Riferimenti bibliografici - Azione Cattolica Brescia

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Luigi Alici
Liberi, cioè senza vincoli?
1. Nella relazione precedente è stato esplorato un versante del problema, che riguarda
prevalentemente il modo in cui la riflessione scientifica e filosofica s’ interroga intorno alle
attitudini conoscitive dell’essere umano e abbiamo intravisto alcuni dei problemi che, riguardo a
queste attitudini, oggi la riflessione e la ricerca scientifica ci pongono davanti.
Il mio contributo riguarda un altro versante della questione: l’uomo non è soltanto un “animale
che conosce”, ma è anche un “animale che decide”, che sceglie, che si assume delle responsabilità.
Il termine, enigmatico e anche un po’ ingombrante di “libertà” tradizionalmente ha rappresentato
una linea di frontiera, oltre la quale l’essere umano manifesta la sua differenza rispetto al mondo
animale. Quindi riflettere su come oggi cambia in ognuno di noi il modo di spendere la libertà,
significa riflettere su come oggi sta cambiando l’idea di uomo; anche questo secondo aspetto,
correlato con il primo, può aiutarci a scattare alcune “fotografie” sul costume e sulle culture
contemporanee; foto che potranno essere riprese nell’approfondimento teologico che seguirà.
Comincerei con il dire che è difficile impostare una riflessione sull’ essere umano come persona
libera, se non ci interroghiamo anche sulle metamorfosi, sulle trasformazioni profonde che
caratterizzano non solo il costume (cioè le abitudini e l’ insieme delle pratiche di vita del nostro
tempo), ma anche i modi di pensare, di intendere, di giudicare. Quando le trasformazioni investono
sia il piano del costume che il piano della cultura, allora dobbiamo ammettere che esse non sono
soltanto di carattere “congiunturale”, ma investono un più ampio fenomeno strutturale, che tocca le
radici antropologiche più profonde. Come persone intelligenti e libere, non possiamo essere
disattenti a queste trasformazioni, perché esse investono appunto la nostra identità e anche la nostra
responsabilità di credenti, ai quali è stato affidato il compito di custodire e annunciare un messaggio
straordinario, relativo ad una libertà molto “speciale”, che proviene da lontano. Nell’annunciare
questa libertà “grande”, non possiamo non interrogarci sulla vita concreta, nostra e di quanti vivono
gomito a gomito accanto a noi, ai quali quest’annuncio di libertà arriva, trovando appunto un
ambiente antropologico fragile e frammentato.
In un certo senso potremmo cominciare il discorso proprio da qui, cioè dall’”ambiente”
antropologico che la cultura contemporanea sta plasmando, a volte in modo quasi inconsapevole.
Non possiamo dimenticare, infatti, che l‘essere umano non è soltanto un individuo che si adatta
all’ambiente naturale e che sa adattarlo a se stesso; in fondo, l’essere umano non è soltanto passivo
nei confronti del suo habitat, ma è anche attivo. In quest’attività di modifica dell’ambiente noi
siamo profondamente “imparentati” con il mondo animale. Tuttavia una qualità ci distingue in
maniera netta dal mondo animale: la persona umana, infatti, è anche in grado di creare ex novo un
ambiente; tale ambiente nuovo è precisamente la
cultura, non a caso caratterizzata come la
“seconda natura” dell’uomo, cioè come quell’insieme di relazioni tra le persone che esse, nel modo
tesso di rapportarsi, sono in grado di costituire.
Noi sappiamo quanto l’ambiente relazionale sia importante per la nostra identità, anche in una
prospettiva teologica. Come credenti non dobbiamo dimenticare che Gesù Cristo ha salvato non
solo la persona, ma anche la relazione tra le persone; per questo, il cristiano non può non
preoccuparsi del “paesaggio morale” in cui siamo immersi. Tale paesaggio dipende in larga misura
da come noi viviamo i rapporti tra le persone, che disegnano un habitat tipicamente umano. I
rapporti tra le persone non sono soltanto dimensioni “impalpabili”, affidati alle dinamiche interiori e
invisibili dell’amicizia, dell’amore, del dono: sono anche dimensioni molto concrete, fatte di
pratiche di vita condivise e di istituzioni. Le scuole, i parlamenti, i tribunali, le piazze sono ambienti
tipicamente umani, prodotti da un determinato modo di interpretare i rapporti tra le persone.
