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Riassunti tratti dal sito “http://www.quaestiones.com/”.
Riassunto di Relazioni Internazionali
(MINGST - ARREGUIN-TOFT)
Le relazioni internazionali sono una disciplina accademica nata come ramo della scienza politica, riguardano lo studio
della politica internazionale nella sua dimensione teoretica e, empiricamente, dei rapporti fra i principali attori del
sistema internazionale (Stati, organizzazioni inter-governative, organizzazioni non governative, imprese
multinazionali). Il loro campo di studio attiene quindi alla Scienza politica, ma a ben vedere interessa anche il dibattito
pubblico (ad esempio per le ripercussioni che possono avere sui popoli le azioni diplomatiche/militari dei loro governi,
o la competizione commerciale fra alcune multinazionali). Le R.I., inoltre, sono imparentate con altre discipline
accademiche come l'economia, la storia, il diritto, la filosofia, la geografia, la sociologia, l'antropologia, la psicologia e
gli studi culturali.
Da 4 secoli la distinzione tra sistema politico interno e sistema politico internazionale è basata sul PRINCIPIO
ORGANIZZATIVO; Il sistema politico interno è ordinato, con il monopolio della forza legittima, perché esiste un
governo che detta gli ordini. Il sistema politico internazionale è privo di governo, no monopolio forza legittima e
anarchico.
La mancanza do governo è il primo fondamentale contrassegno del sistema politico internazionale. Questa condizione
per la quale, in mancanza di un governo mondiale, ogni soggetto sarebbe costretto ad avere cura di se stesso viene
definito come Anarchia Internazionale Il sistema politico internazionale è privo di governo, ma non per questo è
disordinato: il principale problema delle Relazioni Internazionali, è appunto capire come in un sistema anarchico
ottenere l’ordine.
Ma cosa comporta trovarsi in un ambiente privo di governo? Secondo lo STATO DI NATURA di T. Hobbes. Sostiene
che condannando tutti i soggetti all’autodifesa, la mancanza di un’autorità a cui rivolgersi per tutelare i propri diritti
condanna ciascuno a preoccuparsi delle intenzioni degli altri. La mancanza di un organo in grado di garantire il
soddisfacimento delle promesse fa in modo che le azioni degli altri possano apparire sempre sospette o addirittura
possano essere fraintese.
L’anarchia dunque piega sul quella condizione chiamata DILEMMA DELLA SICUREZZA. Anche quando nessuno tra
gli altri stati ha intenzione di attaccare gli altri, essi possono continuare a temere che le rispettive intenzioni non siano
destinate a rimanere pacifiche e possono dunque sentirsi costretti ad accumulare in anticipo potenza per difendersi.
In sostanza le conseguenze dell’anarchia possono essere riassunte in:
1.
Condanna generalizzata all’autodifesa; tutti i soggetti sono obbligati a procurarsi risorse quali armi
e questa condizione è patologica nel sistema internazionale. Si arma chiunque abbia qualcosa da
difendere ma la condanna all’autodifesa riguarda anche l’interesse ad ottenere qualcosa in più, come il
potere, per giungere il proprio obiettivo che è la sicurezza. ( se sono strapotente sono più sicuro)
Condanna all’autodifesa non significa autarchia ( cioè non ti difendi da solo) ; infatti in un contesto
internazionale si formano alleanze per diminuire la propria insicurezza e unire le proprie forze. (
l’Italia ad es. si è sempre legata al carro del paese più forte come nel caso della Triplice alleanza)
2.
Incertezza continua sulle intenzioni altrui; poiché manca un garante esterno a cui ci si può
rivolgere in caso di controversie, c’è una maggior propensione alla diffidenza. In un contesto
anarchico si tenta sempre di tradurre i segnali con il rischi di vedere intenzioni aggressive anche dove
non ci sono. A scatenare una competizione interna è sufficiente che un paese tema l’altro; non è tanto
una paura legata al rischio immediato ma il problema sono le intenzioni future del mio avversario.
3.
Rischio di innescare competizioni; le due parti rischiano di innescare competizioni senza volerlo
solo per la paura reciproca: il cosiddetto “ Dilemma della Sicurezza” è quella relazione, quel
meccanismo che nasce quando un soggetto che teme l’altro decide di prepararsi in anticipo e
accumulare risorse ( armi e alleati) ma a sua volta l’altro soggetto temendo un ‘aggressione risponde
aumentando le risorse.
Esempi: guerra fredda/ corsa nucleare India Pakistan / proliferazione armi di massa che porta tutti gli
altri soggetti a fare lo stesso.
1
La relazione tra Iran – Israele – Paesi arabi ( i primi due con la turchia non sono paesi arabi); l’Iran è
il soggetto svantaggiato che teme un’aggressione; pertanto si procura armi e risorse per difendersi. Ma
nel momento in cui si procura tali risorse, Israele teme una minaccia alla propria sicurezza e risponde
procurandosi risorse. Conseguenza è che anche i paesi arabi temendo la competizione vicina si
rinforzano.
4.
Difficoltà nella cooperazione internazionale; l’anarchia crea degli ostacoli alla competizione perché
si ha paura dell’inganno e perché si teme che l’altro soggetto ci ha fatto una promessa che non
manterrà. Il timore dell’inganno influenza anche le relazioni tra amici.
Gli ostacoli alla competizione sono anche legati al fatto che noi cooperiamo se guadagniamo; nel
sistema politico internazionale anarchico l’incentivo alla cooperazione si sposta perché non è
sufficiente sapere quanto guadagniamo ma quanto guadagniamo rispetto agli altri
VANTAGGI RELATIVI. ( anche i paesi europei vogliono sapere quanto guadagnano rispetto agli
altri; l’Italia teme che i partner guadagnino di più).
5.
Forma di Competizione: qualsiasi sistema politico è competitivo ma i sistemi politici interni
risolvono le questioni in via istituzionale senza ricorrere all’uso della violenza mentre i sistemi
politici internazionali prevedono l’utilizzo alla violenza o alla guerra. La guerra non è onni
presente ma la possibilità della guerra non può essere esclusa dal sistema politico internazionale; la
guerra non è la forma specifica di competizione della politica internazionale poiché ce ne sono delle
altre come la competizione ideologica.
Le relazioni internazionali si svolgono all’ombra della guerra come ultima istanza.
Il contesto anarchico offre contemporaneamente alla violenza, una condizione permissiva che ha dato spunto a 3 grandi
tradizioni di pensiero: quella HOBBESIANA, quella GROZIANA e quella KANTIANA.
La prima è fondata sull’analogia tra anarchia internazionale e qualunque altro tipo di anarchia. Ogni qualvolta che
manca un’agenzia per promuovere i propri diritti, ciascuno potrà fare assegnamento sulle proprie forza e sulla propria
capacità di premunirsi contro gli altri.
La seconda tradizione ha definito come obiettivi fondamentali di qualunque convivenza la limitazione della violenza, il
mantenimento delle promesse e la nascita di un sistema di istituzioni necessarie per poter mantenere l’ordine.
La visione kantiana, invece, si basa sul progetto per la pace perpetua.
In realtà l’analogia tra l’anarchia internazionale e lo stato di natura hobbesiano è solo apparente. La prima differenza
riguarda la dimensione del potere. Nel contesto internazionale, per es, nessuno può aspirare ad invadere o a distruggere
gli Usa. Ma al di sotto delle diseguaglianza tra stati forti e deboli, esiste una differenza ancora più marcata: se gli stati
hanno potuto essere considerati come protagonisti della politica internazionale è perché hanno concentrato su di sé la
maggior parte delle risorse di potenza. Un’ultima differenza con la riflessione hobbesiana, che prevede rapporti
occasionali con gli stati, il sistema internazionale prevede un’intensa densità di relazioni.
Il sistema politico internazionale moderno è un sistema politico privo di governo ( e in questo senso anarchico): la
mancanza di un’agenzia dotata di monopolio dell’uso della forza legittima fa sì che tutti gli attori siano condannati
all’autodifesa e per questo rende ineliminabile la possibilità di guerra.
La guerra che funzioni svolge in un contesto anarchico:
1. E’ utilizzata come sanzione alla violazione dei propri diritti o diritti altrui: AUTODIFESA. Attraverso la
guerra si riescono a tutelare i propri diritti in un contesto internazionale.
Esempi: dopo il 2001 con l’attacco all’afghanistan poiché Usa colpiti nel proprio territorio
funzione
conservatrice oppure guerra come difesa collettiva nel caso della guerra del golfo.
2
2. Funzione di Mutamento
La guerra serve per ottenere mutamenti incrementali cioè non la difesa ma il
cambiamento dei diritti; se non posso ottenere pacificamente me lo prendo con forza.
3. La guerra serve anche a trasformare in toto il sistema internazionale cioè ad ottenere un vero mutamento
rivoluzionario;
esempio Guerre Napoleoniche
la posta in gioco era il dominio del sistema e chi vinceva si prendeva
tutto, ovviamente dettando le condizioni, il contenuto politico, economico e ideologico del sistema
internazionale.
La possibilità che si verifichi una guerra cambia completamente le relazioni tra nemici e se io sono più debole,
l’altro può alzare il livello della competizione alzandola a livello militare ( es. Ultimatum). La guerra vale
anche per paesi amici poiché si ha la possibilità di avere protezione da uno stato forte. La possibilità della
guerra e la superiorità militare svolgono un ruolo importante nei rapporti tra amici e alleati.
Esempio: L’Europa dipende militarmente e sotto il punto di vista della sicurezza dagli USA e ciò significa
che la protezione ha un prezzo
missione Afghanistan o Iraq.
I SOGGETTI del sistema politico internazionale: statuali e non, organizzazioni governative e non, violente e non.
Gli stati non sono gli unici attori del sistema politico internazionale ma restano i soggetti più rilevanti perché sono
comunque prestatori di ultima istanza in caso di crisi internazionali . La corsa allo stato non è ancora finita, tutti i popoli
cercano l’indipendenza attraverso la statualità come è avvenuto per tutto il ‘ 900 ( Kosovo- Georgia- Questione
Palestinese). Anche se esistono le organizzazioni internazionali, queste restano tutt’oggi dominate dagli stati che
rimangono quindi i protagonisti principali anche delle relazioni di pace e di guerra.
Una società transnazionale è fatta di scambi commerciali, migrazioni di individui e gruppi, credenze comuni,
istituzioni indifferenti ai confini e composta oltre che dagli stati, da un’infinità di soggetti. Inoltre emerge all’interno di
un sistema internazionale moderno, un equilibrio tra relazioni interstatali e relazioni internazionali non-statali.
Addirittura le relazioni commerciali ed economiche sono cresciute tanto da creare tra gli stati un’interdipendenza
complessa sempre più fitta e fra attori sempre più vari: stati, organizzazioni internazionali intergovernative,
organizzazioni internazionali non-governative, imprese multinazionali e singoli. Ciò ha portato alla crisi del sistema
interstatale.
1. ANARCHIA: è il principio organizzativo del sistema internazionale attuale; non esiste nessun soggetto che
viene riconosciuto da tutti come il titolare ultimo della legittimità.
2. UGUAGLIANZA FUNZIONALE E FORMALE DEGLI ATTORI; la politica internazionale è un gioco in
cui gli stati sono simili tra loro perché cercano di svolgere le stesse funzioni, a differenza di un sistema interno
dove le funzioni sono tutte diverse. Nel sistema internazionale gli stati si riconoscono come uguali
formalmente; tutti gli stati sono uguali e sovrani e hanno formalmente gli stessi diritti; questo non è mai
accaduto nel corso della storia perché solitamente i soggetti forti reclamavano maggiori diritti.
Es.
Europa Moderna c’erano città stato, imperi,papato e numerosi soggetti non simili tra di loro.
3. SPAZIO COM’è ORGANIZZATO : spazi omogenei che sono gli stati e cesure cioè confini. Ciascun stato è
il titolare esclusivo della giurisdizione del proprio territorio e tra una giurisdizione e l’altra c’è una linea di
confine. Nel corso della storia non c’è mai stato un legame più univoco, non ci sono mai stati i confini. Ci sono
poteri che hanno la presa su certi spazi ma non c’è un confine. Il confine segna la fine di una giurisdizione e
l’inizio dell’altra che ha i miei stessi diritti; nel confine è segnato questo principio di reciprocità. Dove non c’è
confine non c’è distinzione tra ordinamento interno e internazionale e quando un confine muta, finchè non si
ricrea uno nuovo, un problema.
Esempio: frammentazione jugoslavia, la guerra è civile o internazionale? Ciò che ha reso il problema irrisolto è
il fatto che non c’erano ancora confini stabiliti.
4. GLOBALITà: altro elemento di eccezionalità; è un prodotto storico reversibile e prima di questo prodotto
c’erano diversi pezzi di politica internazionale.
FASI STORICHE DELLA GLOBALITà:
3
Fino al ‘500 il globo è rappresentato come un insieme di
sistemi internazionali preglobali. Ciascun sistema
preglobale ha i propri attori diversi dagli altri, ha propri
principi organizzativi ( signoriali, anarchici, imperiali) e
proprie regole e norme per regolare i rapporti con soggetti
che non facevano parte del sistema. La stessa Europa era
un sub sistema di stati e con la Guerra dei 30 anni tutti i
sistemi vengono fusi nella stessa guerra e nello stesso
sistema internazionale.
b)
Espansione è la seconda fase che va dal 1500 alla seconda
metà del ‘900; processo di progressiva globalizzazione delle
relazioni internazionali che avviene attraverso un
inglobamento delle altre parti del mondo nelle dinamiche
europee; prima inglobamento del continente Americano,
poi Filippine ( no Cina e Giappone) e infine subcontinente
indiano che verrà inglobato con la caduta dell’impero
Mogul.
c)
La fase decisiva è tra il 1850 e le due guerre mondiali; si
compie la globalizzazione eurocentrica, crollano i baluardi,
l’India e Cina sono sottomesse e i paesi europei penetrano
nel continente africano. In quegli anni si comincia ad
Sconfigge la Cina nel 1895, poi la
Russia nel 1904, poi Germania
includere nel diritto internazionale l’Impero Ottomano e il
nella 1 guerra mondiale
Giappone che viene ammesso alla Conferenza di pace di
Versailles (1919) e gli Stati Uniti che erano occidentali ma
anti europei. Le due guerre mondiali hanno un rapporto
reciproco con la globalizzazione in quanto vettori di essa,
perché uomini da tutti i continenti provano la stessa
esperienza di lutto e di guerra.
d)
Superamento Eurocentrismo: l’Europa non è + il centro
di radiazioni ma resta il teatro di scontro più importante (
guerra fredda)
Il sistema politico internazionale è eccezionale: è anomalo.
a)
La disciplina delle relazioni internazionali ha carattere determinato;
a. la disciplina è contemporanea, nasce come scienza sociale con l’istituzione della prima
cattedra ( International Politics) nel 1919 anche se c’è sempre stata una riflessione sulle
esperienze e sulle relazioni internazionali precedenti ( Tucidide cerca di spiegare la
Guerra del Peloponneso).
b.
2° carattere di determinatezza di questa disciplina è che presuppone alcune cose del
moderno. ( Kennet Waltz definisce la politica internazionale come quella moderna).
Ciò significa che guarda l’esperienza moderna come proprio orizzonte storico.
c.
Questa disciplina si è occupata delle relazioni dal ’45 ad oggi.
La teoria delle relazioni internazionali adotta una prospettiva geopolitica che parte dagli
USA; infatti tutti i principali autori lavorano nei centri di ricerca americani, quindi
inseriscono alcune riflessioni e eliminano delle altre. Stanley Hoffman ad es. ha
definito le relazioni internazionali una scienza americana. Questo ha portato delle
conseguenze:
 Al centro ci sono i problemi posti dall’opinione
pubblica e dalla comunità scientifica americana
quindi oggi il principale problema è se gli Usa
resteranno ancora i leader o no.
4

