Reale_Antiseri - Campo de` Fiori Urbani "Piattaforma G. Bruno"

3. Giordano Bruno: universo infinito ed «eroico furore»
3.1.
La vita e le opere
Giordano Bruno nacque a Noia nel 1548. Il suo nome di battesimo era Filippo; il nome di
Giordano gli fu imposto allorché, ancor molto giovane, entrò nel convento di San Domenico
a Napoli, dove fu ordinato sacerdote nel 1572.
Già quando era ancora studente il suo spirito di insofferenza e di ribellione sì manifestò,
e nel 1567 fu avviato un processo a suo carico, rimasto poi in sospeso.
Più grave fu il nuovo processo del 1576, più che per i sospetti di eresia che aveva
suscitato, per il sospetto che a lui risalisse la responsabilità dell’uccisione di un confratello,
che lo aveva denunciato. Il sospetto era in realtà infondato. Ma la situazione si complicò al
punto che Bruno, che era frattanto fuggito a Roma, pensò di gettare l’abito, e si rifugiò al
Nord (Genova, Noli, Savona, Torino, Venezia) e finalmente in Svizzera, a Ginevra, dove
frequentò ambienti calvinisti. Ma ben presto egli si ribellò anche contro i teologi calvinisti.
Dal 1579 Bruno visse in Francia. Fu dapprima, per due anni, a Tolosa e nel 1581 a
Parigi, dove riuscì ad attirare su di sé l’attenzione di Enrico III, da cui ebbe protezione e
appoggi.
Nel 1583 si recò in Inghilterra al seguito dell’ambasciatore francese e visse soprattutto a
Londra. Trascorse un periodo di tempo anche a Oxford, dove, però, si mise tosto in urto con i
docenti dell’Università (che egli considerava dei «pedanti»). Documenti venuti alla luce di
recente dimostrano tra l’altro che i dotti locali gli contestarono di aver plagiato nelle sue
lezioni il Ficino (le dottrine magico-ermetiche).
Nel 1585 ritornò a Parigi. Ma dovette presto accorgersi di non godere più della
protezione del re, e dovette fuggire in seguito ad un burrascoso scontro con gli Aristotelici.
Scelse, questa volta, la Germania luterana. Nel 1586 si stabilì a Wittenberg, dove elogiò
pubblicamente il luteranesimo. Ma anche qui non restò a lungo, e nel 1588 tentò di
accattivarsi i favori dell’imperatore Rodolfo II d’Asburgo, ma senza successo, e fece ritorno
dopo pochi mesi in Germania, dove, nel 1589, a Helmstàdt si iscrisse alla comunità luterana,
dalla quale venne espulso dopo appena un anno.
Nel 1590 passò a Francoforte, dove pubblicò la trilogia dei suoi grandi poemi latini. A
Francoforte ricevette l’invito, tramite librai, di trasferirsi a Venezia da parte del nobile
veneziano Giovanni Mocenigo, che desiderava apprendere da lui la mnemotecnica, di cui
Bruno era maestro. Improvvidamente egli accettò l’invito e tornò in Italia nel 1591.
Nello stesso anno il Mocenigo denunciava Bruno al Santo Uffizio. Nel 1592 incominciò
a Venezia il processo di Bruno conclusosi con una ritrattazione di questi.
Nel 1593 il filosofo venne trasferito a Roma e sottoposto a un nuovo processo. Dopo
estenuanti tentativi di convincerlo a ritrattare alcune sue tesi, si giunse ad una rottura finale e
alla condanna a morte per rogo, che venne eseguita al Campo dei Fiori, il 7 febbraio 1600.
Bruno non rinnegò il suo credo filosofico-religioso e morì testimoniandolo. Le opere di
Bruno sono numerosissime. Fra esse meritano particolare menzione: la commedia il
Candelaio (1582), il De umbris idearum (1582), la Cena de le Ceneri (1584), De la causa,
principio et uno (1584), De l’infinito, universo e mondi (1584), lo Spaccio de la bestia
trionfante (1584), De gli eroici furori (1585), De minimo (1591), De monade (1591), De
immenso et innumerabilibus (1591).
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3.2.