2. Questa riflessione, all’interno della quale vorrei offrirvi in maniera rapida e schematica solo
qualche spunto, riguarda proprio questo aspetto: in un’epoca in cui siamo molto preoccupati
dell’ambiente naturale, credo che dovremmo anche preoccuparci di come stia cambiando l’ambiente
relazionale e il paesaggio morale. Le trasformazioni più profonde che interessano quest’ambiente
sembrano dipendere da un modo nuovo di intendere la libertà proprio in rapporto ad una serie di
“vincoli”. Interrogarsi intorno a questo cambiamento è, in un certo senso, impegnarsi nella
prospettiva di un progetto culturale cristianamente ispirato, che non è altro che questo: un insieme
di domande attraverso le quali la comunità cristiana cerca di interrogarsi, in maniera non
individualistica, ma con il massimo di sinergia possibile, intorno al “paesaggio antropologico” che
oggi viene raggiunto dall’annuncio evangelico. Tale annuncio dev’essere sempre indirizzato a
persone con un nome e cognome, che vivono in un contesto concreto, che hanno delle abitudini di
vita concrete, che spendono concretamente la loro libertà.
Alle base delle riflessioni che cercherò di proporre sta quindi un’ipotesi che vi presento in
termini problematici e che fondamentalmente potremmo sintetizzare cosi: come interpretare il
rapporto tra la cultura moderna, che abbiamo ereditato dall’illuminismo, e quella che in questi
ultimi decenni si è incominciato a chiamare (con un termine provvisorio e probabilmente destinato
ad essere rimpiazzato) cultura post-moderna? Le trasformazioni che negli ultimi decenni hanno
investito la nostra vita sono marginali, non intaccano cioè l’ assetto di fondo della cultura
moderna, o invece erodono in profondità quella cultura e preparano una nuova epoca, una nuova
civiltà? Per cultura moderna potremmo intendere quel grande progetto di emancipazione
dell’umano, che trova il suo vertice, in un certo senso simbolico, nell’Illuminismo e che attribuisce
all’uomo il compito di dominare la natura e la storia attraverso la ragione. Questa cultura s’era
affermata come un progetto di unificazione del senso della vita e il “collante” che prometteva tale
unificazione era rappresentato dalla ragione; una ragione capace di costruire una grande piramide,
all’interno della quale la politica, la scienza, la storia venivano coordinati all’interno di un forte
disegno strategico.
Questo disegno sembra entrato in crisi nel Novecento; il nichilismo è stato il solvente micidiale
che lo ha corroso. E’ quindi entrata in crisi la fiducia in una ragione che potesse fare da sintesi; nel
momento stesso in cui la razionalità illuministica è apparsa per così dire delegittimata e indebolita,
si è incominciato a teorizzare il passaggio da un pensiero “forte” ad un pensiero “debole”. Eppure,
nell’epoca del pensiero debole, ad ereditare l’ideale della forza è stata la tecnologia, più ancora
della scienza. Hans Jonas, filosofo ebreo contemporaneo, ha fotografato questo mix di cultura
debole e tecnologia forte con queste parole: “Oggi stiamo tremando nella nudità di un nichilismo
che unisce il massimo di potere intorno ai mezzi con il minimo di sapere intorno agli scopi”.
Queste parole esprimono bene l’ambivalenza della cultura in cui siamo immersi: le grandi
sicurezze sono in un certo senso ormai ereditate dalla tecnologia, che però può darci quello che
desideriamo (almeno secondo certe pubblicità televisive), ma non può dirci che cosa dobbiamo
desiderare, mentre quella cultura che dovrebbe indicarci cosa dobbiamo desiderare oggi vive una
sorta di afasia molto grave.