Privilegiando gli USA, certe vicende sono state
rimosse dalla teoria contemporanea delle relazioni
internazionali, ad esempio il problema della fine
della centralità europea che ha connotato le
relazioni internazionali per 3000anni. A differenza
degli studiosi americani, gli studiosi inglesi hanno
posto al centro questo problema perché i rapporti
tra Europa e mondo si sono congelati.
Questa disciplina costituisce una visione prospettica diversa dalla vita reale perché inglobata dal punto di vista
americano che costituisce un’eccezione. dal fatto che gli Usa sono eccezionalmente forti e quindi le relazioni
internazionali viste da un debole e da un forte sono diverse perché sono viste dal paese più forte di tutti. Gli Usa di
eccezionale hanno anche un rapporto diverso con la vulnerabilità ( Francia, Germania e Russia sono più vulnerabili
perché hanno pagato delle guerre sul proprio territorio). Dopo l’ 11 Settembre gli Usa hanno scoperto che il loro
territorio è uguale agli altri e perciò vivono la vulnerabilità come una cosa mai successa nella storia. APPROCCI
DIVERSI:
Il 1° approccio è l’ IDEALISMO, alla cui base c’è l’esperienza delle prima guerra mondiale; questo trauma storico
cambia la politica giuridica dell’Europa e cambia il rapporto politico e giuridico rispetto alla guerra che prima era
considerata una prassi, un’opzione a disposizione delle politiche estere. Alla base di questo approccio c’è una vocazione
razionalistica della guerra che prima era uno strumento razionale, un’attività vista come l’intelligenza politica dello
stato. Queste interpretazioni vengono fatte a pezzi dopo la 1 guerra mondiale. L’idealismo è figlio di questa guerra:
nasce l’idea che la storia della politica internazionale abbia subito un salto e quello che è accaduto non deve più
accadere.
Il problema dell’Idealismo è come evitare e come cancellare la guerra; nasce pertanto un programma rivoluzionario
perché l’idealismo sostiene che non possiamo abituarci alla guerra.
Le soluzioni proposte dall’idealismo riguardano il tentativo di vietare la guerra attraverso l’istituzione della Società
delle Nazioni Unite; se gli stati non riescono a concepire la propria sicurezza se non attraverso un concetto egoistico, è
necessaria l’istituzione delle nazioni unite come modello da concepire in base al quale la sicurezza di ciascuno e un
pezzo degli altri. L’idealismo tratta la guerra come una malattia sociale che può essere combattuta ricercando la radice
del male; la causa della guerra è la POLITICA. L’idealismo propone come possibile soluzione un aumento
dell’interdipendenza economica per evitare la guerra; con la crescita del commercio la guerra può essere evitata ( “xke
dovrei sacrificare uomini e fare guerra ad un paese dove ho investimenti?”) .
La radice della guerra però non è la politica come tale ( infatti i sistemi politici interni si nutrono di conflitto ma non
sfocia in guerra), ma come non è organizzata la politica internazionale. La radice è l’anarchia e la soluzione è il
superamento dell’anarchia attraverso un governo mondiale che porti la pace.
La radice non è né nella politica, né nella sicurezza ma nella natura politica degli stati, soprattutto quelli non
democratici.
Il discorso idealista si fonda sulla possibilità di cambiare la politica internazionale.
Il 2° approccio è il REALISMO ( Tucidide, Macchiavelli), che compare nel 2° grande trauma del ‘900 ovvero lo
scoppio della seconda guerra mondiale e della guerra fredda, che mettono a nudo le utopie dell’idealismo fallite.
L’idealismo fallisce ma malgrado tutto la seconda guerra mondiale viene combattuta con il linguaggio dell’idealismo.
La guerra fredda dimostra l’impossibilità di costruire un governo mondiale.
Secondo il realismo il problema non è più come ottenere la pace ma come vincere le guerre dato che la guerra è un male
inestirpabile. Il problema del realismo, posto che la guerra è necessaria e utile, è quello di evitare guerre non necessarie.
Le soluzioni proposte dal realismo ribaltano i rapporti tra relazioni economiche e politiche; se l’idealismo sosteneva la
superiorità delle relazioni economiche contro la bellicosità delle relazioni politiche, per il realismo le relazioni politiche
sono le più importanti, soprattutto quelle politiche-militari, come ultima istanza se si vuole avere ordine. Altra soluzione
proposta è il recupero della sicurezza nazionale perché la sicurezza collettiva non ha fermato hitler, né fermerebbe
l’Unione Sovietica. La sicurezza collettiva funziona con i più deboli e non con i più forti perché essi detengono i
meccanismi della sicurezza collettiva. Per poter vincere le guerre necessarie è necessario evitare le altre; la soluzione è
quella di dire che la guerra è uno strumento INELIMINABILE ed ESTREMO al servizio della sicurezza nazionale, e se
così non è, meglio evitarle per non perdere risorse.
Nel discorso realista non ci sono salti, rimane tutto uguale ; la
politica internazionale è immutabile e pertanto rimane il regno della ricorrenza e della ripetizione.
Il realismo si sviluppa durante la guerra fredda perché era la lingua giusta, in quanto trattava gli stessi problemi politici
che caratterizzavano quel contesto bipolare. All’epoca del bipolarismo aveva la giusta risposta al problema della
cooperazione ; non viene esclusa ma ciò che conta è quello che avviene dentro le alleanze.
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Il Realismo inizia ad essere sfidato con l’affermarsi di nuovi approcci ovvero Le TEORIE NEOMARXISTE e
RADICALI, che si diffondono tra gli anni ’60 e gli anni ’70, con l’inizio della decolonizzazione e la nascita di nuovi
stati indipendenti. Questi approcci non nascono tanto per il successo della decolonizzazione, ma per il disincanto che
arrivò dopo perché nulla era cambiato e la dipendenza con i paesi dominanti era ancora più salda. C’erano infatti, alla
base solidi rapporti economici e sociali che non potevano essere sradicati.
Il problema delle scienze marxiste è come spezzare questa dipendenza. le scienze marxiste devono portare a una
rispalizzazione della politica internazionale
ora il conflitto che conta è Nord/ Sud e non più est/ovest.
Riprendendo l’idea idealista, le scienze marxiste considerano importanti le relazioni economiche ma in maniera diversa
perché per loro le relazioni economiche e l’interdipendenza non risolvono il conflitto; se io voglio comprendere una
realtà sociale devo andare a vedere dov’è il conflitto.
Le soluzioni proposte da queste teorie sono: la rivoluzione internazionale e lo sganciamento; poiché l’interdipendenza
riproduce sempre le disuguaglianze è necessario sganciarsi dal sistema capitalistico mondiale.
Come gli idealisti anche i radicali-marxisti considerano la discontinuità della politica internazionale: c’è la possibilità
che cambi e che ci sia un salto.
1° APPORTO: complicazione spazio politico internazionale;
2° APPORTO: teorie marxiste reintroducono la dimensione del lungo periodo;
non c’è solo il ‘900 ma per comprenderlo è necessario immergersi nel passato.
3° APPORTO: queste teorie pongono un rapporto continuo tra conflitti interni e
internazionali (es. teoria della Dependencia studia le ragioni di dipendenza tra
Usa e
America Latina, non solo la struttura istituzionale ma quella interna; es.
AfghanistanUsa- Arabia Saudita: bisogna colpire la gerarchia internazionale per indebolire la
loro
elitè dirigenziale interna.
Queste teorie sono scomparse sia con il crollo dell’Unione Sovietica dove queste scienze si collocavano, sia perché non
rispondono ai problemi ma ne pongono degli altri. Il successo delle tigri asiatiche che avevano adottato teorie
economiche opposte alla teoria della Path Dependencia a partire dagli anni ’80, e l’indipendenza della Cina sono un
chiaro esempio della scarsa credibilità di queste teorie.
Il 4° approccio è L’ISTITUZIONALISMO LIBERALE che non nasce da uno shock ma da una convinzione che si
diffonde a partire dagli anni ’70-’80. Si diffonde l’idea che tra i paesi più forti ( Europa, Usa e Giappone) le relazioni
non siano più di carattere politico militare ma siano già diventate relazioni economiche; comincia pertanto ad apparire
improbabile un conflitto tra questi paesi. Lo shock petrolifero dimostra infatti quanto siano importanti le
interdipendenze economiche. Le prime ragioni dunque di comparsa di questo approccio sono economiche e
commerciali. L’altra ragione legata alla nascita di questo approccio è il declino americano; con il crollo di Bretton
Woods, la sconfitta in Vietnam, lo scandalo Watergate e l’invasione russa in Afghanistan appare sempre più evidente la
possibilità di un declino dell’egemonia americana. Ma se davvero c’è un declino cosa succede alle interdipendenze
economiche? Le interdipendenze economiche si ribaltano perché sono un prodotto dell’egemonia americana.
La soluzione istituzionalista pone al centro il ruolo delle ISTITUZIONI; l’invenzione delle istituzioni come la Banca
Mondiale, il FMI, sono un prodotto dell’egemonia americana ma gli istituzionalisti pensano che una volta consolidate
le istituzioni possono vivere anche senza egemonia. Anche se gli Usa entreranno in declino le istituzioni riusciranno a
mantenere stabile l’economia. Cambiano inoltre anche il discorso anarchico:
1)Se in un sistema anarchico si introducono delle istituzioni consolidate le cose cambiano perché le istituzioni
abbassano i costi di transizione quindi è più facile maturare accordi.
2) le istituzioni diminuiscono l’incertezza e la paura reciproca perché c’è un continuo scambio di informazioni
istituzionalizzate.
3) le istituzioni consolidate diminuiscono la propensione all’inganno perché se inganno qualcuno è possibile che io
ritrovi la stessa persona in un altro negoziato e quindi se io baro posso avere delle ripercussioni in altre trattative.
Gli istituzionalisti rifiutano l’idea liberale della politica internazionale fissa così come l’idea realista della politica
internazionale come grande salto. Il dibattito tra neoliberalismo e liberalismo è centrale nello studio delle relazioni
internazionali; se per i realisti la dimensione più importante è quella politico militare per i neo liberali non è più così. Se
per i realisti le istituzioni internazionali non cambiano nulla, per i liberali non è così perché avendo le istituzioni ci si
preoccupa di più dei guadagni assoluti e non più relativi. Se per i realisti le istituzioni funzionano perché non si mettono
contro il paese più forte, per i neoliberali le istituzioni non sono una maschera del paese più forte ma funzionano perché
sono consolidate e pertanto regolano il potere.
Cose in comune realisti- neo liberali: a) gli stati sono gli attori fondamentali del sistema internazionale, b) gli stati sono
per entrambi egoisti e razionali, c) l’identità degli stati è definita, sono incapaci di apprendere perché il loro problema è
cosa ottenere e quanto ottenere.
6
Da qui parte il 5° approccio, il COSTRUTTIVISMO che mette in dubbio questi 3 assunti; si afferma dagli anni ’70 a
partire da uno shock, ovvero la fine della guerra fredda che porta a una decostruzione di identità, di stati, di regioni e di
spazi. Gli stati non sono più gli attori fondamentali.
Il problema che si pongono i costruttivisti è come ricostruire l’ordine (come inventare un nuovo ordine e su che cosa?).
La soluzione proposta è molto simile a quella liberale, ovvero le istituzioni già emergenti e consolidate; comprendere le
istituzioni significa superare la dimensione stato- centrica perché nelle istituzioni mature ci sono soggetti diversi dallo
stato ( società civile, organizzazioni non governative). Rispetto ai liberali tuttavia, i costruttivisti si aspettano molto di
più dalle istituzioni che devono secondo loro, rappresentare più soggetti. Le istituzioni devono cambiare il concetto di
sicurezza e riplasmare le identità degli attori per cambiare l’anarchia; sta ai soggetti nazionali la possibilità di non
vivere più la sicurezza come una minaccia.
L’immagine del tempo per i costruttivisti è una frattura assoluta; per cambiare l’anarchia è necessario un salto nuovo.
In sostanza:

Realismo (Hans Morgenthau, Edward Carr, Reinhold Niebuhr) e Neorealismo (Kenneth Waltz, Robert Gilpin).
Lo Stato è considerato l'attore principale delle relazioni internazionali e il conflitto, specie (ma non solo) nella
sua declinazione bellica, come il carattere predominante della realtà internazionale. I rapporti fra i vari attori
del sistema internazionale si baserebbero soprattutto sul potere. L'alto livello di bellicosità riscontrabile in tali
rapporti sarebbe dovuto al fatto che gli attori, essenzialmente mossi per un verso dalla lotta per il predominio,
per l'altro dal dilemma della sicurezza generato dalla condizione anarchica della politica internazionale, si
trovano in una condizione analoga allo stato di natura hobbesiano.

Idealismo (Immanuel Kant, Woodrow Wilson, Alfred Zimmern) e Neoliberalismo (Robert Keohane, Stephen
D. Krasner). Viene posto l'essere umano al centro delle relazioni internazionali e si considera la pace perpetua
come un fine possibile (ad esempio attraverso la creazione di regimi internazionali, o grazie all'interdipendenza
economica fra le nazioni). Secondo il punto di vista di idealisti e neoliberali, il conflitto non è un dato
immutabile, giacché fra gli attori del sistema internazionale è riscontrabile una sostanziale comunanza di
interessi.

Marxismo (Lenin, Teorie della dipendenza) e Neomarxismo (Immanuel Wallerstein). Il sistema internazionale
è considerato come diviso tra Stati che hanno (capitale e conoscenza) e Stati che non ne hanno e che vengono
sfruttati. Tre sono stati i contributi fondamentali di questa teoria:1) Riorientamento dall'asse Est/Ovest all'asse
Nord/Sud delle relazioni internazionali 2) Riscoperta del lungo periodo nello studio delle radici dell'economiamondo capitalista 3) Riannodare le relazioni tra conflitti interni e conflitti internazionali

Postmodernismo, Teoria critica, Costruttivismo. Questi tre approcci non formulano teorie per la lettura del
sistema internazionale, ma muovono una critica radicale ai precedenti approcci: in particolare il
Postmodernismo critica le metodologie positivistiche di Realismo, Liberalismo e Marxismo; la Teoria critica
afferma che qualsiasi teoria sia viziata da un pregiudizio ideologico; il Costruttivismo ritiene che la realtà sia
essenzialmente una costruzione sociale (e quindi non un "qualcosa di dato", come affermato dalle altre teorie).
EQUILIBRIO DI POTENZA ( a balance of power)
Nell’uso corrente per equilibrio di potenza si riferisce a qualsiasi distribuzione di potenza, sia essa equilibrata o meno.
In realtà la migliore definizione si riferisce ad una situazione nella quale NESSUN ATTORE, da solo o tramite
alleanza, può dominare tutti gli altri.

È necessario che la distribuzione di potenza sia diffusa, ma che non sia in grado di sconfiggere tutti gli altri
attori insieme, perché in tal caso la situazione sarebbe squilibrata.

Una diffusione di potenza non è sufficiente a garantire l’equilibrio.

Inoltre l’ultima condizione riguarda il comportamento degli attori, che devono far prevalere una tendenza alla
politica di bilanciamento. Piuttosto che alla politica di sbilanciamento. ( gli attori devono allearsi con il più debole
contro il più forte (balncing) e non viceversa (bandwagoing))
EFFETTI DELL’EQUILIBRIO:
7
1. il sistema internazionale rimane plurale in quanto non riescono ad emergere egemonie così forti da
dominare l’intero sistema.
2. gli attori piccoli e poco potenti tendono a sopravvivere
3. ci sarebbero meno guerre. In quanto se nessuno può dominare sugli altri, si genererà una situazione di
muta deterrenza.
L’equilibrio di potenza è influenzato dalla tradizione realista. Ci sono però dune punti diversi sul funzionamento
dell’equilibrio. C’è chi ritiene che l’equilibrio emerga VOLONTARIAMENTE come frutto di esplicite scelte da parte
delle principali potenze. Altri (REALISMO STRUTTURALE) sostengono che l’equilibrio venga a verificarsi
SPONTANEAMENTE.
Un esempio emblematico della teoria volontaristico è quella di Kaplan che afferma come siano necessarie delle regole
per il funzionamento di un meccanismo di equilibrio: gli stati dovrebbero opporsi a qualsiasi stato o coalizione ce cerchi
di assumere una posizione di dominio sul sistema. Inoltre prevede ce gli stati in guerra dovrebbero fermarsi prima della
distruzione del paese vinto, e dargli l possibilità di reintegrarsi nel sistema, in modo tale da poter sfruttare poi coalizioni
future con gli stati vinti.
Per la scuola inglese enfatizza la possibilità da parte degli stati di condividere regole di governo. Tali regole
internazionali consentirebbero il mantenimento dell’ordine internazionale e il perseguimento di alcuni obiettivi primari:
mantenimento dell’indipendenza degli stati e della società internazionale. L’equilibrio di potenza non sarebbe dunque
solo espressione della politica estera di uno o più stati, ma una norma generalizzata di condotta propria della società
degli stati, i quali conformandosi ai suoi precetti garantirebbero la stabilità internazionale.
La versione attualmente più influente sulla teoria dell’equilibrio di potenza è quella sistematica, secondo il quale
l’equilibrio emerge spontaneamente.
Il principio del self-help induce infatti gli stati a schierarsi con il più debole contro il più forte. Se si astenessero
dall’allinearsi contro il più forte, si troverebbero prima o poi alla mercé dello stato che ha maggiori capacità di
minacciare la sicurezza o addirittura la sopravvivenza. In secondo luogo, se gli stati si alleassero con il più forte, forse
otterrebbero dei vantaggi maggiori nel breve periodo ma poi sarebbero costretti ad affrontare uno stato espansionista e
rafforzato dalle ultime conquiste. Se il sistema è anarchico l’equilibrio si verifica sempre e comunque, qualsiasi sia il
livello di sviluppo, il regime politico o preferenze ideologiche. La politica internazionale avrebbe caratteristiche
OMEOSTATICHE, nel senso ce una potenziale fonte di instabilità genera spontaneamente controforze contrarie. Tanto
più forte è lo shock esogeno che minaccia l’equilibrio, tanto più forti saranno gli incentivi a contrastarlo.
Secondo la TEORIA DEL DOMINIO ( Bandwagoninig) prevede che anche un piccolo spostamento nella distribuzione
di potenza di potenza scateni ulteriori cambiamenti dello stesso segno. La teoria del domino fu una teoria geopolitica
statunitense, avanzata sia dai democratici che dai repubblicani, durante la Guerra Fredda. La teoria asseriva che se una
nazione chiave in una determinata area fosse stata presa dai comunisti, le nazioni vicine sarebbero cadute come pezzi di
un domino, diventando anch'esse comuniste una dopo l'altra.
Mentre nella teoria dell’equilibrio prevale una tendenza alla stabilità e alla naturale compensazione di cambiamenti ,
nella teoria del dominio l’instabilità è frequente.
FLESSIBILITA NEGLI ALLINEAMENTI:
In entrambe le versioni volontaristiche o spontanee, la teoria sul’’equilibrio sottintende che gli stati si alleino in base a
condizioni esterne come la distribuzione di potenza e non in base alle preferenze ideologiche. Le alleanze di equilibrio
infatti, non sono mai PER qualcuno ma sono sempre CONTRO qualcuno. Esso è definito non per la sua specifica
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identità ma in termini della potenza n quel momento disponibile. Il più stretto degli alleati potrebbe diventare , se il suo
potere crescesse eccessivamente, la più mortale delle minacce mentre il peggiore dei nemici potrebbe diventare, se il
potere diminuisse, il migliore degli alleati. Sembra dunque che le considerazioni ideologiche passino in secondo piano
quando le esigenze di equilibrio lo richiedano in modo impellente. ( vedi Unione sovietica e Usa 2 guerra mondiale)
TIPI E FORME DI EQUILIBRIO:
Un dibattito ha percorso la disciplina sulla relativa propensione all’equilibrio di vari sistemi internazionali in base al
numero di grandi potenze.
Il realismo classico ha sostenuto la preferenza per le configurazioni MULTIPOLARI ( con più di 2 grandi potenze)
sottolineando il legame tra il meccanismo dell’equilibrio di potenza e un elevato numero di attori. Se le risorse nazionali
sono suddivise tra un numero di stati maggiori di due, allora sarà possibile mobilitare contro qualunque stato che
intraprenda un espansionismo eccessivo, una quantità maggiore di risorse rispetto all’aggressore. Dunque se uno stato
ha molteplici controparti, disperderà tra esse la sua attenzione e pertanto sarà più difficile che entri in una competizione
mortale con un altro stato in particolare. Invece di rincorrersi l’un l’altro, gli stati possono quindi ricorrere ad alleanze
che ne garantiscono la sicurezza e che compensino le accresciute capacità di un potenziale avversario.
Il realismo strutturale sostiene invece il BIPOLARISMO. Questa teoria presuppone 2 singole potenze. è esattamente
l’opposto, l’indeterminatezza è al minimo e le amicizie e le inimicizie sono dettate dal sistema internazionale. Ciascuna
delle 2 potenze conosce il proprio nemico e sa che le minacce provengono solo da esso. Ciò porta ad una minore
dispersione di risorse da parte degli stati, ma anche la conseguenza che devono rispondere agli attacchi in prima
persona. In un mondo bipolare, un’azione di una superpotenza provocherà immediatamente una risposta. Esempio: gli
Usa sanno che il loro nemico è l’URSS quindi la politica di sicurezza americana sa cosa fare, qual è l’obiettivo e qual è
il problema.
Se nei sistemi multipolari parte della sicurezza di uno stato dipende dai propri alleati, ci potrebbe essere una pericolosa
tendenza a s0stenerli a qualsiasi costo nel timore di perderli, e questo potrebbe allargare un conflitto agli stati minori
coinvolgendo tutti gli alleati. Al contrario, in un sistema bipolare le superpotenze possono o debbono contare
esclusivamente sulle proprie forze. Mentre il multipolarismo garantisce flessibilità degli allineamenti, ma rigidità nelle
strategie ( sottostare alla necessità degli alleati), nei sistemi bipolari la rigidità degli allineamenti offre agli stati una
spiccata flessibilità nelle strategie. Se da un lato gli stati temono di essere abbandonati dai propri alleati nel momento
del bisogno, temono altresì di venire intrappolati dai propri partner a perseguire obiettivi altrui solo per poter mantenere
l’alleanza in vita. è necessario a spiegare la persistenza dell’equilibrio che le grandi potenze, con la loro diplomazia e
politica estera vogliano mantenerlo.
EQUILIBRIO DI MINACCIA:
Un altro interessante dibattito riguarda la natura delle variabili che influenzano il comportamento di bilanciamento e
quindi l’equilibrio di potenza.
Una teoria più complessa sull’equilibrio è basata sulla MINACCIA e non sulla potenza. Gli stati non creerebbero delle
alleanze contro lo stato più potente ma contro quello più minaccioso.
La minaccia dipende da 4 variabili:

potenza aggregata (capacità a disposizione di uno stato)

tecnologia militare (grado in cui le capacità sono in grado di essere trasformate in potere offensivo)

geografia ( il potere è tanto più minaccioso quanto più vicino)

intenzioni ( uno stato più aggressivo sarà ritenuto più minaccioso di quello che non ha nessuna ambizione
espansionistica)
EQUILIBRIO DI POTENZA E PREFERENZE DEGLI STATI:
L’ultima questione , collegata a quella delle intenzioni offensive degli stati è costituita dal rapporto tra balance of
power e preferenze originate dalla natura interna degli stati, nel senso delle spinte ideologiche e dei meccanismi
istituzionali che determinano la politica estera. Le relazioni internazionali, a questo proposito, fanno una distinzione tra
potenze conservatrici e potenze revisioniste, ovvero interessate al cambio anche violento dell’ordine.
Secondo i meccanismi di bilanciamento si innescano contro quelle potenze che sono revisioniste. Da questo approccio
discende una classificazione dei vari sistemi internazionali a seconda che siano omogenei o eterogenei. I sistemi di
primo tipo sono caratterizzate da visioni ideologiche di tipo conservatore ( possono esserci conflitti ma solo relativi ad
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assetti istituzionali), mentre gli eterogenei sono quelli che hanno una visione della politica radicalmente differente da
quella comune. Questi sistemi sono intrinsecamente più instabili in quanto, oltre ai normali obiettivi di politica estera,
le potenze hanno anche un’agenda rivoluzionaria che mira a modificare gli assetti di politica interna degli stati. I
conflitti saranno dunque più sanguinosi.
Secondo il REALISMO DIFENSIVO o neoclassico, il meccanismo dell’equilibrio di potenza tende ad essere un
sufficiente deterrente per la maggior parte degli stati perché questi cercano sicurezza e si accontentano quando ne
raggiungono un ragionevole livello. Solo pochi stati non si accontentano nel cercare sicurezza, ma vogliono anche
massimizzare il proprio potere fino al raggiungimento di una posizione egemonica e non sono quindi facilmente
contenuti nella prospettiva di una coalizione contro di loro. In questi casi l’equilibrio fallisce perché un’efficace
deterrenza contro questi stati è davvero difficile.
Schweller considera importanti le intenzioni degli stati per il funzionamento dell’equilibrio di potenza, dal momento
che stati revisionisti difficilmente si alleerebbero contro stati conservatori. Schweller individua 4 tipi di stati differenti:
1. quelli estremamente orientati alla difesa dello status quo ( leoni, Gran Bretagna)
2. quelli interessati allo status quo ( agnelli, Europa Orientale)
3. quelli interessati al revisionismo ( lupi, Germania nazista)
4. quelli che si adoperano a guadagnare vantaggi opportunistici da un cambiamento degli assetti internazionali.
(sciacalli, Italia fascista)
La stabilità non dipende solo dalla logica dell’equilibrio, ma anche dal bilanciamento di queste forze ( leoni e agnelli
contro lupi e sciacalli).
Egli sostiene inoltre che uno stato per poter contrastare una minaccia deve poter essere in grado di mobilitare le risorse
a sua disposizione. La strategia migliore per uno stato dipenderà anche dal consenso fra le sue elité.
Riassumendo:
REALISMO STRUTTURALE / OFFENSIVO: è sufficiente che stati in una condizione anarchica vogliano
sopravvivere perché si manifestino politiche sistematiche di bilanciamento.
REALISTI CLASSICI: la sola struttura non è in grado di spiegare la persistenza dell’equilibrio, ed è necessario a
spiegare la persistenza dell’equilibrio ed è necessario che le grandi potenze, con la loro diplomazia e politica estera
vogliano mantenerlo.
REALISMO ETERODOSSO: introduce oltre all’abilità diplomatica, una dimensione ideologica per la quale alcuni stati
producono maggiore instabilità con le loro finalità rivoluzionarie.
REALISTI DIFENSIVI: capacità e volontà di mantenere l’equilibrio dipendono dalla politica interna.
RISCONTRI STORICI DELL’EQUILIBRIO DI POTENZA:
Il ragionamento di fondo dell’equilibrio di potenza sottolinea che una distribuzione equilibrata della potenza è la
migliore condizione per l’efficace funzionamento dei meccanismi della reciproca deterrenza e quindi, per trattenere gli
attori dal conflitto aperto. Nei rapporti diadici se la potenza di un attore eguaglia quella di un altro attore, allora
entrambi sanno che la guerra fra di loro avrà un esito molto incerto e produrrà costi elevati: di conseguenza essi s
asterranno dal conflitto. In una situazione di potenza diffusa implica l’esistenza di più grandi potenze di peso simile che
si possono coalizzare fra di loro per sventare un attacco di qualsiasi attore, che sarà dunque dissuaso dal tentarlo.
La letteratura ha cercato di individuare risorse che rendono potenti gli stati, mettendoli in grado di minacciare o
difendersi dai propri avversari:
COW PROJECT: ha prodotto un indice di potenza che aggrega diverse dimensioni delle capacità degli stati:



