Steve McQueen Milano-Fondazione Prada 13.04.2005 – 12.06

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Steve McQueen
Milano-Fondazione Prada
13.04.2005 – 12.06.2005
Un dito che lambisce l’iride di un occhio femminile. Un dito sporco, e l’occhio lì, fermo, titubante,
ma quasi costretto per orgoglio a subire. Attorno una pelle che registra, tra le sue pieghe, il passare
inesorabile del tempo. All’apparenza sembra un occhio qualunque, anonimo, ma dietro ad esso si
cela una diva quale Charlotte Rampling, protagonista del video che fa anche da manifesto a questa
prima, grande mostra dedicata al giovane artista (ma molto famoso) Steve McQeen. E ci voleva una
fondazione per portare in Italia un artista come lui, e allora ci vien da dire, per l’occasione, evviva
le Fondazioni (danarose), che ancora una volta fanno ciò che le istituzioni non sono capaci di fare,
solitamente abituate a lasciare agli altri il (gravoso) compito di diffondere la cultura. Ruolo spesso
delegato anche a banche, istituti di credito e privati. In ogni caso il lavoro di McQueen sarebbe stato
difficile da portare ed esporre in modo valido. Vuoi per le necessità di spazio, per la difficoltà di
coinvolgere e catalizzare interesse in luoghi “scomodi”, caratteristiche tipiche dei lavori dell’artista
londinese, classe 1969, fatta soprattutto di videoinstallazioni che, nell’occasione, sconfinano nel
campo della mera arte cinematografica. McQueen in passato si è dedicato anche alla fotografia e
alla scultura, ma il suo mestiere rimane, soprattutto, quello di filmare, riproponendo e giustificando
il tutto. Il fulcro di questa esposizione, paradossalmente, non è un vero e proprio filmato, ma un
allestimento imponente nella sala centrale dello spazio espositivo più completo di Milano. Una sala
buia, dove dei piccoli puntini (fuochi artificiali?) si alternano al centro, proiettati, e sulle pareti
materiale riflettente; la stanza sconfina, già grossa in se stessa, travalica i limiti della parete e
ripropone all’infinito le immagini. Il visitatore è stranito, e la sua sagoma, nel buio totale,
praticamente si perde; in sottofondo dei rumori di tenue esplosioni, che ogni tanto si alzano di
volume, per poi riabbassarsi all’improvviso. A parte una foto, il resto sono video, si va da quello già
citato con Charlotte Rampling (molto interessate), proiettato in uno splendido 16 millimetri. Se
Carib’s Leap, girato nei Carabi, non riesce a rimandare direttamente all’episodio citato (il suicidio
in massa di nativi caraibici nel XVII secolo per sfuggire ai francesi), i due video che rimangono e ai
quali sono riservate due apposite stanze, sono la parte migliore dell’esposizione. In una stanza
sonorizzata è presente il video Girls, Tricky del 2001, nel quale la rockstar Tricky è ripreso durante
una “indiavolata” registrazione di un suo brano. Quasi 15 minuti di “trasporto artistico” trasmesso
perfettamente anche al visitatore meno avvezzo a quel genere di musica. Il mantra “I don’t care” in
un inglese quasi incomprensibile, entra subito in circolo, e le pareti, che ricordano uno studio di
registrazione, trattengono fino al termine della proiezione in visitatore-ascoltatore.
Western Leep, idealmente legata a Carib’s Leep, riprende, in 24 minuti di pellicola 8 mm., la vita
lavorativa dei minatori di un giacimento aurifero nei pressi di Johannesburg, anche se parlare di vita
a tre chilometri e mezzo verso l’interno della terra risulta particolarmente difficile. Il video è tutto:
claustrofobico, angosciante, terribile soprattutto nel momento dei ripetitivi esercizi di
“purificazione” di fine giornata, un realismo talmente reale che a tratti sembra…finto!
Una mostra che colpisce, che non lascia indifferenti, nessuno, impossibile che succeda, da vedere,
anche più di una volta. Un’artista che nel suo campo ha tanto da insegnare, nonostante la sua
giovane età. Una installazione e delle proiezioni che si apprezzano, soprattutto in territori un po’
aridi da questo punto di vista (Milano, ma ancora di più l’Italia intera), ma che ha il suo grande
pregio di essere in un luogo fantastico. E qui salta fuori il neo su una pelle candida e liscia: la
sensazione che in un’altra location le opere di McQueen sarebbero state appena sufficienti e
“guardabili”, si insinua subdolamente, e ci pungola distrattamente, come il dito nell’occhio di
Charlotte Rampling…
(foto Courtesy of Marian Goodman Gallery, New York and Paris & Thomas Dane Ltd, London)
Claudio Mariani
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