In questo contesto, il problema della libertà appare in termini nuovi. Si potrebbe descrivere
queste novità chiedendo aiuto a due autori. Il primo, MacIntyre, in un libro molto noto, intitolato
“Dopo la virtù”, sviluppa un’osservazione che mi sembra interessante. Secondo MacIntyre oggi sta
cambiando il modo in cui le persone vivono il loro rapporto con il bene e con il male:
tradizionalmente bene e male erano gli estremi di una scala morale, all’interno della quale collocare
l’agire. Collocandolo all’interno di questa scala, abbiamo anche dei criteri di giudizio, per cui
possiamo dire che le azioni che compiamo sono più o meno buone a seconda del posto che
occupano nella scala dell’agire morale. In questa visione, in un certo senso classica, si poteva agire
male, ma era possibile esprimere un giudizio appunto in termini moralmente negativi, perché lo si
collocava all’interno di un ordine morale; oppure si poteva definire buone alcune azioni negative,
perché si interpretavano bene e male con categorie diverse, senza però negare tale differenza.
Quello che invece sembra caratterizzare il nostro tempo è che la scala morale del bene e del male,
anziché essere criterio di giudizio, è diventata oggetto di scelta; in altri termini, io posso decidere di
agire scegliendo il parametro etico << bene e male >>, oppure posso decidere di uniformare il mio
agire a parametri diversi: ad esempio il parametro estetico del gusto, oppure il parametro
utilitaristico del vantaggio. In tal caso posso giudicare le azioni che compio alla luce di giudizio
etico o posso rinunciare tranquillamente a tale criterio di giudizio, sostituendolo con un altro.
Per questo possono esserci azioni che sottomettiamo al parametro morale, altre al parametro del
gusto (quasi sempre quelle che riguardano la sfera privata, come diremo più avanti), altre ancora da
sottomettere al parametro utilitaristico del vantaggio (quasi sempre le azioni che interessano la
sfera pubblica). MacIntyre esemplifica: Bertrand Russell, noto filosofo inglese della scienza, ha
raccontato come un giorno nel 1902 mentre andava in bicicletta si accorse all’improvviso di non
essere più innamorato della sua prima moglie e dal fatto di esserne accorto seguì molto presto la
rottura del matrimonio. Kierkegaard avrebbe detto, osserva MacIntyre, che qualsiasi sentimento la
cui assenza può essere scoperta con l’illuminazione improvvisa una mattina mentre si va in
bicicletta è solo una reazione estetica (ecco il parametro del gusto) e che un esperienza del genere
non deve influire sull’impegno che un autentico matrimonio comporta. Ma – è questo il punto, si
chiede MacIntyre - da dove oggi l’etico può trarre questa specie di autorità nei confronti
dell’estetico, se è semplicemente il frutto di una scelta possibile? In fondo, secondo Russell si può
giudicare l’abbandono della moglie non sulla scala etica, definita dal bene e dal male, ma sulla scala
estetica, definita dal “mi va, non mi va”, “mi piace, non mi piace”.
Il secondo contributo ci viene offerto dal politologo Ralf Dahrendorf, che in un bel libro,
intitolato “La libertà che cambia”, introduce la nozione di “chances di vita” in un contesto
economico sociale, che invece noi utilizzeremo per un altro fine. Le “chances di vita” sono, in un
certo senso, un insieme di parametri con il quale noi si può individuare il benessere (non solo
economico) di una collettività. Secondo Dahrendorf, le “chances di vita” dipendono da un equilibrio
dinamico tra due fattori, che chiama “vincoli” e “opzioni”. I vincoli, anzitutto, indicano quelle reti
di appartenenza che il soggetto trova nel momento in cui sceglie (perché noi non esercitiamo la
nostra libertà in un vuoto sterile, ma in un contesto dato: voi oggi liberamente avete scelto di venire
in questo posto, avete forse trovato problemi di traffico, perché la vostra scelta si colloca all’interno
di una rete di relazioni anteriori alla vostra scelta). Quando noi scegliamo, scegliamo come persone
che hanno frequentato una scuola, che parlano una lingua, che hanno una famiglia, che condividono
una fede; questi sono i vincoli. Se togliessimo questi vincoli uno dopo l’altro, come si fa con i petali
di una margherita, alla fine la nostra identità verrebbe azzerata: noi siamo quello che siamo, alla
luce dei vincoli che abbiamo. Se io non avessi avuto dei vincoli “buoni” con l’Azione Cattolica,
probabilmente oggi sarei stato da qualche altra parte, non avrei potuto esercitare la libertà di dire sì
a voi.