peso demografico
peso economico
peso militare
il computo delle risorse non risolve il problema della ricerca empirica sull’equilibrio di potenza, così è stato costituito
un ulteriore indice che studia i livelli di concentrazione. E’ dunque un indicatore che calcola la capacità dei singoli stati
e come sono diversamente dotati di risorse. In questo modo si può individuare gli stati che hanno una potenza
concentrata, ovvero diffusa.
IPOTESI MASSIMALISTA: Una distribuzione equilibrata di potenza porta ad una riduzione della guerra in generale.
(guerra di per sé)
IPOTESI MINIMALISTA: Una distribuzione equilibrata di potenza porta ad un aumento della stabilità del sistema
internazionale. Sottolinea in realtà che la guerra è uno degli strumenti con cui gli stati hanno tradizionalmente
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conservato l’equilibrio. L’ipotesi si riferisce a quelle guerre che eliminano dal sistema i. alcuni dei suoi membri
rilevanti. La guerra che vede combattere le grandi potenze del sistema ha come posta in gioco la difesa dello stesso
attore o coalizione di attori che vuole conquistare il controllo. Questa teoria prevede che l’equilibrio di potenza
impedisca che la politica espansionistica di un qualunque attore possa esplicarsi fino al raggiungimento di una
situazione egemonica e mettere a rischio l’indipendenza di tutti gli attori. “ dire che un sistema politico internazionale è
STABILE significa 2 cose: primo che esso resta anarchico, 2 che nessuna variazione ha luogo nel numero delle parti
principali costituenti il sistema”.
Diversi elementi testimoniano a favore delle aspettative empiriche dell’equilibrio di potenza nella loro versione minima.
Tuttavia queste evidenze sembrano riguardare solo periodi circoscritti della storia internazionale. Ci sono autori infatti
che sostengono che la parità di potenza fra gli stati sarebbe proprio la condizione che rende più probabile la guerra,
poiché quando la potenza è distribuita in modo equilibrato fra 2 attori uno di loro può sperare di vincere la guerra; e che
la guerra sarà meno frequente quando la potenza è distribuita in modo squilibrato, ovvero quando è concentrata.
MANSFIELD suggerisce il rapporto tra distribuzione delle capacità degli attori nel sistema internazionale e
l’occorrenza della guerra non sarebbe monofonico ma curvi lineare, nella forma di una U invertita. Quando la potenza è
diffusa, la probabilità di guerra sarebbe bassa, al crescere della concentrazione la guerra scoppierebbe più
frequentemente ma, superata una certa soglia, la probabilità del conflitto tornerebbe bassa.
EQUILIBRIO DI POTENZA E POLITICHE DI BILANCIAMENTO:
Il bilanciamento è l’aspettativa empirica che riguarda il comportamento degli attori del sistema internazionale. In base a
questa aspettativa la tradizione dell’equilibrio di potenza prevede che, quando un particolare attore cerca di
massimizzare la propria potenza e di conquistare una posizione egemonica nel sistema internazionale, la risposta degli
altri attori sarà di opporre all’aspirante egemone una quantità di potenza sufficiente a equilibrare i rapporti di forza, così
da sventrare l’attacco.
Gli stati della variabile dipendente che confermano l’equilibrio di potenza possono assumere forme diverse:
1. autorestrizione dell’aspirante egemone che anticipa le politiche di bilanciamento diplomatico di fronte alla
concentrazione di potere nel sistema
2. politiche di bilanciamento diplomatico di fronte alla concentrazione della potenza in capo a un attore del
sistema.
3. la formazione di uno schieramento di bilanciamento in una guerra che contrappone le grandi potenze del
sistema all’aspirante egemone.
La ricerca empirica si è concentrata sulle ultime 2 forme. La letteratura sottolinea, infatti, come i tentativi di conquista
del sistema internazionale che si sono storicamente verificati sono stati costantemente accompagnati dalla formazione di
coalizioni antiegemone e dei suoi alleati, portando alla periodica riorganizzazione politica dell’intero sistema.
Anche l’aspettativa empirica circa il comportamento degli attori ha trovato critiche significative. Infatti le grandi
potenze tengono comportamenti diversi dal bilanciamento : quest’ultimo non può dunque essere considerato un
comportamento che ci si deve aspettare ma solo una delle possibili risposte. Schroeder infatti sostiene che nel periodo
tra 1684 e 1945, il periodo rispetto a cui vi è alto consenso circa la validità del paradigma realista, gli attori
internazionali hanno seguito strategie differenti di bilanciamento. Per esempio fu adottato l’hiding (nascondersi dalla
minaccia, sottrarsi dal conflitto o rimanere neutrali) il transcending (risolvere il conflitto attraverso accorgimenti
istituzionali basati sul consenso internazionale o su atti formali). Oppure il bandwagoning. A queste strategie sono
ricorsi sia stati grandi che piccoli, rendendo il bilanciamento una strategia rara e spesso di ultima istanza.
EQUILIBRIO DI POTENZA E IL SISTEMA INTERNAZIONALE CONTEMPORANEO:
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COBDEN sostiene infatti che l’equilibrio sa una pura illusione, un concetto privo di un significato concreto. Inoltre,
questa teoria, non offre strumenti precisi per definire la potenza degli stati né tantomeno strumenti per limitare o
annullare l’effetto di aumento di potenza. Derivante da mezzi pacifici quali il commercio o la produzione.
La critica più radicale sostiene che l’equilibrio di potenza poteva essere frequente fino alla fine del XIX secolo , ma che
alcune trasformazioni della politica interna lo hanno reso obsoleto nel sistema contemporaneo.

Massificazione della politica: avvenuta negli ultimi 100 anni ha indotto gli stati a dover giustificare le proprie
scelte al pubblico. Queste ultime hanno prodotto politiche estere più ideologiche che legittimano la scelta in base ai
principi ideali. Inoltre le democrazie tendono ad allearsi tra loro a prescindere dalle variabili di potenza.

Accelerato ritmo di innovazione tecnologica che rende sempre più difficile calcolare l’impatto delle risorse
sugli stati.

Rapporto con la guerra: sebbene l’equilibrio, secondo i suoi sostenitori, ridurre l’incidenza o l’intensità dei
conflitti armati, sicuramente non li elimina completamente. Anzi, la guerra a volte è necessaria per ristabilire
l’equilibrio.
Ikenberry segnala che vi sono 3 possibili tipi di ordine nella politica internazionale: quello dell’equilibrio (spontaneo),
quello costituzionale (negoziato) e quello egemonico (imposto). L’insoddisfazione verso il primo tipo, ha indotto a
spostare l’attenzione sugli altri 2. Da un lato, in seguito alla Prima guerra mondiale che era stata attribuita almeno in
parte il fallimento del sistema di alleanze basato sull’equilibrio di potenza, è stato introdotto il concetto di sicurezza
collettiva. Si tratta di una soluzione istituzionale, alternativa all’equilibrio, che ha ispirato la costituzione della Società
delle Nazioni e, dopo il 1945 delle Nazioni Unite.
Dal momento che i meccanismi di balancing erano inaffidabili, la sicurezza collettiva mira ad introdurre un
meccanismo più certo, istituendo un OBBLIGO legale a sostenere le vittime di un attacco e promettendo protezione
all’intero sistema internazionale.
Le organizzazioni di sicurezza non abbiano avuto risultati decisivi, ma solo parziali. Altri hanno ipotizzato un
mantenimento della stabilità internazionale che poggia non tanto su un equilibrio quanto su una chiara gerarchia di
potenza, con un attore dotato di una forza preponderante sugli altri. 1
EGEMONIA cap.3
Il termine egemonia definisce la supremazia di uno stato che, sulla base di risorse di varia natura, ha una preminenza
sulle altre unità statuali. Stati dominanti che esercitano autorità parziale sopra multipli subordinati sono stati
tradizionalmente considerati egemoni e l’ordine sociale che creano è l’egemonia.
L’egemonia designa l’influenza che una grande potenza stabilisce sopra gli altri stati del sistema, e che può variare
dalla leadership al dominio. L’estensione dell’egemonia può riguardare l’intero sistema politico internazionale, oppure
essere limitata a un sottoinsieme regionale.
In termini generali è possibile descrivere la politica internazionale come una successione di ordini che vengono imposti
al mondo della potenza egemone di turno, per cui l’evoluzione di qualsiasi sistema è stata caratterizzata dal successivo
emergere di stati potenti che hanno governato il sistema stabilendo i modelli delle interazioni internazionali e le regole
del sistema affermando il proprio ruolo attraverso guerre di ampia portata. (egemonia americana dopo il ’45). È
Le teorie sull’equilibrio poggiano su un principio opposto a quelle dell’egemonia. Le prime infatti
presuppongono che la stabilità internazionale richieda una simmetria nella distribuzione di potenza, che produce mutua
deterrenza. La crescita asimmetrica porta all’instabilità. Al contrario, le politiche egemoniche si reggono sul
presupposto che solo una chiara gerarchia delle capacità può portare alla stabilità, che tende a diminuire in caso di
declino della potenza predominante.
1
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possibile suddividere le teorie dell’egemonia tra TEORIE OLISTICHE, che hanno come unità d’analisi il sistema
internazionale e le TEORIE RIDUZIONISTE, che hanno come unità di analisi lo stato e le relazioni tra stati.
Tutte le teorie sull’egemonia sono accumunate da un’idea di fondo: che la stabilità del sistema internazionale dipenda
da una concentrazione di potenza, cioè da una distribuzione diseguale della potenza all’interno del sistema stesso.
Tanto più è evidente la disparità nella distribuzione di potenza tra egemone e sfidanti, tanto meno probabile sarà il
ricorso alla guerra. I teorici dell’egemonia accettano l premessa realista della natura anarchica dell’area internazionale,
ma ritengono che l’ordine derivi dalla concentrazione di potere e che quando l’ordine è assente, il disordine
contraddistingue la politica. La fonte massima di instabilità è legata al declino della potenza dominante che concede
spazio alle aspirazioni degli sfidanti di rimpiazzare l’egemone attraverso una guerra costituente.
L’ipotesi di fondo è che l’ordine internazionale sia nel corso del tempo stabilito dall’esito di una grande guerra
costituente che è all’origine di una nuova epoca. Di solito, nel momento in cui l’egemonia si delinea, l’ordine tende
verso la stabilità. Quando invece l’ordine precedente è messo in crisi da una nuova distribuzione e articolazione del
potere, cioè quando la supremazia dell’egemone vacilla e incomincia a declinare, allora è possibile che il sistema sia
soggetto ad instabilità. La stabilità/ instabilità dell’egemone dipende anche:

Risorse possedute dall’egemone (militari, economiche ecc)

Impegni a cui deve e vuole rispondere

Configurazione del territorio in cui opera

Tipo di egemonia ( coercitiva, benevola o costituzionale)

Attitudine comportamentale degli altri attori
EGEMONIA TRA IMPERO E LEADERSHIP:
secondo la teoria egemonica, ipotizzare che il sistema intero sia anarchico è una semplificazione errata. Esistono,
infatti, relazioni di carattere autoritario. Altrettanto semplicistico è immaginare un sistema internazionale dominato
esclusivamente da rapporti di forza. In realtà le fonti dell’autorità sono molteplici e vanno dalla religione all’ideologia,
fino al commercio. Possiamo dunque distinguere due varianti di egemonia:
LEADERSHIP BENEVOLENTE e LEADERSHIP COERCITIVA. Nel primo caso è esclusivamente il leader che
fornisce il bene collettivo della sicurezza e dell’implementazione dei regimi internazionali, lasciando gli altri stati liberi
dall’onere di contribuire. Nel secondo caso l’egemone impone la partecipazione all’ordine economico e ai regimi
internazionali e costringe gli altri attori a condividere i costi del bene collettivo attraverso tassazioni. Per un egemone
coercitivo la possibilità di sfruttare gli altri sono normalmente circoscritte; in caso contrario aumenteranno le
probabilità di sfide e il costo complessivo dell’egemonia. 2
Nella pace egemonica, l’assenza di guerre dipende dalla superiorità incontestabile di una delle unità, ma tuttavia, lo
stato egemonico non cerca di assorbire le unità ridotte all’impotenza. Per gli stati più potenti, l’aspirazione
all’egemonia ha un’attrattiva, ma questa non la rende priva di costi.
IKENBERRY individua tre tipi ideali di ordine internazionale:
1. equilibrio di potenza
2. egemonia
2
Definisco egemonia vera la direzione temporanea da parte di uno stato su di uno o più altri stati che diventano
seguaci per effetto di una sottomissione più o meno volontaria.
Definisco impero un sistema istituzionale, in cui la classe politica ha ottenuto ed esercita stabilmente potere
sulla classe politica di uno o più sintesi politiche precedentemente sovrane, senza però dissolvere o assorbire queste
ultime.
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3. costituzionalismo
In questa prospettiva l’egemonia non è altro che una modalità di realizzazione dell’ordine. Se gli stati-guida e quelli
secondari sono disposti a realizzare un ordine basato su istituzioni vincolanti, l’ordine assumerà caratteristiche
costituzionali. Le istituzioni, che l’egemone stesso crea, giocano un ruolo determinante per la stabilità. Esse mentre
tutelano i più deboli, consentono allo stato-guida di esercitare la propria egemonia risparmiando il potere politicomilitare. Le istituzioni si assumono il compito di tutelare l’ordine e la collaborazione.
IL TEMA DEL CAMBIAMENTO E IL RUOLO DEL CONFLITTO:
Robert Gilpin analizza il concetto di cambiamenti nel campo delle relazioni tra stati articolandolo su 3 livelli:

il mutamento dei sistemi che riguardano la natura degli attori o dei diversi enti che compongono un sistema
internazionale ( es. da impero a stati)

mutamento sistemico: un cambiamento nella forma di controllo o governo di un sistema internazionale