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La caratteristica di fondo del pensiero di Bruno
Per intendere il messaggio di un filosofo occorre cogliere il fulcro del suo pensiero, la
scaturigine dei suoi concetti e l’animo che vi infonde vita. Nel caso di Bruno, qual è questo
fulcro, questa scaturigine, quest’anima?
Gli studi più recenti sono finalmente riusciti a far luce: la cifra che contraddistingue il
pensiero bruniano è di carattere magico-ermetico. Bruno si colloca sulla scia dei Maghifilosofi rinascimentali e porta molto avanti quel discorso che il Ficino aveva cautamente
iniziato cercando di mantenersi entro gli argini dell’ortodossia cristiana, ma che egli intende
spingere alle estreme conseguenze. Di più: il pensiero bruniano può essere inteso come una
sorta di gnosi rinascimentale, un messaggio di salvezza improntato al tipo di religiosità
«egiziana», quale appunto vuol essere quella degli scritti ermetici. Il suo Neoplatonismo serve da base e da impalcatura concettuale a questa visione religiosa e si piega continuamente
alle esigenze della medesima.
È, questa, la documentatissima tesi di recente presentata da F.A. Yates che vogliamo
brevemente mettere a fuoco, perché risolve molti nodi dell’interpretazione delle opere di
Bruno. La filosofia di Bruno scrive la Yates — «è fondamentalmente ermetica [...],egli era
un mago ermetico del tipo più radicale, con una sorta di missione magico-religiosa [...] ».
Pertanto, conclude la Yates, «[...] tutto il tentativo ficiniano di costruire una theologia
platonica cristiana, con i suoi prisci theologi e magi e con il suo platonismo cristiano,
furtivamente permeato di alcuni elementi magici, era meno che niente agli occhi di Giordano
Bruno, il quale, accettando in pieno e spregiudicatamente la religione magica egiziana
dell’Asclepius (e trascurando i presunti preannunci del Cristianesimo contenuti nel Corpus
Hermeticum), considerò la religione magica egiziana come un’esperienza teurgica ed estatica
genuinamente neoplatonica, come un’ascesa verso l’Uno. E tale essa era di fatto, poiché
l’egizianismo ermetico non era altro che l’egizianismo interpretato da neoplatonici della tarda
antichità. Tuttavia, non si risolve il problema dell’interpretazione di Bruno, riducendolo a un
pedissequo continuatore dì questo tipo di neoplatonismo e considerandolo un semplice
seguace di un culto misteriosofico egiziano, perché egli era stato certamente influenzato dal
grande apparato messo in moto da Ficino e da Pico, con tutta la sua forza psicologica, le sue
associazioni cabalistiche e cristiane, il suo sincretismo di diverse posizioni filosofiche e
religiose, antiche o medievali, e con la sua magia».
É chiaro, di conseguenza, che Bruno non poteva né andar d’accordo coi Cattolici, né coi
Protestanti (al limite non può dirsi neppure Cristiano, perché finì col mettere in dubbio la
divinità di Cristo e i dogmi fondamentali del Cristianesimo) e che gli appoggi che cercò, ora
da una parte ora dall’altra, erano appoggi tattici per realizzare la propria riforma. E appunto
per questo provocò in tutti gli ambienti in cui insegnò violente reazioni. Non poteva seguire
nessuna setta, perché il suo scopo era di fondare lui stesso una nuova religione.
Eppure fu ebbro di Dio (per usare un’espressione che Novalis usò per Spinoza), e
l’infinito fu il suo principio e la sua fine (potremmo dire con altra espressione che
Schleiermacher riferìrà ancora a Spinoza). Ma si tratta di un Divino e di un Infinito di
carattere neo-pagano, che l’apparato concettuale del Neoplatonismo, fatto rinascere da
Cusano e da Ficino, si prestava ad esprimere in modo quasi perfetto.
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3.3.
Arte della memoria (mnemotecnica) e arte magico-ermetica
Le prime opere bruniane sono dedicate alla mnemotecnica e fra esse spicca soprattutto il
De umbris idearum, composto a Parigi e dedicato a Enrico III. Ma già la sua mnemotecnica
si colora di forti venature magico-ermetiche.