L’altro parametro sono le opzioni, che indicano il paniere di possibilità che abbiamo quando
scegliamo qualcosa. Tale paniere di possibilità è sempre relativo: se si va in un buon ristorante, si
può scegliere fra tanti tipi di portate, mentre in un altro locale più modesto il menu sarà più limitato;
anche se andassimo in una pizzeria dove si serve solo un tipo di pizza, comunque, potremmo
sempre dire un sì o un no. La tesi di Dahrendorf è questa: le società antiche erano molto legate e
poco opzionali, cioè erano società nelle quali i vincoli prevalevano sulle opzioni. Chi nasceva figlio
di schiavi non aveva la possibilità di fare la carriera politica; chi prendeva la polmonite moriva, non
aveva l’opzione (che abbiamo noi oggi) di prendere un antibiotico oppure no. Gradualmente,
afferma Dahrendorf, il progresso della modernità è consistito nel ridurre la rete dei vincoli e
nell’aumentare proporzionalmente la rete delle opzioni. In una certa misura, se diminuiscono i
vincoli, aumentano le opzioni; se aumentano con il progresso medico i presidi sanitari, aumentano
le opzioni; con un’aspettativa di vita più lunga si possono fare cose che altrimenti non si potrebbero
fare.
Attenzione però, dice Dahrendorf: se una società incomincia a ridurre la rete dei vincoli sotto un
certo livello (e il problema sarà come determinare questo livello), le opzioni non aumentano più, ma
incominciano a diminuire. Questo è l’aspetto che ci interessa, per cui trovate nel titolo del mio
intervento un punto interrogativo: i vincoli ci consentono di esercitare la libertà, se non ci fossero i
vincoli non potremmo nemmeno esercitarla; se i vincoli diminuiscono oltre una certa misura, anche
le opzioni incominciano a diminuire. Ciò accade perché ci sono dei vincoli estrinseci, inautentici,
dai quali è bene che ci liberiamo, mentre ci sono dei vincoli autentici, “buoni”, che definiscono la
nostra identità, a partire dai quali possiamo scegliere. Se una società, riducendo i vincoli estrinseci,
inautentici, riduce anche quelli autentici, alla fine si ritrova tra le mani questo giocattolo prezioso
che è la liberta, ma non sa più che gioco giocarvi.
Un filosofo esistenzialista francese, Jean-Paul Sartre, aveva visto molto bene questo esito,
quando era arrivato alla conclusione, in una prospettiva atea, che noi siamo “condannati ad essere
liberi”, perché se non esercitiamo la libertà davanti ad un “cartello di sì e un cartello di no” (che
sono i vincoli), essa diventa qualcosa di perfettamente inutile. Scegliere in assenza di criteri di
giudizio anteriori equivale a riconoscere che tutte le opzioni sono uguali, dunque perfettamente
indifferenti! Se non ho una rete di vincoli, non ho nessun motivo per cui scegliere A sia meglio di
B; allora a che pro scegliere A anziché B, se si equivalgono? La libertà è una condanna. Sartre
ammetteva che noi siamo esseri “truccati per natura”, perché abbiamo questa illusione di libertà che
poi non riusciamo a spendere.