mutamento di interazione: un cambiamento che risulta da regolari interazioni o processi tra entità del sistema
internazionale.
Si ha mutamento sistematico quando si produce una frattura tra il sistema sociale esistente e la redistribuzione del
potere nei confronti di quegli attori che trarrebbero più vantaggio da un cambiamento di sistema. Solo la presenza di un
egemone può garantire una duratura stabilità al sistema, ma quest’ultima è resa difficile da una serie di fattori come una
diseguale distribuzione del progresso tecnologico ed economico.
Gilpin riassume gli effetti di un cambiamento sistematico:
1. un sistema internazionale è stabile se nessuno stato ritiene vantaggioso un mutamento del sistema
2. uno stato tenterà di mutare il sistema internazionale se i benefici attesi superano i costi
3. uno stato cercherà di cambiare l’assetto internazionale attraverso l’espansione territoriale, politica ed
economica fino a quando i costi marginali non eguagliano i benefici
4. una volta raggiunto l’equilibrio tra costi e benefici relativi a ulteriori cambiamenti, i costi economici del
mantenimento dello status quo tendono a crescere più rapidamente della capacità economica di sostenere lo
status quo
5. se non si risolve lo squilibrio del sistema internazionale, il sistema verrà modificato e si stabilirà un nuovo
equilibrio che rifletterà le redistribuzione del potere.
Secondo la TEORIA DELLA TRANSIZIONE DI POTERE, associa direttamente l’esplodere di un conflitto di grandi
dimensioni al mutamento nella struttura di potere all’interno del sistema politico internazionale.
Quanto più la distribuzione delle capacità politiche ed economiche e militari tra gli stati membri del sistema
internazionale si distribuisce equamente, tanto più cresce la possibilità di guerra. Mentre la pace è di fatto meglio
tutelata da uno squilibrio tra nazioni avvantaggiate e svantaggiate. La pace è il risultato di una distribuzione diseguale
del potere, che quanto più è marcata, tanto più scoraggia la tentazione di eventuali sfidanti di ottenere un cambiamento
della propria posizione, all’interno del sistema.
LE RISORSE DELL’EGEMONIA:
Molto ampio è lo spettro di quelle che vengono considerate le risorse dell’egemonia. Le principali sono la supremazia
militare (soprattutto navale), la leadership economica (in particolare commercio) e l’influenza intellettuale.
SUPREMAZIA MILITARE: Nessuna teoria considera la forza militare pura e semplice una fonte sufficiente di
egemonia, ma quasi tutte insistono nella necessaria presenza di una supremazia militare. Un’importanza cruciale è
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rivestita
dal
potere
marittimo.
Le teorie cicliche forniscono la rappresentazione dell’ordine internazionale come il succedersi di egemonie esercitate
dagli stati leader in termini di commercio a lungo raggio e potenza navale. Egemonia È la capacità di proiettare la forza
militare su scala globale che gli consente di acquistare una posizione dominante nell’economia mondiale. È il dominio
dei mari che permette all’egemone di creare un sistema di transazioni commerciali a vasto raggio e di trarne profitto. Un
aspetto fondamentale è sottolineare la relazione tra egemone e sfidante maggiore. se il ruolo della potenza mondiale è
cruciale, non è detto che essa incida su tutte le transazioni che avvengono a livello regionale. Questo fa si che le guerre
globali portino a nuovi sfidanti, attraverso la frattura che si sperimenta nella coalizione vincitrice.
LEADERSHIP ECONOMICA: Wallerstein sostiene nelle teoria dell’economia- mondo che: l’economia-mondo
capitalista ha proceduto attraverso fasi di espansione e di concentrazione, così come sostiene che il grado di
concentrazione del potere passa attraverso cicli con periodi di concentrazione che cedono il passo a periodi di
multipolarità. La relazione tra cicli economici e cicli di potere sta nel diseguale e ingiusto sviluppo dell’economiamondo capitalista, che consente l’emergere periodico di una potenza egemone, con una posizione economica superiore
rispetto agli altri. Secondo W. È possibile parlare di egemonia solo nelle situazioni in cui una grande potenza ha
un’efficienza economica in termini produttivi, commerciali e finanziari. L’egemone acquisisce la propria posizione
grazie ai vantaggi che riesce a realizzare in termini di produttività agricola ed industriale. Questo consente di praticare
prezzi più competitivi. L’apertura dei mercati può essere imposta con la guerra.
È importante sottolineare che nonostante lo sviluppo diseguale abbia prodotto un ciclo ricorrente dell’egemonia, non c’è
certezza che un nuovo egemone emergerà, infatti ci sono lunghi periodi nei quali nessun egemone è evidente.
Secondo W. Le differenza nella distribuzione del potere sono dovute alle differenze in termini di dimensioni e tassi di
crescita dei singoli stati che compongono il sistema i. un ulteriore elemento importante è sicuramente l’aspetto del
progresso tecnologico. Con la modernità, potere economico e ricchezza tendono a coincidere, diventando elementi
decisivi nella distribuzione internazionale di ricchezza e potere nella lotta per l’egemonia. Le dimensioni del paese e il
punto di partenza contano nel determinare la capacità di disturbare l’equilibrio del sistema, almeno tanto quanto la
velocità con cui avviene la modernizzazione.
INFLUENZA INTELLETTUALE:
Per conseguire ad esercitare una vera e propria egemonia, non bastano le risorse materiali, cha danno vita all’ HARD
POWER ( potere militare ed economico) ma è necessario possedere anche il SOFT POWER ovvero la capacità di
attrarre e sedurre: ovvero nell’indurre gli altri a fare ciò che desideri tu. Affinchè l’egemone sia in grado di raggiungere
i suoi scopi in politica internazionale, è necessario che gli altri paesi che ammirano i suoi valori. L’egemonia dunque
nasce dalla combinazione di tutti i tipi di potere: di coercizione, condizionamento e persuasione fondati sostanzialmente
su leadership militare, supremazia economica e sull’influenza intellettuale.
L’egemonia non è solamente un portato della superiorità militare,delle conquiste territoriali, della capacità di controllare
commerci e scambi, ma anche della superiorità culturale, espressione di un primato culturale e scientifico.
LIMITI E ALTERNATIVE ALL’EGEMONIA:
Tutte le teorie sull’egemonia concordano su un punto: ogni egemonia è per definizione temporanea. Tutte le egemonie
sono transitorie perché i costi crescono più rapidamente delle risorse necessarie al loro mantenimento. È dunque
impossibile conservare nel lungo periodo il monopolio delle capacità tecnologiche ed economiche all’origine del
proprio successo. Una combinazione di fattori interni ed esterni determina una seri crisi fiscale per l’egemone che non
ha molte alternative per venirne fuori. Può cercare di capovolgere il trend interno o attaccare l’eventuale sfidante per
ridurre il gap di potere. Oppure può ridurre il livello del proprio impegno internazionale e promuovere alleanze
strategiche con altri stati. Una delle ragioni per cui, nel lungo periodo, i costi di mantenimento dell’ordine nel sistema
arrivano a superare i vantaggi consiste nell’iperestensione o overstretching. Per evitare il rischio di un possibile
overstretching, l’egemone può inizaiare a ritirarsi, cioè a ridurre la propria azione in aree e settori che siano vitali per il
proprio interesse nazionale. Ma questo genera instabilità nell’equilibrio del sistema e può indurre eventuali sfidanti a
tentare la via del conflitto. La crisi dell’egemone segue quindi il percorso contrario rispetto a quello che aveva permesso
la sua ascesa: dispersione dei vantaggi tecnologici, crescita del costo del lavoro, declino commerciale e infine una
minore efficienza finanziaria con una conseguente fuga di capitali.
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EGEMONIA E COOPERAZIONE:
Kindelberg affermava la necessità di uno stabilizzatore, affinché il sistema si mantenesse stabile.
L’esistenza di un egemone non è sufficiente ad assicurare la stabilità, un bene pubblico, fornito dall’egemone ma di cui
possono godere anche gli altri stati. La stabilità può essere assicurata dunque solo quando l’egemone decide di
sopportare i costi necessari per fornire il bene collettivo e riesce a ottenere il sostegno da parte degli altri stati. Individua
inoltre 5 responsabilità che l’egemone si deve assumere affinché il sistema rimanga stabile:
1. mantenere un mercato relativamente aperto per le scorte in caso di difficoltà
2. provvedere alla fornitura di prestiti a lungo termine
3. sostenere il credito durante la crisi
4. gestire la struttura dei tassi di cambio
5. assicurare un certo grado di coordinamento delle politiche monetarie nazionali.
Tali funzioni possono essere sintetizzate nel concetto di infrastruttura economica internazionale. La presenza di un
attore egemone dovrebbe essere la condizione necessaria affinché le norme e le istituzioni che garantiscono la stabilità
del sistema possano essere create, mantenute e applicate. L’egemone dovrebbe assicurare la stabilità e imporre i costi ai
beneficiari oltre che svolgere funzioni di polizia. L’incentivo alla cooperazione da parte degli altri attori coinvolti deriva
dall’interesse egoistico di essi.
Secondo Keohane, l’egemonia facilita la cooperazione mentre il declino rende più difficile la cooperazione, mettendo a
rischio i regimi egemonici e dunque l’ordine e la stabilità internazionale.
ISTITUZIONI INTERNAZIONALI:
Le istituzioni internazionali offrono un quadro di principi e regole che pongono freni all’arbitrio degli stati nei loro
comportamenti reciproci. Inoltre esse consentirebbero ai governi di affrontare problemi sentiti da tutti, di natura
economica, ambientale e sociale. Le istituzioni internazionali sono anche spesso oggetto di scetticismo.
Occorre fare una distinzione tra organizzazione ed istituzione come concetti fondamentali. Un’organizzazione è un
gruppo di individui dotato di una struttura formale e orientato verso un obiettivo comune. Un’istituzione è un insieme di
regole che sfruttano l’interazione tra individui e gruppi definendo i comportamenti permissibili e non permissibili.
Le istituzioni internazionali sono sistemi di regole accettati dai vari stati che stabiliscono come essi devono o non
devono comportarsi gli uni nei confronti degli altri. Le organizzazioni internazionali sono invece entità materiali
composte da persone di vario tipo che usano risorse per perseguire obiettivi stabiliti collettivamente dagli stati che li
hanno creati.
Lo studio delle istituzioni internazionali precede di molto l’affermazione delle Relazioni Internazionali come disciplina
accademica della prima metà del XX secolo. I teorici dello jus gentium del XVII e XVIII secolo miravano a definire le
regole di condotta di stati sovrani, ma ritenevano ogni limitazione del loro potere dovesse provenire dai sovrani stessi
piuttosto che da accordi internazionali. Gli autori ‘700 invece elaboravano piani per la creazione di assemblee di
sovrani, assemblee popolari e corti internazionali che avrebbero dovuto formare la struttura organizzativa per un diritto
internazionale
vincolante.
La nascita della moderna disciplina di Relazioni internazionali all’indomani della 1 guerra mondiale era motivata in
primo luogo dalla volontà di approfondire la conoscenza delle condizioni che favoriscono la cooperazione pacifica tra
gli stati e il ruolo che le istituzioni internazionali possono avere nel promuovere la cooperazione.
ISTITUZIONALISMO REALISTA:
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L’approccio relativo alle relazioni internazionali, fondate sulla cooperazione tra stati, ha portato a due correnti differenti
di pensiero: quella degli idealisti e quella dei realisti (scettici). La prima visione, ossia quella istituzionalista realsita,
vede come le istituzioni internazionali possano avere un’influenza determinante sulle relazioni internazionali e come
esse possano ridurre il conflitto economico, politico e militare tra gli stati. La visione realista ha una posizione un po’
più scettica.
L’istituzionalismo razionalista emerse a partire dei primi anni ’80 in risposta critiche mosse contro di essi, tra i
precursori istituzionalisti ritroviamo il funzionalismo 3 e il neofunzionalismo.
L’istituzionalismo realista nasce come tentativo di mostrare che l’egemonia non è una condizione necessaria per
assicurare la cooperazione in condizioni di anarchia. Keohane dimostra come la cooperazione sia possibile anche in
assenza di un egemone e che le istituzioni internazionali hanno un ruolo essenziale nel promuovere la cooperazione e
specifica che i seguenti assunti sono compatibili con elevati livelli di cooperazione interstatale e che le istituzioni
contribuiscono a realizzare questa cooperazione.
1. la centralità degli stati nelle relazioni internazionali
2. gli stati agiscono secondo i dettami della razionalità strumentale, ossia scelgono la possibilità di azione che
produce maggior utilità.
3. gli stati badano solo ai propri interessi
4. gli stati operano in un mondo anarchico, privo cioè di governo mondiale capace di far rispettare gli accordi,
prevenire o punire comportamenti aggressivi.
L’uso della teoria dei giochi, inoltre, è stato un elemento importantissimo nella ricerca istituzionalista. Esso offre una
serie di preposizioni sul legame tra preferenze individuali, vincoli strategici e le probabilità di esiti cooperativi. Il punto
di partenza della teoria istituzionalista sono le preferenza degli altri stati. L’istituzionalismo razionalista tratta le
preferenze come esogene rispetto alla teoria stessa, cioè le prende come date senza chiedersi come siano nate. La teoria
si presenta dunque come parziale, in quanto risulta necessario spiegare quello che gli stati vogliono quando agiscono
sulla scena internazionale.
Il meccanismo causale tra gli interessi e le istituzioni è la razionalità strumentale, cioè una forma di razionalità che si
interroga sui mezzi migliori per ottenere un obiettivo e non sulla razionalità dell’obiettivo stesso. Proprio per questo
motivo, l’istituzionalismo si applica a quella gamma di istituzioni in cui gli interessi sono parzialmente compatibili e
parzialmente conflittuali. La teoria dimostra come le istituzioni possano aiutare gli interessi comuni a prevalere su quelli
conflittuali.
In conclusione:
Da Morgenthau in poi, il realismo affronta le questioni chiave delle Relazioni Internazionali: quali sono le
cause del conflitto e della guerra tra le nazioni? E quali sono le condizioni perché tra queste ultime vi siano
cooperazione e pace?
Elementi centrali della teoria realista internazionale:
1) gli attori della politica internazionale: la centralità dello Stato-nazione  quando giunge il momento
critico, gli Stati cambiano le regole che consentono agli attori di operare (Waltz)
2) il contesto d’azione: l’assunto anarchico  tra Stati formalmente uguali fra loro nessuno ha il diritto
di comandare e nessuno ha il dovere di obbedire (Waltz); due implicazioni: le relazioni
internazionali si svolgono all’ombra della guerra (Aron) e l’autodifesa è il principio necessario
dell’azione in un ordine anarchico (Waltz)
3) gli attori: gli Stati come attori razionali, autonomi e unitari
3
Funzionalisti: lo stato come organizzazione sociale aveva dimostrato di essere incapace di soddisfare i bisogni
fondamentali degli individui e per qst doveva essere affiancato da nuove forme di autorità. L’integrazione sarebbe stata
promossa attraverso la nascita di agenzie funzionali che avrebbero risolto concretamente i problemi.
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-
razionali: hanno degli obiettivi che ordinano in modo logico e coerente, ed escogitano strategie
razionali per raggiungerli
- autonomi dalle loro società nazionali: per riconoscere e perseguire gli interessi della nazione nel suo
complesso e non solo di gruppi particolarmente potenti
- unitari: gli Stati sono relativamente indipendenti dal carattere delle istituzioni nazionali o dalle
preferenze di segmenti particolari della società  Ikenberry: il governo americano formulò i propri
obiettivi e concepì una politica volta alla liberalizzazione dei prezzi del petrolio non in risposta ad
interessi interni, ma come parte dei negoziati condotti con gli altri paesi industrializzati.
Proposizioni: il fatto che gli Stati riconoscano che la forza potrebbe essere utilizzata contro di loro, li rende
particolarmente attenti al problema della sicurezza; solo se la sopravvivenza è assicurata possono cercare di
raggiungere altri obiettivi come la tranquillità, il profitto e il potere; oltre a sostenere che gli Stati
riconoscono che la loro sicurezza dipende dai loro stessi sforzi, questi teorici affermano anche che gli Stati
tendono a preoccuparsi della loro forza relativa, poiché è proprio quest’ultima che determina se si è in grado
di fare fronte a minacce attuali o potenziali provenienti da altri Stati; l’anarchia induce gli Stati ad essere
posizionalisti difensivi, ovvero preoccupati del loro potere relativo; gli Stati cercano di essere liberi di
scegliere le strategie che più probabilmente promuoveranno la loro sicurezza e di intraprendere quelle azioni
che più verosimilmente saranno in grado di garantire il mantenimento della loro posizione di potere relativo
e di contribuire dunque ad assicurare la loro sicurezza.
Balancing: Stati sfidati dall’aumento di potenza di un altro Stato rispondono a tale sfida unendosi contro la
potenza in ascesa; non adotteranno un comportamento di bandwagoning, ovvero schierarsi dalla parte del più
forte nella speranza di ricavarne i migliori accordi possibili e di sfruttare gli Stati che costituiscono
l’obiettivo della parte in crescita  Walt: gli stati si schierano contro quelli che rappresentano per loro la
minaccia principale, nei confronti di una minaccia il balancing ha prevalso sul bandwagoning nel Medio
Oriente e nell’Asia Sud Occidentale a partire dalla seconda guerra mondiale.
Waltz: i sistemi multipolari sono più soggetti all’instabilità e probabilmente anche a duri conflitti militari
rispetto a quelli bipolari, nei quali vi è meno interdipendenza economica (definita come vulnerabilità
reciproca).
I realisti hanno identificato almeno 3 impedimenti di natura sistemica che condizionano la volontà degli Stati
di cooperare anche quando condividano interessi comuni:
1) la possibilità di essere ingannati
2) gli Stati, in quanto costretti a provvedere da sé alla propria sicurezza, preferiscono essere in grado di
svolgere quante più funzioni possibili, soprattutto quelle che incidono sulla loro sicurezza e autonomia;
preferiscono mantenere un basso livello di differenziazione funzionale tra loro e gli altri, che limiterà la
cooperazione se quest’ultima comporta un grado significativo di specializzazione delle funzioni. Nell’ambito
economico, ad esempio, i vantaggi della liberalizzazione del commercio sono massimizzati se questa
permette una specializzazione sulla base del vantaggio comparato: ma, secondo i realisti, è proprio a questa
specializzazione nelle funzioni che gli Stati cercando di resistere
3) i guadagni relativi: gli Stati evitano la cooperazione se ritengono che cooperando i loro partner otterranno
guadagni sproporzionalmente più grandi
Le condizioni per la cooperazione:
1) gli Stati cooperano attraverso alleanze per controbilanciare sfidanti esterni
2) IPE, la teoria della leadership egemonica: Gilpin e Krasner, sulla base della teoria dei beni collettivi,
sostengono che una condizione necessaria per la formazione e il mantenimento di un’economia
internazionale liberale è che vi sia un singolo Stato (gli USA nel XX secolo) in grado e disposto ad
investire le risorse e a farsi carico degli oneri legati all’avvio e al mantenimento di un simile ordine
economico liberale.
Le critiche alla teoria realista:
- non riconosce e non può spiegare il cambiamento internazionale  realisti: le continuità nella
politica internazionale sono più importanti dei cambiamenti (tra l’altro spesso osservati)
- non prende in considerazione l’impatto che i fattori interni (quali i processi politici, economici e
sociali) esercitano sul comportamento estero degli Stati  realisti: ne teniamo conto e inoltre sono le
strutture interne ad essere modellate dalle dinamiche del sistema internazionale
Problemi per il realismo:
- ridimensiona notevolmente l’importanza delle istituzioni internazionali quali oggetto della politica
statale o quali attori autonomi della politica internazionale (Mearsheimer)  perché i paesi dell’UE
hanno cercato di sviluppare in modo significativo le istituzioni europee? Perché la costituzione di
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-
istituzioni internazionali può essere una strategia razionale per gli Stati?  realista Morgenthau: gli
Stati relativamente più deboli possono scegliere di cooperare attraverso un’istituzione al fine di
ottenere una voice opportunity, ovvero l’opportunità di farsi sentire nei confronti dei loro partner più
forti  perché i partner più forti accettano e si fanno persino promotori dell’istituzionalizzazione?
 realisti: l’istituzionalizzazione consente allo Stato più forte di esercitare la propria egemonia in
modo efficiente e sotto una copertura di uguaglianza tale per cui vi è meno resistenza alle sue
preferenze e alle sue proposte; l’UE potrebbe essere un veicolo attraverso il quale la Germania è in
grado di esercitare la propria influenza in modo discreto e legittimo e dominare così i propri vicini
l’anarchia conduce gli Stati normali a massimizzare la sicurezza o il potere? Se i realisti ritengono
che gli Stati considerano il potere più importante della sicurezza, allora devono ipotizzare che gli
Stati ricorrano al bandwagoning invece che all’equilibrio nei casi in cui il primo produce maggior
potere del secondo (Schweller) e devono sostenere che gli Stati cercano non di evitare differenziali
nei guadagni che favoriscono i partner, ma piuttosto di massimizzare tali divari a loro favore.
La teoria realista potrebbe evitare di cadere nella trappola del dualismo massimizzazione del potere vs
massimizzazione della sicurezza  gli Stati sono preoccupati soprattutto per la propria sopravvivenza e per
la propria sicurezza, e cercano di assicurarsele entrambe, non massimizzando il potere a loro vantaggio, ma
minimizzando i divari di potere che possono favorire rivali o avversari. I realisti e i loro critici sembrano
essere d’accordo sul fatto che il realismo sposa l’idea che gli Stati cercheranno invariabilmente l’equilibrio
contro una potenza nascente invece di ricorrere al bandwagoning con lei; che gli Stati, inoltre,
invariabilmente non riusciranno a cooperare se si profila il problema dei guadagni relativi e che, infine, gli
Stati si opporranno alla specializzazione invece di abbracciarla di fronte al rischio della dipendenza.
Ipotesi delle conseguenze avverse di Feaver: è più probabile che Stati che falliscono nell’attuare l’equilibrio
quando le condizioni sistemiche lo richiederebbero ricevano un danno rispetto a quegli Stati che praticano il
balancing quando le circostanze lo richiedono.
COLLABRAZIONE E COORDINAMENTO:
Tra i vari tipi di situazione caratterizzati da preferenze miste, l’attenzione degli istituzionalisti si è concentrata su due
gruppi particolarmente importanti: I GIOCHI DI COLLABORAZIONE e i GIOCHI DI COORDINAMENTO.

Nei giochi di collaborazione gli stati traggono vantaggi maggiori da un esito in cui tutti operano rispetto ad un
esito in cui nessuno coopera ( defezionano). In realtà, un interesse comune alla cooperazione non è sufficiente a
garantire un esito cooperativo. In molte situazioni, infatti, uno stato può trarre vantaggio dalla cooperazione reciproca,
ma un vantaggio ancora più grande se tutti cooperano mentre esso stesso defeziona. L’interesse individuale a
defezionare di regola prevale sull’interesse comune a cooperare. ( dilemma del prigioniero negoziati bilaterali agli
armamenti: entrambi gli stati possono preferire una limitazione dell’arsenale nucleare dell’avversario, ma una
riduzione delle testate nucleari dell’avversario senza una propria corrispondente limitazione, può essere u esito ancora
più desiderabile).

Giochi di coordinamento: gli stati hanno solitamente un interesse comune nel raggiungere un accordo, ma un
conflitto di interessi rispetto ai termini dell’accordo stesso. La cooperazione è preferita alla mancanza di cooperazione,
ma diverse forme di cooperazione sono possibili e i partecipanti non preferiscono tutti la stessa soluzione. I giochi di
coordinamento richiedono generalmente un processo negoziale attraverso il quale gli stati identificano una soluzione di
compromesso. Ma anche in questo caso l’interesse individuale a raggiungere l’accordo preferito, prevale sull’interesse
comune a raggiungere un accordo qualsiasi. Questo accade perché allo scopo di ottenere una distribuzione dei benefici
che sia più vantaggiosa possibile, i negoziatori usano tattiche che aumentano il rischio che il negoziato fallisca. ( bluff).
Sia i giochi di collaborazione che quelli di coordinamento, combinano incentivi a cooperare con incentivi a scegliere
comportamenti non cooperativi. Una differenza sostanziale tra i 2 tipi di giochi è che, una volta stabiliti i termini
dell’accordo, nei giochi di coordinamento i partecipanti non hanno un interesse nel violare i termini dell’accordo,
mentre nei giochi di collaborazione i partecipanti trarrebbero vantaggio dalla defezione unilaterale. Secondo gli
istituzionalisti, alla base di questi problemi si trova spesso un deficit di informazione. Se gli stati in situazioni di
coordinamento possedessero un’informazione perfetta sul rischio di defezione, potrebbero sviluppare meccanismi di
deterrenza e sanzioni sufficienti a consentire un alto livello di cooperazione.
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Le istituzioni internazionali possono facilitare la cooperazione tra stati precisamente perché aumentano la quantità e la
qualità dell’informazione disponibile. L’informazione è dunque per gli istituzionalisti, una variabile che può essere
modificata grazie alla creazione di istituzioni internazionali. La forma delle istituzioni deve riflettere le funzioni che
deve svolgere:

Offrire un contesto in cui è possibile tenere negoziati efficienti e trasparenti

Regole istituzionali dovrebbero dare una struttura al processo di contrattazione

Dovrebbe garantire la presenza di un mediatore imparziale che suggerisce una soluzione equa per entrambe le
parti