L’arte della memoria era molto antica. Gli oratori romani, in modo particolare,
raccomandavano, per memorizzare i loro discorsi, di associare la struttura e la successione
dei concetti e delle argomentazioni a favore dei medesimi ad un edificio e alla successione
delle parti di un edificio. Raimondo Lullo, nel Medioevo, aveva già sviluppato la
mnemotecnica, non solo cercando di enucleare regole, destinate a favorire la
memorizzazione, individuando una precisa scansione delle regole della mente, ma anche
cercando di individuare la coordinazione di queste regole della mente con la struttura del
reale.
Nel Rinascimento la mnemotecnica rinacque, e con Bruno raggiunse il suo culmine.
Inoltre, Bruno nel De umbris idearum si riconnette espressamente a Ermete Trismegisto,
convinto che la religione «egiziana» sia migliore di quella cristiana, in quanto è religione
della mente che si realizza superando il culto del sole, visibile immagine del sole ideale che è
l’intelletto. Le «ombre delle idee» non sono le cose sensibili, ma piuttosto (nel contesto
bruniano) le «immagini magiche», che rispecchiano le idee della mente divina e di cui le cose
sensibili sono copie. Imprimendo nella mente queste «immagini magiche» sì otterrà come un
riflesso dell’universo intero nella mente, e si acquisirà, in tal modo, non solo un meraviglioso
potenziamento della memoria, ma anche un rafforzamento delle capacità operative dell’uomo
in generale.
L’opera procede nella presentazione di una serie di elenchi di immagini, sulla base delle
quali Bruno organizza il sistema della memoria e, come aveva già iniziato a fare Ficino, dà
fondamenti plotiniani alla sua costruzione.
Dunque, il Bruno parigino, con l’opera che dedica nientemeno che a Enrico III, si
presenta come esponente e rinnovatore della tradizione magico-ermetica
inaugurata da Fìcino, ma in senso molto più radicale, ossia nel senso che la conciliazione
ficiniana di quella dottrina con la dogmatica cristiana non gli interessa più, deciso ad andare
fino in fondo per questa strada.
3.4. L’universo di Bruno e il suo significato
Dopo il soggiorno in Francia, la tappa più significativa della carriera di Bruno fu il
soggiorno in Inghilterra, dove compose e pubblicò i dialoghi italiani, che sono i suoi
capolavori.
Prima di dire del contenuto di questi (di cui i successivi poemi latini composti e
pubblicati in Germania non sono se non sviluppi e approfondimenti), è bene individuare in
quale veste Bruno si presentò agli Inglesi, in particolare ai dotti dell’Università di Oxford.
Documenti venuti alla luce solo di recente ci informano circa le tematiche trattate da Bruno a
Oxford e le reazioni avute dagli ascoltatori. Egli espose una visione copernicana
dell’universo, incentrata sulla concezione eliocentrica e sull’infinitudine del cosmo,
collegandola alla magia astrale e al culto solare quale era stato proposto da Ficino, al punto
che uno dei dotti «trovò che sia la prima sia la seconda lezione erano state tratte, quasi parola
per parola, dalle opere di Marsilio Ficino» (in particolare dall’opera De vita coelitus comparanda). Ne nacque uno scandalo, che costrinse Bruno a congedarsi rapidamente dai
«pedanti gramatici» di Oxford, che non avevano inteso tìulla del suo messaggio.
L’immagine che egli voleva dare di sé era, dunque, quella del mago rinascimentale, di
colui che propone la nuova religione «egiziana» della rivelazione ermetica, il culto del deus
in rebus, del Dio che è presente nelle cose.
E nello Spaccio l’« egizianismo» è presentato addirittura come tematico e «Mercurio
Egizio sapientissimo», ossia Ermete Trismegisto, è presentato come fonte di sapienza. Alla
visione del «dio nelle cose» è espressamente legata la magia, intesa come sapienza
proveniente dal «sole intelligibile», che viene rivelata al mondo talora in misura maggiore e
talaltra in misura minore.
L’«egìzianismo» di Bruno è una forma di religione paganeggiante, sulla quale egli vuole
fondare una riforma morale universale.