3. A questo punto, la riflessione che vorrei suggerire è la seguente: come persone credenti, avere
a cuore un esercizio della libertà davvero significativo significa interrogarci sul contesto dei vincoli
autentici, a partire dai quali tale esercizio ci faccia fare davvero qualche passo in avanti. La vera
autonomia della persona umana non si ha quando la persona umana si sbarazza di tutti i vincoli, ma
quando riesce a trovare i vincoli “giusti “, a liberarsi da quelli ingiusti e, nei confronti dei primi, ad
esercitare scelte libere.
Questo implica oggi per noi un duplice compito: in negativo, dobbiamo anzitutto demistificare i
vincoli; in positivo dobbiamo riqualificare i vincoli autentici liberanti. Oggi probabilmente stiamo
invece trasformando tutti i vincoli, quindi anche quelli originari e autentici, in opzioni, stiamo
addirittura trasformando la scala etica del bene e del male, che è il vincolo fondamentale per la
nostra libertà, in un’opzione! Così potremmo mettere insieme i contributi dei due autori che vi ho
richiamato. Quello che affermava MacIntyre, potremmo dirlo con le categorie di Dahrendof: oggi
stiamo trasformando la scala morale da vincolante a opzionale. Questo è un fenomeno del tutto
nuovo; nelle epoche passate, raramente la scala morale era negata in sé; il più delle volte ci si
scontrava sul modo di determinare i contenuti di bene e male, ma quasi mai si arrivava a negare tale
parametro di giudizio.
Questa, oggi, è forse la vera sfida antropologica; si sta trasformando il vincolo morale in
un’opzione: chi vuole lo sceglie, chi non lo vuole non lo sceglie; perché obbligare tutti a
sottomettersi ad un vincolo, che invece potrebbe essere semplicemente reso “facoltativo”? C’è un
testo di Erich Fromm (l’autore de “L’arte di amare”) degli anni quaranta, tratto dalume “Fuga dalla
libertà”, che, al riguardo, pare profetico: “Nel corso della storia moderna, - scrive Fromm l’autorità della Chiesa è stata sostituita da quella dello stato, quella dello stato dall’autorità della
coscienza, e nel nostro tempo quest’ultima è stata sostituita dall’autorità anonima del senso comune
e dell’opinione pubblica quali strumenti di conformismo. Essendoci liberati dalle vecchie forme
palesi di autorità, non ci rendiamo conto di esser caduti preda di un nuovo genere di autorità. Siamo
diventati automi che vivono nell’illusione di essere individui autonomi”. Dunque anche Fromm
sembra andare, su questo punto, nella stessa direzione: se bruciamo i vincoli buoni, finiremo per
legarci ad altri che sono in certo senso mascherati. Essendoci liberati dalle vecchie forme, esterne e
riconoscibili, di autorità, non ci rendiamo conto di essere preda di un nuovo genere di autorità:
siamo automi che vivono nell’illusione di essere autonomi! Questo in fondo significa che se in
negativo dobbiamo smascherare i vincoli inautentici, in positivo dobbiamo trovare quelli autentici e,
tra questi, promuovere i vincoli relazionali.
Oggi è diffusa la tendenza a ritenere che i vincoli relazionali autentici siano soltanto quelli
“volontari”, cioè frutto di una nostra opzione; anche questa convinzione va invece verificata. Ci
sono sicuramente vincoli volontari buoni; ad esempio: se io scelgo liberamente la mia sposa e
certifico questo patto davanti alla comunità, istituisco sicuramente un vincolo volontario buono; se
invece entro liberamente in un’associazione mafiosa o a delinquere quello è un vincolo volontario,
ma non buono, anche se volontario.
Allo stesso modo, non sono intrinsecamente cattivi i vincoli involontari, quelli cioè che noi
abbiamo trovato: io non ho scelto i miei genitori, il mio paese, la mia lingua. Ma per il fatto che
questi vincoli siano involontari non è detto che siano necessariamente cattivi: possono esserlo se,
per esempio, ho dei genitori degeneri, che non mi hanno allevato bene; ma i genitori possono essere
anche buoni e, in generale, è bene avere dei genitori. L’idea che solo il vincolo volontario sia
necessariamente buono e quello involontario necessariamente cattivo è un sofisma che sta
avvelenando il nostro contesto sociale e che nessuno ha il coraggio di smascherare.