Dovrebbe facilitare il raggiungimento di un accordo, escludendo accordi incompatibili ecc..
Istituzioni dedicate ai giochi di coordinamento non devono curarsi troppo dell’attuazione degli accordi raggiunti, in
quanto gli attori non hanno nessun incentivo nel violare i termini dell’accordo. Differentemente accade per i giochi di
collaborazione. In questo caso le istituzioni internazionali impongono alle parti regole che: 1) diminuiscono
l’ambiguità degli obblighi dei partecipanti 2) impongono obblighi di trasparenza e giustificazione 3) delegano agli
agenti imparziali di verificare il rispetto degli accordi.4) strutturano sanzioni in caso di violazione.
Generalmente le istituzioni non vengono chiamate a punire eventuali violazioni direttamente, perché ciò rimane
prerogativa degli stati. Le istituzioni piuttosto aumentano la trasparenza dei rapporti interstatali e in questo modo
prevengono le violazioni.
LA CRITICA DEL REALISMO:
Gli autori di tendenza realista delle Relazioni internazionali sono da sempre scettici nei confronti delle capacità delle
istituzioni di mettere dei freni all’azione degli stati. Secondo i realisti, le situazioni in cui gli interessi tra i vari attori
sono incompatibili, sono più comuni. Gli istituzionalisti non trovano necessariamente più cooperazione nel mondo di
quanto facciano i realisti.
Se per gli istituzionalisti la maggior parte dei casi di mancata cooperazione è dovuta alla mancata informazione, per i
realisti sono spiegati dalla mancanza di interessi in comune. Il conflitto deriva quindi da interessi incompatibili, mentre
per gli istituzionalisti gli interessi possono essere compatibili ma il loro perseguimento può essere ostacolato da
problemi di coordinamento e collaborazione. Questa differenza si traduce in valutazioni divergenti sul ruolo potenziale
delle istituzioni internazionali.
I realisti riconoscono che in molte occasioni 2 stati potrebbero entrambi trarre vantaggio da una decisione di cooperare.
Ma il punto decisivo è che gli stati non sono interessati unicamente ai propri guadagni, ma anche ai guadagni degli altri
stati. In un sistema internazionale anarchico gli stati sono estremamente attenti all’entità della loro potenza ecnomica e
militare rispetto a quella degli altri stati, perché gli altri stati potrebbero rappresentare una minaccia alla propria
autonomia e sopravvivenza.
Se la cooperazione produce guadagno per la controparte maggiore del proprio, questo può indurre uno stato a non
cooperare perché il guadagno relativo può essere altrettanto importante del guadagno che ne otterrebbe in termini
assoluti. Quanto più uno stato ha il timore che le risorse della controparte potrebbero un giorno essere usate contro di
esso, tanto meno sarà disposto ad accettare la cooperazione, a dispetto dei vantaggi che questa potrebbe portare. I
realisti in questo senso criticano gli istituzionalisti: perché essi considerano solo i guadagni assoluti e non relativi.
ISTITUZIONALISMO COSTRUTTIVISTA:
Secondo la logica dell’istituzionalismo costruttivista le istituzioni strutturano non solo gli incentivi esterni ma anche gli
obiettivi fondamentali e talvolta le stesse identità degli attori. Le istituzioni non influiscono solo su ciò che gli attori
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possono fare, ma anche su ciò che vogliono fare e su chi sono. In altre parole, la sovranità degli stati non può essere
indipendente dalle istituzioni che forniscono un quadro normativo per la loro azione.
Wendt identifica 3 livelli di internazionalizzazione delle norme internazionali: nel primo livello, gli attori sanno quale è
la norma ma obbediscono solo quando sono costretti a farlo(realismo) nel secondo livello gli attori scelgono di
obbedire alla norma perché ritengono che farlo sia nel loro interesse (istituzionalismo realista), nel terzo livello,
secondo una logica costruttivista, gli attori obbediscono alla norma perché la considerano legittima.
La teoria costruttivista mostra inoltre come molte caratteristiche dello stato contemporaneo derivino da modelli
culturali generati e diffusi da processi di portata globale, tra cui spicca l’attività delle organizzazioni internazionali.
Questi modelli culturali globali definiscono cosa sia uno stato e quali funzioni deve assolvere. Viene sottolineato
l’elevato grado di consenso transnazionale circa la natura e il valore di questioni come i diritti umani e dei cittadini, lo
sviluppo socio economico e l’istruzione. Le organizzazioni internazionali sono spesso un vettore centrale per la
diffusione di modelli culturali.
Per l’istituzionalismo costruttivista l’impatto delle istituzioni sugli stati avviene in larga misura attraverso processi di
socializzazione. La socializzazione è un processo attraverso il quale l’interazione sociale porta i nuovi stati ad
interiorizzare le norme e i modi di vedere di una società. Nel caso dell’influenza sociale, la conformità con norme
risulta da benefici e sanzioni di tipo sciale e non materiale. Tra i benefici spicca un senso di benessere psicologico, un
senso di appartenenza a un gruppo sociale e il godimento del rispetto degli altri membri del gruppo. Le sanzioni
possono essere la disapprovazione o di esclusione dal gruppo. L’ipotesi costruttivista è che questi fattori esercitino
un’influenza importante sugli stati in quanto membri di istituzioni ed organizzazioni internazionali.
Un altro meccanismo importante è la persuasione: un insieme di atti comunicativi che generano una convergenza di
preferenze e opinioni in assenza di sanzioni materiali o psicologiche. Gli istituzionalisti di scuola costruttivista si
aspettano che l’influenza sociale e la persuasione avvengano con più facilità all’interno di organizzazioni internazionali
che in interazioni non istituzionalizzate. Le organizzazioni internazionali forniscono un ambiente particolarmente
favorevole alla diffusione e penetrazione di nuove norme e nuovi metodi di interpretare la realtà.
INTERDIPENDENZA ECONOMICA E POLITICA INTERNAZIONALE cap.5
Le teorie relative all’equilibrio di potenza ed egemonia, sono teorie compatibili con la tradizione realista. La principale
teoria che si occupa degli effetti dell’interdipendenza economica sulla politica internazionale è invece ascrivibile
all’altra grande tradizione di pensiero internazionalista: quella liberale.
Lo stato non è visto come l’unico attore rilevante sulla scena internazionale. Partendo da un’enfasi etica
sull’emancipazione dell’individuo e da un’attenzione metodologica che tende a non escludere fenomeni della politica
interna, lo stato è visto cime uno dei vari livelli ai quali è possibile aggregare le preferenze individuali. Esistono
pertanto altri soggetti di cui tenere conto:

Istituzioni internazionali

Compagnie multinazionali o grandi chiese (livello transnazionale)

