ad una pagina de I Promessi sposi. È impressionante come col passare degli anni la bellezza e profondità dell’opera del Manzoni emergono con sempre maggior forza e chiarezza! È l’alba che segue la famosa notte dell’Innominato: «E ricaduto nel vòto penoso dell'avvenire, cercava indarno un impiego del tempo, una maniera di passare i giorni, le notti (…) Ed ecco, appunto sull'albeggiare, pochi momenti dopo che Lucia s'era addormentata, ecco che, stando così immoto a sedere, sentì arrivarsi all'orecchio come un'onda di suono non bene espresso, ma che pure aveva non so che d'allegro. Stette attento, e riconobbe uno scampanare a festa lontano; e dopo qualche momento, sentì anche l'eco del monte, che ogni tanto ripeteva languidamente il concento, e si confondeva con esso. Di lì a poco, sente un altro scampanio più vicino, anche quello a festa; poi un altro. "Che allegria c'è? cos'hanno di bello tutti costoro?" Saltò fuori da quel covile di pruni; e vestitosi a mezzo, corse a aprire una finestra, e guardò. Le montagne eran mezze velate di nebbia; il cielo, piuttosto che nuvoloso, era tutto una nuvola cenerognola; ma, al chiarore che pure andava a poco a poco crescendo, si distingueva, nella strada in fondo alla valle, gente che passava, altra che usciva dalle case, e s'avviava, tutti dalla stessa parte, verso lo sbocco, a destra del castello, tutti col vestito delle feste, e con un'alacrità straordinaria. "Che diavolo hanno costoro? che c'è d'allegro in questo maledetto paese? dove va tutta quella canaglia?" (…) Il signore rimase appoggiato alla finestra, tutto intento al mobile spettacolo. Erano uomini, donne, fanciulli, a brigate, a coppie, soli; uno, raggiungendo chi gli era avanti, s'accompagnava con lui; un altro, uscendo di casa, s'univa col primo che rintoppasse; e andavano insieme, come amici a un viaggio convenuto. Gli atti indicavano manifestamente una fretta e una gioia comune; e quel rimbombo non accordato ma consentaneo delle varie campane, quali più, quali meno vicine, pareva, per dir così, la voce di que' gesti, e il supplimento delle parole che non potevano arrivar lassù. Guardava, guardava; e gli cresceva in cuore una più che curiosità di saper cosa mai potesse comunicare un trasporto uguale a tanta gente diversa»19. Ancora una volta il genio letterario riesce a dire l’essenziale del desiderio e dell’esperienza dell’uomo! Le parole con cui il Manzoni ci racconta il fatto – una visita pastorale, appunto - che ha mosso l’Innominato a mettersi in cammino per incontrare il Cardinale Federigo, colgono l’essenziale di quel che vorremmo fosse anche la nostra Visita pastorale: un evento di speranza per il cuore affannato dell’uomo di oggi, un alba di letizia per coloro che pensano di non poter sperare più. Un punto di ripresa, una boccata d’aria fresca, un vivere insieme «la fretta e la gioia comune» per la presenza del Risorto, caparra della nostra personale risurrezione. E tutto questo semplicemente attraverso l’incontro col popolo cristiano. In fondo lo scopo della Visita pastorale sta tutto qui: che il battezzato un po’ smemorato del nostro Patriarcato possa provare d’improvviso, forse scosso dall’arrivo del Patriarca e dei suoi collaboratori, la più che curiosità dell’Innominato, quella «di saper cosa mai potesse comunicare un trasporto uguale a tanta gente diversa». 19 A. MANZONI, I promessi sposi, XXI. 12