Accanto ai vincoli relazionali, ci sono poi vincoli naturali (la mia costituzione somatica, il mio
sesso) e quindi anche vincoli difettivi: ad esempio, il fatto che io sia un essere che si ammala, che è
destinato a morire, non indebolisce la mia autenticità, ma la determina. Chi ha il coraggio di dire
che la malattia (che pure è un fenomeno difettivo che caratterizza la nostra umanità) ci rende meno
persone, annulla la nostra identità personale? Questo, invece, è un altro sofisma che circola
all’interno della bioetica contemporanea, per cui il malato terminale può chiedere l’eutanasia e il
feto con delle malformazioni può essere giudicato indegno di vivere. In questi casi il parametro di
giudizio viene scelto sulla base di culture o ideologie dominanti; di conseguenza il vincolo che mi
lega al mio corpo è sottomesso ad una logica di tipo estrinseca, per cui lo standard di salute che mi
rende identificabile come persona viene scelto, così come il livello accettabile di qualità della vita: è
la vecchia idea moderna della onnipotenza della ragione che, indebolita, oggi si sta trasformando
nella onnipotenza del desiderio.
Noi sappiamo bene, invece, che ognuno di noi non è il prodotto di un proprio atto di ragione o di
un proprio atto di desiderio; noi non ci siamo scelti e proprio per questo non ci apparteniamo fino in
fondo. L’idea che la persona possa essere il fondamento di se stessa sulla base di un’opzione che
arriva a sottomettere alla propria libertà di scelta lo stesso vincolo ontologico che ci lega al nostro
essere è uno dei fattori che più mette in pericolo l’antropologia contemporanea; è il sofisma
secondo il quale il vincolo ontologico che ci costituisce è un vincolo autoreferenziale, sul quale
possiamo proclamarci padroni assoluti.
Questa riflessione sui vincoli relazionali, naturali e soprattutto sul vincolo ontologico originario,
per cui io sono io e non ho scelto di essere quello che sono, evidenzia l’esistenza di vincoli
ultimamente non disponibili, che, in quanto tali, non sono un ostacolo alla libertà, ma sono, al
contrario, una condizione abilitante del suo esercizio: perché se i miei genitori avessero scelto lo
standard di qualità della vita in base al quale ogni figlio avesse potuto essere ritenuto o meno
persona, quasi sicuramente io non sarei stato accolto e, di conseguenza, non avrei potuto esercitare
oggi la libertà che sto esercitando. Quindi una riflessione sulla libertà vive di una dialettica
indispensabile di vincoli e opzioni. Bisogna però che noi esercitiamo la libertà in presenza di vincoli
buoni; questo perché in presenza di vincoli mortificanti dobbiamo esercitare continuamente
un’opera implacabile di delegittimazione.
4. Le conseguenze di un modo distorto di intendere il rapporto tra vincoli e opzioni possono
essere misurate dalla profonda frattura che oggi stiamo vivendo tra la sfera privata e la sfera
pubblica: la sfera privata appare posta sotto il segno di un eccesso libertario, per cui l’individuo
può scegliere in modo del tutto insindacabile i criteri di giudizio, mentre la sfera pubblica è affidata
ad una forma di contrattualismo e convenzionalismo molto fragile, nel quale viene meno l’idea
stessa del bene comune. Noi sappiamo (come Maritain ci ha ricordato) che il bene comune, su cui
si fonda il valore stesso della politica, non è mai la somma dei beni individuali (meno ancora degli
egoismi individuali!), ma è cosa ben diversa: esso nasce dalla capacità di riconoscere il valore
antropologico e morale dei rapporti tra le persone, sui quali si fonda e si promuove una buona
convivenza. E questo può essere fatto coniugando il bene personale con il bene interpersonale.