È necessario prendere in considerazione le variabili di politica interna ed estera ( livello subnazionale)
Trova quindi spazio vari tipi di configurazione dei RAPPORTI TRA SOCIETà E STATO. Per i realisti qualsiasi tipo di
stato tende a comportarsi nello stesso modo, a prescindere dalle sue caratteristiche particolari, con una più netta
separazione tra politica interna e politica estera. L’immagine liberale della politica internazionale è quindi più
complessa in quanto non vi sono solo gli stati che interagiscono tra di loro, ma nella quale entità internazionali,
transnazionali e subnazionali stabiliscono una fitta rete di relazioni che influiscono sugli esiti politici. In secondo
luogo, l’ambiente in cui operano questi diversificati attori, non è sempre un ambiente dominato dall’anarchia. Le
caratteristiche interne degli stati sono viste come rilevanti, anche i rapporti tra uno stato ed un altro saranno influenzate
da queste caratteristiche.
21
L’anarchia internazionale, intesa come assenza di governo mondiale, non sarà omogenea nel tempo e nello spazio
come nell’analisi realista, e potrà essere più o meno vincolante con effetti conflittuali a seconda delle circostanze. Le
relazioni tra democrazie, o tra stati che commerciano intensamente, saranno quindi diverse dalle relazioni tra stati che
hanno regimi politici differenti, o che non commerciano tra loro. In terzo luogo, almeno nei casi in cui l’anarchia sia
meno severa e i rapporti meno conflittuali, le relazioni tra stati non sono necessariamente dominate solo da
considerazioni che riguardano la sicurezza. Al contrario di un mondo realista, la coopera zone è possibile, permettendo
agli attori di concentrarsi sui loro obiettivi. Le questioni economiche assumono preminenza nell’analisi liberale, mentre
i realisti considerano questi argomenti come comunque subordinati alla necessità della sopravvivenza di fronte
all’incertezza dell’anarchia.
Le prime versioni del liberismo internazionalista contemporaneo emersero dopo le devastazioni della Prima Guerra
Mondiale. Essi adottavano una visione idealista, dove immaginavano possibile basare l’intero sistema internazionale su
un’armonia degli interessi e una pacifica interdipendenza tra stati. Le delusioni culminate nello scoppio della Seconda
guerra Mondiale, hanno portato alla nascita di una nuova scuola, quella neoliberale. Questa adottava una visione più
articolata e di interdipendenza complessa, secondo la quale nello stesso sistema internazionale potevano convivere sia
relazioni conflittuali tra avversari che relazioni più cooperative tra stati che non percepivano un conflitto così
imminente.
Mentre i realisti sono scettici sulla possibilità di un sostanziale cambiamento che consenta di ridurre i sospetti reciproci
tra stati e la possibilità di conflitto armato, i liberali credono nella possibilità del progresso e di un percorso storico di
incrementale miglioramento capace di trasformare le relazioni internazionali e di allontanare lo spettro della guerra.
Oltretutto i liberali credono in una direzione progressiva nell’evoluzione storica da una condizione passata di instabilità
a una futura pace, non più intesa semplicemente come tregua tra un conflitto e l’altro, ma come una condizione di
autentica stabilità e fiducia che renda obsoleto l’uso della violenza. Secondo il liberismo sono 3 i principali possibili
percorsi verso la riduzione della guerra come fenomeno della politica internazionale: le istituzioni internazionali, il
commercio internazionale e la democratizzazione.
IL LIBERALISMO COMMERCIALE:
Il liberismo commerciale identifica il progresso nelle relazioni internazionali con la diffusione delle moderne economie
industriali di mercato a partire dalla fine de ‘700. L’incremento della produzione economica mondiale, dovuto
all’efficienza allocativa del mercato internazionale e ai progresso, ha comportato un aumento costante della ricchezza.
Ciò avrebbe portato a delle ripercussioni inedite sulle relazioni internazionali, inducendo un crescente numero di paesi
a concentrarsi sul benessere economico piuttosto che sul proprio successo militare.
L’ottimismo del liberalismo commerciale è basato sulla visione di Adam Smith sui benefici del libero commercio che,
se liberato dalle interferenze statali, porta ad un aumento del benessere per tutti, individui e stati. Secondo la teoria del
vantaggio comparato, se ciascuno si specializza nell’attività che gli è più congeniale, questo porta sia alla
massimizzazione delle potenzialità di ciascuno, sia ad una maggiore efficienza complessiva. La ricchezza dei vicini
favoriva infatti il proprio sviluppo economico in quanto facilitava l’accesso a tecnologie più avanzate e mercati più
facoltosi, in grado di assorbire maggiormente le proprie esportazioni.
La solidità dell’apparato teorico del liberalismo e il successo empirico delle economie liberali hanno fatto sì che un
sempre crescente numero di paesi abbia adottato una postura commerciale aperta, e che la rete di relazioni economiche
internazionali si sia progressivamente estesa e infittita, fino all’attuale fase di globalizzazione.
INTERDIPENDENZA ECONOMICA E POLITICA INTERNA:
La scelta di uno stato di aprire la propria economia è però anche influenzata dalla dinamica di interessi economici dei
vari settori produttivi, e come essi interagiscono nella politica interna. Mentre gli aspetti diplomatici e militari
dipendono dal controllo del governo, i processi economici dipendono in larga misura da attori privati e sociali che
possono essere influenzati dallo stato solo in maniera indiretta. Questo gruppo di attori sono chiamati gruppi di
interesse.
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Anche se il libero commercio porta ad una maggiore efficienza complessiva e a l miglioramento del benessew
individuale, questo benessere non è distribuito uniformemente. Il capitale e il lavoro investiti nei settori competitivi
godono di un beneficio immediato all’apertura dell’economia, mentre il capitale e il lavoro nei settori che soffrono la
competizione internazionale devono essere reinvestiti, passando da una fase temporanea di riconversione che può
precedere la riduzione o la cessazione delle attività. Un’ulteriore distorsione può emergere dal fatto che i vari gruppi
d’interesse possono allearsi, al fine di controllare meglio le decisioni pubbliche.
CRITICHE NEOMARXISTE:
L’ottimismo liberale sul ruolo del libero commercio viene aspramente criticato dalla scuola marxista, per la quale i
fattori economici sono importanti almeno quanto per la scuola liberale, ma che trovano un netto disaccordo riguardo gli
effetti dell’interdipendenza. Per i neomarxisti il mercato non porta ad una maggiore ricchezza complessiva, ma
all’inevitabile sfruttamento delle classi meno privilegiate, che basano il loro sostentamento sul proprio lavoro, da parte
delle classi che detengono il capitale. Lungi dal migliorare le condizioni sociali complessive, la modernizzazione crea
solo nuove occasioni di oppressione dei pochi sui molti, e prima o poi questa situazione diventa insostenibile. Ne segue
un conflitto, la lotta di classe, che può essere risolto solo con una rivoluzione che collettivizzi i mezzi di produzione e
alteri il corso della storia. Anche a livello internazionale l’apertura del commercio comporta l’estrazione di risorse
dall’economia meno ricca da parte di quella più avanzata aumentando la disuguaglianza globale. Si creerebbe così un
particolare tipo di sottosviluppo, per il quale gli stati più arretrati nel contesto dell’economia capitalista globale
rimangono poveri perché interagiscono con quelli più ricchi, che li conducono a specializzarsi in settori poco redditizi.
Altri teorici neomarxisti disegnano un sistema globale naturalmente piramidale nel quale chi detiene le leve
economiche domina gli altri,sia politicamente che economicamente. Wallerstein descrive un modello di sistema-mondo
strettamente integrato alla divisione internazionale e suddiviso in 3 aree poste in un ordine gerarchico: il centro
avanzato ed industrializzato, la semiperiferia in via di sviluppo e la periferia arretrata e sfruttata dalle altre 2 zone. I
paesi che di volta in volta a appartengono a queste categorie possono cambiare, ma non il fatto che esistano questi 3
livelli. Viene quindi spiegata la perdurante e crescente diseguaglianza a livello globale.
LE CONSEGUENZE DELL’INTERDIPENDENZA SULLA POLITICA INTERNAZIONALE:
La più rilevante aspettativa del liberalismo commerciale riguardo alla politica internazionale concerne gli effetti
dell’interdipendenza economica sui rapporti tra stati. Secondo i principi del liberalismo, un’intensificazione delle
relazioni tra soggetti porta una loro più stretta collaborazione, e la conseguenza di una maggiore interdipendenza
economica è pertanto una maggiore propensione a cooperare e ad evitare il conflitto. A meno che non ci si trovi in
un’eccezionale condizione di conflitto o di guerra sarebbe possibile per gli stati, in assenza di una rigida gerarchia degli
argomenti e in presenza di un ambiente più permissivo, concentrarsi sui propri obiettivi economici a prescindere dalle
immediate conseguenze militari che esso comporta.
La scoperta dell’efficienza del libero scambio nel creare ricchezza è dunque alla base del primato dell’economia che
caratterizza il liberalismo del XVIII secolo.
L’apogeo della pace commerciale è stato poi raggiunto dalla scuola di Manchester che dice che la pace è più probabile
quando interessi commerciali interdipendenti rendono il conflitto non economico.
Tre sono gli effetti principali del commercio a favore della pace e della stabilità. In primo luogo, il commercio
modifica gli incentivi degli stati nell’arena internazionale. Da un lato, il libero commercio permette agli stati di ottenere
i prodotti di cui hanno bisogno senza dover correre dei rischi, e i costi di una guerra di conquista.
Secondo Rosecrance l’incentivo ad intraprendere una guerra è assente dal momento che gli stati commerciali
riconoscono che possono fare meglio tramite lo sviluppo economico interno, sostenuto dai mercati globali per i loro
prodotti, piuttosto che cercando di conquistare ed assimilare larghe porzioni di territorio.
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La guerra poteva ancora essere profittevole nell’era pre-industriale, quando la produzione economica, legata al
territorio, era meno fragile e le armi meno distruttive, ma non avevano più lo stesso valore in un’economia industriale
basata sulle specializzazione e sull’incremento della produttività. I benefici economici di una maggiore interdipendenza
diventano un incentivo a mantenere la pace in quanto la competizione politica e la guerra interromperebbero i flussi
economici e la maggiore efficienza ad essi connessi. Volendo assecondare il desiderio dei propri cittadini a conseguire
da politiche aggressive che possono mettere a repentaglio i frutti di un’economia aperta. Da un lato, l’interdipendenza
può essere intesa come sensibilità, nel senso che gli stati diventano sensibili a eventi che avvengono presso i loro
partner economici. Dall’altro lato, l’interdipendenza può anche essere intesa come vulnerabilità, dal momento che
un’eventuale interruzione dei flussi economici comporterebbe un costo che inciderebbe sul benessere del paese. In
terzo luogo, vi sono effetti sociologici di un’economia internazionale capitalista. Le frequenti relazioni che
intercorrono tra gli stati interdipendenti riducono i pregiudizi reciproci e, secondo il liberismo sociologico, enfatizzano
le comunanze, piuttosto che le differenze, tra popoli e nazioni.
La frequenza della guerra nel periodo pre- capitalistico poteva quindi venire spiegata dalla prevalenza di ceti sociali
guerrieri ovvero dall’ignoranza rispetto alla razionalità e all’efficienza dell’economia liberale.
LE CRITICHE REALISTE ALLA PROSPETTIVA LIBERALE:
Il realismo non condivide l’enfasi posta dai liberali sui fattori economici e, in particolare, ritiene che i vantaggi
provenienti da una politica economica aperta, siano insufficienti a prevalere sulle considerazioni riguardo alla
sicurezza.
I realisti sono convinti che gli stati non si possano permettere il lusso del libero commercio, se non in condizioni
particolari. I pensatori del XVIII e XIX secolo, suggerivano quindi di rinunciare ai benefici dell’apertura del
commercio per mantenere una capacità economica indipendente che potesse garantire la sicurezza dello stato. Uno
stato reso insicuro dell’anarchia internazionale semplicemente non poteva permettersi di porsi alla mercé di altri stati.
Lo sviluppo di un intenso scambio commerciale, non creerebbe una reciproca interdipendenza volta all’aumento del
benessere complessivo, ma un rapporto di competizione e di controllo. Gli stati sarebbero più vulnerabili. Temendo che
i prodotti necessari per la propria economia possano venire negati nel momento del bisogno, gli stati potrebbero cercare
di ottenerli con la forza.. in queste circostanze, una stretta interdipendenza potrebbe essere lei stessa fonte di sospetto o
persino di guerra.
Waltz afferma che sati lontani, senza nessun rapporto, non avrebbero neanche occasione di competere, mentre
un’interdipendenza stretta aumenterebbe le possibilità di conflitto, così some mostrano le guerre .
Secondo una visione strutturalista, solo chi è forte e sicuro, oppure chi si trova in un ambiente già pacifico, può
permettersi di intraprendere un commercio libero da condizionamenti politici o strategici. L’apertura commerciale, che
si è progressivamente affermata negli ultimi 2 secoli non sarebbe quindi frutto di un mutuo interesse da parte degli
stati, ma delle capacità di una potenza dominante di determinare questa situazione, secondo la teoria egemonica.
Secondo i mercantilisti, non solo la competizione politica potrebbe inibire la cooperazione economica, ma le
interferenze provenienti dall’arena economica potrebbero essere addirittura rischiose e controproducenti per la
stabilità. Rousseau sosteneva infatti che l’interdipendenza portasse non tanto all’armonia, quanto al reciproco sospetto
e proponeva agli stati un benigno isolamento.
INTERDIPENDENZA E PACE NELLA STORIA:
L’ipotesi liberale sulle relazioni tra pace e scambi commerciali sostiene che livelli più alti di commercio sono associati
ad una minore incidenza della guerra. L’effetto pacificatore dell’interdipendenza economica sarebbe poi
particolarmente sviluppato nelle relazioni tra stati di regime politico liberale, facendo intendere che i 2 fattori,
commercio e democrazia, si rafforzino a vicenda. I realisti invece sostengono una relazione positiva tra interdipendenza
e conflitto.
Sebbene sembra esserci un supporto empirico per la tesi liberale, il rapporto tra interdipendenza economica e politica
internazionale è quanto meno complessa e non lineare. Un’ulteriore complicazione deriva dal fatto che è difficile
stabilire se sia la cooperazione economica a ridurre il conflitto politico, oppure se la riduzione del conflitto politico
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permette l’emergere di una fruttuosa cooperazione economica. Secondo quest’ultima interpretazione, ci potrebbe essere
una correlazione tra interdipendenza e pace in quanto a sviluppare intense relazioni commerciali sarebbero soprattutto
stati tra i quali le probabilità di conflitto sono percepite come ridotte. L’interdipendenza potrebbe quindi essere
considerata come un effetto, piuttosto che come causa della pace.
Alla vigilia della Prima Guerra Mondiale, nel 1913, per la Germania il commercio estero nel suo complesso
rappresentava il 38% del PIL, mentre per Gran Bretagna era addirittura il 52% e per la Francia il 54$%. Ciò fu
insufficiente a mantenere la pace tra le grandi potenze e 4 lunghi anni di guerra portarono a devastazioni mai viste.
Dopo la crisi del ’29, gli stati avevano intrapreso politiche commerciali protezionistiche se non autarchiche. Così come
la Prima guerra m. indebolisce le argomentazioni liberali, allo stesso modo la teoria realista viene indebolita dalla
situazione appena citata. Se infatti l’interdipendenza portasse gli stati a competere, una relativa autonomia e da
autosufficienza avrebbe dovuto portare gli stati ad una competizione meno intensa invece che a una guerra. È quindi
evidente come gli effetti politici dell’interdipendenza siano complessi e non semplici e lineari, e che il commercio
internazionale interagisce con la diplomazia in modo complesso. Dopo la seconda guerra m. gli stati del blocco
occidentale hanno intrapreso la strada dell’apertura economica. La pacificazione in occidente e l’intenso sviluppo di
legami commerciali, che in Europa ha portato il decollo del processo di integrazione, ha portato un’inedita stabilità
almeno in una parte del mondo. Questo forte aumento dell’interdipendenza ha messo in luce interessanti fenomeni: il
periodo della guerra fredda ha messo in evidenza la preferenza degli stati a commerciare soprattutto con i propri
alleati, al fine di rafforzare i rapporti di collaborazione. In secondo luogo, la guerra fredda ha anche messo in luce
l’utilità, in termini di competizione militare, di detenere maggiori risorse economiche, frutto di una stretta
interdipendenza.
POLITICA INTERNA E PACE DEMOCRATICA:
Per studiare le Relazioni internazionali, risulta necessario studiare come i singoli governi agiscono e quindi bisogna
tenere in conto della sua politica estera, ed interna. Gli stati, infatti, non possono essere considerati come attori
compatti, ma sono dei costrutti mentali che rimandano alla realtà di aggregati complessi di persone, organizzazione,
elementi materiali..Si è dunque sostenuto che è necessario capire come gli stati ( insieme di apparati) attuino la politica
estera, come funzionano e come prendano decisioni. Questa è la strada percorsa dai teorici della politica burocratica o
della politica governativa. La semplificazione dell’idea che lo stato sia un attore unitario, trascura di considerare il
ruolo della burocrazia. Secondo questa prospettiva, la politica estera di no stato deriva dall’interazione fra diversi
apparati politici e burocratici che, contano sulle risorse che hanno singolarmente a loro disposizione e agendo secondo
peculiari culture e regole organizzative lottano per raggiungere degli obiettivi.
Il modello della politica burocratica, mette chiaramente in dubbio gli assunti stato centrici dell’unitarietà e della
razionalità degli stati: la politica estera non è formulata in modo centralizzato e non consiste tantomeno di decisioni
prese in modo razionale, ma da compromessi fra posizioni divergenti. Il modello della politica burocratica è stato
prevalentemente applicato allo studio di situazioni di crisi e dei fattori che le innestano ( apparati militari).
LA POLITICA ESTERA FRA GRUPPI DI PRESSIONE E COMUNITA EPISTEMATICHE:
Innanzitutto bisogna considerare che gli apparati e i decisori pubblici non si limitano a negoziare le scelte di politica
estera che maggiormente realizzano i propri interessi, ma devono considerare anche le richieste che provengono
dall’interno. Il modo in cui uno stato persegue i propri interessi esterni, produce numerose conseguenze interne. ( es. la
decisione di abbassare i dazi doganali, o abbassarli solo per alcuni prodott, porterà vantaggi ad alcuni settori economici
e ad altri meno). Ma se le scelte di politica estera, toccano questioni che coinvolgono gli attori economici e sociali
domestici, i decisori pubblici, politici o burocratici, avranno preferenze e assumeranno posizioni su quelle questioni
che risentono degli attori domestici e, in particolare, dei gruppi organizzati: questi ultimi, infatti, detengono risorse
consistenti, hanno un peso consistente nel processo decisionale pubblico.
I GRUPPI DI PRESSIONE domestici, possono avere dunque un forte impatto sulla politica estera, e mettono ancora
più in crisi il modello stato centrico. Si argomenta che l’influenza degli attori domestici sulla scelta dei comportamenti
esterni di uno stato fa cadere l’assunto dell’autonomia del governo: se le decisioni di politica estera non rispondono
principalmente alle sfide del sistema internazionale ma anche alle esigenze domestiche, queste ultime, a seconda della
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loro forza, potranno ora determinare la scelta di una certa politica estera fra le diverse possibili per realizzare l’interesse
nazionale.
Mentre nel modello stato centrico si assume che il governo persegua razionalmente l’interesse nazionale, per questa
via si può arrivare a considerare il governo come attore che interagisce con alcuni gruppi interni per perseguire
politiche estere che realizzano gli interessi di quella coalizione specifica. I governi cercano di massimizzare la propria
capacità di soddisfare le pressioni domestiche e, di minimizzare le conseguenze negative degli sviluppi internazionali.
Il governo è dunque sottoposto anche all’influenza di altri gruppi domestici come le comunità epistemiche. Queste
comunità sono intese come reticoli formali e informali che diffondono in modo autorevole informazioni e conoscenze
circa le questioni internazionali. Essi possono esercitare un’influenza sul processo decisionale statale che rinvia sia alla
conoscenza come forma di potere, sia al ruolo delle idee in politica estera. Ciò avviene in particolare quando la scelta
dei comportamenti internazionali degli stati avviene in condizioni di grande incertezza, quando i problemi in gioco
hanno un elevato contenuto tecnico e/o sono poco politicizzati, richiedendo così delle competenze specifiche per essere
affrontati.
LA POLITICA ESTERA TRA OPINIONE PUBBLICA E MEZZI DI COMUNICAZIONE:
La politica estera è stata tradizionalmente considerata un settore decisionale isolato dal dibattito pubblico e sottratto al
controllo della popolazione. A sostegno di questa posizione si sono invocati fattori di natura funzionale: connessi ai
requisiti del buon svolgimento della politica estera, come l’esigenza di condurre con riservatezza le trattative
internazionali; la necessità di perseguire interessi di lungo periodo, e quindi di evitare cambi di linea indotti
dall’emotività. A questi fattori si è associata l’idea che la popolazione sia disattenta, disinformata e incompetente sulle
questioni di politica internazionale e finisca per diventare un fattore di disturbo in decisioni che dovrebbero essere
razionali. Si è dunque argomentato quanto più la popolazione presenta questi tratti, tanto più stringenti divengono
questi requisiti funzionali.
Questo ragionamento non sembra confermato dalla ricerca empirica più recente che, pur mostrando che il pubblico è
tendenzialmente poco informato sui problemi internazionali si preoccupa dei valori fondamentali. Non tutti i casi e per
necessità si può assumere che il processo decisionale avvenga indipendentemente dagli orientamenti della popolazione,
anzi, esiste una corposa letteratura che ne sostiene il ruolo attivo, nella forma delle costrizioni poste alla politica estera
dall’opinione pubblica. Le preferenze della popolazione in politica estera si comportano in modo percepibile tramite
sondaggi, elezioni politiche, referendum, manifestazioni o eventi di protesta, esse esprimono l’orientamento
dell’opinione pubblica su certi temi, e quest’ultima può contribuire a influenzare la politica estera. La ricerca segnala
che nelle democrazie liberali vi è una significativa relazione fra le scelte di politica estera e le preferenze dell’opinione
pubblica. A quest’effetto si associa il ruolo dei mezzi di comunicazione di massa. I mass media entrano nel processo
decisionale pubblico in almeno 2 modi: producono e diffondono info r conoscenze circa le questioni internazionali,
danno importanza a certi temi piuttosto che ad altri, influenzando l’agenda politica e delle sue priorità.
POLITICA INTERNA E POLITICA INTERNAZIONALE:
si può rilevare che l’attività della politica estera contemporanea è molto diversa dalla politica del gabinetto che ha
caratterizzato i secoli del sistema degli stati europeo: una politica decisa da poche figure e condotta bilateralmente
grazie ai negoziati confidenziali tenuti da ambasciatori residenti all’estero. A questa pratica politica ben si adattava la
concezione realista della politica estera quale attività di un certo politico coeso e sostanzialmente isolato dalle influenze
provenienti dall’interno. A modificare questi quadro hanno contribuito vari fattori che hanno acquisito un ruolo
decisivo soprattutto nel corso del ‘900: da un lato l’ingresso sulla scena mondiale della politica di massa e della guerra
generale, con i connessi procedimenti di liberalizzazione e democratizzazione; dall’altro lato, la crescita
dell’interdipendenza economica e della velocità dei mezzi di comunicazione fisica e simbolica.
La crescita delle interconnessioni economiche e sociali fra gli stati e l’espansione delle sfere soggette alla regolazione
pubblica hanno cambiato i tratti di fondo della politica internazionale che, secondo alcuni, è diventata una politica
intermestica, a indicare l’inestricabile intreccio di elementi internazionali e domestici che la caratterizza. Di
conseguenza, le questioni tenute in conto nell’elaborazione della politica estera si sono ampliate. In secondo luogo, gli
attori coinvolti nella politica estera sono aumentati per numero e per tipo, sono aumentati gli spazi di intervento dei
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gruppi domestici e aperto quelli per la popolazione. In terzo luogo, la riservatezza della diplomazia bilaterale, ha
lasciato il posto, in certa misura, a una politica estera più trasparente. A seguito di queste trasformazioni, l’arena
decisionale della politica estera si è allargata ed è divenuto più complessa, e maggiormente interconnessa con quella
interna.
LA POLITICA ESTERA TRA GUERRA E ISTITUZIONI POLITICHE: LA TEORIA DELLA PACE
DEMOCRATICA:
Gli stati si presentano come una grande varietà di strutture politiche e questa diversità può contare nell’influenzare la
politica estera. Questa notazione sta alla base della TEORIA DELLA PACE DEMOCRATICA o della pace separata:
una teoria liberale che instaura un nesso tra la natura del regime politico degli stati e i loro comportamenti
internazionali; in particolare tra natura democratica del regime e la guerra.
Nella riflessione sul rapporto tra democrazia e guerra ricorre l’idea che le democrazie si comportino diversamente dagli
altri regimi politici nel sistema internazionale per via della loro natura pacifica. ( Kant  “per la pace perpetua”). In
realtà non è possibile sostenere che le democrazie siano più pacifiche degli altri regimi politici poiché esse combattono
meno frequentemente la guerra. Al contrario, le democrazie fanno la guerra tanto quanto la fanno le non- democrazie.
Vi è tuttavia un aspetto importante: le democrazie sono più pacifiche nei rapporti reciproci, cioè non si fanno guerra tra
di loro.
I DATI DELLA PACE DEMOCRATICA:
Il tema della pace democratica si è imposto come centrale nelle Relazioni Internazionali a partire dalla prima metà
degli anni ’80, a seguito di un contributo di Doyle. Egli incrocia i dati disponibili sulle guerre combattute dal 1800 con
la classificazione dei paesi coinvolti in quei conflitti a seconda del loro regime politico. Egli individua le democrazie
secondo i rispettivi principi: 1) regime politico che dura da almeno 3 anni, 2) si distinguono per un’ economia fondata
sul libero scambio, per la proprietà privata, sovranità esterna, tutela dei diritti dei cittadini, potere legislativo scelto
tramite elezioni, suffragio femminile.
Doyle dimostra come nelle 118 guerre considerate in 200 anni, i paesi in cui le libertà sono assicurate
costituzionalmente non si sono ancora fatti guerra. Mostrando anche come le democrazie tendono a non combattere
guerre preventive, ovvero a non attaccare per primi i nemici che si fanno minacciosi. Mentre i regimi non democratici
ricorrono con regolarità a questo strumento per impedire gli avversari di avere la meglio, le democrazie sperimentano
strade alternative in base al regime che fronteggiano: se si tratta di un paese democratico tendono a cercare una
soluzione pacifica, se si tratta di un paese non democratico, tendono a costituire alleanze difensive.
Naturalmente la correlazione empirica che fonda la teoria della pace democratica, non è priva di eccezioni.
LE CAUSE DELLA PACE DEMOCRATICA:
Nelle teorie moderne esistono 3 tipi di cause della pace democratica: le cause istituzionali, normative ed economiche.
1.
Le cause istituzionali della pace democratica riguardano gli assetti istituzionali e meccanismi decisionali delle
democrazie. Le democrazie sono sistemi politici in cui il governo dipende dalla capacità di conquistare e
mantenere il consenso dei cittadini tramite le elezioni libere e periodiche. Le democrazie hanno un governo
limitato in quanto prevedono contrappesi e meccanismi di controllo che sottopongono il potere esecutivo al
controllo degli altri poteri. Questi due elementi istituzionali basilari sono molto rilevanti perché producono 3
costrizioni alla scelta di guerreggiare in democrazia: 1) costi finanziari e umani di una guerra ricadono sui
cittadini. ( il loro consenso è necessario per acquistare e mantenere il governo) 2) divisione dei poteri,
trasparenza e pubblicità degli atti delle istituzioni democratiche prevengono decisioni affrettate e ostacolano
una politica estera aggressiva.
2.
Le cause normative: le democrazie sono stati di diritto in cui le dispute vengono risolte con strumenti giuridici
e non con la forza. Questi regimi coltivano dunque al loro interno valori della risoluzione pacifica dei conflitti
e delle controversie. Sono valori che influenzano la politica internazionale. Essi agiscono sulla base di un
insieme condiviso di norme e principi che finisce con il rendere molto improbabili, in quanto ritenuto
27
illegittimo, il ricorso alla violenta e, più facile il ricorso a pratiche di gestione pacifica dei conflitti e al
compromesso.
3.
le cause economiche: le democrazie producono un sistema economico di libero mercato che facilita lo
sviluppo delle relazioni commerciali con l’esterno e l’integrazione in un sistema internazionale di libero
scambio. L’alta dipendenza economica può aumentare i costi della guerra e ridurne i benefici, rendendola così
una scelta poco conveniente.
Per completare la spiegazione della pace democratica, la letteratura ha invocato anche altri fattori che hanno a che
vedere con il grado in cui gli stati riescono a comunicare in modo serio alle controparte le loro intenzioni. C’è l’idea che
le democrazie siano più credibili degli altri regimi politici nella negoziazione e implementazione degli accordi.
A differenza di quello che accade negli altri regimi, i governanti delle democrazie che affrontano le dispute
internazionali sono sottoposti a giudizio degli elettori , che ne possono valutare l’operato, data la pubblicità e la
trasparenza dei loro atti.
Le democrazie sono più affidabili di altri regimi politici per via del loro pluralismo istituzionale, che coinvolge nel
processo decisionale più attori con poteri di veto e di conseguenza , quando una democrazia ratifica, è molto più
difficile che lo rinneghi. Esse inoltre non fondano la loro legittimità sui leader che lo governano e quindi gli impegni
che essi prendono non mutano meccanicamente con il mutare dei governanti. Infine, essi decidono i propri impegni in
modo aperto nel sistema internazionale, e ciò aumenta le opportunità dei loro alleati di intervenire se queste li vogliono
mutare.
IL DIBATTITO SULLA PCAE DEMOCRATICA:
Ci sono state diverse critiche alla pace democratica, in quanto essa, lungo la storia, ha portato a delle eccezioni. ( es.
Gran Bretagna e Francia vs Germania nella1 GM o nella 2GM).
Per
spiegare queste eccezioni, la letteratura ha invocato il non completo possesso dei requisiti delle democrazie. In questa
direzione si è avviato chi sostiene che i problemi della pace democratica derivino dall’avere trascurato un fattore
esplicativo rilevante: il rapporto tra democrazia e la guerra non sarebbe influenzato solo dalla natura democratica dei
regimi politici, ma anche, dal loro grado di liberalismo e cioè dalla misura in cui l’ideologia liberale, con suoi valori
individualistici e universalistici, informa le pratiche di governo e la cultura politica di un paese. Per questa via si
distingue le democrazie fra di loro almeno per un elemento: che siano liberali o illiberali, come capita di frequente nelle
democrazie non consolidate e in quelle dei paesi extraeuropei. Tale distinzione è importante perché alla base delle scelte
di politica estera dei governi e sta il modo in cui essi si percepiscono reciprocamente: che una democrazia sia governata
da una classe politica illiberale, allora può essere ragione sufficiente per ritenerla minacciosa ed essere disposti a
combatterla.
L’introduzione del criterio dell’ideologia liberale al fianco di quelli relativi alle regole democratiche riduce il campo dei
regimi coinvolti nella pace democratica, restringendolo ai soli paesi occidentali e alla comunità di sicurezza che è nata
dai loro rapporti reciproci: è in questi paesi che troviamo la coincidenza di democrazia e alto grado di liberalismo.
Anche in questo caso vengono sollevate delle obiezioni soprattutto di stampo realista: la pace, per loro, sarebbe causata
da fattori alternativi a quelli precedenti: mentre l’assenza di guerra fra democrazie fino all’inizio del XX secolo
potrebbe spiegarsi notando il basso numero di regimi democratici con confini comuni; dopo il 1945, la pace
democratica si spiegherebbe come esito dell’esistenza di un sistema bipolare in cui paesi democratici erano strettamente
alleati in un blocco egemonizzato dagli USA. La pace quindi sarebbe stata possibile perché riguardava un insieme di
stati che si difendevano insieme contro un nemico comune. Alla sua base dunque non ci sarebbero fattori di natura
democratica, ma sistematico-strutturali.
Si rivela l’importanza e la credibilità negoziale della democrazia, più che della variabile realista dei comuni interessi di
sicurezza, concludendo di conseguenza per la maggiore capacità esplicativa della teoria della pace democratica rispetto
alle teorie sistemico-strutturali.
LA PACE DEMOCRATICA E IL SISTEMA INTERNAZIONALE CONTEMPORANEO:
28
Il crollo del muro di Berlino ha modificato molti attributi fondamentali del sistema internazionale. Di conseguenza,
dopo il 1989 è mancato il fattore che ha prodotto la pace democratica secondo la prospettiva realista. Va dunque
sottolineato che la recente transizione sistematica non ha coinciso con il venir meno della comunità di sicurezza del
bipolarismo, anzi, oltre a sperimentare dei processi di democratizzazione, anche le grandi potenze non occidentali sono
state attratte nell’orbita delle istituzioni che hanno dato veste formale alla comunità di sicurezza occidentale, come
l’avvicinamento della Russia alla Nato, al G7/G8 e all’organizzazione mondiale del commercio; e con l’ingresso
formale della Cina in quest’ ultima. In secondo luogo, negli ultimi decenni il volume degli scambi commerciali è
ulteriormente cresciuto per quantità e per paesi coinvolti, aumentando i legami tra le potenze democratiche e quelle non
democratiche.
Tuttavia va anche segnalata la frequenza con cui delle democrazie hanno iniziato o sono intervenute in conflitti già in
corso contro regimi che non le avevano attaccate: Iraq 1991, ex Jugoslavia 1995, Kosovo 1999, Afghanistan 2001 e Iraq
2003. risulta così difficile sostenere la natura pacifica delle democrazie, visti i conflitti aperti che esse hanno iniziato. Ci
si può allora interrogare su quali politiche siano più adatte a farla progredire, visto che l’espansione della democrazia,
anche con il ricorso della forza, è divenuto un obiettivo prioritario di alcuni paesi occidentali.

Occorre segnalare come le democrazie in via di consolidamento tendano ad iniziare la guerra prima degli altri
regimi ( dal 1815 in poi)

Le democrazie consolidate tendono a fare guerra più degli altri regimi quando i loro nemici sono piccoli regimi
non democratici
La stessa espansione della democrazia potrebbe dunque aumentare le tensioni internazionali: ciò accadrebbe se le
proliferazioni di democrazie immature portasse ad aumentare la conflittualità del sistema e se le democrazie mature
intervenissero con facilità nelle aree a crescente conflittualità così da eliminare i paesi non democratici fintanto che
sono deboli.