Ma quali sono i fondamentf filosofici?
Al di sopra di tutto, Bruno ammette una «causa» o un «principio» supremo, che egli
chiama anche «mente sopra le cose» da cui tutto il resto deriva, ma che ci rimane
inconoscibile. Tutto l’universo è effetto di questo primo principio; ma dalla conoscenza degli
effetti non si può risalire alla conoscenza della causa, così come dalla visione di una statua
non si può risalire alla visione dello scultore che l’ha modellata. Questo principio non è altro
se non l’Uno plotiniano rivisitato da un Rinascimentale.
Come in Plotino dal supremo Principio deriva l’Intelletto, così, analogamente, Bruno
parla di un Intelletto universale, ma lo intende, in maniera più marcatamente immanentistica,
come mente nelle cose, e precisamente, come facoltà dell’Anima universale, da cui
scaturiscono tutte le forme che sono immanenti alla materia, e che con essa costituisce un
tutt’uno inscindibile.
Le forme sono la dinamica struttura della materia «che vanno e vengono, cessano e si
rinnovano», appunto perché tutto è animato, tutto è vivo. L’anima
del mondo è in ogni cosa, e nell’anima è presente l’intelletto universale, fonte perenne dì
forme che continuamente si rinnovano.
Perciò si capisce come in questo contesto Dio e natura, forma e materia, atto e potenza
finiscano col coincidere, tanto che Bruno può scrivere: «Onde non fia difficile o grave
accettar al fine che il tutto, secondo la sustanza, è uno, come forse intese Parmenide
ignobilmente trattato da Aristotele».
3.5.
L’infinitudine del Tutto e il significato impresso da Bruno alla
rivoluzione copernicana
Di questa concezione bruniana l’infinito diventa, come si è già detto, la cifra
emblematica
Infatti, per Bruno, se è infinita la Causa o il Principio primo, infinito deve essere anche
l’effetto.
Su questa stessa base, Bruno sostiene non solo l’infinitudine del mondo in generale, ma
altresì (riprendendo l’idea di Epicuro e di Lucrezio) l’infinitudine nel senso dell’esistenza di
mondi infiniti simili al nostro, con altri pianeti e altre stelle: «e questo si chiama universo
infinito nel quale sono mondi innumerabili ».
Infinita è la vita, perché infiniti individui vivono in noi, così come in tutte le cose
composte. Il morire non è morire, perché «niente si adnichila»; pertanto il morire è solo un
mutare accidentale, mentre ciò che muta rimane eterno.
Ma perché, allora, c’è questo mutare? Perché la materia particolare cerca sempre altra
forma? Forse cerca altro essere? Bruno risponde, in modo assai ingegnoso, che la mutazione
non cerca «altro essere» (che c’è già tutto quanto, sempre), «ma altro modo d’essere». E in
questo sta appunto la differenza fra l’universo e le singole cose dell’universo: «quello
comprende tutto lo essere e tutti i modi di essere: di queste ciascuna ha tutto l’essere, ma non
tutti i modi di essere».
Sotto questo riguardo Bruno può dire che 1’universo è «sferiforme» e insieme
«infinito». Il concetto di Dio come «sfera avente il centro ovunque e la circonferenza in
nessun luogo», che compare per la prima volta in un trattato ermetico e che fu reso celebre da
Cusano, serve mirabilmente a Bruno, ed è appunto su questa base che egli opera la
conciliazione di cui sopra.
Dio è tutto infinito e totalmente infinito, perché è tutto in tutto e totalmente anche in
ogni parte del tutto; l’universo, come effetto derivato da Dio, è tutto infinito ma non
totalmente infinito, perché è tutto in tutto, ma non anche totalmente in tutte le sue parti (o
comunque non può essere infinito al modo in cui lo è Dio, causa di tutto in tutte le parti).
Siamo ora in grado di capire le ragioni della entusiastica accettazione della rivoluzione
copernicana da parte di Bruno. Infatti l’eliocentrismo a) si accordava perfettamente con la sua
gnosi ermetica, che al Sole (simbolo dell’intelletto) attribuiva un significato del tutto
particolare, b) inoltre gli permetteva di spezzare la visione angusta degli Aristotelici che
sosteneva la finitudine dell’ universo e di far svanire così tutte le «fantastiche muraglie» dei
cieli, senza limiti verso l’infinito.