Se invece manca questo raccordo di tipo partecipativo tra l‘io e l’altro, si assiste ad una
schizofrenia, molto pericolosa, tra privato e pubblico. Per esempio si sta tendendo a confinare la
bioetica nello spazio delle opzioni private; così fecondazione artificiale, eutanasia, aborto sarebbero
questioni del tutto indecidibili a livello publico, e per questo completamente “svincolabili”. Eppure
l’esercizio di tali opzioni è possibile solo in uno spazio pubblico, ha bisogno di strutture pubbliche,
si avvale di competenze pubbliche, ha bisogno di risorse pubbliche, viene deliberato sulla base di un
dibattito pubblico. Tutto ciò cambia il “paesaggio morale” in cui siamo immersi e quindi dobbiamo
riflettere a fondo su questa sfida: che male ci sarebbe nel trasformare questi vincoli in opzioni?
Rendere possibile non vuol dire rendere obbligatorio: sarebbe solo un opzione in più. Perché allora
a livello politico rifiutarsi di fare spazio a quest’opzione? Ampliare il paniere delle opzioni sarebbe
comunque un bene: chi vuole, può attingere a quel paniere, chi non vuole non vi attinge.
Nei confronti di questo tipo di logica, di cui si è abusato ampiamente, dalla campagna
abortistica in avanti, credo si debba attivare una discussione pubblica, serena ed aperta. Nel
discutere tali questioni non si può “entrare a gamba tesa” in modo dogmatico e autoritario, ma
sempre sulla base di una discussione critica, che meriti rispetto per la carica argomentativa che
contiene. Questo in fondo è il “progetto culturale” e qui siamo davanti ad una svolta che interessa
il futuro della nostra società. Se la società si svincola oltre un certo livello, essa entra in una fase di
anomia che cambia radicalmente il paesaggio morale. Francesco D’Agostino ha portato un
esempio che mi sembra efficace: se si ammettesse la semplice possibilità (dunque un’opzione in
più) nell’ordinamento giuridico italiano di avere più mogli, si aumenterebbe soltanto il paniere
delle opzioni o si cambierebbero i vincoli? Di sicuro, si cambierebbero i vincoli, perché ciò
equivale ad abolire l’istituto giuridico della monogamia, sostituendolo con quello della poligamia.
Non è affatto vero, dunque, che l’aumento delle opzioni non incide sui vincoli: al contrario, li
erode e li trasforma. Come cittadini, prima ancora che come cristiani, dobbiamo quindi essere
impegnati a proteggere e promuovere i “vincoli buoni”, perché sono quelli che conferiscono identità
e futuro alle scelte libere nostre e dei nostri figli. Se viene meno questa consapevolezza, si entra in
una fase di impoverimento antropologico e morale.
5. Si aprono a questo punto tre sfide che investono la responsabilità dei credenti:
a) La prima è la sfida della trascendenza. Tra i vincoli che la libertà riconosce, i cristiani hanno
sempre sostenuto che ve n’è uno che dilata in modo infinito e non soltanto finito le nostre
possibilità: è la possibilità, come diceva Kierkegaard, di essere libero “davanti a Dio”; essere libero
davanti a Dio non è come essere libero davanti a un partito, ad una ideologia politica, ad un mito del
progresso scientifico o persino dinanzi ad un’altra persona, perché in questi casi noi siamo sempre
davanti a vincoli finiti e i vincoli finiti comportano inevitabilmente una riduzione delle nostre
opzioni (scegliere A, equivale sempre a non scegliere B). In tal caso, le opzioni che ci aprono in una
certa direzione si riducono, anche se se ne aprono delle altre. Il cristiano invece ricorda che esiste
un solo vincolo che, essendo infinito, può rendere infinite tutte le altre possibilità.