Esportare le democrazie: le guerre combattute per rendere democratici i regimi considerati ostili sono di
dubbio esito, richiedono ingenti risorse e raramente hanno successo. Ancora più difficile è esportare le procedure della
democrazia ovvero quelle regole che stanno alla base di essa.
Se la diffusione della democrazia è un processo che allarga lo spazio internazionale, esso non è privo di complessità e
la scelta di fare la guerra per esportare la democrazia potrebbe inceppare il meccanismo che ne è alla base.
SICUREZZA cap. 7
Gli individui vivono in società. Ci troviamo di fronte ad una pluralità di attori che, se vogliono perseguire i propri
obiettivi, hanno bisogno della collaborazione degli altri. Ogni attore possiede una quantità di risorse in una certa
quantità che può non essere soddisfacente, per questo motivo diventa possibile, o addirittura necessario lo scambio tra
attori. Le interazioni tra questi attori possono essere di tipo diverso che va dalla contrattazione al conflitto. Da queste
relazioni tra stati è possibile addirittura lo scoppio della violenza. La riduzione dell’incertezza e dell’insicurezza 4
diventa dunque lo scopo dell’azione politica.
La sicurezza può essere intesa in senso soggettivo o oggettivo: la sicurezza in senso oggettivo misura l’assenza di
minacce nei confronti dei valori acquisiti, in senso soggettivo l’assenza di paura circa il fatto di venire attaccati. Se la
componente soggettiva è l’elemento variabile dello stato e del sistema politico internazionale a sistema politico
internazionale, la componente oggettiva è l’elemento costante, è l’obiettivo che accomuna tutti gli stati e implica il
4
Incertezza si intende che ogni attore può rendere mutevoli o imprevedibili le ragioni di scambio tra le risorse
che possiede e quelle degli altri.
Insicurezza: ogni attore può infliggere o minacciare di infliggere danni alla sopravvivenza fisica degli altri
attori o delle loro risorse.
29
mantenimento, attraverso la potenza, della propria indipendenze e autonomia, ovvero della propria identità politica e
delle proprie istituzioni.
La sicurezza è ben chiaro che non coincide con la potenza, cioè l’insieme delle capacità relative di uno stato rispetto
agli altri, anche se la potenza gioca un ruolo decisivo nel determinare la sicurezza di ciascuno stato. Infatti,
accumulando risorse di potenza non necessariamente si migliora la sicurezza di ciascuno stato poiché se una nazione
guadagna significativamente potenza, il miglioramento della sua posizione relativamente alle altre nazioni le minaccia
e le induce a ribaltare il guadagno attraverso la guerra.
IL DILEMMA DELLA SICUREZZA:
L’unico modo per garantirsi la sicurezza in un’arena anarchica nella quale le aspettative di violenza non possono mai
essere dismesse, e dove ogni altro attore non può mai essere certo circa le intenzioni dell’altro, è cercare di
massimizzare le proprie risorse di potenza. Tali risorse vanno definite in termini militari. Aumentare le proprie risorse
di potenza consente infatti di minimizzare le conseguenze della potenza altrui nei propri confronti. In realtà, ciò porta a
pensare che l’incremento della potenza di ogni singolo stato sia minaccioso, così anche tutti gli altri stati aumenteranno
la propria potenza allo scopo di tenere alto il livello di sicurezza. Il risultato finale è la messa in moto di un
meccanismo conosciuto come dilemma della sicurezza.
I tentativi degli stati di far da sé nel provvedere alle proprie esigenze di sicurezza, tendono a prescindere dalle
intenzioni, a produrre una crescente insicurezza per gli altri, giacchè ognuno interpreta le proprie misure come
difensive e le misure degli altri come minacciose. Per quanto gli stati siano consapevoli che la corsa agli armamenti
rappresenti un enorme sciupo di risorse per accumulare armi che non verranno mai utilizzate, essi non possono che
percorrere questo sentiero. Si tratta di un percorso estremamente pericoloso, perché il rischio del conflitto è sempre
presente. ( caso emblematico  Prima guerra mondiale).
Particolarmente rilevanti sono gli studi sugli errori di percezione. Esistono 3 tipi:
1.
non cogliere l’importanza che gli avversari assegnano al raggiungimento di dati obiettivi (errore: sovrastimare
il nostro grado di comprensione dell’ambiente)
2.
errata convinzione che gli stati abbiano a disposizione un numero maggiore di alternative ( errore: tendenza ad
assimilare le nuove info ai nostri preesistenti schemi)
3.
nella convinzione che il proprio comportamento sia più trasparente per gli altri di quanto esso sia in realtà.
(errore: conduce a rifiutare di percepire e comprendere gli stimoli particolarmente minacciosi).
IL REALISMO OFFENSIVO:
La struttura anarchica del sistema, l’impossibilità di prevedere con ragionevole certezza le intenzioni o comportamenti
altrui e il fatto che gli stati hanno sempre qualche capacità militare offensiva sono alla radice dell’importanza che la
sicurezza ha per le dottrine realiste.
Il realismo classico si concentrava sugli stati e assegnava al loro animus dominandi, espressione della volontà di
potenza insita nell’uomo, il ruolo di forza trainante della politica internazionale.
Il realismo strutturale: non presuppone un’insita aggressività delle grandi potenze. In virtù di esso è stato definito come
realismo difensivo. in realtà sono consapevoli degli effetti destabilizzanti del dilemma della sicurezza, notando che il
tentativo da parte di una grande potenza di acquisire un potere eccessivo può rilevarsi controproducente, e favorire il
sorgere di coalizioni antiegemoniche che ridurrebbero quella stessa grande potenza in una condizione di insicurezza.
Il realismo offensivo: definisce: le grandi potenze si comportano aggressivamente non perché vogliano farlo, ma perché
sono costrette a cercare più potere se vogliono massimizzare la probabilità di sopravvivenza. Il sistema internazionale
spinge con forza a cercare occasioni per guadagnare potere a spese dei rivali, e ad approfittare di tali occasioni per
guadagnare potere e spese dei rivali e ad approfittare di tali occasioni quando i benefici superano i costi. Secondo
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questa prospettiva, il fine ultimo di un stato è di diventare l’unico egemone, e questo è il miglior modo per garantirsi la
sicurezza, eliminando ogni possibilità di sfida da parte di un’altra grande potenza.
3. COOPERAZIONE PER LA SICUREZZA:
Proprio dalla storia recente provengono notevoli evoluzioni che sembrano in grado di smentire o rettificare
sostanzialmente alcuni degli assunti di base del realismo. Non tutti gli attori statali sono o si comportano come se
fossero grandi potenze, dotate di significative capacità militari offensive. È da aggiungere che proprio dall’Europa
occidentale, la struttura anarchica del sistema appare, se non superata o in via di superamento, quantomeno
ridimensionata. Detto questo occorre valutare se e sotto quali condizioni la sicurezza non possa essere meglio
concettualizzata come un bene che possa derivare dalla collaborazione invece che dalla competizione.
LA SICUREZZA COLLETTIVA E I PEACE RESEARCH STUDIES:
Proprio nella direzione della sicurezza come esito cooperativo si colloca l’idea di sicurezza collettiva, che ha dato il via
a numerose teorie e alla nascita dei peace research studies.
Per sicurezza collettiva si intende quando la protezione dei diritti degli stati, la reazione contro la violazione della legge
assume il carattere di un’azione messa in pratica collettivamente. L’ordine, la sicurezza e il pluralismo possono
affermarsi solo se c’è l’impegno attivo da parte degli stati nell’ arginare gli atteggiamenti aggressivi propri e altrui. La
sicurezza collettiva rappresenta quindi la codificazione dei principi di gestione del potere che devono essere seguiti se si
vuole che il sistema e gli stati sopravvivano a lungo. Il principio di base sul quale la sicurezza collettiva si fonda
prevede che un attacco a qualunque stato sarà considerato come attacco a tutti gli altri stati.
I sostenitori di questo approccio proponevano una combinazione del principio di universalità e di deterrenza. La pace
può essere preservata se un attore potenziale capisce che non ci sarà nulla da guadagnare dal ricorso alla forza; la
minaccia dell’uso della forza può essere che incontri un’immediata formazione di una vastissima contro coalizione che
agisce in difesa dell’aggredito, e che possieda un livello di potenza tale da condannare l’aggressore a una sicura
sconfitta.
Tra i principi della sicurezza collettiva vi è la convinzione che i governi, o le persone che possono influenzarli, siano
sensibili a un richiamo morale contro l’abuso della forza, deve esserci una lealtà politica verso la comunità mondiale e
quindi la subordinazione dell’interesse nazionale a quelli della sicurezza collettiva, e non ultimo ci deve essere una
chiara comprensione del valore della pace mondiale, e un impegno positivo che gli stati devono metterci per
perseguirla.
Secondo i critici di questo approccio esiste però una netta divergenza tra l’idea e la realtà della sicurezza collettiva. Se
l’idea configura un solido principio di reazione all’aggressione in nome della difesa della libertà e dell’indipendenza dei
singoli popoli, la realtà dell’ applicazione di un tale principio genera una pericolosa tendenza al coinvolgimento di tutti
gli stati del sistema internazionale in tutte le controversie, aprendo in ogni occasione la strada a un conflitto generale.
L’aspirazione cosmopolitica e solidari sta sopravviverà alla crisi delle concezioni giuridiche o sociologiche della
sicurezza collettiva dando vita alla scuola del peace research. Nata negli anni Sessanta, ambisce a realizzare la pace
attraverso l’influenza delle istituzioni globali. La nozione fondamentale di questa scuola è quella di pace e non di
sicurezza.
LE ISTITUZIONI E LA SICUREZZA INTERNAZIONALE;
L’assunto di base è che le istituzioni possono fornire informazioni, ridurre i costi di transizione e rendere più credibile
l’impegno, stabilire i punti focali per il coordinamento e, in generale, facilitare le operazioni di reciprocità; così facendo
esse riducono l’influenza della condizione strutturale di anarchia del sistema internazionale. In questo senso, almeno per
certe aree del mondo, saremmo in presenza di una trasformazione sostanziale dei rapporti tra stati. Secondo questa
prospettiva, anche nel campo della sicurezza, possono nascere dei REGIMI INTERNAZIONALI.
La rilevanza dei regimi internazionali, tuttavia, emerge più chiaramente se si accoglie una definizione di sicurezza che
non si limita esclusivamente ad enfatizzare gli aspetti militari, ma anche in quelle situazioni dove emerge una minaccia
31
di degradazione della qualità della vita e dello stato. La sicurezza non è dunque un concetto immutabile, e i rapporti
con gli altri stati per tutelarla, cominciano a sfaldare il concetto di anarchia internazionale. Appare però ancora
prematuro parlare di sicurezza globale: non regna ancora il minimo accordo sui principi, le norme e i valori ai quali
bisognerebbe conformarsi. Poiché la sicurezza è un valore, per l’analisi politica si pone il problema della sua
apprezzabilità rispetto ad altri valori. Si possono distinguere 3 approcci:
1.
prime value approach: stabilisce il primato della sicurezza in quanto prerequisito per raggiungere gli altri scopi
2.
core value approach: il primato della sicurezza deve essere giustificato, dato che la maggiore rilevanza
intrinseca di certi valori non permette l’allocazione di risorse su altri valori considerati meno importanti
3.
marginal value approach: il valore della sicurezza non è assoluto ma relativo e tende a seguire la legge
dell’utilità marginale decrescente. La scelta tra sicurezza e altri valori dipenderà dalla differenza nel guadagno
marginale.
Dopo la fine della guerra fredda la prospettiva istituzionalista si è interessata maggiormente a risolvere le problematiche
della sicurezza. Lo sviluppo dell’istituzionalizzazione dipende da 2 variabili: e precisamente dal criterio di
partecipazione e la situazione che gli stati devono affrontare (minaccia o rischio). Incrociando tali variabili si ottiene le
coordinate ideali in base alle quali possono essere definite le istituzioni di sicurezza.
ISTIITUZIONI E COMUNITA DI SICUREZZA:
Storicamente le alleanze hanno rappresentato uno degli strumenti più utilizzati dagli stati per procacciarsi risorse
esterne con le quali incrementare la propria sicurezza. La scuola istituzionalista applica anche alle relazioni di sicurezza
la teoria delle istituzioni internazionali elaborata dal neoliberismo. Essa si muove verso la prospettiva di ridurre
l’anarchia, non solo tenendo in considerazione le alleanze tradizionali ma estendendo il concetto di alleanza anche alle
istituzioni di security management, cioè a quelle istituzioni di sicurezza che sono designate per proteggere l’integrità
territoriale degli stati dall’uso ostile della forza militare, per tutelare l’autonomia degli stati contro gli effetti politici
della minaccia dell’uso della forza.
Questa teoria prevede oltretutto che i problemi di sicurezza si manifestano in un’ampia varietà di forme: quella più
semplice è la forma delle minacce, che in genere vengono rivolte da uno stato ad un altro o ad un gruppo di stati.quando
hanno la capacità di limitare la sicurezza di un altro stato. Ma non tutti i problemi di sicurezza sorgono in questo modo:
la sicurezza può essere minacciata da uno stato che è instabile, oppure da no stato il cui futuro è incerti e problematico.
Inoltre nella società globale, nuove sfide alla sicurezza si manifestano con la proliferazione di armi di distruzione di
massa, con la privazione di risorse vitali o con la diffusione di ideologie estremiste.
Fin dagli anni ’50 esiste un approccio al tema delle alleanze simile a quello istituzionalista, ma che per certi versi
presenta caratteri più radicali. Si tratta di una concezione che non solo si limita alla possibilità di collaborare in termini
di sicurezza, ma prevede anche una cooperazione tra stati sovrani ( comunità di sicurezza). Ammette dunque la
possibilità di instaurarsi un legame politico positivo tra le unità del sistema internazionale che comprende elementi di
integrazione e di solidarietà. Viene dunque così definita la comunità di sicurezza: è un gruppo che è diventato integrato,
dove l’integrazione è definita come il raggiungimento di un senso di comunità, accompagnato da istituzioni formali o da
pratiche sufficientemente forti da assicurare il cambiamento pacifico tra i membri di un gruppo. Seconod Deutsch, il
problema fondamentale delle relazioni internazionali è quello di creare le condizioni grazie alle quali siano possibili dei
rapporti stabili e pacifici tra gli stati.
Secondo Deutsch, fanno parte della comunità di sicurezza anche la popolazione e il territorio, cioè la società nella sua
forma concreta. L’ipotesi di Deutsch è stata ripresa dal costruttivismo soprattutto per quanto riguarda la formazione di
identità transnazionali.
SICUREZZA SOCIETARIA, SICUREZZA UMANA E SICUREZZA GLOBALE:
32
L’oggetto della sicurezza è stato sicuramente ampliato nell’introduzione del concetto di sicurezza societaria, capace di
spiegare le dinamiche e i fenomeni che regolano l’agire dei gruppi sociali non-statali. ( religioni, minoranze
etniche…)quando vengono posti davanti al problema della sopravvivenza. In questo quadro è l’identità collettiva che
rappresenta il valore fondamentale sottoposto a minaccia, e l’attenzione quindi si sposta da risorse materiali a culturali,
da stato a esseri umani. Il concetto di identità societaria ha infatti il compito di coprire le carenze della concezione stato
centrica, riconoscendo un senso e un’autonomia agli esseri umani e ai gruppi sociali di livello sub statale come possibili
oggetti referenti delle dinamiche di sicurezza. Secondo alcuni studiosi questo allargamento di issues di sicurezza non
sarebbe ancora sufficiente.
Più soddisfacente appare il concetto di sicurezza umana, utilizzato soprattutto dai nuovi attori della politica mondiale
(Onu, Ong ecc..). qui il focus è rivolto agli individui come membri dell’umanità, nella difesa dei valori come la dignità
e la qualità della vita, i diritti umani, lo sviluppo, rispetto a minacce., oppure dalla rottura dell’equilibrio ecologico del
pianeta. Il tema della sicurezza ecologica costituirebbe una variante, radicale, della sicurezza umana.
A fronte di queste teorie, si è notato come nel Terzo Mondo, è proprio la debolezza degli stati a generare
quell’instabilità radicale causa di molti pericoli rivolti ai diritti e al benessere degli esseri umani. Accanto ai pericoli
dovuti all’uso diretto della forza, della violenza, la sicurezza umana pone diverse forme di violenza strutturale, che può
riguardare la violazione dei diritti umani , oppressione delle minoranza, sfruttamento da parte dei paesi capitalistici nei
confronti dei paesi del terzo mondo, minacce naturali come malattie…
A partire dagli anni ’90, soprattutto a causa della crescita di complessità che si realizza nei campi della sicurezza
societaria e umana, emerge una prospettiva universalista. Lo stesso spazio politico di riferimento della sicurezza umana
( dimensione globale e cosmopolitica) diventa soggetto ed oggetto di questioni di sicurezza. La sicurezza globale fa
riferimento ad una dimensione spaziale che copre l’intero pianeta e si riferisce all’insieme di forme, dei soggetti e degli
oggetti che entrano a far parte delle relazioni di sicurezza in questo nuovo spazio. Comprendendo minacce militari
provenienti dagli stati e da attori no-statali; le minacce economiche; le minacce all’identità sociale; le minacce
ambientali; le minacce alla salute degli individui; le minacce provenienti da possibili disastri naturali; le minacce dovute
a possibili incidenti o conseguenze non volute di processi tecnologici; e le minacce provenienti dalla criminalità
organizzata. Anche in questo caso, la visione appare troppo generalizzata e non possibile.
DILEMMI DELLA SICUREZZA DEGLI STATI:
Nel corso degli anni ’90, quando pure il legame tra stato e politica era messo in crisi dalla sfida alla globalizzazione
poneva alla territorialità e la dimensione della sicurezza appariva quella in cui il legame potesse ritrovarsi e risfaldarsi.
Il fatto che il processo di globalizzazione fosse accompagnato e contrassegnato da una clamorosa ripresa della
frammentazione politica, faceva ritenere solo che la diffusione di statualità solide avrebbe potuto garantire le aspettative
di sicurezza di individui e società. Di fronte a guerre civili, a conflitti etnico-religiosi sembrava che la risposta fosse
quella indicata da hobbes: solo lo stato sia pur riconfigurato rispetto alle esigenze di un’economia e di un sistema di
comunicazioni globali, avrebbe potuto continuare a garantire la sicurezza degli individui sia nei confronti della società,
sia nei confronti delle pretese e pressioni arrivanti dall’esterno. Se la dimensione interno/esterno risultava essere sempre
più fragile di fronte alle spinte provenienti dal mercato globale e dai suoi attori indifferenti o ostili, essa però sembra
mantenere o recuperare problematiche più classiche della sicurezza, soprattutto nella sua declinazione militare. Si
poteva immaginare che il diffondersi di stati forti avrebbe consentito l’ampliamento di quelle aree di anarchia matura.
Nelle anarchie mature, gli stati riconoscono la pericolosità di continuare a perseguire la propria sicurezza senza tener
conto degli interessi dei proprio vicini, e interiorizzano la comprensione ce le sicurezze nazionali sono interdipendenti.
Le anarchie mature sono caratteristiche di sistemi internazionali basati su stati forti, cioè dotati di un alto grado di
coesione nel rapporto stato-società e in grado di monopolizzare la violenza legittima in condizioni di anarchia matura,
gli stati tendono a non considerare l’uso della violenza o della coercizione come pratica legittima grazie alla quale
risolvere i conflitti.
Nei sistemi anarchici poco strutturati, a basso grado di maturità, la prospettiva del conflitto è sempre presente. Questi
sistemi sono caratterizzati dalla presenza di stati deboli, in cui la scarsa coesione tra società e istituzione politica
consente che la sicurezza possa essere minacciata anche dall’interno. La loro caratteristica principale è l’alto livello di
coinvolgimento rispetto alle minacce di origine interna alla stabilità del governo.
33
L’IMPOSSIBILE RICERCA DELLA SICUREZZA ASSOLUTA:
Negli anni successivi alla guerra fredda si sono moltiplicate minacce di tipo nuovo che hanno messo a dura prova tanto
gli approcci fondati su una visione cooperativa della sicurezza quanto quelli più tradizionalmente ancorati ad una
visione competitiva. Si tratta spesso di minacce asimmetriche relativamente alla loro percezione o al giudizio sulla loro
gravità, ma anche asimmetriche per quanto riguarda le caratteristiche di chi le porta o di chi le subisce, il che li rende
poco sensibili all’impiego della forza e dell’azione unilaterale. In tal senso è significativa la dottrina della guerra
preventiva proclamata dagli Usa dopo l’11 settembre. Essa si fonda sulla convinzione che i regimi autoritari, anche se
deboli o sull’orlo del collasso, possono alimentare i terroristi capaci di attaccare gli Usa, ragione per cui l’America non
può rispettare la sovranità di alcuno stato che dà rifugio ai terroristi.
Sicuramente la guerra preventiva è troppo ambiziosa e rischia con l’isolare la potenza egemone, moltiplicandone i
nemici e così, costringendola a ricorrere la forza: sempre più ma con minor successo. Una delle minacce sulle quali la
comunità internazionale appare in peggior difficoltà a elaborare adeguate strategie di sicurezza è costituita dalla
proliferazione delle armi nucleari.
La proliferazione di armi nucleari non è certo un fenomeno nuovo: ha avuto inizio con la fine del monopolio degli USA.
Nel 1949 l’Urss effettuò il primo test nucleare nell’atmosfera, portando la fine del monopolio americano e il sistema
bipolare della guerra fredda prese forma. La stabilità del sistema bipolare era fondata sull’equilibrio del terrore: aveva le
sue fondamenta nella prospettiva della distruzione reciproca assicurata. La strategia della Mutual Assured Distruction
era in realtà una dottrina dissuasiva del non uso della forza, perché rendeva manifesto che chi avesse lanciato per primo
un attacco decisivo e distruttivo nei confronti dell’avversario non sarebbe vissuto abbastanza per gustare i frutti della
vittoria. Nessuna terza potenza, seppur dotata di armi nucleari, poteva indebolire il sistema bipolare. In un secondo
tempo, quando la proliferazione ha riguardato anche altri 3 membri dell’Onu ( Francia, Gran Bretagna e Cina) portò al
tramonto del sistema bipolare. Dotarsi di armi nucleari diventa al contempo più allettante e più pericoloso ( dilemma di
sicurezza).
Accanto al terrorismo e alla proliferazione nucleare, si aggiungono altri tipi di minaccia come il moltiplicarsi di stati
falliti o in via di fallimento, cioè così deboli da non riuscire a garantire alla comunità internazionale che il proprio
territorio non si trasformi in piattaforma da cui gruppi terroristici o gruppi armati possono agire indisturbati ( Asia,
America latina, Corno d’Africa, Bosnia). L’aumento di questi stati è ravvisabile con maggiore facilità dopo la fine della
guerra fredda.
GLOBALIZZAZIONE ECONOMICA E SOCIALE cap.8
Uno dei primi studiosi a usare il termine globalizzazione è stato George Modelski, che agli inizi degli anni ’70 la
definiva come il processo attraverso il quale diverse società nella storia del mondo vengono incorporate in un sistema
globale. Esistono diverse definizioni di globalizzazione, c’è chi si concentra sui legami economici e chi culturali. Noi
consideriamo la globalizzazione come l’intensificazione ed espansione delle interazioni sociali e dei flussi
transcontinentali di beni, capitali, persine, forze militari, informazioni, modelli culturali.

Molti studiosi si interessano del fenomeno della globalizzazione per via del suo impatto sul carattere e
l’esercizio delle funzioni di governo. La discussione più generale dell’impatto della globalizzazione sulla polity 5
riguarda le dimensioni territoriali degli stati. Alcuni autori sostengono che la competizione economica globale crei
incentivi per gli stati di formare blocchi regionali per sfruttare economie di scala e che questi blocchi possano
raggiungere un grado di integrazione tale da mettere in discussione la sovranità degli stati membri
Secondo altri autori, la crescita dell’interdipendenza globale in vari settori dell’attività umana produrrebbe una spinta
verso una forma organizzativa sovranazionale che meriterebbe il nome di stato mondiale.