3.6. Gli «eroici furori»
In questa visione bruniana la «contemplazione» plotiniana e il farsi uno col Tutto
diventa «eroico furore».
Anche per Bruno si tratta di ripercorrere in ascesa conoscitiva, ossia a ritroso, quella
discesa che dal principio ha condotto al principiato. Ma in Bruno la contemplazione si
trasforma in una forma di «indiamento», che è furore d’amore, brama di essere uno con la
cosa bramata, in cui l’estasi plotiniana si trasforma in esperienza magica. (Già Ficino aveva
chiamato l’amore che porta l’uomo a «indiarsi» furore divino).
Il punto centrale dello scritto De gli eroici furori, che è uno dei suoi capolavori, spiega
che il senso stesso degli «eroici furori» sta nel mito del cacciatore Atteone che vide Diana e
fu trasformato da cacciatore in cervo, cioè in selvaggina cacciata, e fu sbranato dai suoi cani.
Diana è il simbolo della Divinità immanente nella natura e Atteone simboleggia l’intelletto
intento alla caccia della verità e della bellezza divina; i mastini e i veltri di Atteone
simboleggiano, i primi (che sono più forti) le volizioni, i secondi (che sono più veloci) i
pensieri.
Atteone, dunque, viene convertito in ciò che cercava (selvaggina), e i suoi cani (pensieri
e volizioni) lo predano. Perché? Perché la verità ricercata è in noi stessi, e quando scopriamo
questo, diventiamo brama dei nostri stessi pensieri e comprendiamo che «già avendola
contratta in sé non era necessario di cercar fuori di sé la divinità».
Perciò conclude Bruno: «Cossì gli cani, pensieri de cose divine, vorano questo Atteone,
facendolo morto al volgo, alla moltitudine, sciolto dalli nodi de perturbati sensi, libero dal
carnal carcere della materia; onde non più vegga come per forami e per fenestre la sua Diana,
ma avendo gittate le muraglie a terra, è tutto occhio a l’aspetto de tutto l’orizonte». Al
culmine dell’« eroico furore», l’uomo vede tutto intero tutto, perché si è assimilato a questo
tutto.
3.7. Conclusioni
Bruno è certamente uno dei filosofi più difficili da intendere, e, nell’ambito della
filosofia rinascimentale, certamente il più complesso. Di qui le diversissime esegesi che di lui
sono state proposte.
Allo stato attuale degli studi, tuttavia, molte conclusioni tratte in passato vanno riviste.
Farlo un precursore della rivoluzione del pensiero moderno, nel senso in cui opererà la
rivoluzione scientifica, non sembra possibile, perché i suoi interessi erano di tutt’altra natura:
magico-religiosi e metafisici.
La sua difesa della rivoluzione copernicana si fonda su basi del tutto diverse da quelle su
cui si era fondato Copernico, tanto che qualcuno ha avanzato addirittura dei dubbi che Bruno
avesse inteso il senso scientifico di quella dottrina.
Né è possibile dare rilievo all’aspetto matematizzante di molti scritti bruniani, dato che
la matematica bruniana è aritmologia pitagoreggiante, e quindi è metafisica.
Insomma Bruno, con la sua visione vitalistica e magica, non è un pensatore «moderno»,
nel senso che non anticipa le scoperte del secolo che segue, che nascono su basi del tutto
differenti.
Ma Bruno anticipa in modo sorprendente certe posizioni di Spinoza e soprattutto dei
Romantici. L’ebbrezza di Dio e dell’infinito propria di questi filosofi è già presente in molte
pagine di Bruno. Lo Schelling è il pensatore che mostrerà (almeno in una fase del suo
pensiero) le più spiccate affinità elettive con il nostro filosofo. E Bruno si intitolerà una delle
opere schellinghiane più belle e suggestive.
Nel suo complesso, l’opera di Bruno segna un vertice del rinascimento, e, nello stesso
tempo, uno degli esiti conclusivi più significativi di questa stagione irripetibile del pensiero
occidentale.