Su questa sfida pesa ancora nella cultura contemporanea la tesi di Marx, secondo la quale
quante più cose l’uomo trasferisce in Dio, tante meno se ne riserva per se stesso. In quel caso Dio e
uomo apparivano come due termini antagonistici: il cristiano, allora, non potrebbe essere libero,
perché, vincolandosi a Dio, rinuncerebbe a se stesso. Si tratta invece di rimotivare questo vincolo
infinito: c’è una libertà grande che rende grandi le libertà piccole!
b) La seconda sfida è la sfida della persona e riguarda la possibilità di tutelare alcuni vincoli
eticamente indisponibili. L’ultimo documento sulla politica, della Congregazione per la dottrina
della fede, in ultima analisi sostiene che c’è almeno un vincolo che per la politica deve ritenersi
assolutamente indisponibile: la promozione della persona umana. Quando si dice promozione
dell’uomo, però, sappiamo bene che si intende dire: tutto l’uomo e tutti gli uomini. E’ questo un
altro compito che abbiamo davanti: riconoscere questo vincolo e saperlo motivare. Non a caso, uno
dei sintomi che attestano la
crisi culturale di un epoca è proprio la perdita del senso delle
differenze; le epoche di crisi tendono all’indifferenza. Ad esempio, molti dei dibattiti che circolano
in questi giorni sulla clonazione si basano su questo slogan: In fondo, che differenza c’è tra il figlio
di due genitori naturali e il figlio della provetta? E poi: Che differenza c’è tra un matrimonio tra
persone di sesso diverso e una convivenza di omosessuali? Che differenza c’è tra l’anticipare la
morte di un malato terminale, oppure aspettare il decorso naturale della sua vita? La nostra società
sta perdendo il senso delle differenze e ciò avviene perché sta perdendo il senso della differenza di
fondo tra i vincoli e le opzioni. A noi, in un certo senso, si chiede di mantenere questa differenza.
Un filosofo cattolico canadese, Charles Taylor, ricorda l’importanza di questa sfida in relazione
al dibattito sulla equiparazione delle coppie di fatto omosessuali con il matrimonio. Chi difende il
valore della convivenza fra omosessuali, egli afferma, lo fa dicendo che essa ha lo “stesso valore”
del matrimonio. Quando però ci si appella alla rivendicazione di un nuovo diritto dicendo che ha lo
stesso valore di un altro, si compie un’opera di progressiva riduzione delle differenze, che, alla fine,
erode il valore in quanto tale. Il valore in sé, infatti, vive sempre di uno scarto differenziale: anche
in termini economici, ciò che ha valore si misura su una scala graduata; se azzeriamo tale scala,
perdiamo ogni valore. Dove tutto ha valore, niente ha valore.
c) La terza sfida è la sfida della carità e riguarda il modo in cui come cristiani viviamo la carità
nel contesto culturale odierno. Come comunità cristiana siamo chiamati a custodire e ad annunciare
il valore straordinario ed anomalo dell’amore, ma oggi stiamo rischiando di annunciarlo e coltivarlo
come un valore residuale, come una specie di “Croce rossa”, che interviene
per riparare le
ingiustizie e le emarginazioni di una società fondata sulla competizione, sul rampantismo. Non
possiamo però ridurre il valore cristiano dell’amore solo a questo ruolo misericordioso di aiuto nei
confronti degli emarginati, anche se esso resta comunque prezioso. Dobbiamo attribuire all’amore
anche un valore progettuale, la capacità cioè di additarci alcune forme di convivenza virtuose, che
poi (come è stato storicamente per molti istituti giuridico-politici, dalla famiglia alla scuola
all’ospedale) la comunità civile riconosce e protegge con il diritto.
Esiste dunque un circolo virtuoso tra amore e giustizia, nel senso che l’amore deve inventare
delle forme di convivenza, che poi la giustizia ratifica e protegge con il diritto. In questo senso
l’amore deve insegnare ad “entrare” nell’ordine della giustizia, ma anche ad uscirne, quando la
giustizia diventa la sentinella degli egoismi privati e dimentica gli emarginati. Quindi c’è una
capacità di annunciare, vivere e sperimentare la libertà dell’amore, per cosi dire “davanti” e “dietro”
la giustizia: dietro, perché accoglie le emarginazioni; davanti, perché si fa carico di progettare un
modello di società che sostituisca vincoli alienanti con vincoli virtuosi.
(testo tratto dalla registrazione, rivisto dall’autore)
Riferimenti bibliografici
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