In questo senso il declino del protezionismo economico renderebbe superflua l’esistenza di mercati nazionali e
quindi favorirebbe tendenze di integrazione globale promuovendo così la frammentazione piuttosto che l’integrazione
politica.
5
Polity: identità dello stato e le caratteristiche del suo regime politico, quali dittatura o democrazia,
presidenzialismo o parlamentarismo, federalismo o centralismo)
34

Un altro dibattito sull’effetto della globalizzazione riguarda le prospettive per la democratizzazione di stati
non- democratici. Alcuni ritengono che possa avere un effetto negativo mentre la maggioranza sostiene il contrario.
L’apertura di un paese ai flussi economici internazionali ne favorirebbe la democratizzazione. si ritiene infatti che la
globalizzazione porti ad una serie di fattori come la prosperità economica, l’apertura intellettuale e la modernizzazione
culturale nonché la riduzione delle tensioni internazionali.

Secondo alcuni autori la globalizzazione economica accresce la diseguaglianza dei redditi, almeno nei paesi
industrializzati: l’accresciuta mobilità del capitale, porterebbe i privati a scegliere dove investire il proprio capitale. Si
scatenerebbe un’accresciuta competizione tra stati nell’attrarre capitali, che sfocerebbe in una corsa al ribasso nel
campodellepolitichefiscali,salariali,socialiedambientali.
Durante gli anni ’90 molte pubblicazioni sottolineavano la gravità di questi processi proclamano il DECLINO DELLO
STATO di fronte all’assalto di forze economiche globali. Le forze impersonali dei mercati mondiali hanno oggi un
potere maggiore degli stati, ai quali noi siamo soliti attribuire la massima autorità politica sulla società e sull’economia.
In realtà questa teoria è molto criticata.
RISCONTRI EMPIRICI:
In realtà non è possibile riscontrare se e quanto la globalizzazione abbia condizionato la governante infranazionale solo
su basi di considerazioni teoriche. I dati sulle disuguaglianza e sulla tassazione non permettono di asserire che la
globalizzazione abbia promosso una trasformazione fondamentale della politics nei paesi industrializzati.
GLOBALIZZAZIONE E GOVERNANCE INTERNAZIONALE:
Una quantità ragguardevole di studi si propone di dimostrare che l’esercizio di funzioni di governance non è limitato
all’azione dei governi che esercitano poteri sovrani nell’ambito delle loro giurisdizioni, ma si svolge anche a livelli
sovranazionali e transnazionali. Più specificamente si intende mostrare che l’assenza di un governo mondiale non
implica che la governance scompaia quando passiamo dal livello nazionale a quello internazionale. Problemi come la
riduzione dell’ozono stratosferico o il rischio di crisi finanziarie globali sono gestite da strutture di governante che non
si conformano al modello gerarchico di formazione e attuazione delle norme proprie degli stati.
Due forme di relazione sono più comuni:
1.
la reazione: che si ha quando forme di governo vengono create allo scopo di ridurre gli effetti deleteri della
globalizzazione  protocollo Montreal hanno creato una governante con lo scopo di limitare uno degli effetti
deleteri della globalizzazione ambientale
2.
la promozione: forme di governante vengono create allo scopo di facilitare o rimuovere ostacoli a una o a più
dimensioni della globalizzazione.  organizzazione mondiale del commercio ha la funzione primaria di
facilitare la rimozione di barriere nazionali al commercio.
In entrambi i casi sussiste una dinamica simile che mostra la volontà di evitare gli aspetti negativi della globalizzazione
o la volontà di produrre quelli positivi, creando così un incentivo ad estendere ed intensificare la cooperazione
internazionale, ovvero a creare governance internazionale.
Molto schematicamente si possono situare varie interpretazioni della governante a livello internazionale secondo 2
opinioni contrapposte: una che identifica una trasformazione fondamentale della governance e l’altra che ne sottolinea
la continuità. Secondo la prima posizione, funzioni di governance vengono prese dai governi e ridistribuite a un vasto
numero di attori. La seconda posizione mantiene il monopolio della governance e tanto la cooperazione interstatale
quanto gli attori non-statali hanno un ruolo marginale. Buona parte degli studi che affrontano questa questione si
collocano in una posizione più moderata rispetto a quelle 2 sopra elencate. Il ruolo centrale degli stati nel sistema
internazionale non viene messo in discussione, ma viene rifiutata l’idea che gli stati siano sempre e comunque gli attori
più importanti della governance.
Per quanto riguarda le forme di governance al di là dello stato nazione, se ne possono identificare 3 modelli generali:
intergovernativismo, sovra nazionalismo, transnazionalismo. Questi modelli si differenziano in base a due criteri
fondamentali: la natura pubblica oppure privata degli attori che creano e sostengono la governance e il grado di potere
35
con cui i poteri legislativi, esecutivi o giudiziari vengono delegati ad agenti autonomi. Intergovernativismo e sovra
nazionalismo sono due modelli prevalentemente pubblici che incorporano un livello di delega rispettivamente basso e
alto, mentre il transnazionalismo è una forma di governance essenzialmente privata.
Intergovernatisvismo si riferisce a un sistema di governance internazionale incentrato sulla cooperazione volontaria e
consensuale tra governi nazionali. Le forme intergovernative sono l’oggetto principale delle tesorie sulle istituzioni
internazionali.
1.L’intergovernativismo è stato descritto come il club model della cooperazione internazionale, perché i governi
gestiscono gli affari di rilevanza transnazionale con scarsa partecipazione e controllo da parte degli altri attori. In realtà
negli ultimi decenni si ha avuto un aumento esponenziale nella partecipazione delle organizzazioni non governative al
processo politico globale, in aree più disparate. Si è dunque osservato che anche attori no profit possano influenzare la
politica mondiale. Bisogna anche ricordare che la presenza non implica necessariamente l’influenza. (unesco, fao…)
non bisogna nemmeno dimenticare che i funzionari di organizzazioni internazionali non hanno un ruolo passivo, ma un
ruolo attivo: danno vita ad alleanze strategiche, promuovono attività, raccolgono info ecc..
2. Forme di goernance sovranazionali, al contrario, comportano una riduzione di sovranità degli stati che decidono di
farne parte. Si tratta della creazione di istituzioni internazionali con un significativo grado di autonomia della volontà
dei singoli membri. L’aspetto centrale delle forme di governance sovranazionali è la delega sostanziale di poteri ad
agenzie sovranazionali, che possono svolgere funzioni legislative esecutive e giudiziarie. A livello globale i casi più
notevoli di delega si hanno nel’ambito della risoluzione delle dispute. Esistono una serie di corti internazionali che
interpretano norme internazionali e le applicano ai casi specifici. ( corte penale di giustizia) l’effetto primario dello
sviluppo di queste istituzioni è la limitazione della sovranità degli stati. La maggior parte delle regole internazionali
vincola soglo gli stati che danno il proprio consenso ad essere vincolati e generalmente l’autorità di agenzie
sovranazionali è strettamente limitata.
Intergovernativismo e sovra nazionalismo sono forme di governance prevalentemente pubbliche: create da stati per
stati.
3. Il transnazionalismo si basa sull’attività di due variegate categorie di partecipanti. Da un lato vi sono le imprese, cioè
organizzazioni che svolgono attività economiche con lo scopo di generare profitti. Dall’altro lato vi sono organizzazioni
senza scopo di lucro, che promuovono specifici interessi, la protezione degli interessi di gruppi vulnerabili… le forme e
le attività delle strutture transnazionali sono di varia natura, ma si possono classificare secondo una serie di funzioni
primarie: in primis essi hanno una funzione di rappresentanza e promozione degli interessi. Es. organizzazioni come la
camera internazionale del commercio ha come scopo primario quello di rappresentare gli interessi delle imprese. In
secondo luogo, i rapporti transnazionali possono essere istituzionalizzati al fine di coordinare i comportamenti di
organizzazioni operanti nello stesso settore: es. case farmaceutiche. Una terza funzione è quella di risolvere le dispute.
L’ultima funzione svolta da attori non statali è la certificazione. Le imprese si limitano a produrre un codice di condotta
e ad attenersi ad esso.
In sintesi, la letteratura internazionalistica mostra che la gestione degli affari globali non è il dominio esclusivo dei
governi, ma coinvolge una gamma più ampia di attori. Ovviamente i gruppi sociali hanno sempre esercitato
un’influenza più o meno forte sulle politiche estere dei loro stati, e quindi alla cooperazione internazionale. Quello che
si vuole sottolineare è anche che le imprese e le organizzazioni non-governative, non son solo i destinatari passivi di
regole negoziate dai governi, ma partecipano in vario modo alla formulazione di queste regole attraverso la
collaborazione tra il settore pubblico e privato, o persino creando regimi puramente privati per la promozione di
interessi comuni. L’esame di questi processi mostra anche che gli attori privati sono sempre più coinvolti in negoziati
intergovernativi, mentre il controllo pubblico sulla governance transnazionale è spesso notevole e crescente.
IDENTITA. TRA MULTICULTURALISMO E SCONTRO DI CIVILTA:
Multiculturalismo non esprime altro che la realtà incontrovertibile della pluralità culturale, la quale ha sempre permeato
società come quella europea e americana, ma resa ancora più pervasiva dall’immigrazione europea e nella rapida
trasformazione della composizione etnica e culturale dell’America che, tende irresistibilmente a rafforzare il peso
demografico della componente non europea della popolazione. Il multiculturalismo non esprime più la realtà pura e
semplice della convivenza, ma un profondo mutamento nel modo di concepirla.
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SISTEMA INTERNAZIONALE OMOGENEO ED ETEROGENEO:
Nei sistemi internazionali omogenei gli attori si percepiscono come simili perché hanno assetti istituzionali simili in
quanto rispondono a un principio di legittimità comune. Es. sistema omogeneo: l’Europa del ‘700 era un contesto
internazionale omogeneo perché c’erano gli stati che sapevano di avere una civiltà comune.
Nei sistemi internazionali eterogenei, la percezione della somiglianza reciproca non c’è ancora o è venuta meno; tra i
protagonisti c’è qualcuno che non si riconosce somigliante. Es. sistema eterogeneo: la Francia durante la rivoluzione
francese ha una visione del bene comune diversa dalle monarchie; oppure nel 1974 l’Iran viola una prassi, sequestrando
i diplomatici americani in base sempre al criterio di eterogeneità in quanto non accettavano le regole internazionali.
Cosa cambia nei sistemi internazionali omogenei ed eterogenei:
1. La capacità di intuire le aspettative altrui; nei sistemi internazionali omogenei è possibile intuire le aspettative
altrui o almeno provare ad immaginarle in quanto presuppongo la somiglianza. Nei sistemi internazionali
eterogenei non è possibile immaginare i comportamenti degli attori poiché gli altri si muovono in un modo
diverso da come lo faremmo noi.
2. Il timore dell’inganno sia degli avversari sia dei partner varia; nei sistemi internazionali omogenei il timore
dell’inganno non viene meno, ma l’inganno si paga ad un prezzo più alto in termini reputazionali. In questo
sistema è inoltre più facile comunicare perché non è necessaria la traduzione culturale, se parlo di democrazia
so cosa intendono. Nei sistemi internazionali eterogenei è molto più facile ingannare un soggetto con cui non
si ha niente in comune. La comunicazione è intralciata da un problema di traduzione. Negli anni ‘ 70 ad es.
c’era chi riteneva la vera democrazia quella liberale e chi quella popolare.
3. Come varia la competizione; nei sistemi internazionali omogenei si possono inventare regole ed istituzioni
comuni e sottrarle alla logica della competizione. Inoltre è possibile tenere ferma la distinzione tra politica
interna e politica internazionale e tra guerra civile e guerra esterna. Nei sistemi internazionali eterogenei le
istanze neutrali rischiano di cadere nella competizione. Inoltre non è possibile tenere ferma la distinzione tra
politica interna e politica internazionale e tra guerra civile e guerra esterna: c’è il timore del tradimento da
parte di un nemico interno ( l’incubo Usa è il terrorismo che nasce in casa).
4. Diverso ruolo degli interlocutori in pace e in guerra; nei sistemi internazionali omogenei nasce la disponibilità
a riconoscersi come interlocutori legittimi sia in pace, sia in guerra. Gli stati non smettono di considerarsi stati
o interlocutori legittimi. Nei sistemi internazionali eterogenei questa disponibilità a riconoscersi come
interlocutori egualmente legittimi viene meno. Questa mancanza o presenza di disponibilità a riconoscere gli
interlocutori cambia la pace e la guerra. Nei sistemi omogenei c’è la massima flessibilità a stringere alleanze in
periodi di pace; nei sistemi eterogenei questa flessibilità ad allearsi è ridotta e lo si fa solo quando sorge un
nemico ancora più assoluto. Ci sono comunque dei soggetti con cui non si può avere a che fare per non
mettere in gioco la propria identità; nei sistemi eterogenei infatti si giudicano gli altri attori non per quello che
fanno ma per quello che sono: se sono diversi non vengono perdonati. Per quanto riguarda la guerra, nei
sistemi omogenei è guerra limitata, è possibile separare la pace e la guerra ed è possibile re immettere nel
gioco il nemico sconfitto che viene recuperato perché utile all’equilibrio (es. Europa nel ‘700).Nei sistemi
eterogenei la guerra è illimitata ed estesa ideologicamente; non c’è distinzione tra pace e guerra e saltano le
buone regole poiché si fa al nemico tutto ciò che è possibile e si uccidono i civili. La guerra del ‘900 in Europa
è terroristica e combattuta da tutte le parti contro i civili facendo saltare il principio di immunità degli inermi.
Non è possibile reintegrare il nemico, è inconcepibile; la guerra è guerra di annientamento politico.
5. Stabilità dei diversi contesti internazionali: i sistemi internazionali omogenei sono i più stabili. L’omogeneità
culturale ed ideologica rende più stabile l’ordine internazionale. Se non siamo in grado di dire quale sistema
sia migliore tra il multipolarismo e il bipolarismo, sicuramente si può dire che i sistemi omogenei sono i più
stabili. I sistemi eterogenei non sono stabili perché tutto si complica.
Per quanto riguarda la stabilità, alcuni sostengono che i sistemi multipolari siano i più stabili mentre per altri come
Waltz, i sistemi più stabili sono quelli bipolari.
Il sistema multipolare è eterogeneo o omogeneo? Il sistema multipolare del ‘700 era omogeneo; nell’800 rimane il
sistema multipolare ma il grado di omogeneità è diminuito e questa differenza Waltz non la inserisce perché considera
solo il potere.
Il nostro contesto internazionale è sempre più multiculturale e molto complesso perché ha tratti omogenei ma differenze
culturali molto evidenti. La differenza tra sistemi omogenei ed eterogenei consente di periodizzare la storia delle
37
relazioni; se usiamo solo il criterio del potere si mette in evidenza solo dal 1945 (nascita bipolarismo) al 1990 (collasso
sistema bipolare) ma non si tengono in conto altri avvenimenti. La dimensione culturale permette una lettura più
accurata delle relazioni.
COSA SIGNIFICA OMOGENEITA’ NELL’AGIRE SOCIALE?
Non è uguaglianza, ci sono delle differenze ma c’è una base comune
Si riconosce la diversità ma non è assoluta; per percepire che c’è una base comune bisogna avvertire che c’è un altro
più diverso. Esempi: francesi e tedeschi si sentono diversi ma non si sentono così diversi se entra in gioco la Turchia;
Sparta e Atene sono diverse ma quando penetra l’Impero Persiano riconoscono la base comune.
Omogeneità di cosa:
1)omogeneità ideologica ( Aron): l’appartenenza ideologica è reversibile, è una scelta arbitraria perché è frutto di una
scelta e questa scelta potrei rivederla.
2)omogeneità culturale (Huntigton): appartenere a una cultura non è tanto reversibile come quella ideologica perché
solitamente si nasce appartenendo a una cultura e anche se, la conversione riesce non si esce mai del tutto dalla propria
cultura.
La differenza tra l’omogeneità culturale e ideologica è che la conversione culturale è più complicata di quella
ideologica. Messico, Russia e Turchia hanno cercato di staccarsi dalla propria civiltà per entrare in un’altra. Ma il
passaggio da una civiltà all’altra necessita di alcune condizioni come un elitè dirigenziale diversa (in Turchia ad es. non
c’è), masse popolari passive che non combattono l’elitè in nome dell’identità tradita e la volontà degli altri paesi ad
accogliere un nuovo stato nella propria civiltà ( che non c’è nell’UE).
3)la memoria: è il prodotto delle differenze culturali e delle esperienze storiche diverse vissute dagli individui. Ogni
civiltà ha una memoria propria. Ad es. la memoria del colonialismo ha un diverso peso se si parla dei paesi occidentali è
stata rimossa, mentre nei paesi non occidentali è centrale e su questa memoria si prendono delle decisioni. ( ad es.
l’India non invia truppe in Iraq xke attuerebbe una politica che hanno fatto a loro). Pertanto avere una memoria comune
e una memoria diversa cambia: la questione tra Israele e la Palestina è vista in maniera diversa a seconda della memoria.
Per i primi è un pezzo della memoria universale dell’antisemitismo, per i palestinesi invece è un pezzo del colonialismo.
Entrambi hanno memorie diverse ma legittime.
4)si nasce appartenendo o si sceglie di appartenere?
a. percorso etnico o orientale della Nazione: la nazione esiste perché c’è una nazione culturale; c’è un’appartenenza
etnica su simboli e identità comuni e questa identità si politicizza fino a diventare nazione.
b. percorso civico o occidentale: la Nazione è un insieme di diritti e doveri. Tutti coloro che decidono di sottostare a
certi diritti e doveri vi possono appartenere. È una sorta di patto dove tutti vi possono accedere ( es. modello americano
o francese).
5) criterio ISTITUZIONALE/ la Dimensione Istituzionale è più complessa
Istituzione = le istituzioni internazionali sono un insieme di principi di norme e di regole sulle quali convergono le
aspettative degli attori in un dato settore internazionale. Nella politica internazionale si trovano le istituzioni in un
contesto anarchico che noi abbiamo considerato come un prodotto dello stato; vi è dunque il problema della
compatibilità tra istituzioni e anarchia. L’anarchia è priva di istituzioni e le istituzioni pongono fine all’anarchia; questo
è un pensiero comune, formulato anche dal realismo ortodosso di Waltz ( “ci sono le istituzioni ma non servono a nulla,
funzionano grazie al potere”) . L’incompatibilità tra anarchia e istituzioni è sostenuta anche dall’idealismo secondo il
quale se si vogliono avere istituzioni efficaci bisogna superare l’anarchia.
Secondo invece le riflessioni di Carl Smith e di Bull (scuola inglese), l’anarchia e le istituzioni non sono incompatibili
anzi l’anarchia non produce per forza disordine poiché è sempre stata un tessuto di istituzioni. Queste due riflessioni
non rientrano né nell’idealismo, né nel realismo, né nel costruttivismo. Smith, giurista, sostiene che la storia delle
relazioni è stata storia di istituzioni che si succedono con continuità
( Nomos della Terra- razionalizzare e
umanizzare la violenza perché è il 1°elemento dell’anarchia; non si può cancellare ma si può trovare un modo per
evitare che la violenza distrugga tutto) ; le istituzioni non sono il prodotto del ‘900, tutte la storia delle relazioni
internazionali ha avuto istituzioni, per es. la diplomazia è sempre esistita; le istituzioni sono un modo per trasformare
l’anarchia internazionale in società internazionale.
Bull proviene dalla scuola inglese e mette al centro due riflessioni: l’occidente e il mondo da una parte (proprio la Gran
Bretagna ha scoperto nel ’56 che la sua funzione è finita) e la natura della convivenza internazionale moderna dall’altra;
( per quanto riguarda la scuola inglese, questa ha un orientamento realista ma si discosta dal realismo americano perché
il contesto culturale e la dimensione normativa per gli inglesi sono importanti). Così come Waltz, anche per i due
studiosi inglesi la politica internazionale è sistema, è una rete di interdipendenze strategiche ma non si fermano qui
perché essi sostengono che a volte è solo un sistema, ma altre volte il sistema matura in una società internazionale dove
c’è una consapevolezza di avere interessi e valori comuni.
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Rapporto tra sistema e società internazionale:
1. Non ci può essere una società internazionale dove non c’è un sistema; più il sistema è consolidato e più si
vuole dare sicurezza creando una società. Si hanno norme e istituzioni comuni dove c’è interdipendenza.
(nell’anarchia di Hobs non ci sono regole né rapporti continui tra gli attori; più il rapporto è obbligato e più
cresce l’interesse a creare regole comuni).
2.
(smith dice: ciò che ha convinto i paesi europei a stabilire regole comuni è l’aver scoperto che tutti gli stati
erano confinati nello stesso recinto chiuso).
Ci può essere sistema internazionale senza società.
3. I confini del sistema e della società internazionale non sempre coincidono; gli attori che fanno parte di un
sistema possono non fare parte della società. ( es. oggi Turchia; c’è tensione tra sistema e società perché i
confini della società non includono la Turchia; oppure si parla di “stati canaglia” per definire Iraq, Iran, Sudan,
Corea del Nord che sono riconosciuti ossessivamente attori del sistema dagli Usa e dall’Europa ma non fanno
parte della comunità internazionale; oppure es. società ellenica greca, non è complessa ma solo il sistema delle
polis greche crea una società. Tuttavia benché la persia non possa essere esclusa dal sistema egeo di quel
tempo, non fa parte della società poiché vi sono istituzioni pan-elleniche).
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